Tesi per il V Congresso del PRC
UN PROGETTO COMUNISTA RIVOLUZIONARIO NELLA NUOVA FASE STORICA

Marco Ferrando, Ivana Aglietti, Claudio Bellotti, Vito Bisceglie, Anna Ceprano, Franco Grisolia, Luigi Izzo, Matteo Malerba, Francesco Ricci, Michele Terra (Direzione nazionale PRC)
 

INTRODUZIONE - SINTESI

Il capitalismo mondiale riversa sempre più la propria crisi sulla condizione generale dell’umanità, minacciando una vera e propria regressione storica di civiltà. La ripresa delle guerre che ha segnato l’ultimo decennio -prima in Irak, poi nei Balcani, oggi in Afghanistan-, ne è il riflesso materiale e simbolico.
La rappresentazione della cosi detta “globalizzazione” capitalistica come avvento di un “nuovo capitalismo” capace di superare le sue antiche contraddizioni, è stata smentita dalla realtà.

La crisi che da un quarto di secolo segna l’economia del mondo non solo non è superata ma si ripropone oggi nella forma classica della recessione.
Le contraddizioni tra i blocchi capitalistici non solo non si sono dissolte in un “impero” indistinto e omogeneo ma si ripropongono acuite dopo il crollo dell’URSS e sotto la spinta della crisi.
La contraddizione tra capitale e lavoro, lungi dall’essere superata o ridimensionata, è riproposta nella sua centralità dalla crisi e dalla nuova competizione globale capitalistica.

Lo stesso sviluppo del militarismo e della guerra in corso -con i suoi effetti regressivi sul terreno delle libertà democratiche e delle conquiste sociali- è inseparabile dal contesto generale della crisi capitalistica. Lungi dall’essere un conflitto tra “due fondamentalismi” ideologici (il Mercato e il Terrore) è una guerra dell’imperialismo contro i popoli oppressi: mira al controllo del Medio Oriente e dell’Asia centrale; vuole intimidire i movimenti di liberazione nazionale (a partire dal popolo palestinese); mira a contrastare la recessione economica col grande rilancio delle spese militari; risponde all’interesse dell’imperialismo americano a controbilanciare l’ascesa economica europea con il rilancio della propria indiscussa egemonia militare.

Su un altro piano, gli sviluppi politici e le dinamiche del capitale degli anni novanta sono stati devastanti per l’ambiente. Tutti i vecchi problemi si sono estesi, sono emerse nuove emergenze su scala planetaria. A fronte di tutto questo, tanto gli approcci etico-culturali quanto il riformismo verde si sono rivelati inadeguati e impotenti: nessun nuovo modello di sviluppo sarà possibile senza un nuovo modo di produzione, senza il rovesciamento del capitalismo.

In definitiva, a dieci anni dal crollo dell’URSS, la ricomposizione capitalistica dell’unità del mondo non si è affatto tradotta in un universo pacificato e più stabile, ma in un’accentuazione della crisi internazionale.

Questo quadro generale di crisi e regressione rivela una volta di più il carattere utopico di ogni progetto riformistico.
L’idea di "governi riformatori" favorevoli ai lavoratori; di un possibile capitalismo “equo” imbrigliato dalle regole di una “società civile progressista”; di una riforma pacifista dell’ordine mondiale, fondata su una rivalutazione dell’ONU e sospinta dalla cultura gandhiana della "non-violenza", rappresentano, oggi più che mai, un’illusione impotente. Non una via concreta di costruzione di un altro mondo possibile, ma la rassegnazione di fatto a questo mondo reale, seppur nutrita di sogni.

Il V Congresso del nostro partito è chiamato dunque a rimuovere e a contrastare ogni utopia riformista assumendo un nuovo orizzonte strategico, apertamente anticapitalista e rivoluzionario.
Un altro mondo è possibile. Si chiama Socialismo. Non si tratta solo di evocarne il nome ma di recuperarne il programma generale quale unica vera risposta alla crisi dell’umanità.
Solo l’abolizione della proprietà privata, a partire dai duecento colossi multinazionali che oggi dominano l’economia del mondo. Solo una economia mondiale democraticamente pianificata liberata dal dominio del profitto; solo la conquista del potere politico da parte delle classi subalterne come leva decisiva della transizione, possono creare le condizioni di un nuovo “modello di sviluppo”: che liberi nuove relazioni tra gli uomini e i popoli, un nuovo rapporto dell’uomo con l’ambiente, un controllo degli indirizzi e delle applicazioni della scienza in funzione delle qualità della vita quale nuova frontiera del progresso. Recuperare e attualizzare dunque il programma originario del comunismo e della rivoluzione d'Ottobre come scenario di liberazione dell’umanità, scevro da ogni retaggio burocratico staliniano, è compito centrale dei comunisti e del nostro partito. Assumendolo come bussola di una nuova impostazione strategica che riconduca gli obiettivi immediati di ogni lotta e di ogni movimento alla necessità della rivoluzione sociale.

Peraltro proprio l’inizio di ripresa oggi della lotta di classe e dei movimenti di massa nel mondo (ciò che nel partito abbiamo chiamato “il disgelo”) -sintomo dopo vent’anni dalla crisi di egemonia delle politiche dominanti - rappresenta una straordinaria occasione di rilancio della prospettiva socialista presso la giovane generazione: come risposta rivoluzionaria nel cuore dei movimenti, alle loro stesse domande sociali ambientali, democratiche, di pace, tutte incompatibili, nelle loro istanze profonde, con l'attuale ordine borghese. Non si tratta allora di abbandonarsi alla mistica retorica dei movimenti, tantomeno di disperdere la centralità di classe: si tratta di ricondurre il prezioso sentimento antiliberista della giovane generazione ad una chiara prospettiva di classe anticapitalista. La sola che possa offrire un futuro ai movimenti stessi; la sola che possa svilupparli oggi sul terreno della mobilitazione contro l’imperialismo e la guerra fuori da ogni illusione pacifista; la sola che possa fondare il riferimento alla classe operaia a al mondo del lavoro nella sua nuova composizione ed estensione, quale soggetto centrale del blocco storico alternativo. Da qui la necessità di una battaglia nei movimenti per l’egemonia di classe: che non è autoimposizione burocratica ma lotta aperta e leale per la prospettiva socialista contro quelle culture neoriformiste che conducono i movimenti stessi nel vicolo cieco della sconfitta. Il complesso lavoro di rifondazione di un’internazionale comunista e rivoluzionaria che assuma la battaglia per l’egemonia anticapitalistica su scala mondiale è tanto più oggi una necessità di fondo per i comunisti.

Ma questa nuova impostazione strategica implica una svolta profonda di linea e di scelte sul piano nazionale. Entro il nuovo scenario politico italiano, la ripresa delle dinamiche di movimento sul versante operaio e giovanile e la crisi verticale e deriva liberale dei D.S., creano le condizioni di un forte e necessario rilancio del nostro partito quale unico possibile riferimento politico alternativo per vasti settori di lavoratori e di giovani. Ma ciò implica un nuovo indirizzo di fondo del PRC. Per 10 anni il nostro partito ha respinto la proposta di costruzione del polo autonomo di classe per perseguire una linea di “condizionamento” dell’apparato D.S. e delle sue coalizioni (polo progressista e centrosinistra) sulla base di un “programma di riforme”: sia dal governo, che dall’opposizione, sia sul piano nazionale che sul piano locale. E' onesto riconoscere che questa linea ha registrato un sostanziale fallimento. Essa infatti non ha dato risultati: né dal punto di vista della costruzione del PRC e della sua influenza elettorale e di massa; né soprattutto dal punto di vista degli interessi e delle prospettive del movimento operaio, che proprio il Centrosinistra e l’apparato D.S., alfieri degli interessi della grande borghesia per tutta la precedente legislatura hanno condannato alla sconfitta sociale e politica. L'unico effetto pratico della linea di "contaminazione" del centrosinistra è stato, al contrario, il coinvolgimento del PRC per metà della legislatura dell'Ulivo nel sostegno a politiche antioperaie e antipopolari (varo del lavoro interinale col "Pacchetto Treu", privatizzazioni, tagli della spesa sociale) del tutto opposte alle ragioni sociali del nostro partito.

La prospettiva avanzata per il dopo Berlusconi di un "governo della sinistra plurale" sulla base di un "programma riformatore", non solo rimuove ogni bilancio ma ripropone di fatto l'ispirazione fallita di dieci anni. E’ quanto viene esplicitato nel documento precongressuale votato dalla maggioranza del partito nel CPN di ottobre che afferma: “(…) questo non significa che non si possa costruire una sinistra plurale, in Italia e in Europa, capace di proporsi il tema della conquista della maggioranza dei consensi e della candidatura al governo ai fini di realizzare un programma riformatore, ma vuol dire che per arrivarci bisogna battere strade diverse da quelle della tradizionale politica unitaria, in primo luogo facendo irrompere nell’intero campo delle sinistre e dei rapporti tra di loro, la novità e la rottura del movimento.” Questa prospettiva non solo quindi preserva il riferimento all’esperienza negativa della gauche plurielle di Jospin ma la ripropone con un apparato D.S. che nella sua larga maggioranza ha rotto con la funzione della stessa socialdemocrazia. Assumere questa prospettiva come finalità di sbocco dei movimenti significherebbe contraddire le potenzialità anticapitaliste dei movimenti stessi e subordinarli ad un accordo coi liberali.

Il V Congresso respinge dunque questa prospettiva politica a partire da una svolta di fondo: quella della costruzione del PRC attorno alla linea del polo autonomo di classe e anticapitalistico, alternativo sia al Centrodestra reazionario sia al Centrosinistra liberale. Questo orientamento implica innanzitutto una coerenza di collocazione politica del nostro partito come forza di opposizione. Non può esservi contraddizione tra le ragioni sociali che il PRC esprime e la sua collocazione politica istituzionale: ciò vale in prospettiva sul piano nazionale, come vale anche sul piano locale dove va superata la collaborazione di governo nelle giunte di Centrosinistra, a partire dalle Regioni e dalle grandi città, dove siamo di fatto subordinati a politiche e interessi del tutto estranei alle ragioni dei lavoratori. Ma più in generale la proposta del polo autonomo di classe è rivolta all'insieme del movimento operaio e dei movimenti di massa. L'esperienza dell’ultima legislatura, ha dimostrato a milioni di lavoratori il disastro sociale e politico della collaborazione del movimento operaio con le forze sociali e politiche del Centro Borghese. “Rompere col Centro” non è allora una petizione astratta: fa leva sull’esperienza di massa per rivendicare l’autonomia di classe dei lavoratori e delle lavoratrici di fronte agli interessi delle altre classi e delle loro rappresentanze. Per dire che solo una mobilitazione indipendente dei lavoratori e dei movimenti sul terreno anticapitalistico può difendere le loro ragioni e aprire il varco ad un’alternativa vera.

Questa esigenza di autonomia è più attuale che mai. Di fronte alle destre e a Berlusconi tutte le forme di alleanze con le forze di Centro hanno fallito. Solo la grande mobilitazione indipendente della classe operaia nel '94 riuscì a piegare il governo Berlusconi e a porre le condizioni della sua caduta. Il nostro partito deve costruire tra le masse la memoria di questa esperienza, e assumerla come riferimento per la propria azione.
Il nuovo governo Berlusconi ha un insediamento sociale e istituzionale più forte che nel 94; ma proprio per questo la sua eventuale stabilizzazione, come si è visto a partire da Genova, comporta un rischio reazionario più elevato. Il PRC non può vivere allora la propria opposizione come routine istituzionale combinata con l’affidamento alla spontaneità dei movimenti. Ha l’onere di una proposta al movimento operaio e della costruzione attiva di uno sbocco politico. In questo senso il V Congresso del PRC assume l’obiettivo della cacciata del governo Berlusconi-Bossi- Fini per una alternativa di classe come terreno di mobilitazione unitaria del movimento operaio e dei movimenti di massa e di tutte le tendenze politiche e sindacali che su di essi si basano. Perché solo una vera esplosione sociale concentrata contro il padronato e il governo delle destre può realmente scompagnare lo scenario politico italiano e porre le condizioni dell'alternativa di classe.

Da qui la proposta di una vertenza generale attorno ai temi di un forte aumento salariale per tutto il lavoro dipendente, del salario minimo garantito intercategoriale, di un vero salario garantito ai disoccupati e ai giovani in cerca di prima occupazione, dell’abolizione delle leggi di precarizzazione del lavoro (v. “Pacchetto Treu” e le ulteriori leggi in materia introdotte dal governo Berlusconi) con l’assunzione a tempo indeterminato di tutti i lavoratori precari, della riduzione generalizzata dell’orario. Questa proposta di mobilitazione può e deve essere avanzata dal nostro partito in tutti i luoghi di lavoro, in tutte le organizzazioni sindacali, sul territorio, nello stesso movimento antiglobalizzazione: sostenendo le tendenze interne del movimento che già oggi spingono per un suo impegno diretto a fianco dei lavoratori e delle lavoratrici. E' proprio dalla ricomposizione unitaria di lotta della giovane generazione, dal versante operaio in primo luogo come dal versante antiglobalizzazione che può innescarsi la dinamica dell’esplosione sociale contro il governo delle destre e le classi dominanti. Ricondurre a questo sbocco tutto il lavoro di massa del partito, estendere il quadro delle rivendicazioni ad ogni settore sociale colpito dalle politiche dominanti (v. Immigrazione e Scuola), collegare il quadro delle rivendicazioni immediate a un programma più generale di rottura con la proprietà capitalistica e lo Stato, sviluppare in ogni movimento la coscienza politica anticapitalistica, questo è l’impegno necessario dell’opposizione comunista per l’alternativa di classe.
E in questo ambito il nostro partito non può teorizzare un principio di adattamento silenzioso nei movimenti affidandosi passivamente a orientamenti e scelte delle loro direzioni ma deve elaborare capacità di proposta su scelte politiche piccole e grandi, in funzione della prospettiva anticapitalistica. La tematica delle forme di lotta, a partire dalla necessaria difesa del diritto di manifestare in piazza, contro ogni tentazione di ripiegamento; le questioni legate all’autodifesa di manifestazioni pacifiche e di massa contro le aggressioni violente da qualunque parte provengano; la tematica delle forme di organizzazione dei movimenti e del loro sviluppo democratico oggi centrale nel movimento antiglobalizzazione: sono terreni su cui il nostro partito non può tacere in nome di un blocco incondizionato con le direzioni egemoni dei movimenti. Ma deve avanzare indicazioni, certo collegate alla sensibilità degli interlocutori e alla concretezza dei problemi, ma sempre ispirate a un unico criterio di fondo: lo sviluppo della forza autonoma delle classi subalterne e dei movimenti di massa in direzione di un’alternativa di società e di potere. Come affermava Rosa Luxemburg: “La conquista del potere politico resta il nostro scopo finale e lo scopo finale resta l’anima della nostra lotta. La classe operaia non deve porsi nell’ottica [di chi dice] ‘Lo scopo finale non è niente, è il movimento che è tutto.’ No, al contrario: il movimento in quanto tale, senza rapporto con lo scopo finale, il movimento come fine in sé non è niente, è lo scopo finale che è tutto.” (1898).

Solo questo programma di alternativa anticapitalistica fonda la ragione politica organizzativa del partito nel suo rapporto con i movimenti e la lotta di classe. Un partito che si viva come pura rappresentanza istituzionale di domande sociali, in funzione di una prospettiva di governo riformatore, si priva di una funzione strategica indipendente e perciò mette a rischio, al di là di ogni intenzione, la ragione stessa della sua esistenza. Privo di uno specifico progetto anticapitalistica il partito smarrisce la ragione di una propria distinzione rispetto al movimento. E così l’invito dell’apertura al movimento, in sé importantissima, si trasforma in un rischio di dissoluzione nel movimento stesso, o di trasformazione delle proprie strutture in indistinti “luoghi di movimento”. Il risultato paradossale non è così il rafforzamento del partito nel movimento ma all’opposto un principio di dispersione delle forze e di loro sradicamento: a tutto danno sia del partito che del movimento stesso, privato di un riferimento organizzato capace di indicazione e proposta.

La logica proposta dalla maggioranza dirigente del PRC va dunque esattamente capovolta. Il partito ha sì l’esigenza prioritaria di partecipazione piena ai movimenti, senza distacchi dottrinari e anzi con la massima concentrazione in essi delle proprie forze. Ma ne ha esigenza come partito cioè come specifico progetto collettivo anticapitalista e rivoluzionario: ciò che richiede una specifica strutturazione, specifici strumenti che possano organizzare nei movimenti, a partire dalla classe operaia, la battaglia collettiva per quel progetto. Ed anche il più ampio sviluppo della democrazia interna del partito, condizione decisiva dell’elaborazione collettiva e della stessa formazione dei quadri. In questo senso la funzione d’avanguardia del partito non come imposizione burocratica, ma come progetto programmatico su cui sviluppare consenso ed egemonia, è la condizione stessa del suo radicamento e rafforzamento organizzativo.


Tesi 1 - CRISI DELL'UMANITA'
I dieci anni che sono trascorsi, dopo la svolta d’epoca segnata dal crollo dell’URSS, hanno interamente smentito le profezie liberali che accompagnarono quell’evento. Il capitalismo mondiale riversa sempre più la propria crisi sulla condizione generale dell’umanità, minacciando una vera e propria regressione storica di civiltà. La ripresa della guerra che ha segnato l’ultimo decennio -prima in Irak, poi nei Balcani, oggi in Afghanistan- col suo carico di morti e distruzioni ne è il riflesso materiale e simbolico.

La perdurante crisi economica capitalistica, le ripetute sconfitte del movimento operaio degli anni '80 e '90, il venir meno col crollo dell'URSS di un contrappeso statuale per quanto distorto alla potenza dell’imperialismo, i vasti processi di restaurazione capitalistica che hanno investito, in forme diverse, vaste aree del mondo, hanno prodotto come effetto congiunto un arretramento delle condizioni di vita e di lavoro della maggioranza dell’umanità.

Nei paesi imperialisti di tutti i continenti (USA, Europa, Giappone), la caduta dei salari, il degrado del lavoro, lo smantellamento progressivo delle protezioni sociali, descrivono nel loro insieme un attacco profondo ai livelli acquisiti di sicurezza sociale.
Nei paesi a capitalismo restaurato (Russia ed est Europa) o in via di restaurazione (Cina) la reintroduzione del dominio del mercato procede alla distruzione di ogni forma di difesa sociale producendo un drammatico salto regressivo nella vita di centinaia di milioni di uomini e di donne.
Nel blocco dei paesi dipendenti, interi continenti, a partire dall’Africa e da larga parte dall’America Latina, conoscono una ulteriore precipitazione della condizione di massa, assieme ad un aggravamento dei livelli di dipendenza coloniale dall’imperialismo.
Più in generale l’intera dimensione della vita è investita da una profonda tendenza regressiva, segnata dal moltiplicarsi dei sintomi del degrado, dell’intolleranza, dell’irrazionalismo.
Il ritorno della guerra, che ha costellato il decennio, è il riflesso eloquente di questa drammatica regressione. Anche solo venti anni fa la previsione di una guerra nel cuore dell’Europa sarebbe apparsa un fantasioso azzardo. Venti anni dopo non solo la guerra ritorna materialmente nello stesso vecchio continente, col suo carico terribile di morte e distruzione (Balcani): ma si rilegittima progressivamente nell’immaginario collettivo di settori di massa. Ed oggi il potente rilancio del militarismo internazionale a guida anglo-americana, trainato dalla guerra imperialistica all’Afghanistan, lo stesso riarmo della Germania e del Giappone, segnano anche simbolicamente la svolta d’epoca del nostro tempo.
Su un altro piano, si fanno di anno in anno più drammatiche le manifestazioni e le conseguenze della crisi ambientale planetaria, una drammatica conferma dell'incapacità dell’attuale ordine sociale di operare in modi non distruttivi nei confronti dell’ambiente. E le conseguenze sociali di questa crisi tendono sempre più a combinarsi con quelle della crisi sociale e politica in cui sprofondano molti paesi del cosiddetto Terzo mondo, ciò che provoca vere e proprie “catastrofi umanitarie” e sospinge masse crescenti di uomini e di donne a migrare in una sorta di disperata “fuga per la sopravvivenza”.

Per la prima volta dal dopoguerra, ad ogni latitudine del mondo, l’orizzonte delle nuove generazioni non si presenta come orizzonte di progresso ma come preannuncio di nuove regressioni. Non si tratta peraltro di uno scenario eccezionale. Al contrario, se guardiamo le cose col raggio di visuale del lungo periodo osserviamo il ritorno del capitalismo alla normalità storica del proprio declino. Ciò che semmai è superata è l’eccezionalità di quella parentesi storica postbellica che agli occhi di più generazioni era apparsa la norma.


Tesi 2 - CRISI CAPITALISTICA E "GLOBALIZZAZIONE"
Le tesi emergenti negli anni Novanta circa la nascita di "un nuovo capitalismo" capace di superare le sue antiche contraddizioni, sono state smentite dalla realtà. La crisi economica capitalistica ripropone più che mai l'attualità della lettura marxista della "globalizzazione" fuori da ogni "apologia" del capitale.

Negli anni Novanta -sullo sfondo del crollo dell'URSS, dell'arretramento del movimento operaio, della prosperità economica USA, di una vasta innovazione tecnologica- è venuta affermandosi una rappresentazione dominante della realtà del mondo come "globalizzazione", spesso intendendo con questo termine l'emergere di un "nuovo capitalismo", strutturalmente diverso dal capitalismo "tradizionale" e per questo capace di superare le proprie vecchie contraddizioni. Nella versione liberista il mito della globalizzazione è stato impugnato come annuncio di una nuova era di prosperità. Nella versione opposta di tanta parte del pensiero critico alternativo come l'avvento di una nuova dominazione totalizzante. Nell'un caso come nell'altro il nuovo capitalismo è stato presentato come l'alba di un nuovo regno e come riprova del fallimento o dell'invecchiamento della lettura marxista.

Queste rappresentazioni ideologiche hanno per molti aspetti capovolto la realtà delle cose: e la realtà ha finito col confutarle.
L'economia capitalistica internazionale vive da un quarto di secolo un'onda lunga di crisi, segnata dall'esaurimento storico della spinta propulsiva del secondo dopo-guerra e dal prevalere di una spinta alla stagnazione. La caduta del saggio medio del profitto su scala mondiale ne rappresenta il riflesso.
A partire dall''89-'91, il crollo dell'URSS e i processi di restaurazione capitalistica che si sono affermati nell'insieme dell'Est europeo, assieme alle emergenti tendenze restaurazionistiche che si sono sviluppate in altri Paesi non capitalistici (Cina) hanno configurato certamente un processo di ricomposizione capitalistica dell'unità del mondo. Ma la riconquista compiuta o tendenziale, di tanta parte del pianeta non ha significato il rilancio storico dell'economia capitalistica. L'Est europeo, più che volano di un nuovo sviluppo economico internazionale, rappresenta in larga misura una semicolonia del sottosviluppo: la massiccia concentrazione di miseria sociale e il basso livello di consumi che ne deriva rappresentano un freno all'espansione del mercato capitalistico. Parallelamente la forte riduzione dei margini di manovra dei Paesi dipendenti, conseguente al crollo dell'URSS, ha finito con l'integrarli più direttamente nella stagnazione mondiale: così il sottoconsumo del Terzo mondo sospinto dal calo o dal crollo delle materie prime ha costituito un ulteriore fattore della stagnazione medesima. Complessivamente, nonostante l'espansione del mercato capitalistico, il peso del commercio internazionale nell'economia mondiale è analogo a quello del 1914. Così nonostante i nuovi processi di decentramento internazionale della produzione, le stesse multinazionali concentrano tuttora il grosso del proprio volume di investimenti entro il perimetro degli Stati dominanti e dei propri mercati regionali piuttosto che in un mondo indifferenziato. La globalizzazione economica dunque ha investito essenzialmente non la produzione reale ma l'economia finanziaria, dove ha realmente raggiunto un livello storicamente nuovo: ma proprio l'espansione abnorme del parassitismo finanziario -che conferma oltre le sue stesse previsioni, l'analisi di Lenin dell'imperialismo- riflette la crisi del saggio medio di profitto nella produzione. Come all'inizio del Novecento lungi dall'essere misura della prosperità capitalistica, il parassitismo dei rentier è figlio della crisi di stagnazione e concausa della stessa.
La forte concentrazione di innovazione tecnologica (rivoluzione informatica) e la diffusione di nuove forme di organizzazione del lavoro (il cosiddetto toyotismo) si collocano e si spiegano in questo contesto. Come in altre epoche storiche (si pensi allo sviluppo del fordismo negli anni Venti-Trenta), l'innovazione tecnologica intensa e le nuove sperimentazioni nell'organizzazione produttiva non promanano dal benessere del capitalismo ma dalla sua crisi: come tentativo di rilancio del saggio di profitto attraverso l'incremento di produttività e la configurazione di nuovi mercati trainanti. Ma contrariamente all'ottimismo borghese degli anni Novanta, la rivoluzione informatica e le sue applicazioni tecnologiche, per quanto rilevanti non hanno esercitato la forza di trascinamento economico che potevano avere, in un altro contesto, le ferrovie del secolo scorso o l'automobile degli anni Cinquanta. Non solo non hanno garantito l'uscita dalla stagnazione ma, oltre una certa soglia, hanno concorso paradossalmente ad aggravarla: la crisi profonda della new economy oggi nel cuore del capitalismo americano, è esattamente un'espressione classica di sovrapproduzione i cui effetti recessivi più generali sono direttamente proporzionali all'intensità dello sviluppo economico precedente del settore. La teoria di un "nuovo capitalismo" capace di superare il ciclo economico non poteva trovare smentita più clamorosa.


Tesi 3 - IMPERIALISMO
L'imperialismo è, oggi più che mai, il quadro dominante della realtà del mondo. Le tesi del suo superamento in direzione di una globalizzazione indistinta non trovano alcuna conferma nel mondo reale. Riattualizzare l'analisi marxista dell'imperialismo oggi, nelle sue profonde contraddizioni e sullo sfondo dell'attuale instabilità internazionale è condizione decisiva per la comprensione delle tendenze storiche future.

Negli anni Novanta in significativi settori intellettuali della "sinistra critica" e nella stessa Direzione nazionale del nostro partito, è venuta emergendo la tesi del superamento della categoria stessa dell'imperialismo in direzione della rappresentazione di un "impero" globale, omogeneo ed uniforme, a esclusiva dominazione nord-americana, capace di dissolvere ruolo e funzioni dei vecchi Stati nazionali. Da qui anche la rappresentazione dell'Europa come semplice articolazione subalterna dell'Impero e la relativa rivendicazione di una sua autonomia su base "sociale e democratica".
Questa concezione generale da un lato si basa su un'incomprensione profonda della complessità del mondo contemporaneo; e dall'altro lato, negando il carattere imperialistico dell'Europa, disorienta gravemente la stessa azione politica dei comunisti.

Lungi dal ricomporre le contraddizioni intercapitalistiche, il crollo dell'Urss dell'89-'91 le ha in qualche modo liberate, entro uno scenario storico profondamente nuovo. I giganteschi processi di restaurazione capitalistica nell'Est europeo e, in forma incompiuta, nella stessa Cina, i nuovi rapporti di forza nei confronti dei Paesi dipendenti, la necessità di ridefinire complessivamente equilibri geostrategici e zone di influenza, hanno alimentato inevitabilmente una nuova competizione mondiale tra gli Stati capitalistici dominanti. E i terreni della competizione stanno interamente dentro il quadro storico dell'imperialismo: riguardano il controllo dei mercati di sbocco, i settori di investimenti e di esportazione del capitale, il controllo di materie prime e mano d'opera a basso costo, i livelli di concentrazione monopolistica del capitale finanziario, il controllo politico-militare delle aree strategiche.

La superiorità oggi dell'imperialismo USA è obiettivamente indiscutibile: sia sul versante della concentrazione di capitale finanziario, sia sul versante della forza militare, dove proprio il crollo dell'URSS ha rafforzato il tradizionale primato americano e il suo impiego criminale nel mondo. Ma l'Europa è tutt'altro che una semplice area dipendente. All'opposto, sia la vasta restaurazione capitalistica nell'Est Europa e nei Balcani, sia il declino non congiunturale del Giappone, hanno alimentato un vero e proprio sviluppo dell'imperialismo europeo come polo economico concorrente con gli USA. La stessa costruzione dell'Unione Europea a partire dal '92, lungi dal rappresentare un puro fatto di ingegneria istituzionale "non democratica e liberista", ha costituito e costituisce il tentativo strategico, non privo di contraddizioni, di assicurare all'imperialismo europeo un quadro politico unificante all'altezza delle sue nuove ambizioni. Il potente sviluppo dei livelli di concentrazione monopolistica europea in settori strategici (banche, assicurazioni, telecomunicazioni, industria militare…) che proprio il quadro di Maastricht ha incoraggiato; l'egemonia economica europea (in particolare tedesca e italiana) nella penisola balcanica e nell'Est Europa; le nuove entrature dell'imperialismo europeo nei Paesi arabi e in Medio-Oriente (v. Irak e Iran) e in larga parte dell'America Latina; il decollo di un militarismo europeo con lo sviluppo del progetto della difesa comune descrivono, nel loro insieme, un nuovo e più forte posizionamento europeo negli equilibri mondiali.
Il forte sviluppo dell'iniziativa bellica dell'imperialismo USA negli anni Novanta (in Irak, nei Balcani, in Afghanistan) è stato ed è anche un tentativo di riequilibrare con la propria egemonia militare l'ascesa economica europea e di limitare il nuovo spazio di manovra della UE. Di converso la partecipazione dei Paesi europei alle imprese militari a egemonia americana non ha rappresentato un puro atto di "servilismo", ma la volontà di partecipare alla conquista di bottini coloniali precostituendo le migliori condizioni per il proprio interesse imperialistico nel momento della loro spartizione. Anche l'unità d'azione dei Paesi imperialistici maschera dunque, come sempre, la loro competizione. E i diversi Stati nazionali capitalistici, lungi dall'essere assorbiti da un'indistinta globalizzazione, costituiscono lo strumento decisivo -politico, diplomatico, militare ma anche economico- delle diverse borghesie imperialistiche concorrenti.

Peraltro proprio il quadro delle nuove contraddizioni intercapitalistiche sospinge l'emergere di nuove potenze regionali o di nuove ambizioni. L'imperialismo britannico lavora a utilizzare le contraddizioni tra USA e UE ponendosi come crocevia delle relazioni diplomatico-militari tra i due poli ai fini del proprio rafforzamento. La Russia borghese di Putin entra nel varco aperto dalla competizione tra USA ed UE per rilanciare un proprio spazio strategico internazionale. La burocrazia cinese a sua volta mira a capitalizzare il declino del Giappone per investire la propria eccezionale potenza economica in un disegno di egemonia su larga parte dell'Asia: entro un progetto di restaurazione capitalistica interna che, ancora incompiuto, pone incognite serie sulla futura stabilità sociale e politica di quel Paese.

In definitiva l'intero quadro internazionale capitalistico porta il segno dominante non dell'omogenea uniformità "unipolare", ma di una crescente instabilità potenziale.


Tesi 4 - GUERRA
La ripresa della guerra e delle guerre negli anni Novanta ha caratteri e finalità imperialistiche. Non riflette un generico "fondamentalismo del mercato globale" contrapposto al "fondamentalismo del terrore". Riflette il grande rilancio delle politiche coloniali del capitalismo, liberate dal crollo dell'URSS, sospinte dalla crisi economica internazionale, alimentate dalle stesse contraddizioni tra i diversi blocchi capitalistici. Oggi la guerra contro l'Afghanistan rientra pienamente in questo quadro. Per questo la lotta contro la guerra e "per la pace", va assunta dai comunisti come lotta di massa anticapitalistica oltre un puro orizzonte pacifista. Senza alcun avallo al ruolo filo-imperialistico dell'ONU e senza riconoscere all'imperialismo alcun "diritto di polizia internazionale".

Dopo il crollo dell'URSS, il ricorso alla guerra ha costituito uno strumento centrale di definizione del nuovo ordine imperialistico del mondo. La guerra all'Irak, alla Serbia, all'Afghanistan riflettono ad un tempo la nuova potenza dell'imperialismo e la nuova instabilità del mondo: entro una relazione contraddittoria in cui il dispiegamento della forza più criminale dell'imperialismo è anche la risposta alla sua crisi di egemonia, alla difficoltà di riorganizzare sotto il proprio controllo un assetto stabile dei nuovi equilibri mondiali.

I fatti d'America dell'11 settembre e i successivi sviluppi si collocano in questo quadro generale: e vanno analizzati col metodo marxista, non con le categorie dell'impressionismo o del pacifismo astratto.
L'atto terroristico di New York e più in generale il terrorismo panislamista non riflettono semplicemente un principio ideologico ("il fondamentalismo del terrore"): rappresentano una risposta distorta e inaccettabile alla barbarie capitalistica, in particolare alla oppressione criminale dei popoli del Medio-Oriente, a partire dalla nazione araba e dal popolo palestinese. Una barbarie la cui portata e i cui crimini a tutte le latitudini del mondo sono infinitamente più grandi del peggiore atto terroristico. Il fondamentalismo islamico è da sempre storicamente un avversario delle aspirazioni sociali e democratiche dei popoli oppressi e della nazione araba. Per questo, nel contesto dell'ordine mondiale del dopo-guerra, esso è stato ripetutamente sostenuto dalle potenze coloniali contro i movimenti di liberazione e le tendenze laico-democratiche dei Paesi dipendenti. Dopo il crollo dell'URSS il fondamentalismo islamico ha perso la propria funzionalità filo-occidentale e si è trasformato in un fattore obiettivo di destabilizzazione. Parallelamente la crescente disperazione sociale e politica di larghi settori di masse oppresse, unita alla più organica subalternità all'imperialismo dei regimi borghesi arabi, ha purtroppo trasformato di fatto il fondamentalismo nel canale distorto di una pressione diffusa di rivolta.

La reazione militare degli Stati dominanti ai fatti dell'11 settembre ha qui la propria radice. Come nel '91 contro l'Irak, come nel '98 contro la Serbia, la guerra contro l'Afghanistan non riflette un astratto "fondamentalismo del mercato" e una "risposta sbagliata" al terrorismo. Rappresenta invece la volontà di riaffermare il controllo imperialistico sul mondo contro ogni fattore possibile di ingovernabilità. Da qui il tentativo di utilizzare l'atto terroristico dell'11 settembre e le sue enormi ricadute emotive come occasione di rilancio degli interessi imperialistici in aree strategiche del pianeta.
Molteplici sono le finalità concrete dell'operazione:
a) consolidare ed estendere il controllo diretto su Medio-Oriente ed Asia centrale, zona cruciale per gli equilibri internazionali;
b) intimidire i movimenti di liberazione dei Paesi dipendenti;
c) colpire il movimento operaio internazionale, compreso quello occidentale, cogliendo il pretesto della guerra per operare massicce ristrutturazioni (con licenziamenti di massa), attaccare diritti sociali e cercare di disperdere la ripresa internazionale dei movimenti di lotta;
d) combattere la recessione economica con il rilancio delle spese militari.
Entro questo quadro di finalità comuni imperialistiche (sostenute per interesse proprio dalla Russia borghese e dalla burocrazia cinese) si conferma il quadro mobile delle contraddizioni internazionali: tra l'imperialismo americano e l'imperialismo europeo; tra l'imperialismo britannico e l'Europa continentale; tra l'area di testa dell'imperialismo europeo (Germania, Francia e Inghilterra) e l'imperialismo italiano; tra la nuova Russia di Putin e gli interessi contraddittori di USA ed Europa; tra le mire nuove della Cina e l'espansione imperialistica in Asia centrale. Ciò che ancora una volta configura non un quadro pacificato di globalizzazione unipolare ma, all'opposto, la nuova instabilità mondiale e il peso in essa degli interessi statuali nazionali e/o di area.

In questo quadro generale il PRC deve ridefinire la propria impostazione politica di fronte alla guerra. Importante e preziosa è stata ed è l'opposizione del nostro partito all'intervento militare in Serbia ed oggi in Afghanistan. Ma va superato l'approccio pacifista in direzione di una chiara battaglia antimperialistica. L'appello all'ONU, al "diritto internazionale", all'intervento alternativo di "polizia internazionale" sono stati e sono profondamente errati. L'ONU ha sostenuto e coperto lungo tutto l'arco degli anni Novanta le peggiori piraterie dell'imperialismo sino a promuovere l'odioso embargo genocida anti-irakeno. Esso non rappresenta né può rappresentare, neppure in forma distorta, la cosiddetta sovranità internazionale. In una società di classe e tanto più nell'epoca dell'imperialismo non è mai esistito e non potrà esistere un diritto internazionale neutro, al di sopra delle classi e degli Stati. Il diritto internazionale è solo la copertura giuridica degli interessi degli Stati dominanti. E l'unico diritto che gli Stati dominanti esercitano e rivendicano è il diritto a piegare col terrore ogni forma di resistenza al proprio dominio sul mondo.
Per questo i comunisti devono sviluppare la lotta contro la guerra come lotta di classe anticapitalistica ed antimperialistica al fianco dei popoli oppressi aggrediti. Non vi è alcuna "polizia internazionale" da rivendicare "contro il terrorismo"; l'unica polizia internazionale da invocare contro la barbarie del capitalismo è la prospettiva rivoluzionaria internazionale delle masse oppresse. Che è l'unica vera risposta alternativa al fondamentalismo terrorista.


Tesi 5 - UTOPIA DEL RIFORMISMO
L’idea della riforma sociale e umanitaria del capitalismo, da sempre fallita, è oggi più utopica che mai. L’idea di “governi riformatori” che in Italia, in Europa, nel mondo possano operare una riforma antiliberista in ambito capitalistico, costituisce oggi più che mai non solo un’illusione ma una trappola per le classi subalterne e i movimenti. Il sostegno che il PRC ha dato all'esperienza di governo francese della "gauche plurielle" ha costituito un errore profondo. Proprio la svolta storica del nostro tempo ripropone l'attualità di una rottura strategica col riformismo come fondamento decisivo di una rifondazione comunista rivoluzionaria.

L'attuale quadro internazionale conferma più che mai l'esaurimento di uno spazio storico riformistico.
Già l’esperienza storica di due secoli avvalora la posizione originaria di Marx e del marxismo rivoluzionario contro ogni illusione riformistica e “governativa”. E smentisce nella maniera più radicale la svolta strategica impressa dallo stalinismo al movimento comunista internazionale a partire dalla metà degli anni Trenta attorno alla prospettiva dei cosiddetti "governi riformatori" o di "democrazia progressiva". Quand’anche consentiti da condizioni eccezionali di prosperità economica e da grandi movimenti di massa, i governi riformatori sono stati sempre, senza eccezione, avversarsi dei lavoratori: le stesse concessioni riformatrici, talora strappate dalla pressione di massa, sono state elargite in funzione del contenimento delle spinte più radicali dei movimenti e della conservazione della società borghese. Proprio per questo lungi dal rappresentare una fase della transizione al socialismo, i governi riformatori hanno spesso spianato la strada a svolte reazionarie o a profondi arretramenti del movimento operaio. Così è stato per i governi riformatori di fine '800, primo '900 (giolittismo); così è stato per i governi riformatori di “fronte popolare” negli anni 30 (v. Francia e Spagna). Così è stato per i governi riformatori in Europa nei primi anni 70 (v. Portogallo).

Ma tanto più oggi l’illusione governista è smentita alla radice dall’assenza di uno spazio storico riformistico. La crisi capitalistica e il crollo dell’URSS, nella loro combinazione, hanno eroso i presupposti materiali delle concessioni riformatrici in Occidente quali erano maturate nel secondo dopoguerra. Ovunque le classi dominanti lavorano a riprendersi con gli interessi quanto in precedenza avevano concesso. Ovunque i governi borghesi – siano essi di centrodestra, di centrosinistra o socialdemocratici – gestiscono le medesime politiche antipopolari, di restrizioni e sacrifici per le grandi masse. Ovunque, anche se in forme e con intensità diverse, i vecchi partiti riformisti del movimento operaio assumono culture e pose liberali in rottura con la propria stessa tradizione. Ovunque l’eventuale presenza al governo di “partiti comunisti” non solo non muta per nulla l’indirizzo strategico del governo ma corresponsabilizza quegli stessi partiti a pesanti politiche controriformistiche esponendoli al logoramento dei loro rapporti di massa.

In particolare va riconosciuto onestamente, in questo quadro, il profondo errore compiuto dal nostro partito nel sostegno all'esperienza del governo Jospin in Francia.
L'analisi proposta dal IV Congresso del PRC a sostegno della "anomalia francese" è stata smentita dai fatti. Come sono state smentiti l'elogio della legge francese sulle 35 ore e più in generale le ripetute esaltazioni del governo Jospin sul nostro quotidiano di partito ("Svolta a sinistra in Francia", "Un socialista in Europa"…). In realtà il governo Jospin ha gestito e gestisce gli interessi organici dell'imperialismo francese sia sul piano interno (con il record di privatizzazioni e una politica di flessibilità a favore del padronato) sia sul piano della politica estera (con l'attiva gestione degli interventi di guerra nei Balcani e in Afghanistan). Lungi dal rappresentare un'alternativa antiliberista, esso rappresenta un governo controriformatore, basato su un liberismo temperato: ciò che spiega sia la crescita della contestazione sociale delle politiche del governo, sia la crisi drammatica del PCF che sostiene criticamente quelle politiche. L'aver assunto a riferimento la sinistra plurale francese è stato tanto più paradossale a fronte del fatto che l'unica sinistra che oggi cresce in Europa è quell'estrema sinistra francese che si oppone al governo della sinistra plurale.

Pertanto proprio la profondità della crisi capitalistica e la svolta storica del nostro tempo ripropone l’attualità di una rottura strategica col riformismo come fondamento decisivo di una vera rifondazione comunista. Non solo come recupero della posizione originaria del marxismo e di rottura reale con la tradizione staliniana. Ma come risposta necessaria oggi alla barbarie del capitalismo, alla regressione di civiltà che la sua crisi trascina.


Tesi 6 - ATTUALITA' DEL SOCIALISMO
Il rilancio internazionale di una prospettiva socialista e rivoluzionaria, nella sua complessità, è il tema centrale, sinora rimosso, dalla rifondazione. "Un altro mondo è possibile": non come riforma del capitale ma come alternativa di sistema, come socialismo. Esso non risponde ad una petizione “ideologica”, né riguarda solamente l’identità dei comunisti: risponde invece all’interesse generale delle classi subalterne, dei popoli oppressi, della larga maggioranza dell’umanità.

La crisi congiunta di capitalismo e riformismo rilancia l’attualità storica della prospettiva socialista come unica via d’uscita dalla crisi dell’umanità.

Nel quadro della crisi capitalistica e del dominio dell’imperialismo, tutte le questioni decisive che attengono alla condizione del genere umano e al suo futuro, non solo non possono trovare soluzione, ma sono destinate ad aggravarsi. Di converso tutte le esigenze e domande di emancipazione e liberazione cozzano sempre più entro la morsa della crisi con la proprietà borghese e la natura borghese dello Stato.

Le domande sociali più elementari (difesa dei salari, salvaguardia o conquista del lavoro, difesa delle protezioni sociali) si scontrano ovunque, quotidianamente, con gli opposti imperativi del profitto e della competizione globale.
Le rivendicazioni nazionali dei popoli oppressi, a partire dal popolo palestinese, confliggono sempre più, tanto più dopo il crollo dell’URSS, col monopolio del controllo imperialistico sul mondo e col più stretto allineamento ad esso delle stesse borghesie nazionali dei Paesi dipendenti.
Le rivendicazioni ambientaliste sono frustrate dalla crescente assimilazione della natura al mercato capitalistico e dallo spietato abbattimento dei costi indotto dalla crisi.
Le rivendicazioni di pace e antimilitariste confliggono più che mai coi venti di guerra del capitale, con le nuove rincorse coloniali, con il keynesismo militare degli Stati imperialisti.
Le stesse domande democratiche cozzano con le restrizioni delle libertà, le nuove spinte xenofobe, l’involuzione del diritto trascinati dalla crisi sociale e dalle intossicazioni belliciste.

Su ogni terreno e da ogni versante tutte le petizioni di progresso richiamano oggi obiettivamente un nuovo ordine del mondo, una nuova organizzazione della società umana, liberata dal capitalismo e dalle sue compatibilità. Non si tratta di chiedere al capitale di essere sociale, democratico, ambientalista e pacifico. Si tratta di impugnare ogni rivendicazione di classe, democratica, ambientalista, di pace, contro il capitale per il suo rovesciamento.
"Un altro mondo è possibile”. Non come riforma del capitale, del tutto utopica e impossibile invece. Ma come socialismo: come abolizione della proprietà capitalistica; come acquisizione alla proprietà sociale dei mezzi di produzione, di comunicazione e di scambio; come organizzazione di una economia mondiale democraticamente pianificata in cui lo stesso modello di sviluppo possa essere ridefinito in base al primato della qualità della vita, dei bisogni sociali, della relazione con l’ambiente e tra i popoli. Nulla è più irrazionale di un sistema economico in cui la crescita della povertà (recessione e disoccupazione) viene determinata da un eccesso di ricchezza prodotta (sovrapproduzione). Nulla è più ipocrita di una celebrata "democrazia" internazionale in cui un pugno di duecento colossi multinazionali in lotta per il controllo dell'economia del mondo concentra nelle proprie mani un potere incontrollato e incontrollabile. Solo una rivoluzione socialista può cancellare queste autentiche mostruosità.
Lo stesso sviluppo impetuoso della scienza e della tecnica (nel campo dell’informatica, della biotecnologia…) pone più che mai l’esigenza di un nuovo ordine sociale mondiale. Asservite alla proprietà privata e agli imperativi del profitto, le innovazioni tecnologiche e scientifiche, fonte potenziale di nuovi orizzonti di progresso, si tramutano paradossalmente in strumenti di nuova subordinazione e di nuovo colonialismo (v. i brevetti).
Peraltro lo stesso indirizzo della ricerca scientifica e tecnologica, le sue strutture di gestione e finanziamento sono sempre più incorporati al capitale finanziario e ai consigli d’amministrazione delle grandi imprese, e quindi subordinati alle leggi capitalistiche. Solo un’economia democraticamente pianificata può dunque segnare una svolta storica nel rapporto tra l’umanità e la scienza. Solo abolendo la proprietà privata, solo affermando il controllo sociale di produttori e consumatori su “cosa, come, per chi produrre”, in ogni Paese e su scala mondiale, sarà possibile liberare le straordinarie potenzialità della scienza per la vita della specie.

In definitiva il superamento della proprietà privata e del mercato - cioè l’essenziale del programma del Manifesto di Marx ed Engels - resta inevitabilmente un punto centrale della prospettiva comunista.

Certo: il recupero di questo programma generale non esaurisce, ovviamente, la rifondazione comunista. Il programma marxista va infatti continuamente sviluppato, arricchito sulla base dei mutamenti storici prodottisi e delle grandi esperienze del movimento operaio di questo secolo. Ma proprio l’aggiornamento del programma presuppone prima di tutto il suo recupero e il suo riscatto dalle profonde distorsioni di cui è stato oggetto.


Tesi 7 - IL NODO DEL POTERE
Un’economia democraticamente pianificata presuppone e richiede la conquista del potere politico da parte delle classi subalterne. Rimuovere la questione del potere, aggirare la questione della sua conquista e della rottura rivoluzionaria dello Stato borghese, significa rimuovere, al di là delle parole, la prospettiva socialista e l'idea stessa di rivoluzione. In questo senso il PRC è chiamato a superare il richiamo gandhiano alla "non violenza" come proprio riferimento culturale.

Nell’ultimo decennio diverse tendenze politico-culturali “neoriformistiche” hanno teso a teorizzare il superamento degli Stati nazionali e del loro potere come corollario del "nuovo capitalismo". Ne è scaturita l’esplicita cancellazione del tema stesso del potere politico e della sua conquista (v. Revelli), in nome del recupero più o meno aggiornato di antiche suggestioni “cooperativistiche”, quale leva di “un’altra società possibile”. In realtà queste teorie non solo non sviluppano il marxismo ma regrediscono a un premarxismo ingenuo, talora subalterno nelle traduzioni pratiche alle stesse politiche liberiste (v. il ruolo del Terzo settore come frequente surrogato del servizio pubblico e luogo di concentrazione di manodopera flessibile).

Invece natura e crisi del capitalismo contemporaneo e dell’imperialismo ripropongono più che mai il tema dello Stato e del potere come nodo strategico decisivo. Contro l’ipocrisia ideologica del liberismo, gli Stati nazionali e i governi borghesi che li gestiscono sono e restano un supporto decisivo del profitto: sia nella promozione attiva delle politiche di flessibilità, privatizzazione, compressione salariale e di spesa sociale; sia nell’espansione abnorme del sostegno finanziario diretto al capitale in crisi come si evince oggi sempre più scopertamente dal nuovo corso della politica economica americana. Ma soprattutto la ripresa del militarismo e le politiche di restrizioni antidemocratiche e di repressione diretta sul versante interno dell’ordine pubblico -connesse alla crisi di consenso sociale- ripropongono oggi più che mai il cuore autentico e profondo della natura dello Stato borghese: quello di “un corpo d’uomini in armi” (Engels) detentore del monopolio della violenza: contro i popoli oppressi del mondo e contro le classi subalterne nelle stesse metropoli imperialistiche. L’esperienza della repressione di Genova ne è un manifesto vissuto. Come lo sono le politiche di terrore dispiegate dall’imperialismo, in tempi di guerra come “di pace”.

Nessun nuovo ordine sociale, nessun socialismo, potrà affermarsi all’ombra dell’apparato dominante dello Stato borghese. Né è pensabile che quell’apparato possa essere strumento delle classi subalterne nella transizione ad una società di liberi e di eguali. Al contrario la rottura dell’apparato statale e il suo rovesciamento rappresentano la condizione necessaria di un processo di liberazione sociale. In questo senso la rottura dell'apparato statale borghese è il principio fondante della concezione stessa della rivoluzione. E viceversa l'evocazione della categoria della rivoluzione fuori dal richiamo strategico alla rottura rivoluzionaria con lo Stato si riduce ad una "frase scarlatta" priva di ogni contenuto reale.

Il PRC è dunque chiamato a superare il richiamo gandhiano alla "non violenza" come principio culturale di riferimento. In primo luogo questo riferimento, coerentemente assunto, costituirebbe un atto di rottura con la storia stessa della lotta di classe come leva universale del progresso: ed in particolare con due secoli di lotta del movimento operaio e dei popoli oppressi contro il capitalismo e l'imperialismo. L'esercizio della forza delle classi subalterne ha costituito e costituisce nella storia del mondo un ricorso spesso insostituibile per difendere o conquistare libertà democratiche elementari, diritti sindacali, conquiste sociali, autodeterminazioni nazionali. Equiparare la violenza delle classi dominanti e la violenza delle classi subalterne in nome di un indistinto rifiuto della "violenza" in generale, significherebbe attestarsi su un pacifismo metafisico. Ma soprattutto la metafisica della "non violenza" costituisce un fattore di rottura con la prospettiva stessa della rivoluzione. L'apparato dello Stato borghese si è sempre contrapposto e si contrapporrà sempre con tutti i mezzi disponibili, alla prospettiva di emancipazione delle classi subalterne. E questo tanto più nell'epoca dell'imperialismo, del rilancio del militarismo, del diffuso rafforzamento delle tendenze repressive (v. Genova). Per questo il problema della forza resta inscritto, in tutta la sua complessità, nell'orizzonte strategico della rivoluzione. Pensare di eluderlo attraverso il richiamo filosofico alla "non violenza" significherebbe riproporre vecchie illusioni riformistiche che grandi masse e i comunisti stessi hanno già pagato a caro prezzo: come nel Cile del 1973. Forte naturalmente è la denuncia delle teorie e pratiche del terrorismo, così come, su un piano diverso, di culture e pratiche violentiste di tipo nichilistico-distruttivo (Black Block). Ma questa denuncia va mossa non da un'angolazione pacifista, tantomeno da un'identificazione nello Stato o nella sua azione repressiva, bensì da un'angolazione rivoluzionaria: da una politica protesa a costruire nelle lotte di classe la consapevolezza profonda della necessità strategica della rivoluzione come processo di massa, e proprio per questo irriducibilmente avversa a forme d'azione che invece rafforzano lo Stato, danneggiano i movimenti, distorcono l'identità stessa della prospettiva rivoluzionaria nella percezione della maggioranza dei lavoratori e dei giovani.


Tesi 8 - RIVOLUZIONE D'OTTOBRE E DEGENERAZIONE BUROCRATICA
Il recupero del programma della rivoluzione d'Ottobre è condizione decisiva della rifondazione. Ciò che è fallito nell'URSS non è la pianificazione economica dello Stato ma la gestione burocratica dell'economia pianificata. Ciò che è fallito nell'URSS non è il potere dei lavoratori ma la casta burocratica che l'ha distrutto.

La rifondazione comunista deve recuperare a pieno il programma originario della Rivoluzione d’Ottobre.

Ciò che è fallito nell'URSS non è la pianificazione economica di Stato al posto del mercato capitalistico. Al contrario l’esproprio della borghesia e la concentrazione nelle mani dello Stato delle leve della produzione ha garantito a quelle popolazioni grandi conquiste sociali, non a caso oggi nel mirino della restaurazione capitalistica. La insospettabile Banca Mondiale oggi dichiara: "La pianificazione ha dato risultati impressionanti: crescita della produzione, industrializzazione, educazione di base, cure sanitarie, abitazione e lavoro per l'intera popolazione… Nel sistema a pianificazione i Paesi del COMECON erano società con alto livello di educazione… Anche in Cina i livelli dei risultati educativi erano, e sono ancora, eccezionali se comparati con i Paesi in via di sviluppo… In URSS e nei Paesi del COMECON le aziende erano spinte ad impiegare il massimo di persone possibile, e perciò era molto più comune avere scarsità di mano d'opera che disoccupazione…"
Ciò che è fallita è la gestione burocratica dell’economia pianificata, che ha espropriato progressivamente i lavoratori e i loro organismi democratici di ogni funzione di gestione e controllo, a tutto vantaggio di uno strato sociale privilegiato e parassitario. Uno strato sociale che ha concluso la sua parabola storica trasformandosi in agente della restaurazione capitalistica e, quindi, in una nuova classe borghese sfruttatrice. Un processo che ha confermato la validità dell’analisi marxista sulla degenerazione dell’URSS così sintetizzata da Trotsky nel 1938: “Il pronostico politico ha un carattere alternativo: o la burocrazia, diventando sempre di più l’organo della borghesia mondiale nello Stato operaio, distrugge le nuove forme di proprietà e respinge il Paese nel capitalismo, o la classe operaia schiaccia la burocrazia e si apre una via verso il socialismo.” (Programma di transizione).

E ancora: ciò che è fallito in URSS non è la conquista del potere politico, la rottura della macchina statale borghese, il potere dei soviet. Ed anzi il superamento rivoluzionario della falsa democrazia borghese e la costruzione di una democrazia nuova e superiore ha rappresentato non solo un’esperienza storica straordinaria ma anche un riferimento decisivo, teorico e pratico, per la stessa nascita del movimento comunista di questo secolo. Ciò che è fallito al contrario, è il potere di una burocrazia che ha via via smantellato la democrazia dei soviet e del partito, trasformando la dittatura del proletariato nella dittatura della burocrazia sul proletariato. I suoi crimini efferati contro lavoratori e comunisti, nell'URSS e nel movimento comunista internazionale, non hanno rappresentato una astratta patologia del "potere" in quanto tale: ma un mezzo brutale di difesa del privilegio burocratico contro il programma originario della rivoluzione d'Ottobre. Per questo rimuovere la categoria stessa della conquista rivoluzionaria del potere politico nel nome della "rottura con lo stalinismo" significherebbe paradossalmente celebrarne, di fatto, la vittoria postuma.

Occorre invece trarre le lezioni dall'esperienza dell'URSS, rilanciando il programma fondamentale di Lenin e Trotsky e, in Italia, di Gramsci: quello che combina l’abolizione della proprietà borghese con la costruzione di un nuovo potere, della democrazia dei consigli. Una democrazia che ridefinisce natura e soggetto del potere, supera la scissione tra masse e istituzioni, abolisce i privilegi dei rappresentanti eletti, sancisce la revocabilità permanente di questi ultimi. Una democrazia che supera e rimuove quella rete di poteri legali e illegali, palesi e occulti, che restano il cuore di ogni democrazia borghese come strumento di intimidazione permanente contro i lavoratori. Una democrazia, infine, che è superiore proprio perché supera e rimuove la separatezza burocratica dello Stato borghese e perché coniuga il rispetto del pluralismo politico con il carattere pubblico della proprietà.

In definitiva, dal fallimento dello stalinismo occorre uscire non in direzione di un "socialismo di sinistra" riformistico-pacifista, ma nella direzione opposta della rifondazione comunista rivoluzionaria.


Tesi 9 - CENTRALITA' STRATEGICA DELLA CLASSE OPERAIA
La classe operaia e il mondo del lavoro, nella sua nuova composizione ed estensione, rappresenta il soggetto centrale di una prospettiva socialista. La crisi di egemonia del liberismo e l'affacciarsi di una giovane generazione di lavoratori segnano l'attuale disgelo delle lotte, che conferma e rilancia le grandi potenzialità del movimento operaio. A sua volta la classe lavoratrice potrà assolvere il ruolo storico di “classe generale” solo ricomponendo su un terreno anticapitalistico l’insieme delle domande di emancipazione e liberazione.

Nell’ultimo decennio in particolare, più in generale negli ultimi vent’anni, sullo sfondo dell’avanzata capitalistica i circoli dominanti internazionali hanno dispiegato una vasta offensiva politico-culturale tesa ad affermare la crisi strutturale o la "scomparsa" della classe operaia. Non solo la socialdemocrazia internazionale, ma vasti settori politici e intellettuali della stessa “sinistra critica” hanno accolto e riproposto, in forme diverse, questa leggenda. Lo stesso nostro partito, che pur ha respinto giustamente le conclusioni ultime di quella impostazione non ha sviluppato contro di essa una controffensiva adeguata.
La realtà mondiale smentisce radicalmente la propaganda dominante. Lungi dal registrare la scomparsa o il ridimensionamento della classe lavoratrice, lo scenario mondiale è segnato da un vasto processo di proletarizzazione che accresce complessivamente la massa sociale del lavoro dipendente modificando al tempo stesso la sua composizione. Nei paesi imperialistici la riduzione del livello di concentrazione della classe operaia industriale, colpita da una vasta offensiva capitalistica, si combina con processi di proletarizzazione di vasti settori impiegatizi nel campo dell’istruzione, dei servizi, dei trasporti, delle assicurazioni e del credito, delle comunicazioni, e con una integrazione nel lavoro salariato, nella forma particolarmente oppressiva del precariato, di settori crescenti di giovani disoccupati. Gli stessi rapporti di lavoro para-subordinato formalmente autonomo sono di fatto espressioni di lavoro salariato. Nei paesi dipendenti lo stesso processo internazionale di decentramento produttivo determina una massiccia concentrazione di classe operaia industriale, spesso sottoposta ai più classici meccanismi di sfruttamento taylorista. Complessivamente dunque la stessa classe operaia dell’industria conosce sul piano mondiale un’indubbia estensione.
Ugualmente infondata è la teoria della crisi di ruolo della classe operaia e della marginalizzazione della lotta di classe. La contraddizione tra capitale e lavoro permea come non mai tutti gli ambiti della società capitalistica contemporanea. Da un lato la crisi capitalistica spinge le classi dominanti ad una continuità della propria offensiva centrale contro il lavoro, al di là di ogni variazione del ciclo economico congiunturale. Dall’altro lato il mondo del lavoro, che pur ha subito ripetute sconfitte e un arretramento profondo negli anni 80 e 90, conserva un gigantesco potenziale di lotta: nessuna delle principali sconfitte subite negli ultimi vent’anni è stata determinata di per sé dalla cosiddetta "crisi strutturale della classe lavoratrice" bensì dalle responsabilità politiche e sindacali delle sue burocrazie dirigenti. Certo ogni volta la sconfitta subita, con l'arretramento sociale e gli effetti di demoralizzazione che ne conseguivano, si rifletteva sui rapporti di forza e spesso indirettamente sulla composizione sociale proletaria. Ma non era quest'ultima a determinarla, semmai ne era in larga parte determinata. La lotta di classe, entro la contraddizione tra capitale e lavoro, resta dunque più che mai l’asse centrale di formazione, scomposizione, ricomposizione dei blocchi sociali e dei rapporti di forza in ogni paese capitalistico e su scala internazionale.

Peraltro contro ogni profezia disfattista (v. Marco Revelli), la tendenza alla ripresa del movimento di classe segna oggi, in forme diverse, larga parte del quadro mondiale. Già negli anni 90, pur in un contesto complessivamente negativo, le mobilitazioni operaie sviluppatesi nell’Europa capitalista (Italia '94 e Francia '95) e in Asia (Corea '95) indicavano le potenzialità dell’azione sociale concentrata e di massa del movimento operaio, smentendo radicalmente le tesi sociologiche di tanta parte della letteratura “postfordista”. Oggi l’affacciarsi di una nuova generazione operaia su scala internazionale si accompagna ad una ripresa più visibile e diffusa delle lotte dei lavoratori. Il “disgelo” è un fenomeno mondiale ed ha una base materiale profonda: la crescente crisi di egemonia delle politiche liberiste, dopo vent’anni, presso la maggioranza della popolazione mondiale. Le classi dominanti hanno accresciuto per vent’anni il proprio potere sui lavoratori e il proprio dominio nella società: ma a scapito del consenso sociale. Il loro potere è aumentato, la loro egemonia si è ridotta. Ed oggi la crisi di egemonia della borghesia internazionale alimenta una nuova reazione di lotta che trova nei giovani lavoratori la propria leva naturale. Milioni di giovani lavoratori e lavoratrici non si rassegnano più ad un futuro peggiore di quello dei loro padri. Ed il capitale in crisi non ha nulla da offrire loro se non un peggioramento ulteriore delle condizioni di lavoro e di vita. Questa contraddizione segnerà nel profondo tutta la prossima fase storica. Il rilancio e l’estensione delle mobilitazioni di classe, al di là delle imprevedibili dinamiche contingenti e dei possibili riflussi temporanei, tenderà a pervadere lo scenario internazionale.
Il rilancio di una prospettiva socialista e rivoluzionaria può e deve trovare la propria radice centrale in questa ripresa del movimento operaio internazionale, quale soggetto centrale dell'alternativa anticapitalistica.
Ciò non significa né deve significare un ripiegamento "operaistico-sindacalistico". Il movimento operaio internazionale potrà configurarsi come leva centrale di un’alternativa rivoluzionaria alla condizione di non limitarsi ad una pura azione sindacale o di fabbrica: ma ricomponendo su un terreno anticapitalistico e di classe l’insieme delle domande di emancipazione e liberazione, l’insieme dei soggetti portatori di tale domande su scala mondiale.
Sotto questo profilo le cosiddette teorie del "policentrismo" (abbracciate dallo stesso PRC), che assimilano la contraddizione tra capitale e lavoro all'insieme indistinto delle altre contraddizioni (ambientali, di pace, di genere…), capovolgono il nodo strategico reale. Non si tratta di accostare alla "cultura di classe" la "cultura ambientale", la "cultura di genere", la "cultura di pace" spesso assunte nella loro espressione ideologica neoriformistica. Si tratta, all'opposto, di sviluppare l'egemonia anticapitalistica e di classe sul terreno dell'ambiente, della pace, della liberazione della donna, entro un processo di ricomposizione unificante per l'alternativa di sistema.


Tesi 10 - MOVIMENTO ANTIGLOBALIZZAZIONE
L'affacciarsi di una giovane generazione sul terreno della lotta (movimento antiglobalizzazione), ripropone tanto più oggi l’attualità del rilancio di una prospettiva storica rivoluzionaria. La conquista della giovane generazione alla prospettiva socialista è un compito difficile ma decisivo della Rifondazione.

La nascita e lo sviluppo del movimento antiglobalizzazione su scala mondiale non è separato dalla ripresa della lotta di classe. Riflette la stessa crisi di egemonia del liberismo che alimenta la ripresa delle lotte sociali. Così come riflette quello stesso risveglio di ampi settori di giovani, che segna la svolta nella mobilitazione dei lavoratori. La stessa composizione sociale del movimento è spesso segnata da un’ampia presenza di giovani precari.

Ma l’importanza del movimento antiglobalizzazione non è data solo dal sintomo che riflette, ma dalle conseguenze che produce. Le mobilitazioni massicce contro i vertici capitalistici internazionali, lungo l’itinerario di Seattle, Praga, Nizza, Genova, hanno mostrato con grande potenza simbolica alle classi subalterne del mondo intero che le politiche dominanti possono essere contestate, che una massa crescente di giovani ne fa oggetto di una aperto rifiuto. Questo fatto ha favorito un consenso largo e diffuso attorno alle ragioni del movimento, un salto netto della sensibilità critica antiliberista di ampi settori di massa; un incoraggiamento obiettivo alla stessa ripresa di lotta della classe operaia in molti paesi. Peraltro in diversi Paesi, le mobilitazioni antiglobalizzazione hanno visto, in forme diverse, la partecipazione diretta di settori di classe e di loro organizzazioni sindacali e/o politiche. Più in generale il movimento antiglobalizzazione ha capitalizzato e incanalato in un quadro largo tutte le istanze di contestazione dell’attuale ordine del mondo (sociali, democratiche, ambientali, di pace) da un lato riflettendo, dall’altro incentivando un mutamento diffuso della percezione pubblica del capitalismo. Le potenzialità anticapitaliste di questo movimento, per quanto latenti, sono dunque di grande rilevanza.
Tuttavia limitarsi alla lode del movimento antiglobalizzazione o addirittura promuovere un culto della sua spontaneità, come di fatto fa oggi il nostro partito, costituisce un errore profondo. Decisiva infatti è e sarà la direzione di marcia del movimento, in ordine agli orientamenti programmatici che vi prevarranno, alle scelte politiche che ne derivano, al segno di egemonia sociale che esse riflettono.

Larga parte delle culture oggi egemoni nel movimento antiglobalizzazione internazionale sono di tipo neoriformistico. Non si tratta di “disprezzarle” ma di coglierne la radice storico/sociale e la ricaduta profondamente negativa per le ragioni del movimento stesso.
Sullo sfondo dell'arretramento del movimento operaio degli anni '80-'90, entro una situazione storica segnata congiuntamente dalla crisi di egemonia del liberismo e dalla crisi di credibilità del "socialismo" (nella sua rappresentazione storica ereditata) si è determinato un vasto campo di sviluppo di culture “critiche” del capitalismo ma non anticapitaliste: di culture e “programmi” tesi a ricercare un altro mondo possibile entro il capitalismo e non in alternativa ad esso. Queste culture politiche non sono omogenee ed anzi sono segnate da differenze profonde: comprendono tendenze apertamente collaborative con forze e istituti del capitalismo mondiale in una logica di pressione critica sul loro operato; tendenze neokeynesiane votate alla ricerca di una razionalizzazione antispeculativa del capitale (v. i vertici di ATTAC); tendenze basate sulle esperienze di terzo settore e sul recupero culturale di antiche suggestioni cooperativistiche (neoproudhoniane); tendenze anarco/ribelliste portatrici di una sorta di “neo-luddismo ” (Black block). Ma il loro tratto comune è o la ricerca illusoria di un capitalismo “equo”, o la rivendicazione di un proprio spazio antagonistico all'interno del capitalismo: comunque la negazione di una prospettiva socialista e della centralità della contraddizione tra capitale e lavoro come leva di un’alternativa sociale. In questo senso tali culture minacciano di deviare l’anticapitalismo latente del movimento e i sentimenti antiliberisti di milioni di giovani verso un orizzonte al tempo stesso utopico e subalterno: ostacolando obiettivamente lo sviluppo della coscienza politica del movimento e la sua convergenza di lotta con la classe operaia internazionale e con i movimenti di liberazione dei popoli oppressi.

I comunisti debbono radicarsi a fondo nel movimento antiglobalizzazione, partecipare attivamente alla sua costruzione e alle sue strutture, legarsi profondamente ai sentimenti di massa antiliberisti, cogliendone le straordinarie potenzialità: ogni atteggiamento di distacco, di sufficienza dottrinaria verso il movimento va contrastato apertamente. Ma la lotta contro le posizioni riformiste, per un’egemonia alternativa è la ragione stessa della presenza dei comunisti nel movimento. Egemonia non è né predicazione ideologica né imposizione burocratica: egemonia è lotta aperta per la conquista politica e ideale del movimento a un programma anticapitalista; per collegare tutte le ragioni di fondo che il movimento esprime, nel vivo della sua esperienza quotidiana (ragioni sociali, ambientali, democratiche, di pace) alla prospettiva socialista; per ricondurre di conseguenza tutte le istanze di fondo del movimento all’incontro strategico con la classe operaia. L’affermarsi nel movimento antiglobalizzazione di un’egemonia anticapitalistica della classe operaia, quale soggetto centrale di un blocco storico alternativo su scala mondiale, è tanto più oggi una esigenza vitale per il movimento stesso. Il nuovo scenario di guerra imperialistica pone il movimento di fronte a una prova impegnativa che richiede un salto di coscienza politica e di orizzonte. Lo scontro tra imperialismi e popoli oppressi tenderà ad aggravarsi. Lo scontro di classe sul fronte interno tenderà ovunque ad inasprirsi. Il movimento non può più vivere di iniziative simboliche, di critiche intellettuali delle ingiustizie del mondo, di ricette accademiche utopiche o minimali, senza rischiare di logorare la propria forza. Né può affidarsi ad una pratica generica di "disobbedienza". Una pagina del movimento si è in ogni caso chiusa. E’ necessaria una scelta chiara di collocazione sociale e di orizzonte strategico in ogni paese e su scala mondiale. Non è sufficiente una critica del liberismo senza schierarsi apertamente a fianco dei lavoratori e delle loro lotte. Non è sufficiente una critica dei poteri dominanti del mondo senza schierarsi al fianco dei popoli dominati. Su ogni terreno l’alternativa tra opzioni riformiste e anticapitaliste, pacifiste o antimperialiste, sarà posta dai fatti nel dibattito stesso del movimento.
I comunisti possono e debbono impegnarsi su un terreno più difficile ma più avanzato perché un ampio settore della giovane generazione maturi una coscienza politica rivoluzionaria e di classe. Per questo la costruzione di una tendenza rivoluzionaria internazionale nel movimento antiglobalizzazione è tanto più oggi una necessità inaggirabile.


Tesi 11 - CAPITALE E QUESTIONE AMBIENTALE
Gli sviluppi politici e le dinamiche del capitale degli anni novanta sono stati devastanti per l’ambiente. Tutti i vecchi problemi si sono estesi, sono emerse nuove emergenze su scala planetaria. E’ sempre più stretto l’intreccio fra questioni ambientali e questioni sociali. A fronte di tutto questo, tanto gli approcci etico-culturali quanto il riformismo verde si sono rivelati inadeguati e impotenti. La costruzione di un efficace movimento ambientalista richiede l’allargamento della sua base sociale e un programma di obiettivi chiaramente anticapitalistici: in ultima analisi, un nuovo modello di sviluppo non sarà possibile senza un nuovo modo di produzione, senza il rovesciamento del capitalismo. E’ questo l’approccio strategico che i comunisti devono portare anche nel loro intervento nel movimento.

Il capitalismo non è in grado o non è interessato a porre rimedio ai problemi ambientali; viceversa, la devastazione ambientale è oggi un portato intrinseco della logica del profitto e del libero mercato. Gli anni novanta hanno visto moltiplicarsi problemi e crisi ambientali, con una relazione sempre più stretta fra involuzione delle condizioni politiche e sociali e peggioramento della condizioni ambientali. Il fatto è che le dinamiche oggettive del modo di produzione capitalistico - sempre meno frenate dai vincoli sociali e politici che nei decenni precedenti avevano portato alla crescita dei movimenti ambientalisti e all’adozione di tutta una serie di interventi di protezione ambientale - hanno portato all’estensione e all’aggravamento dei vecchi problemi (inquinamento, nocività delle fabbriche, devastazione del territorio, sviluppo di tecnologie ad alto rischio, degradazione degli ambienti naturali e storici, ecc.) e alla creazione di nuove emergenze su scala sempre più estesa, tendenzialmente planetaria (problema dei rifiuti, buco nell’ozono, effetto serra, deforestazione, impoverimento della biodiversità, ecc.).
Le sconfitte operaie e la ricerca della produzione al più basso costo porta infatti ad abbattere anche le misure di protezione ambientale e di prevenzione sanitaria, a sfruttare le risorse e il territorio nel modo più distruttivo, a ignorare i vincoli sociali e le compatibilità ambientali. La liberalizzazione del commercio tende a generalizzare lo sfruttamento incontrollato e illimitato delle risorse ambientali minando i sistemi di regolazione locale. Con la privatizzazione dei servizi la logica del profitto si appropria dei beni comuni come l’acqua e tramite i brevetti essa arriva a monopolizzare le risorse biologiche e gli avanzamenti scientifici e tecnologici, scavalcando ogni controllo democratico e ogni preoccupazione di ordine sociale (esemplari le vicende degli Ogm e dei farmaci anti-Aids). La stessa sicurezza alimentare è diventata un problema drammatico non solo nei paesi del Terzo mondo, dove è sempre stata il prodotto dello sfruttamento imperialistico, ma anche nei paesi avanzati (caso “mucca pazza”), dove è il risultato del produttivismo esasperato e incontrollato che domina il settore agro-alimentare, sotto la spinta della competitività e del profitto.
D’altra parte, i rapporti di forza su scala internazionale consentono alle multinazionali, tramite le scelte dei governi degli Stati imperialisti, di imporre i propri desiderata nelle negoziazioni degli accordi internazionali in materia ambientale (v. l’attitudine del governo Usa nel caso del protocollo di Kyoto sulle emissioni dei gas-serra). Così restano senza efficaci risposte lo sfruttamento irrazionale e la distruzione delle foreste, l’impoverimento della risorse biologiche, l’avanzamento dei deserti, i cambiamenti climatici e le sempre più frequenti “catastrofi naturali” che da tali mutamenti derivano. Sempre più il futuro dell’umanità si identifica nell’alternativa “socialismo o barbarie”, essendo la tendenza alla barbarie senz’altro accelerata dal progressivo degrado della capacità del pianeta di sostenere lo sviluppo umano.
Di fronte a questi sviluppi, in cui si intrecciano sempre più strettamente questioni sociali e questioni ambientali, si dimostrano sempre più inadeguati e impotenti tanto gli approcci meramente etico-culturali quanto le tradizionali politiche di riformismo verde. Oggi i movimenti ambientalisti sono di fronte a una duplice sfida: da un lato riuscire ad allargare e a unificare la propria base sociale, integrando i bisogni e le domande dei diversi soggetti che sono vittime delle tendenze distruttive del capitale; dall’altro riuscire a formulare obiettivi di lotta e una prospettiva credibili. Ciò è possibile soltanto in un’ottica anticapitalistica: infatti, un nuovo modello di sviluppo non sarà possibile, in ultima analisi, senza un nuovo “modo di produzione”, ossia senza passare per il rovesciamento del capitalismo. Questo è tanto più vero se si considera l’intrinseca dimensione internazionale dei problemi ambientali. E’ questo l’approccio strategico che i comunisti devono portare anche nell’intervento e nella costruzione del movimento.
Su un altro piano, la questione ambientale pone alla rifondazione comunista la sfida e il compito di un aggiornamento dei propri strumenti teorici e della concezione del socialismo. Anche in questo campo, tuttavia, non si parte da zero. Rispetto al primo compito, il recupero della riflessione originaria del marxismo sul nesso capitalismo-natura è un passaggio indispensabile per lo sviluppo di strumenti adeguati per affrontare i temi ambientali del presente e per un confronto proficuo con i contributi critici del pensiero ecologico. Per un altro verso, è importante riscoprire e rileggere l’eccezionale esperienza dei primi anni del potere sovietico quando, anche per merito della lungimiranza di Lenin, si sviluppò in URSS una vera e propria “primavera dell’ecologia” che pose questioni essenziali, quali il varo di una legislazione ambientale, lo sviluppo di un movimento popolare indipendente per la protezione della natura e l’introduzione della sostenibilità ambientale fra i vincoli della pianificazione economica. Questa esperienza straordinaria e precorritrice fu prima interrotta e poi rimossa dalla repressione staliniana all’inizio degli anni trenta ma essa resta la prova vivente che, non l’ispirazione marxista o il fine del socialismo, ma semmai la loro negazione staliniana sono responsabili del fallimento del cosiddetto “socialismo reale” in campo ambientale e della rimozione per molti anni del tema dell’ambiente dal campo di riflessione del movimento comunista.


Tesi 12 - PROGRAMMA TRANSITORIO
La stessa ricomposizione del blocco sociale alternativo richiede l’elaborazione di un sistema di rivendicazioni e di un metodo che sappiano connettere gli obiettivi immediati dell'azione alla prospettiva unificante dell’alternativa anticapitalistica. Superando quelle concezioni neoriformistiche che, in forme diverse, ripropongono la vecchia separazione tra “programma minimo” (obiettivi immediati) e “programma massimo” (socialismo), cara alla II Internazionale di fine Ottocento inizio Novecento e contro la quale nacque il movimento comunista.

La svolta d’epoca attuale rende del tutto improponibile la vecchia separazione tra programma minimo e programma massimo del movimento operaio. Entro la crisi capitalistica ogni obiettivo immediato, ogni reale movimento di massa tende a cozzare con le ristrette compatibilità del capitale. Mentre la coscienza politica delle masse e dei loro stessi movimenti di lotta, tanto più dopo le sconfitte subite, è profondamente al di sotto delle implicazioni oggettive delle loro esigenze.

Questa contraddizione di fondo riattualizza la concezione comunista del programma di transizione: di un programma che sia capace di individuare un ponte tra coscienza attuale delle masse e necessità della rottura anticapitalistica.

Il programma transitorio non può ridursi ad uno schema scolastico e rigido. Ed anzi per sua stessa natura esso richiede un’articolazione duttile, capace di rapporto con la concreta dinamica della lotta di classe. Ma l’essenziale è il suo metodo: è la riconduzione agli scopi rivoluzionari di tutta la politica quotidiana, in ogni ambito di insediamento sociale, territoriale, sindacale, fuori da ogni logica settorialista, localista o sindacalista. Proprio per questo non si può richiedere a un programma di transizione il rispetto delle compatibilità: al contrario esso si fonda sul presupposto che le esigenze generali delle masse sono, in questa epoca di crisi, incompatibili con la struttura capitalistica della società.

Oggi l'aggravarsi della crisi capitalistica mondiale, il riemergere su scala internazionale di una diffusa spinta di classe, l'affacciarsi del movimento antiglobalizzazione, definiscono un nuovo quadro di riferimento per l'articolazione di un programma transitorio: non come astratta accademia ma in risposta ai nuovi livelli di scontro sociale e alle nuove domande che milioni di giovani si pongono.

Sul versante centrale della lotta di classe l'aggravarsi della crisi capitalistica pone l'esigenza obiettiva di un più elevato livello di risposta: sia in relazione all'unificazione internazionale delle lotte, sia in rapporto al programma d'azione del movimento operaio internazionale.
Le rivendicazioni tradizionali, cosiddette difensive, attorno ai temi della salvaguardia dei salari, del posto di lavoro, delle protezioni sociali, conservano naturalmente, tanto più oggi, tutta la loro immediata centralità. Ma domandano un riferimento unificante e di prospettiva, che metta apertamente in discussione le basi capitalistiche della regressione sociale e indichi un'alternativa complessiva. Per esemplificare:

a) L'attacco internazionale all'occupazione ripropone in tutta la sua valenza storica l'obiettivo della riduzione generale dell'orario di lavoro per l'intera classe lavoratrice mondiale, fuori da ogni logica di negoziazione con la flessibilità e interamente pagata dai profitti. Non si tratta di ridurre la tematica dell'orario a semplice rivendicazione sindacale o, peggio, di affidarla a governi borghesi presunti "riformatori", ma invece di assumerla come obiettivo generale anticapitalistico. "Il lavoro che c'è va distribuito fra tutti sino al completo assorbimento dei disoccupati": questa rivendicazione di scala mobile delle ore di lavoro prefigura in definitiva un'organizzazione socialista dell'economia basata su un principio di razionalità elementare che l'irrazionalità del capitalismo ignora. Per questo essa va posta con forza nella giovane generazione operaia internazionale: come esemplificazione "popolare" di un'alternativa di sistema.

b) La precarizzazione mondiale del lavoro, come asse strategico dell'attacco capitalistico, richiede una risposta generale di carattere internazionale. Una pura attestazione difensiva categoria per categoria, Paese per Paese; logiche di negoziazione e scambio tra "lavoro minimo" e sussidio (work to welfare); rappresentano forme diverse di accettazione del terreno posto dall'avversario. I comunisti debbono invece avanzare, in ogni Paese, un complesso di rivendicazioni unificanti: l'abolizione di tutte le leggi di precarizzazione e discriminazione del lavoro, a partire dal principio universale "a parità di lavoro parità di salario"; un salario minimo garantito intercategoriale per tutti i lavoratori e le lavoratrici, al di là di ogni barriera nazionale, settoriale, aziendale; un salario garantito ai disoccupati e ai giovani in cerca di prima occupazione, fuori da ogni scambio col lavoro "minimo" (cioè precario). L'insieme di queste rivendicazioni non solo indica un possibile terreno di ricomposizione strategica tra lavoratori e disoccupati, ma perciò stesso cozza frontalmente con le politiche strutturali del capitale internazionale in crisi, assumendo tanto più oggi un'obiettiva valenza anticapitalistica.

c) La chiusura di aziende e le relative espulsioni di mano d'opera, portato naturale della crisi capitalistica e dei processi di ristrutturazione indotti dalla competizione globale pone un problema centrale di orientamento del movimento operaio. La moltiplicazioni di azioni di resistenza, in ordine sparso, o, peggio, la logica delle burocrazie sindacali di svendita negoziata e "ammortizzata" dei posti di lavoro, azienda per azienda, settore per settore, hanno accompagnato in questi anni nei vari Paesi il processo di arretramento del movimento operaio, delle sue conquiste sindacali, della sua stessa forza sociale. E' decisiva l'unificazione internazionale delle lotte di resistenza attorno a un possibile obiettivo unitario da perseguire in ogni Paese: la nazionalizzazione, senza indennizzo, e sotto il controllo dei lavoratori e delle lavoratrici delle industrie che licenziano. In Francia, attorno al caso Danone, settori rilevanti di giovane generazione operaia hanno impugnato in manifestazioni di massa questa rivendicazione elementare: "licenziare i licenziatori". I comunisti possono e debbono assumerla e rilanciarla come indicazione esemplare: che lega la domanda concreta e drammatica della difesa del lavoro alla messa in discussione della proprietà capitalista.

Più in generale, questo metodo transitorio può e deve rispondere da un versante di classe all'insieme delle domande emergenti dai nuovi movimenti e dalla giovane generazione, riconducendole sempre alla questione decisiva della proprietà e del potere. Ad esempio:
1) La domanda di protezione sanitaria, di sicurezza alimentare, di risanamento e qualità ambientale è espressa dall'insieme del movimento antiglobalizzazione internazionale e incontra un sostegno vastissimo nell'opinione pubblica dei lavoratori e dei consumatori. Eppure la risposta programmatica che le leadership egemoni del movimento danno ai problemi che esse stesse denunciano resta interna ad una logica riformista: campagne di educazione pubblica della proprietà a "comportamenti umanitari", campagne anti-marchio, di boicottaggio, di "consumo critico". L'elemento comune di tali proposte che pure racchiudono una critica positiva del profitto, è la rimozione strategica del nodo della proprietà e della lotta di classe. E questo le condanna ad un vicolo cieco strategico che contrasta con la loro apparente concretezza o visibilità mediatica. La stessa Naomi Klein riconosce esplicitamente questa impasse con grande onestà intellettuale (v. "No Logo"). I comunisti devono allora elevare nel movimento l'ordine di riflessione e di indirizzo ricollocando le tematiche poste sul terreno degli obiettivi anticapitalisti. Ad esempio:
a) L'apertura dei libri contabili delle industrie farmaceutiche e delle industrie alimentari, perché siano aboliti quei segreti commerciali, industriali, finanziari che nascondono alla società le speculazioni del profitto.
b) La rivendicazione della nazionalizzazione senza indennizzo e sotto controllo sociale delle industrie farmaceutiche, agroalimentari e inquinanti a partire dai grandi colossi monopolistici dei rispettivi settori: perché salute e alimentazione, beni elementari della vita, siano recuperati al controllo pubblico.
c) L'abolizione dei brevetti: perché i brevetti sono un sequestro per il profitto di pochi di scoperte utili o decisive per la vita di tutti; la loro abolizione è condizione decisiva per un controllo e uso sociale della scienza.

2) La domanda di pace e antimilitarista sarà alimentata sempre più dalla prevedibile piega degli avvenimenti mondiali. Anche su questo terreno l'impostazione pacifista delle leadership egemoni del movimento, oltre a rimuovere la dimensione antimperialista e ad avallare la funzione dell'ONU rimuove ogni terreno programmatico di fondo che leghi l'istanza di pace alla lotta per l'abbattimento degli interessi capitalistici che sospingono la guerra. I comunisti devono muovere invece da un'angolazione opposta. Oggi lo sviluppo dell'industria bellica e il suo crescente livello di concentrazione capitalistica (in USA, in Europa, in Giappone) è sospinto sia dal rilancio imperialistico, sia dalla ripresa del keynesismo militare in funzione anti-crisi. Nella più ampia mobilitazione unitaria contro la guerra, si tratta allora di porre apertamente la questione dell'industria militare e degli interessi di guerra avanzando rivendicazioni conseguenti:
a) L'apertura dei libri contabili delle industrie di guerra e delle attività connesse alle speculazioni di guerra: perché l'intera società ha diritto di vedere e di leggere i cinici arricchimenti di tanti capitalisti "patrioti" grazie ai bombardamenti umanitari sulle popolazioni povere del pianeta.
b) La nazionalizzazione senza indennizzo e sotto il controllo dei lavoratori dell'industria militare: perché è condizione elementare di igiene sociale oltre che di una possibile riconversione a produzioni civili con piena garanzia per l'occupazione dei lavoratori.

3) La lotta contro la povertà dei cosiddetti Paesi del Terzo mondo è uno degli elementi di massima attenzione e aggregazione nel movimento antiglobalizzazione su scala mondiale. Ma un significativo settore dell'intellettualità dirigente del movimento propone una visione riduttiva del problema e soprattutto suggerisce terapie devianti. O soluzioni regressive di tipo precapitalistico, che indipendentemente dal loro dubbio realismo finirebbero addirittura col peggiorare le condizioni di vaste masse (v. le soluzioni neo-protezionistiche di Latouche); o soluzioni velleitarie per di più integrabili e in parte integrate in modo subalterno nell'economia capitalistica (v. il commercio equo e la finanza equa); oppure ancora politiche di compromesso negoziale con l'imperialismo (come il sostegno alla negoziazione del debito da parte di Giubileo 2000). I comunisti, nel mentre costruiscono una sintonia profonda con la sensibilità di milioni di giovani impegnati nella lotta alla povertà, possono e debbono contrastare queste false soluzioni, avanzando, entro una prospettiva generale di riorganizzazione socialista dell'economia del mondo, precise rivendicazioni transitorie:
a) l'abolizione reale e totale del debito pubblico dei Paesi dipendenti: perché se il debito è un cappio al collo di quei Paesi la sua negoziazione si rivela un secondo cappio, attraverso lo scambio tra riduzione del debito e certezza del pagamento, tra riduzione del debito e cessione di pacchetti azionari strategici (come la stessa Susan George ha dovuto riconoscere).
b) L'esproprio sotto il controllo dei lavoratori e dei consumatori dei 200 colossi multinazionali che sono al vertice dell'economia mondiale: perché sono gli agenti diretti e i massimi beneficiari delle politiche di rapina e di saccheggio internazionale. Non vi sarà alcun riscatto dalla povertà, nessun nuovo modello di economia sostenibile nel mondo, senza rimuovere l'enorme potere di quei colossi. Paese per Paese va sviluppata una vasta campagna per l'apertura dei loro libri contabili, la trasparenza dei loro conti bancari, la nazionalizzazione dei loro beni.


Tesi 13 - LIBERAZIONE DELLA DONNA
La Rifondazione può e deve recuperare la tematica decisiva della liberazione della donna, entro la prospettiva del comunismo. Contro ogni sua riduzione economicistica così come, all'opposto, contro ogni sua deriva idealistica.

Contro ogni sua riduzione economicistica, la rifondazione deve riconoscere apertamente la specificità dell’oppressione femminile, che per le donne proletarie si somma allo sfruttamento di classe. Un’oppressione che, attraverso la schiavitù domestica, è organicamente funzionale alla riproduzione capitalistica.

Al tempo stesso la rifondazione è chiamata a criticare e respingere le teorie idealistiche oggi presenti in una parte rilevante del pensiero femminista che concepiscono l’oppressione femminile come fatto dovuto all’imposizione da parte dell’uomo sulla donna del proprio codice simbolico. Questa tesi, che rimuove l’origine storica (comunque complessa) dell’oppressione femminile per attribuirla ad una radice in ultima analisi biologica, spesso riduce la liberazione della donna ad una rivoluzione simbolica e culturale (la riappropriazione del proprio linguaggio rimosso) separandola di fatto da un contenuto sociale, e prescindendo in tal modo da un terreno concreto di lotta.

Al contrario, il rilancio di una prospettiva di liberazione della donna è inseparabile da una lettura di classe del mondo contemporaneo. La crisi congiunta di capitalismo e riformismo si scarica con raddoppiata violenza sulla condizione delle donne. Nei paesi imperialisti disoccupazione di massa, precariato, flessibilità, privatizzazione dei servizi, riguardano spesso prima di tutto la popolazione femminile. Nei Paesi dell'Europa orientale, sottoposti all'introduzione brutale delle leggi del mercato, si registra un drastico abbassamento del livello di vita delle donne. Nei Paesi del cosiddetto Terzo e Quarto mondo, guerre e miseria provocate e fomentate dalle politiche neocolonialiste dell'occidente, aggravate dal fondamentalismo religioso dei Paesi a regime teocratico (Iran e Afghanistan…) rendono la condizione della donna letteralmente disumana. Le donne immigrate in particolare rappresentano internazionalmente l'anello più debole della catena dell'oppressione femminile. Ovunque l’arretramento del movimento operaio trascina con sé conquiste sociali e democratiche delle donne, strappate nella precedente fase di ascesa. E la distruzione di tali conquiste ha esteso e acuito l’oppressione femminile nella sua stessa specificità.

Non a caso oggi, mentre procede lo smantellamento dei sistemi pubblici di wellfare, conosce un forte rilancio l’ideologia familistica che esalta la “naturale” vocazione femminile per il lavoro di cura, allo scopo di scaricare di nuovo sulle donne il peso delle persone inferme, anziane, disabili, ecc. di cui si vuole sgravare il bilancio pubblico e in ultima analisi l’impresa.

Proprio per queste molteplici ragioni la svolta d’epoca di fine secolo rilancia lo stretto vincolo tra liberazione delle donne e alternativa anticapitalistica.

La ripresa di un forte movimento di liberazione della donna su scala internazionale, che intrecci rivendicazioni democratiche e di genere e lotta all’oppressione sociale, è una componente decisiva del rilancio di una prospettiva socialista. Al tempo stesso solo una prospettiva socialista, che spezzi il dominio del capitale nel mondo, può creare le condizioni necessarie, non sufficienti, per un’effettiva liberazione delle donne dalla loro specifica oppressione. Per questo liberazione della donna e lotta di classe sono inscindibili nell'ottica della prospettiva rivoluzionaria.

Duplice è allora il compito della Rifondazione: sviluppare nel movimento operaio la coscienza dell'essenzialità della liberazione della donna contrastando ogni forma di pregiudizio; sviluppare nel movimento delle donne la consapevolezza della centralità della lotta di classe e del movimento operaio come riferimento strategico per la propria liberazione: promuovendo in questa prospettiva il massimo impegno nella lotta quotidiana delle donne per la difesa e l’ampliamento dei propri diritti sociali e di genere.


Tesi 14 - INTERNAZIONALE COMUNISTA
La rifondazione comunista si presenta più che mai come necessità internazionale: come rifondazione di un'internazionale comunista basata sul programma del marxismo rivoluzionario, capace di raggruppare su questo programma tutte le organizzazioni e correnti rivoluzionarie del movimento operaio e antimperialista del mondo.

L'approfondirsi della crisi sociale e politica mondiale e l'attualità storica della prospettiva socialista quale unica risposta reale e progressiva; lo scarto ampio tra le potenzialità anticapitaliste inscritte nella ripresa dei movimenti e i limiti della loro coscienza politica, ripropongono oggi più che mai come questione centrale la prospettiva della rifondazione di un'internazionale comunista rivoluzionaria: quale strumento indispensabile di direzione alternativa, di sviluppo della coscienza politica di massa, di ricomposizione anticapitalistica dell'avanguardia.

Il movimento marxista si è sempre concepito come movimento internazionale non solo sul piano della prospettiva strategica ma anche sul piano organizzativo. Proprio il carattere internazionale del programma comunista fondava necessariamente il carattere internazionale del partito dei comunisti. Già il Manifesto di Marx ed Engels del 1848 fu redatto quale piattaforma internazionale di un'associazione internazionale di lavoratori (Lega dei Comunisti). Così il carattere internazionale del partito fu riaffermato con la I Internazionale (1864-1876) e con la II Internazionale (nata nel 1889). La deriva riformista di quest'ultima, culminata nell'appoggio ai crediti di guerra da parte della sua maggioranza (1914), fu contrastata dalla sinistra rivoluzionaria dell'Internazionale (guidata da Lenin, Trotsky, Luxemburg, Liebnecht) che già nel 1915 lanciò la prospettiva di una nuova internazionale rivoluzionaria: quella Terza Internazionale comunista che sarà formalmente costituita dopo la vittoria della rivoluzione russa (salutata da Lenin come "iniziò della rivoluzione mondiale").

Lo stalinismo ruppe radicalmente con la tradizione internazionale del marxismo rivoluzionario: con la sua tradizione programmatica e, quindi, con la sua tradizione organizzativa. A partire dall'inedita teoria antimarxista del "socialismo in un solo Paese" -espressione ideologica degli interessi di un nuovo strato sociale burocratico- lo stalinismo condusse l'Internazionale prima alla collaborazione di classe e di governo con le "borghesie progressiste" (i "fronti popolari"), poi al suo scioglimento formale nel 1943. La rappresentazione dello stalinismo come una sorta di fondamentalismo dogmatico marxista -rappresentazione prevalente nella maggioranza uscente del PRC- si rivela dunque, anche da questo versante, l'esatto capovolgimento della verità storica.

Oggi non c'è rottura vera e profonda con lo stalinismo senza recuperare la prospettiva dell'internazionale comunista come partito mondiale della classe lavoratrice. Il rifiuto di assumere questa prospettiva, persino come terreno di discussione, ha rappresentato e rappresenta un errore profondo della maggioranza dirigente del PRC. Sia che il rifiuto muova da culture di tipo "campista", che assumono come asse di prospettiva internazionale l'alleanza inter-statuale "antimperialista" tra Russia, Cina e India, prospettiva del tutto priva di una base di classe e radicalmente smentita dalla presente guerra. Sia che il rifiuto muova -come prevalentemente avviene- dalla sovrapposizione di vecchie posizioni della socialdemocrazia di sinistra (i "governi riformatori") con vecchie suggestioni della "nuova sinistra" antileninista, così da combinare l'enfasi movimentista con il sostegno al governo Jospin.

In realtà solo una svolta strategica e programmatica del PRC può recuperare la prospettiva dell'internazionale: una prospettiva che è parte ineliminabile della rifondazione. L'internazionale per cui lavorare non può che essere un raggruppamento ampio e democratico ma su chiare basi politiche. Come affermava Lenin: "senza teoria rivoluzionaria non c'è movimento rivoluzionario". Un'internazionale comunista non potrà quindi che basarsi sulla teoria e sulle posizioni programmatiche del marxismo rivoluzionario, posizioni sostenute in particolare nel loro sviluppo storico, dai grandi teorici del marxismo: Marx, Engels, Lenin, Trotsky, Luxemburg e, in Italia, Gramsci. Posizioni teoriche e programmatiche che vanno ovviamente sempre aggiornate sulla base dell'evoluzione storica, ma come dichiarava Gramsci "sulle loro proprie basi" e non contro di esse.

La difficoltà della rifondazione di un'internazionale rivoluzionaria su base ampia è stata documentata dall'esperienza storica di decenni. Ma questa difficoltà non deve costituire una remora bensì uno stimolo a perseguire tale prospettiva, tanto più nel contesto storico nuovo che si dischiude, certo complesso ma anche ricco di nuove potenzialità.
Dopo il crollo dell'URSS vasti processi di ricomposizione investono le rappresentanze politiche del movimento operaio. Le vecchie direzioni del movimento operaio e antimperialista hanno fatto completa bancarotta, documentata una volta di più dal dramma della guerra. La crescente ribellione delle classi subalterne e dei giovani del mondo contro l'attuale ordine internazionale pone tanto più oggi l'esigenza di un punto di riferimento rivoluzionario. Al "capitale globale" può e deve contrapporsi il partito globale della classe operaia e della sua avanguardia.
Il PRC deve dunque avanzare al più presto una proposta di discussione organizzata finalizzata al raggruppamento internazionale, sulle basi indicate, dell'insieme delle organizzazioni e correnti rivoluzionarie del movimento operaio ed antimperialista del mondo.


Tesi 15 - IMPERIALISMO ITALIANO
Il capitalismo italiano ha carattere imperialistico. Negli anni Novanta la transizione alla Seconda Repubblica e l'integrazione nell'imperialismo europeo hanno trainato l'allargamento delle sue basi materiali e una sua più forte proiezione internazionale.

Il capitalismo italiano da molto tempo non solo non rappresenta più un “capitalismo straccione” ma partecipa al consesso dei Paesi dominanti su scala mondiale e quindi alla spartizione di materie prime, zone di influenza, aree di dominio. In questo quadro le pressioni della crisi capitalistica internazionale, il crollo dell'URSS, lo sviluppo del polo imperialistico europeo hanno esercitato un effetto decisivo sulla crisi della I Repubblica a partire dal ‘92. Da un lato, la crisi capitalistica internazionale e il rilancio delle contraddizioni interimperialistiche hanno indotto l’imperialismo italiano ad affrontare il fardello strutturale dei propri “ritardi” e “distorsioni”. Dall’altro lato, il crollo dell'URSS ha dissolto, parallelamente, il vero fondamento storico della discriminazione borghese verso il vecchio gruppo dirigente del PCI in ordine al suo possibile accesso al governo: perciò stesso ha consentito al capitale finanziario un distacco dalle proprie vecchie rappresentanze della I Repubblica, e l’avvio di una profonda ricomposizione dei propri assetti politici e istituzionali.

Sul piano economico la grande borghesia ha consolidato, in misura rilevante, nel decennio trascorso, le proprie basi materiali. Il processo di privatizzazione di settori strategici dell’economia come il credito, l’energia e le telecomunicazioni, la ristrutturazione e concentrazione del sistema del credito, concorrono a rafforzare la base del capitale finanziario e il peso specifico dei grandi monopoli, principali beneficiari delle privatizzazioni. Al momento del varo della “moneta unica” europea l’imperialismo italiano si presenta con un peso strutturale sensibilmente accresciuto, cui corrisponde, non a caso, un’accresciuta proiezione nella politica estera.

Parallelamente, la borghesia italiana ha dovuto affrontare il problema dell'impatto sociale delle politiche indotte dal suo ulteriore salto imperialistico. L’impoverimento materiale e la frammentazione di vasti settori di classe; le dinamiche di proletarizzazione di strati inferiori della piccola borghesia; il precipitare delle condizioni sociali di vaste masse del Mezzogiorno; configurano, agli occhi della borghesia, la massa critica potenziale di una pericolosa esplosione sociale. Peraltro la divaricazione che investe la piccola e media borghesia nel quadro dell’integrazione europea, con l’emergere soprattutto al Nord-Est di un suo strato superiore arricchito, autonomistico e corporativo, produce elementi di contraddizione nuova nello stesso blocco sociale dominante.


Tesi 16 - ANNI NOVANTA E CENTROSINISTRA
Il centrosinistra non ha rappresentato semplicemente una cattiva politica della "sinistra italiana" ma ha costituito un'espressione politica dell'imperialismo italiano e il suo investimento strategico degli anni Novanta. L'insieme dei governi di centrosinistra ha configurato il più pesante attacco sociale alle classi subalterne degli ultimi trent'anni, organizzando così la rivincita di Berlusconi. La coalizione col centro borghese ha così condannato il movimento operaio a una pesante sconfitta sociale e politica.

Negli anni Novanta entro la scelta bipolare, il centrosinistra si è configurato come riferimento privilegiato delle grandi famiglie capitalistiche: ciò in funzione della pacifica subordinazione del movimento operaio alle compatibilità della crisi e dell'integrazione europea. Il personale politico di centrosinistra seppur diversamente organizzato era già riferimento essenziale della borghesia italiana nel ‘92 e nel ‘93 allorché i governi Amato e Ciampi iniziarono la “transizione” italiana. La sconfitta del polo dei progressisti e la vittoria delle destre nel 94 rappresentò un momento di contraddizione che indusse la borghesia per un breve periodo a verificare sul campo la carta Berlusconi. Ma anche in quel breve passaggio il rapporto del capitale finanziario con le destre fu di utilizzo strumentale, non di riferimento strategico. E proprio la sconfitta strategica del primo governo Berlusconi - rivelatosi incapace di gestire sia una concertazione stabile, sia uno scontro risolutivo vincente - ha riattivato l’investimento borghese nel centrosinistra: nel governo Prodi, nel governo D’Alema, nel governo Amato.

Il centrosinistra non ha dunque rappresentato semplicemente una cattiva politica del movimento operaio e della "sinistra italiana", ma un'espressione politica della grande borghesia. A sua volta l'apparato DS, come architrave del centrosinistra, ha costituito un tassello decisivo del disegno borghese degli anni Novanta: quale mezzo di arruolamento subalterno nel centrosinistra di una parte importante delle masse lavoratrici.
E' sbagliato affermare semplicemente che "il centrosinistra ha fallito". Dal punto di vista della borghesia i governi di centrosinistra hanno tutti rappresentato eccellenti comitati d'affari. Sia in ordine alle politiche di sostegno economico diretto alle grandi imprese (incentivazioni, rottamazioni…). Sia in ordine ai loro interessi strutturali e strategici in campo nazionale e internazionale (precarizzazione del lavoro, privatizzazioni…). Sia in ordine, in particolare, alla preservazione di una straordinaria pace sociale.
E' vero invece che proprio l'organicità delle politiche borghesi del centrosinistra ha minato progressivamente le sue basi politiche e sociali.
Sul piano politico, proprio l'evoluzione liberale della socialdemocrazia DS e la crescente ramificazione delle sue relazioni dirette coi poteri forti, ha acuito progressivamente la concorrenza interna tra apparato DS e centro borghese tradizionale dell'Ulivo: la lotta per l'egemonia di un costituendo "partito democratico" quale rappresentanza centrale con base di massa della borghesia italiana ha rappresentato un elemento di instabilità tellurica della coalizione.
Ma soprattutto sul piano sociale le politiche del centrosinistra hanno logorato progressivamente la base su cui si reggeva. Il blocco tra grande borghesia e burocrazia del movimento operaio organizzato si è rivelato incapace di egemonia nella società italiana. Da un lato ha amplificato gli spazi di fronda di settori organizzati di piccola e media borghesia industriale contro i cosiddetti privilegi delle grandi imprese e i favori particolari loro accordati dai governi dell'Ulivo o dalla burocrazia CGIL. Dall'altro lato la profonda demotivazione della base di massa del centrosinistra, prevalentemente concentrata nel lavoro dipendente ha prodotto fenomeni crescenti di passivizzazione politica, distacco, rifiuto.
La vittoria del Polo delle Libertà il 13 maggio è dunque la capitalizzazione della crisi del corso politico dominante di un decennio (del Polo progressista e del centrosinistra) e del suo blocco sociale. Proprio per questo la vittoria di Berlusconi e la nuova stagione politica che apre, ripropone una lezione antica, inscritta in tutta la vicenda del Novecento e nella stessa storia del movimento operaio italiano: ogni collaborazione di classe col centro borghese è fattore di sconfitta per i lavoratori e le lavoratrici. Sia dal punto di vista sociale e sindacale, sia dal punto di vista politico più generale. E' un fatto: l'alleanza col centro che doveva "battere la destra" le ha spianato la strada. Questa è la lezione del decennio. E' una lezione che accusa gli apparati dirigenti dei DS e dei sindacati come autentici organizzatori della sconfitta. Ma è una lezione che interroga inevitabilmente, su un piano diverso, anche il corso politico di dieci anni del nostro partito.


Tesi 17 - BILANCIO DI LINEA DEL PRC
Il ciclo lungo della politica del PRC, segnato dalla ricerca del condizionamento, pervasione, contaminazione prima del “polo progressista” poi del Centrosinistra, ha registrato un sostanziale insuccesso; sia dal punto di vista dell’interesse generale del movimento operaio, sia dal punto di vista della costruzione del nostro partito. E’ la verifica del fallimento nel quadro nazionale, di una politica riformista, e la misura della necessità di una svolta.

Dopo dieci anni della nostra storia un bilancio di fondo non è più rinviabile.
Il nostro partito, con la sua stessa nascita ha costituito sicuramente un importante argine ai processi di riflusso dei primi anni 90 e un fattore prezioso di ricomposizione politica di forze d’avanguardia. Il nostro partito ha resistito positivamente ai ripetuti tentativi di annientamento istituzionale che si sono susseguiti negli anni 90 (specie da parte dei vertici di D.S. e del Centrosinistra). Tuttora il PRC rappresenta, nell’attuale panorama politico, il riferimento naturale e prezioso di dinamiche di movimento, tra i lavoratori e i giovani, altrimenti prive di sponde, o comunque di riferimenti più consistenti e credibili.
Ma un bilancio serio ed onesto non può davvero ridursi a questo. Un partito comunista non può concepirsi come fine di se stesso ma come strumento di classe in funzione di un progetto di egemonia alternativa. E ciò chiama in causa inevitabilmente il bilancio di dieci anni dell'indirizzo politico prescelto.
Per dieci anni, in forme e in contesti diversi, la maggioranza dirigente del PRC ha costantemente respinto la proposta di costruzione del partito come forza strategicamente alternativa, contrapponendovi la scelta di fondo di una politica di pressione e condizionamento “riformatore” dell’apparato D.S. e degli schieramenti politici dell’alternanza borghese (prima il polo progressista, poi il centrosinistra).
Questa politica non ha avuto un'applicazione lineare ed anzi ha registrato lungo il suo corso svolte brusche e cambi repentini di collocazione parlamentare (dall’opposizione alla maggioranza di governo e dalla maggioranza di governo all’opposizione). Ma ha mantenuto costante la propria rotta strategica di fondo. Infatti ogni volta le stesse collocazioni di opposizione sono state finalizzate a riaprire il varco a ricomposizioni di governo (potenziali o reali) con lo schieramento dell'alternanza. Così è stato in occasione della formazione del polo progressista nella primavera del '94 attorno ad un programma elettorale comune di governo. Così è stato nel '95-'96 nel brusco passaggio dall’opposizione radicale al governo Dini alla realizzazione di una maggioranza di governo con Prodi e Dini. Così è stato, dopo lo strappo col governo Prodi: col tentativo prima di ricomporre la vecchia maggioranza di governo dopo una auspicata fase di “decantazione”; poi dopo il fallimento imprevisto di quel tentativo (e la precipitazione dello scontro con il governo D’Alema sulla guerra nei Balcani) con la realizzazione di 14 accordi regionali di governo (su 15) in occasione delle elezioni amministrative del 99, operazione di evidente proiezione politica nazionale ma distrutta dalla sconfitta clamorosa del Centrosinistra. Persino dopo il tramonto ormai inevitabile di quella prospettiva di ricomposizione, la scelta della non belligeranza verso il centrosinistra nelle elezioni politiche, e l'estensione delle collaborazioni locali di governo con l'Ulivo sancivano in forme diverse la continuità di fondo di un indirizzo strategico.

Questo indirizzo si è rivelato profondamente errato. Rivendicato in nome di un principio di “realismo” e di “concretezza” dei possibili risultati, esso non ha prodotto alcun risultato concreto e reale. La ricerca della contaminazione riformatrice prima del polo progressista, poi del Centrosinistra, sia dal governo che dall’opposizione, è stata smentita dalla deriva liberale D.S., dai legami di fondo del Centrosinistra con la borghesia italiana. Di più: quella ricerca si è convertita, entro un passaggio drammatico, in un risultato opposto: nella grave corresponsabilizzazione di governo del nostro partito per oltre metà della legislatura precedente nel momento più intenso della sua politica antipopolare: con gravi effetti non solo sulla condizione materiale dei lavoratori ma sulla stessa evoluzione dei rapporti di classe (calo verticale delle ore di sciopero e stabilizzazione della pace sociale). Peraltro la continuità della nostra collaborazione di governo nelle giunte locali di Regioni e grandi città ha riproposto su un piano diverso, la continuità di una nostra concertazione politica di privatizzazioni, riduzioni delle spese sociali, politiche di flessibilità che è del tutto contraddittoria col nostro ruolo nazionale di opposizione.
L’indirizzo prescelto ha mancato inoltre lo stesso obbiettivo di crescita del nostro partito. Rivendicato formalmente anche in funzione di un’espansione del consenso elettorale e del radicamento sociale del PRC, questo indirizzo ha mancato entrambi gli obiettivi. Dopo 10 anni il partito ha registrato un risultato elettorale obiettivamente inferiore a quello della sua nascita. E questo certo in anni difficili, ma anche sullo sfondo di un passaggio storico che ha visto la massima deriva e crisi dei DS, la massima esplosione della sua crisi politica e del suo insediamento organizzato. Lo spazio liberato a sinistra dei D.S. non è stato capitalizzato dal PRC. Gli stessi straordinari sorpassi realizzati nel '93 come “cuore dell’opposizione” nelle città operaie di Torino e Milano, misura di una grande potenzialità, sono stati successivamente dispersi dalla politica ondivaga degli anni seguenti. E il mancato sviluppo di un’egemonia alternativa nelle classi subalterne non ha rappresentato solamente un insuccesso del nostro partito, ma un fatto carico di conseguenze pesanti sull’intera situazione italiana: come la rivincita del centrodestra documenta.


Tesi 18 - SUL "GOVERNO DELLA SINISTRA PLURALE"
La prospettiva avanzata del governo della sinistra plurale sulla base di un programma riformatore come soluzione post-Berlusconi non solo nega la necessità di un bilancio ma ripropone, nella sua sostanza di fondo, la politica di 10 anni. Il fatto di perseguirla dal versante dei movimenti, non solo non muta la sua natura, ma rappresenta un danno profondo per i movimenti stessi e per il futuro delle loro ragioni.

La proposta strategica della sinistra plurale di governo rappresenta un errore profondo ed è gravida di grandi rischi per il nostro stesso partito. Dopo aver perseguito per dieci anni senza successo la contaminazione prima del polo progressista poi del Centrosinistra, non possiamo riproporre, come se nulla fosse accaduto, il medesimo indirizzo di fondo; se non ripercorrendo un sentiero già battuto e già fallito. Non solo in Italia ma nel mondo.

Sul piano nazionale l'esperienza della sinistra plurale è già stata vissuta dal nostro partito in occasione del blocco col Polo progressista del '94 (DS, Verdi, Rete di Orlando, PRC). Il programma testuale su cui si realizzò (v. Liberazione, 4/2/94) rivendicava entro "una competizione per il governo del Paese" "una presenza autorevole e solida dell'Italia sui mercati e nel contesto internazionale" e l'appello "a quelle forze del mondo imprenditoriale che hanno a cuore la crescita sociale, civile, democratica dell'Italia". Su questa base proponeva di "coniugare l'equità sociale con le ragioni dell'efficienza e del mercato" di "promuovere quando sia il caso le privatizzazioni", di operare il "risanamento del disavanzo che implicherà austerità" seppur con "l'impegno a garantire che i sacrifici siano ripartiti con giustizia". La vittoria elettorale di Berlusconi impedì la sperimentazione di questo programma di governo, preservando il PRC all'opposizione sino al '96. Ma quel programma rifletteva e riflette l'unico profilo possibile di una sinistra plurale di governo con l'apparato DS: quello che subordina gli interessi del movimento operaio alle esigenze del capitalismo italiano.

Sul piano internazionale l'esperienza in corso della sinistra plurale di governo in Francia (PS-PCF- Verdi) è stata ed è inequivocabile. Se il primo governo della sinistra plurale francese ('81-'83) sotto la guida di Mitterand aveva accompagnato austerità e sacrifici dei lavoratori col linguaggio formale della tradizione riformista, il governo Jospin ha accompagnato austerità e sacrifici col linguaggio liberale (temperato) delle privatizzazioni e della flessibilità. E' la riprova che nel quadro attuale della crisi capitalistica e della competizione globale, un governo di "sinistra plurale" non differisce, nella sostanza del suo indirizzo, da un ordinario governo borghese liberale. Anche per questo aver invocato dopo le ultime elezioni politiche un "Mitterand italiano", aver a lungo esaltato il governo Jospin (che "contesta l'intera logica della flessibilità e introduce direttamente nell'economia il parametro della difesa degli interessi dei lavoratori" come dichiara il segretario del PRC sull'editoriale di prima pagina del 29/9/99) ha rappresentato un errore profondo che è giusto riconoscere.

In Italia oltretutto la prospettiva della sinistra plurale di governo avrebbe oggi un profilo ancor più arretrato che in Francia o rispetto allo stesso Polo progressista del '94. A differenza del partito di Jospin, l’apparato D.S., nella sua larga maggioranza, ha rotto con il ruolo e funzione di socialdemocrazia per progettarsi come rappresentanza diretta della borghesia italiana, in concorrenza aperta con la Margherita e, su un altro versante, con Forza Italia. Una coalizione di “sinistra plurale” in Italia sarebbe dunque di fatto la riproposizione di un Centrosinistra.

Il fatto di perseguire la prospettiva del governo riformatore di sinistra plurale come sbocco dei movimenti e della loro azione “contaminante” non muta minimamente la valenza negativa della proposta. Anzi, per molti aspetti, l’aggrava. Invece di orientare il lavoro di massa in direzione dell'autonomia dei movimenti dal Centro borghese liberale, assume i movimenti come leva di pressione sull’apparato D.S. e dell'Ulivo. Invece di liberare il movimento e i movimenti da ogni illusione di poter contaminare i liberali, si promuove nel movimento quella stessa illusione. E’ l’esatto capovolgimento di una politica autonoma di classe. E soprattutto è un danno profondo al movimento e alle sue ragioni: perché nessuna delle ragioni di fondo dei movimenti di massa, sia dal versante operaio, sia dal versante antiglobalizzazione, potrebbe trovare soddisfazione in un governo borghese di sinistra plurale.

Per l'insieme di queste ragioni, quella prospettiva va apertamente ed esplicitamente respinta dal V Congresso del nostro partito.


Tesi 19 - POLO AUTONOMO DI CLASSE
Il V congresso del PRC assume come nuovo asse strategico della politica del partito lo sviluppo dell’indipendenza del movimento operaio da ogni forza della borghesia: ciò che significa l’autonomia strategica da ogni espressione vecchia e nuova del Centro borghese (Centrosinistra e/o apparato liberale di D.S.), la rottura con ogni ipotesi di governo di alternanza con tali forze, l’assunzione della prospettiva dell’alternativa anticapitalistica e di classe quale sbocco strategico dell’opposizione di massa e della ricomposizione nelle lotte del nuovo blocco storico

L’esperienza politica di 10 anni del nostro partito l’analisi di classe della situazione politica, la ripresa dei movimenti di massa, richiedono nel loro insieme, una svolta politica di fondo del nostro indirizzo: una svolta che assume come asse di fondo l’autonomia del movimento operaio e dei movimenti di massa da ogni forza della borghesia, e quindi la rivendicazione di un polo autonomo di classe, apertamente contrapposto alle classe dominanti e alle loro alternanti espressioni di governo (Centro destra e Centrosinistra). La politica del “polo autonomo di classe” non riguarda solamente la certezza e chiarezza di una collocazione strategica autonoma di opposizione del nostro partito rispetto ai due poli borghesi d’alternanza, ciò che pure ne rappresenta una condizione necessaria. Riguarda innanzitutto una linea di proposta tra le grandi masse che recupera un principio elementare del marxismo: la contrapposizione degli interessi dei lavoratori e , di tutti i soggetti di un blocco sociale alternativo agli interessi delle classi dominanti, e di tutte le loro rappresentanze politiche in funzione della prospettiva della rivoluzione sociale. La rottura col “Centro” in ogni sua espressione, vecchia o nuova, non è solo dunque un principio vincolante per il PRC, ma una rivendicazione fondamentale dei comunisti nei movimenti. Non solo non ha una valenza di autorecinzione settaria ma indica nell’autonomia del movimento operaio e dei movimenti di massa il terreno stesso della loro più larga unità di lotta contro la borghesia per l’alternativa anticapitalistica.
La proposta del polo autonomo di classe alternativo è tanto più attuale dopo la lunga stagione del centrosinistra: milioni di lavoratori e lavoratrici sono stati subordinati all'Ulivo nel momento stesso in cui questi costituiva il canale prescelto di rappresentanza della borghesia italiana. Milioni di lavoratori e lavoratrici hanno sperimentato il fallimento sociale e politico della collaborazione con la borghesia. La rivendicazione della rottura col Centro può dunque far leva su questa viva esperienza e aprirsi un ampio varco nella giovane generazione che rialza la testa.

Peraltro ogni giorno dimostra, anche dopo l’affermazione del governo di centrodestra, la relazione organica dell’Ulivo con le classi dominanti. La politica bypartisan verso Berlusconi, commissionata dai poteri forti della società italiana, la rivendicazione di una politica “più liberista” di quella praticata dal governo, su terreni strategici per l'accumulazione capitalistica (v. privatizzazioni); il voto a favore della guerra imperialista in Afghanistan accompagnata dall'assunzione del ministro FIAT Ruggiero come interlocutore privilegiato (v. vicenda Airbus) non indicano “errori” o “divergenze strategiche” con i comunisti: indicano la base materiale di interessi nella quale il centrosinistra affonda le proprie radici. Una base materiale di riferimento che non cambia col passaggio “all’opposizione”, ma che anzi resta l’ancoraggio indissolubile della prospettiva borghese cui "l’opposizione" viene finalizzata. Per questo la rottura con il centrosinistra rappresenta una permanente necessità di classe per l’insieme del movimento operaio e dei movimenti di massa.


Tesi 20 - CRISI E DERIVA DS
L'apparato burocratico DS, da sempre agenzia della classe dominante nel movimento operaio, ha oggi rotto nella sua maggioranza con la stessa funzione e ruolo di socialdemocrazia per avviare la mutazione del partito verso una forza liberale borghese in rappresentanza diretta di poteri forti della società. Questa evoluzione rafforza la necessità di un politica di polo autonomo di classe in alternativa ad ogni ipotesi di sinistra plurale. La crisi verticale del D.S. che a quella evoluzione si accompagna, crea uno spazio storico nuovo per lo sviluppo autonomo del partito comunista e di una sua egemonia alternativa.

I DS attraversano la crisi più profonda della loro storia politica. Questa crisi non nasce dalla gravità della sconfitta elettorale o dall'esito fallimentare della prima esperienza di governo. Nasce dal fatto che quella sconfitta si produce nel momento più delicato di un processo di mutazione storica dei DS: da partito socialdemocratico, strumento di controllo del movimento operaio per conto della borghesia, a partito democratico liberal borghese rappresentanza diretta di poteri forti della società.
La prolungata esperienza di governo dei DS nel corso degli anni Novanta è stata il volano di quel processo di mutazione. Sullo sfondo della crisi della Prima Repubblica, della crisi della rappresentanza politica centrale della borghesia italiana, dell'investimento strategico del grande capitale nel centrosinistra l'apparato burocratico DS ha conosciuto, a partire dal '95, una straordinaria moltiplicazione, ad ogni livello, delle proprie relazioni materiali con le classi dominanti. Una maggioranza larga della burocrazia dirigente del partito ha così assunto progressivamente come obiettivo strategico la propria trasformazione in rappresentanza politica centrale (con base di massa) del grande capitale in Italia. Il congresso del Lingotto ha simbolicamente coronato questo nuovo orizzonte liberale. E la rottura con la funzione di socialdemocrazia non si riduce a puro fatto politico-culturale ma si accompagna a mutamenti rilevanti circa la costituzione materiale del partito, le sue relazioni con le organizzazioni di massa, il suo rapporto con le dinamiche della lotta di classe e col suo stesso insediamento territoriale di massa. Ciò non significa la scomparsa di ogni eredità della socialdemocrazia (presenza nel quadro attivo del movimento operaio, rapporto con l'apparato sindacale, presenza all'interno dello stesso apparato DS di tendenze socialdemocratiche quali l'area di Socialismo 2000 e la Sinistra Ds). Significa che quelle presenze e funzioni, per quanto rilevanti, non sono più il baricentro del partito né la base materiale della relazione dei DS con la borghesia. L'aperto contrasto tra l'apparato DS e la burocrazia CGIL, la sostanziale marginalità del ruolo dei DS rispetto alle dinamiche dei nuovi movimenti di classe (metalmeccanici) e giovanili (antiglobalizzazione) sono un riflesso dello strappo compiuto. La vittoria congressuale larga di Fassino e D'Alema nella burocrazia del partito tanto più dopo il passaggio all'opposizione misura la consistenza delle basi materiali dello strappo. Peraltro tutto l'orientamento attuale dell'apparato DS, dal pronunciamento atlantista a sostegno della guerra fino all'apertura alla Confindustria sulla liberalizzazione dei licenziamenti resta attestato non solo sulla prospettiva dell'alternanza di governo ma sulla ricerca e preservazione delle relazioni materiali con la borghesia: una sorta di comitato ombra degli affari borghesi in attesa di chiamata. Pertanto la caratterizzazione dei DS come "sinistra moderata", da sempre improprio, è tanto più oggi totalmente errata.
Ma se è chiaro il distacco dalla socialdemocrazia incerto è il lido d'approdo dei DS. La perdita della sponda di governo, lo sviluppo di una nuova temibile concorrenza sul versante del centro borghese (Margherita), i fenomeni di lacerazione interni allo stesso apparato liberale del partito, pongono nel loro insieme ostacoli nuovi sul terreno della continuità del progetto borghese liberale. La ricomposizione del blocco industriale attorno al governo Berlusconi è un ulteriore fattore di crisi del progetto dalemiano. Tutto ciò non produce un ripiegamento di tale progetto (reso difficilmente reversibile dalle sue stesse radici nel partito) ma certo lo espone ad un più alto rischio di fallimento sullo stesso versante borghese. Nel mentre il suo ostinato perseguimento moltiplica i fenomeni di scollamento del vecchio insediamento sociale dei DS.

La deriva DS verso il liberalismo borghese, la crisi verticale che a questa deriva si accompagna, misurano congiuntamente la necessità della politica di un polo autonomo di classe e un nuovo spazio storico per la sua costruzione.
Larghi settori di massa vivono oggi drammaticamente non solo il tradimento delle proprie direzioni ma il processo di crisi e dissoluzione della loro vecchia rappresentanza politica. La stessa ripresa dei movimenti sul versante operaio e giovanile, nel mentre coinvolge forze crescenti del popolo della sinistra ne accentua lo sbandamento politico e moltiplica nuove domande di riferimento. Il nostro partito può e deve rispondere a questa domanda nel segno della più ampia apertura di massa, con la proposta del polo autonomo di classe. Questa proposta offre un riferimento alternativo alla crisi di rappresentanza del movimento operaio, indicando ad ampi settori di massa una via d'uscita da quella crisi: quello della rottura con l'apparato liberale DS e dell'Ulivo in funzione dell'autonoma unità di lotta contro il governo Berlusconi e la borghesia italiana. In questo senso la rivendicazione del polo autonomo di classe sul terreno anticapitalistico rappresenta uno strumento di costruzione dell'egemonia alternativa dei comunisti tra le classi subalterne e nei loro movimenti.


Tesi 21 - PRC E GIUNTE LOCALI
Lo sviluppo della politica del polo autonomo di classe e del blocco sociale alternativo implica la chiarezza e coerenza di una collocazione del PRC all’opposizione, anche sul piano locale; da qui il necessario superamento delle collaborazioni locali di governo tra PRC e Centrosinistra a partire dalle Regioni e dalle grandi città. Una svolta tanto più attuale sullo sfondo del sostegno dell’Ulivo alla guerra e dello sviluppo del federalismo istituzionale liberista.

Lungo l’itinerario di dieci anni il nostro partito ha realizzato e perseguito come costante la linea della collaborazione di governo col Centrosinistra sul terreno delle amministrazioni locali. E’ una linea che da un lato ha mancato l’obiettivo dichiarato di “battere le destre” come rivela la disfatta di tante coalizioni di governo tra Ulivo e PRC nelle elezioni amministrative del 16 aprile 2000 (a partire dalla Regione Lazio). Dall’altro lato -e soprattutto- ha corresponsabilizzato il PRC nella gestione e concertazione locale delle politiche liberiste in aperta contraddizione con le ragioni sociali del nostro partito. La nuova politica di polo autonomo di classe anticapitalistico richiede dunque una svolta profonda della nostra politica locale.

Il Centrosinistra a livello locale non è altra cosa dal Centrosinistra nazionale: linee programmatiche, riferimenti sociali, metodi di governo sono inevitabilmente omogenei. Spesso anzi negli anni 90 proprio le amministrazioni locali dell’Ulivo hanno rappresentato laboratori d’”avanguardia” nella sperimentazione delle politiche liberiste.
L’avvento del governo Berlusconi col passaggio dell’Ulivo all’”opposizione” non ha minimamente mutato il profilo delle scelte locali del Centrosinistra. Proprio il tentativo dell'Ulivo di riaccreditarsi come carta di ricambio per la borghesia sul piano nazionale passa anche per l’uso delle proprie amministrazioni locali, spesso esibite come modello di efficienza manageriale a fronte delle presunte incertezze del Polo (v. privatizzazioni). Più in generale le giunte locali diventano più che mai, proprio oggi, uno strumento importante di consolidamento o ritessitura delle relazioni dell’Ulivo coi poteri forti della società italiana.

Lo sviluppo del federalismo istituzionale liberista, varato dall’Ulivo e ulteriormente aggravato dal nuovo governo Berlusconi, concorre a rafforzare ed estendere gli indirizzi liberisti delle amministrazioni locali. Il vecchio argomento della distinzione di piano tra politiche nazionali e politiche locali (da sempre infondato), è oggi demolito alla radice dalla nuova realtà. Il trasferimento ai governi regionali di larga parte delle voci e materie relative al così detto stato sociale farà degli esecutivi regionali di Centrosinistra i nuovi agenti della concertazione nazionale col governo delle destre e al tempo stesso una prefigurazione sperimentale sempre più ampia dell’alternanza nazionale di governo.

Peraltro la dislocazione diffusa dei governi locali dell’Ulivo a sostegno delle scelte di guerra congiunte dell’Ulivo e del Polo sono l’ulteriore e più clamorosa riprova dell’omogeneo carattere di fondo, nazionale e locale, del liberalismo borghese.

Il nostro partito è chiamato anche su questo terreno a una svolta netta. Tanto più oggi il PRC non può assumere la centralità dell’opposizione alla guerra dichiarando che con la guerra “nulla sarà come prima” e poi continuare a sorreggere “come prima” governi regionali schierati con la guerra. Il PRC non può assumere la centralità del movimento dichiarando che dopo Genova nulla sarà come prima e poi continuare a sostenere come prima giunte contrapposte o latitanti verso istanze del movimento (a partire dalla giunta di Genova)

E’ necessario un coerente orientamento di fondo: la collocazione dei comunisti all’opposizione anche sul piano locale a partire dalle regioni e dalle grandi città.
Diversa è ovviamente la situazione -ad oggi eccezionale- in cui i comunisti fossero parte essenziale di giunte locali che si pongono realmente sul terreno dell’alternativa anticapitalistica: ove diventa fondamentale un’azione di opposizione al governo nazionale fortemente legato agli interessi di classe fuori da ogni falsa neutralità istituzionale.


Tesi 22 - PER LA CACCIATA DEL GOVERNO BERLUSCONI
Il governo Berlusconi si configura come governo reazionario, che tende a risolvere le sue contraddizioni in un nuovo attacco generale al movimento operaio. L’opposizione del nostro partito al governo Berlusconi-Bossi-Fini non può avere carattere ordinario, ma può e deve porre apertamente l’obiettivo della sua cacciata sull’onda di una grande mobilitazione operaia e popolare. Assumendo l’obiettivo della cacciata del governo non come fine a sé ma come leva dell’alternativa anticapitalistica di classe.

Il governo del Polo delle Libertà ha un carattere diverso dal primo esecutivo Berlusconi ('94). Sul piano politico registra un salto notevolissimo dell'insediamento di Forza Italia, un rapporto più stabile con la Lega, un vasto raccordo con amministrazione locali omogenee. Sul piano sociale conosce, a differenza del 94, l'appoggio della grande industria: che pur avendo sostenuto il centrosinistra per tutta la precedente legislatura, pur avendo lavorato per la riconferma dell’Ulivo, ha scelto di investire, dopo l’esito del voto, nel nuovo governo Berlusconi attraverso l’ingresso diretto di propri esponenti (Ruggiero): consapevoli della maggior forza del nuovo governo e quindi dell’opportunità di utilizzarlo, ma con la precisa volontà di porlo sotto la tutela del proprio personale fiduciario. Dal canto suo il governo lavora a conciliare la difesa degli interessi affaristici e familistici della Fininvest e di ambienti malavitosi del capitale con la rappresentanza generale dell'interesse borghese.

Il programma del nuovo esecutivo ha un carattere obiettivamente reazionario: esso estende e sviluppa in forma concentrata le linee di governo della legislatura precedente, sia sul piano sociale, sia sul piano istituzionale. Sul piano della politica estera, il più stretto fiancheggiamento della politica americana convive, non senza contraddizioni, con la continuità della collocazione strategica nell’imperialismo europeo (presidiata in particolare dalla FIAT e dal suo ministro Ruggiero).
La linea di gestione di questo programma generale non ha ancora conosciuto un assestamento stabile, oscillando tra la ricerca di un rapporto concertativo con le organizzazioni del movimento operaio e tentativi di affondo diretto. Tuttavia pesa l’effetto di trascinamento di una contraddizione obiettiva: da un lato la necessità politica di finanziare un blocco di interessi tanto esteso quanto contraddittorio e costoso; dall’altro lato la necessità di farlo entro le compatibilità del patto di stabilità europeo e sullo sfondo della crisi economica internazionale. Questa contraddizione alimenta tensioni crescenti nello stesso blocco sociale berlusconiano (come tra industria e Confcommercio in fatto di politiche fiscali). Ma proprio per questo spinge il governo lungo la china dello scontro sociale col blocco avversario: perché solo l’affondo contro il lavoro dipendente può contenere le spinte centrifughe del blocco dominante e allargare i margini di una mediazione al suo interno. Peraltro la paralisi subalterna della CGIL e la crisi e complicità del centrosinistra incoraggiano l’offensiva sociale. E il contesto internazionale di guerra, con i suoi possibili effetti diversivi, ha suggerito al governo una anticipazione dei tempi d’attacco. Non a caso l’affondo su contrattazione, sistema pensionistico, sanità e scuola è già iniziato, culminando nell’attacco all’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori: e tenderà a combinarsi con nuove politiche di restrizioni antidemocratiche, nel campo dei diritti sindacali e nella gestione dell’ordine pubblico. L’aperto cavalcamento da parte di AN delle spinte più reazionarie dell’apparato repressivo dello Stato come è emerso dai fatti di Genova, è la misura e l’anticipazione di una tendenza profonda che è incoraggiata dalla stessa composizione del nuovo governo. In conclusione: più si stabilizza l’attuale governo più esso tenderà a precipitare “a destra” le sue contraddizioni politiche e sociali.

L'obiettivo della cacciata del governo Berlusconi risponde dunque a un interesse generale del movimento operaio e di tutto il blocco sociale alternativo. Risponde all'interesse comune di liberare il campo da un'obiettiva minaccia reazionaria. Assumere questa parola d'ordine non significa nutrire illusioni o avanzare previsioni. La maggior forza del secondo governo Berlusconi, i colpi subiti dal movimento operaio nella legislatura precedente, le stesse dinamiche internazionali concorrono a favorire la tenuta dell'esecutivo. E tuttavia un partito comunista non può determinare livello e obiettivi della propria proposta di opposizione in base alla constatazione delle difficoltà di partenza. Può e deve assumere come base di riferimento le necessità del movimento operaio e agire come fattore attivo di controtendenza.
Peraltro, nonostante le difficoltà, vasti sono gli spazi per la costruzione di un'opposizione radicale di massa al governo delle destre. Nonostante il suo più forte insediamento, il governo Berlusconi non è nato sull'onda di un'espansione del consenso nella società italiana, ma sullo sfondo di un arretramento della coalizione delle destre rispetto al '94 e al '96. Parallelamente, nonostante i colpi subiti si moltiplicano nell'ultima fase i segni di ripresa del movimento operaio a partire dalla grande mobilitazione dei metalmeccanici con l'affacciarsi sul campo di una nuova generazione operaia. E questa ripresa di classe, seppur fragile ancora, si combina a sua volta con la continuità e lo sviluppo di un movimento antiglobalizzazione, prevalentemente giovanile, che ha acquisito in Italia un carattere di massa più ampio che in altri Paesi europei. Inoltre, in particolare a ridosso dei fatti di Genova, si è sviluppato un processo di attiva sensibilizzazione antigovernativa di settori rilevanti di popolo della sinistra, a sostegno del movimento antiglobalizzazione e richiamati da una sincera preoccupazione democratica (v. le manifestazioni del 24 luglio). Tutti questi fattori non innescano di per sé meccanicamente l'opposizione di massa al governo, ma misurano un potenziale di controffensiva al suo programma reazionario che si appoggia su una base sociale e politica più ampia che in passato. Il nostro partito ha il compito di raccogliere e sviluppare queste potenzialità, ricomponendole attorno a un programma e a un obiettivo di sbocco unificante.
Per questo, tanto più oggi, non possiamo attestarci sulla routine dell'opposizione parlamentare combinata con la lode della spontaneità dei movimenti. Ma dobbiamo favorire entro l'esperienza viva dei movimenti, le condizioni di un'esplosione sociale concentrata contro le classi dominanti e il loro governo. Solo un'esplosione sociale concentrata può ribaltare i rapporti di forza tra le classi e aprire il varco dell'alternativa anticapitalistica. E solo un'alternativa anticapitalistica può rispondere realmente alle ragioni di fondo delle classi subalterne e delle loro lotte. La rivendicazione della cacciata del governo Berlusconi può e deve essere interna alla prospettiva anticapitalistica, come una delle leve della sua maturazione. Per questo essa va posta apertamente all'interno dei movimenti, senza forzature "politiciste" ma senza autocensure, in un rapporto vivo con la dinamica obiettiva delle loro lotte.


Tesi 23 - OPPOSIZIONE DI CLASSE A BERLUSCONI E VERTENZA GENERALE
La classe operaia e il mondo del lavoro è il soggetto centrale dell'opposizione a Berlusconi e la leva del suo possibile ribaltamento. Ma alla condizione di ricomporre nella lotta, sul terreno di una vertenza generale unificante, un proprio polo di classe indipendente, alternativo al centrosinistra liberale.

L'esperienza stessa degli anni Novanta reca un insegnamento prezioso per i comunisti e per il movimento operaio italiano. Solo il movimento operaio, con la sua azione di classe concentrata, è stato capace di arrestare l'ascesa di Berlusconi, incrinare il suo blocco sociale, porre le condizioni della sua caduta: è l'esperienza dell'autunno '94. Questa lezione va recuperata alla memoria di vaste masse e assunta come bussola di una nostra nuova politica di fronte al secondo governo delle destre.

La ricomposizione di un movimento unitario di lotta della classe lavoratrice non ha solo valenza sindacale ma una valenza politica generale. Per questo la proposta di una vertenza generale unificante del mondo del lavoro e dei disoccupati può e deve costituire l'asse immediato di intervento del nostro partito sul terreno del rilancio di un'azione di classe indipendente. Non si tratta di elencare in modo ordinario gli obiettivi della nostra opposizione di partito. Si tratta di selezionare un insieme combinato di rivendicazioni per lo sviluppo dell'opposizione di massa, per una sua espressione radicale e concentrata, per la riunificazione in essa del blocco sociale alternativo. La proposta di una vertenza generale del mondo del lavoro e dei disoccupati, nella prospettiva dello sciopero generale contro governo e padronato, risponde tanto più oggi a questa necessità.
La rivendicazione di un forte aumento salariale unificante per tutto il lavoro dipendente è tanto più oggi in diretta contrapposizione alla politica di attacco alla contrattazione nazionale promossa dal nuovo governo. La rivendicazione dell'abolizione del "Pacchetto Treu" e di ogni forma di lavoro precario (a partire dall'assunzione a tempo indeterminato di tutti i precari attuali), cozza frontalmente più che mai con la linea strategica di frantumazione del lavoro dipendente. La richiesta del salario minimo garantito intercategoriale (quantificabile in 1000 Euro al netto di ogni trattenuta, punto di riferimento anche per le pensioni dei lavoratori) per l'insieme del lavoro dipendente si contrappone tanto più oggi alla politica di regionalizzazione salariale incorporata al federalismo liberista. La rivendicazione del riconoscimento ed estensione dei diritti sindacali a tutti i lavoratori subordinati, indipendentemente dal tipo di contratto e dalla dimensione dell'impresa, è in aperta collisione con i programmi congiunti di Confindustria e governo, a partire dall'attacco all'articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori. La rivendicazione di un vero salario garantito per i disoccupati e i giovani in cerca di prima occupazione (quantificabile nell’80% del salario minimo intercategoriale o di quello contrattuale precedentemente percepito), finanziato in primo luogo con l’abolizione dei trasferimenti pubblici alle imprese, fuori da ogni logica di compromesso col lavoro "minimo" cioè precario, contrasta con le politiche di precarizzazione dilagante e indica un'arma di resistenza al ricatto della scelta tra disoccupazione e supersfruttamento. La riduzione generalizzata dell’orario di lavoro a parità di salario senza flessibilità e annualizzazione, con l’abolizione dello straordinario, indica l’unica via per una lotta efficace contro la disoccupazione di massa. La rivendicazione di una tassazione progressiva di grandi rendite, profitti, patrimoni ("paghi chi non ha mai pagato") come fonte di ampliamento e riqualificazione della spesa sociale (a partire dalla sanità e dalla scuola) può e deve contrapporsi alla linea governativa di detassazione dei profitti pagata dalla distruzione dello stato sociale.
Questa piattaforma rivendicativa immediata non va considerata come piattaforma chiusa, o come piattaforma sostitutiva delle specifiche rivendicazioni di settore e di movimento. Ma va assunta nella sua logica di fondo di piattaforma unificante cui ricondurre l'intervento di massa dei comunisti: nei movimenti, sul territorio, nelle organizzazioni di massa. La sua funzione è di far leva sulla piattaforma reazionaria di padronato e governo per contrapporvi la radicalità speculare di una piattaforma di classe alternativa. E di far leva su una piattaforma di classe alternativa per unire attorno alla classe lavoratrice tutti i settori e frammenti delle masse subalterne: al di là di una pura logica sindacale, e contro l'attuale dinamica di frantumazione.
In questo quadro e su questo terreno il PRC avanza la proposta più generale del fronte unico di classe contro il governo Berlusconi e il padronato. Il suo significato è semplice: se il governo ricompone oggi attorno a sé l'unità d'azione della borghesia, occorre realizzare la più ampia unità d'azione dei lavoratori e delle lavoratrici contro il governo e il blocco di interessi che lo sostiene. Si tratta di rivendicare la più ampia unità di lotta dei lavoratori, al di là di ogni barriera politica e sindacale, favorendo ovunque possibile la convergenza nell'azione su un comune programma. Più in generale va rivolto un appello a tutte le forze e tendenze che si richiamano al movimento operaio perché convergano nell'azione attorno a un programma di classe indipendente, in aperta rottura con le forze del centro borghese. Se la subordinazione del movimento operaio al centro borghese ha preparato in cinque anni la vittoria di Berlusconi, solo la rottura col centro borghese può consentire al movimento operaio di cacciare Berlusconi. La proposta incalzante di unità d'azione del movimento operaio contro il governo va quindi apertamente contrapposta ad ogni proposta frontista con le forze borghesi. La lotta per l'egemonia di classe nell'opposizione al governo delle destre in alternativa al centrosinistra borghese, definisce esattamente il nuovo campo di battaglia dei comunisti.
 
Tesi 24 - RIFONDAZIONE SINDACALE
E’ necessario sviluppare una battaglia organizzata classista sia nella Cgil che nel sindacalismo di base extraconfederale nella prospettiva della “Costituente di un sindacato classista, unitario, confederale, democratico, di massa". E’ necessario al contempo la lotta per lo sviluppo di strutture di autorganizzazione di massa (dai coordinamenti dei delegati ai comitati di lotta e di sciopero, ai consigli).

E’ necessario realizzare una svolta profonda della nostra politica sindacale. Essenziale è innanzitutto un giudizio inequivoco sulla natura delle burocrazie sindacali, vere agenzie della classe dominante all’interno del movimento operaio. La politica di concertazione dei gruppi dirigenti confederali e segnatamente della Cgil non rappresenta semplicemente una “politica sbagliata” per quanto grave. Riflette la natura profonda degli apparati burocratici del sindacato: un “ceto politico”, e una corrispondente struttura, la cui azione permette il perpetuarsi del dominio di classe del capitale.
Il primo dovere del nostro partito è quindi quello di superare l’ottica sino ad ora perseguita di “spostare a sinistra l’asse della Cgil”. All’opposto il PRC è chiamato ad assumere come nuovo asse della propria politica sindacale una lotta aperta per cacciare la burocrazia dal movimento sindacale, a partire da un giudizio di “irriformabilità” delle strutture.
Ciò non esclude il lavoro dei comunisti nelle organizzazioni tradizionali e segnatamente nella Cgil. Ma certo implica il completo abbandono di ogni logica di pressione, fosse pure radicale, sulle burocrazie dirigenti, e lo sviluppo di un’aperta opposizione di classe capace di sfidare le “regole” dell’apparato sindacale e di configurarsi come riferimento autonomo per l’insieme dei lavoratori/lavoratrici. Anche l’apertura di parziali contraddizioni all’interno dell’apparato e la necessità imposta dalla presenza del governo del centrodestra non mutano questo quadro generale. Sabbatini e la burocrazia FIOM, diventate troppo facilmente un punto di riferimento e un interlocutore privilegiato per la attuale maggioranza del partito, non esprimono una contrapposizione strategica alla linea di collaborazione di classe di Cofferati (espressa anche sul terreno della guerra). Le cui ultime prese di posizione non costituiscono che l’espressione tattica della autodifesa obbligata di una burocrazia socialdemocratica di fronte ad un attacco che mira a ridurne drasticamente il ruolo nella concertazione. Concertazione che viene riconfermata come asse strategico della burocrazia CGIL proprio in rapporto all’offensiva governativa in atto. Come per il gruppo di maggioranza delle Commisiones Obreras in Spagna l’obiettivo di Cofferati è quello della realizzazione di un quadro concertativo anche col governo di centrodestra: l’unico problema è che Berlusconi non è Aznar e ciò rende difficile la praticabilità dell’obiettivo.

La costituzione nella CGIL della nuova area di Lavoro e Società-Cambiare rotta è certamente un fatto positivo, perché supera la precedente situazione di divisione essenzialmente indotta da una pratica del nostro partito non basate su presupposti di linea politico-sindacale, ma sulla necessità di avere un settore “fedele” alla politica del partito, in particolare nel momento   della sua partecipazione alla maggioranza di centrosinistra (non a caso le condizione di una riunificazione delle aree della sinistra sindacale si sono poste a partire dalla nostra rottura col governo Prodi). Tuttavia la positività è solo organizzativa. Infatti non viene tratto nessun bilancio della  incapacità sia dell’area di “Alternativa Sindacale” che dell’”Area dei comunisti in CGIL” di rappresentare una conseguente opposizione di classe alla linea collaborazionista della maggioranza della Cgil. Incapacità riconfermata di fronte al tradimento del movimento antigovernativo rappresentato dallo "‘sciopericchio" di dicembre 2001. Mostrando infatti tutti i suoi limiti riformisti Lavoro e Società – Cambiare rotta invece di contrapporsi frontalmente si è adattata in maggioranza alle scelte della burocrazia dirigente.
E’ necessario quindi lavorare allo sviluppo di un’area coerentemente classista, basata sui militanti comunisti ma aperta all’aggregazione di altri settori indipendenti, che si candidi all’egemonia sull’insieme della sinistra della confederazione, e si basi su un programma d’azione anticapitalistico in aperta opposizione ai gruppi dirigenti.
Parallelamente il PRC deve lavorare ad un collegamento costante, nell’azione, tra questa sinistra rifondata della Cgil e i compagni/e comunisti/e che sviluppano la propria azione nel sindacalismo di base extraconfederale: un sindacalismo che configura, com’è ovvio, un quadro d’intervento più avanzato sul terreno degli obiettivi politico-sindacali e che, tuttavia, su basi diverse, è anch’esso segnato da limiti reali, ben oltre il suo limite di influenza: quali, ad esempio, la tendenza cronica alla frammentazione. In questo quadro la battaglia per l’unificazione del sindacalismo di base extraconfederale è un’azione che va sviluppata come centrale nella prossima fase da parte dei militanti comunisti in esso inseriti.
Il PRC non può illudersi di superare “per decreto” l’attuale dislocazione dei militanti comunisti in diverse organizzazioni sindacali: è questa una realtà sancita e “legittimata” sia dall’obiettiva complessità della questione sindacale, sia dalla concreta vicenda del sindacalismo italiano, e che solo lo sviluppo della lotta di classe e l’esperienza della lotta antiburocratica potrà consentire di superare in avanti. Il PRC può e deve invece, da subito, indicare l’asse generale di proposta e le basi programmatiche che debbono unire i militanti sindacali comunisti, siano essi collocati nel sindacato confederale o nel sindacato di base extraconfederale.
L’asse generale che il V Congresso avanza è la proposta della “costituente di un sindacato classista, unitario, confederale, democratico e di massa”.
Con questa indicazione i comunisti si rivolgono all’insieme dei lavoratori e delle lavoratrici per realizzare la loro unità , sulle basi più larghe, in una confederazione sindacale unitaria, fondata sulla democrazia dei lavoratori e sulla difesa dei loro autonomi interessi, in rottura con le attuali burocrazie dirigenti. Ciò significa avanzare la prospettiva di una unità dal basso, a partire da assemblee unitarie di iscritti (e non) nei luoghi di lavoro. Le forme di articolazione di questa proposta generale potranno variare in rapporto allo sviluppo concreto della situazione. Ma essa assume come riferimento centrale la lotta dei comunisti per l’egemonia sulle masse politicamente e sindacalmente attive: fuori sia da una logica di autoghettizzazione su basi puramente sindacalistiche, sia da una logica di subalternità agli attuali apparati sindacali.
In questa prospettiva di lavoro comune è necessario un coordinamento dei militanti sindacali comunisti al di là delle diverse appartenenze di sigla. Un coordinamento che deve porsi da ora come ambito unificante del nostro dibattito sindacale, ai vari livelli territoriali e nei diversi settori.
Parallelamente, sulla base della proposta della “costituente”, dobbiamo lavorare al raggruppamento unitario di un settore più largo, che vada al di là dei soli militanti comunisti, costruendo, nei luoghi di lavoro, ovunque possibile, “comitati per la rifondazione sindacale”, che coinvolgano attivisti sindacali di diversa appartenenza, e cerchino di configurarsi come punto di riferimento per l’azione antipadronale e antiburocratica.
E’ altresì importante che il PRC lavori al rilancio del movimento dei delegati Rsu. Un coordinamento permanente della sinistra larga degli eletti/e nelle Rsu su un programma immediato di natura classista può essere, infatti, uno strumento importante di lotta antiburocratica e per lo sviluppo del movimento di massa. Da questo punto di vista va dato il pieno appoggio all’iniziativa unitaria del sindacalismo classista che ha visto un suo primo importante momento nell’incontro dei/delle delegati/e sindacali del 1 dicembre 2001 a Bologna e che vedrà il successivo passaggio con l’assemblea dell’11 gennaio 2002 a Milano.

Infine, pur considerando centrale la lotta nelle organizzazioni sindacali, i comunisti debbono evitare qualsiasi tipo di formalismo. In particolare, nei momenti di ascesa della lotta, sia generali che particolari, è decisivo lavorare allo sviluppo di forme di autorganizzazione di massa, sia nella forma di comitati di lotta, sia nella forma ben più elevata di strutture elette e controllate democraticamente (comitati di sciopero, consigli). E’ in definitiva in queste strutture, più che nelle organizzazioni sindacali, che si giocherà la battaglia dei comunisti per la conquista della maggioranza della classe.


Tesi 25 - INTERVENTO NEL MOVIMENTO ANTIGLOBALIZZAZIONE IN ITALIA
Il movimento antiglobalizzazione in Italia ha conseguito una reale dimensione di massa e racchiude rilevanti potenzialità anticapitalistiche. Ma è decisiva la sua convergenza di lotta con la classe operaia come condizione dell'affermazione delle sue stesse ragioni. Lavorare nella classe operaia per l'assunzione delle istanze del movimento antiglobalizzazione entro un programma di classe. Lavorare nel movimento antiglobalizzazione per la sua aperta proiezione di lotta verso il movimento operaio entro il conflitto centrale tra capitale e lavoro. Questa è oggi una necessità centrale della battaglia di egemonia dei comunisti per la ricomposizione di un blocco sociale anticapitalistico. Ma richiede un impegno di lotta, entro la costruzione del movimento, contro le posizioni prevalenti nelle sue attuali direzioni.

Il movimento antiglobalizzazione ha conquistato un ruolo obiettivo di grande rilevanza nello scenario italiano. Più che in altri Paesi europei esso ha conseguito una reale dimensione di massa, in particolare tra i giovani, testimoniata dalla grande manifestazione di Genova; ha coinvolto reali settori di avanguardia della classe lavoratrice e delle sue rappresentanze sindacali; ha esercitato ed esercita un rilevante impatto politico sull'intera situazione nazionale. Più in generale esso si circonda di una diffusa simpatia popolare, quale effetto indiretto della crisi di egemonia del liberismo presso ampi settori di massa. Per questo il movimento rivela un potenziale prezioso di ulteriore espansione, che gli eventi di guerra non hanno pregiudicato.

Ma proprio questa realtà e potenzialità sottolineano i problemi irrisolti dell'orientamento del movimento. La sproporzione tra il livello complessivamente arretrato della coscienza politica diffusa del movimento e l'elevato livello di scontro con l'apparato dello Stato e lo stesso governo, documentata dai fatti di Genova; lo scarto tra l'elementare pulsione critica antiliberista e il livello di confronto imposto dalla precipitazione della guerra imperialistica in Afghanistan, descrivono una contraddizione obiettiva e pericolosa, in parte inscritta inevitabilmente nell'inesperienza della giovane generazione, in parte amplificata dalla cultura riformistico-paficista della direzione maggioritaria del movimento.
Il nostro partito, forte di una presenza diffusa nel movimento, può e deve impegnarsi ad affrontare e superare in avanti quella contraddizione, nell'interesse del movimento e delle sue ragioni. Non può concepire il proprio ruolo né come pura rappresentanza istituzionale delle istanze di movimento; né come mediatore tra movimento e istituzioni; né come puro collante dell'unità del movimento intesa come blocco politico-diplomatico con le componenti associative centrali della sua leadership. Ma deve invece combinare un'azione leale di costruzione quotidiana del movimento di massa antiglobalizzazione con un'aperta battaglia di orientamento politico nel movimento stesso: una battaglia tesa a sviluppare la coscienza politica del movimento sul terreno anticapitalistico e antimperialista (v. tesi…), la sua autonomia e contrapposizione a centrodestra e centrosinistra, la sua convergenza di lotta con la classe operaia sul terreno del blocco sociale alternativo. Una battaglia aperta di egemonia alternativa.

L'azione di costruzione del movimento implica innanzitutto un'aperta responsabilità di proposta sullo stesso terreno delle forme di lotta e di organizzazione del movimento. In questo ambito va contrastata ogni posizione, ciclicamente affiorante, che di fatto propone al movimento una sorta di ripiegamento seminariale e un arretramento dei suoi livelli di mobilitazione (come nella fase successiva alle manifestazioni di Genova, alla vigilia della manifestazione di Napoli contro la NATO, in relazione alla stessa manifestazione di Roma del 10 novembre). Va posta invece la centralità delle manifestazioni, pacifiche e di massa, quale terreno di lotta indispensabile ai fini dell'aggregazione, dell'impatto politico, della stessa visibilità e popolarizzazione delle ragioni del movimento. Va affrontata seriamente, in questo quadro, la problematica dell'autodifesa delle manifestazioni da qualsiasi forma di aggressione, quale strumento di tutela del carattere pacifico e di massa delle manifestazioni medesime (v. servizi d'ordine). Va inoltre affrontata la questione dell'organizzazione democratica nazionale di un movimento che proprio per la sua espansione, non può più reggersi su un puro patto di vertice inter-associativo, ma deve coinvolgere democraticamente la massa degli attivisti, oggi privi di ogni potere decisionale, nella definizione delle scelte del movimento stesso e delle sue rappresentanze ad ogni livello: pena il combinarsi di una crisi di democrazia, di un'elusione delle scelte, di una debole rappresentatività delle decisioni.

Sul piano politico è necessario sviluppare, nel movimento la proposta di convergenza di lotta con la classe operaia, sul terreno dell'opposizione aperta al padronato e al governo Berlusconi. Non si tratta semplicemente di rappresentare la nostra "sensibilità" di classe entro il mosaico del movimento. Si tratta di lottare per conquistare il grosso del movimento ad una prospettiva di classe, quale condizione dell'affermazione delle sue stesse ragioni, e quale terreno di valorizzazione delle sue stesse potenzialità d'impatto.
Nell'attuale quadro, il movimento antiglobalizzazione, già forte di una diffusa simpatia in settori vasti della società, potrebbe realmente trasformarsi nel detonatore di un'esplosione sociale: ma alla condizione che dal movimento emerga un indirizzo nuovo e una proposta nuova. L'incontro con i lavoratori non può ridursi ad una somma di buone relazioni con le rappresentanze del sindacalismo di classe, né ad un'azione di pressione su Cofferati o alla semplice registrazione dell'adesione FIOM al GSF (che certo è importante). Ma può e deve tradursi in una pubblica proposta di azione comune, basata su una piattaforma di rivendicazioni semplice e unificante, che sappia stabilire un rapporto di sintonia con le domande sociali delle più vaste masse e che proprio per questo possa sfidare all'unità d'azione le stesse organizzazioni sindacali ponendo ognuna di fronte alle proprie responsabilità. In questo senso la proposta della vertenza generale del mondo del lavoro e dei disoccupati va posta apertamente non solo tra i lavoratori ma nello stesso movimento antiglobalizzazione, indicando così da entrambi i versanti, il possibile terreno comune di un'azione di lotta unitaria e concentrata. La stessa prospettiva dello sciopero generale contro padronato e governo va indicata come occasione straordinaria di una preziosa convergenza di lotta tra lavoratori e giovani, in una dinamica di rottura con la borghesia.

La lotta per l'egemonia di classe nel movimento antiglobalizzazione implica un'azione politica costante per la sua autonomia e alternatività al centrosinistra borghese. L'apparato DS e le forze dell'Ulivo lavorano a produrre un condizionamento esterno del movimento nel tentativo di sussumerlo come fattore subalterno di una futura alternanza liberale. L'operazione avviata in occasione della marcia Perugia-Assisi, attraverso la piattaforma della cosiddetta Tavola della Pace, si inquadra apertamente in questa strategia di fondo, che trova sponde e interlocutori in settori dirigenti del movimento o risposte deboli e difensive. Il PRC può e deve contrastare nel movimento, con tutte le proprie forze, le operazioni dei DS e del centrosinistra. Può farlo alla condizione di rivedere a fondo l'impostazione attuale e di prospettiva. Non si tratta di proporre ai liberali del centrosinistra una contaminazione di movimento nella logica della sinistra plurale. Si tratta di sviluppare nel movimento una politica di autonomia e di rottura col centrosinistra e l'apparato DS. Non si tratta di arginare e diplomatizzare le contraddizioni tra movimento e Ulivo, o di teorizzare la non ingerenza in questa contraddizione (come nel caso della marcia di Perugia): si tratta all'opposto di lavorare ad approfondirla. Combinando la più ampia proiezione di massa verso i lavoratori e i giovani, fuori da ogni cultura minoritaria, con la spiegazione costante dell'inconciliabilità tra le ragioni di fondo del movimento e i custodi liberali della società borghese e della sua barbarie. In questo quadro il voto dell'apparato DS e dell'Ulivo a sostegno della guerra imperialista contro il popolo afghano va assunto pubblicamente come riprova inequivocabile e definitiva di quella inconciliabilità. Più in generale la lotta per l'egemonia anticapitalistica e antimperialistica nel movimento antiglobalizzazione rappresenta il terreno centrale di azione per la difesa e lo sviluppo della sua autonomia.


Tesi 26 - SCUOLA
La scuola è un terreno nevralgico dell'attacco dominante. Ma è anche un settore strategico per la ricomposizione del blocco sociale alternativo.

Il governo Berlusconi punta ad un autentico salto delle politiche reazionarie contro l'istruzione pubblica. Ancora una volta eredita le politiche sviluppate dalla legislatura di centrosinistra e i loro punti di sfondamento (si pensi alle scelte del governo D'Alema nel '98 in ordine alla parità scolastica) per estenderle e radicalizzarle contro l'insieme dei lavoratori della scuola e degli studenti, e contro l'interesse sociale delle classi subalterne. La scuola pubblica è colpita innanzitutto dai nuovi tagli operata dalla Finanziaria, direttamente travasati in investimento di guerra (5 mila mld); dalla programmata riduzione delle spese per il personale della scuola nell'arco di cinque anni, connessa anche ad una riduzione secca dell'occupazione nel settore; dall'estensione dei processi di "autonomia finanziaria" legati alla riduzione dei fondi pubblici; dalla programmata riduzione, da cinque a quattro anni, dell'istruzione superiore combinata con l'equiparazione della formazione professionale a liceo e istituti professionali, in funzione degli interessi d'impresa. Parallelamente il governo delle destre assume la rappresentanza diretta del blocco d'interessi della scuola privata, in piena sintonia col Vaticano, come articolazione del proprio blocco sociale di riferimento. La politica dei buoni scuola tende a generalizzarsi anche a livello territoriale per opera dei governi regionali. E il federalismo regionalista sottraendo allo Stato l'esclusiva competenza in fatto di istruzione cerca di produrre un vero e proprio sfondamento sia sul terreno della privatizzazione della scuola pubblica sia sul terreno complementare del privilegiamento della scuola privata, aziendale e confessionale.

Questo attacco alla scuola pubblica, combinato con l'analoga politica universitaria, è destinato tuttavia ad incontrare resistenze sociali crescenti. La scuola è il terreno su cui le politiche liberiste, persino nella fase della loro ascesa generale, hanno maggiormente faticato a conquistare un consenso sociale maggioritario. Oggi, nella nuova fase aperta dalla crisi più generale dell'egemonia liberista, la scuola si conferma come uno dei possibili terreni centrali di resistenza e controffensiva. La ripresa delle lotte degli insegnanti negli ultimi anni (dopo il lungo periodo di stasi intercorso dopo la stagione dell'87-'88) è rivelatrice di una controtendenza in atto, tanto più significativa a fronte della frammentazione della rappresentanza sindacale. Parallelamente, proprio l'affacciarsi di una nuova generazione sul terreno delle lotte trova un significativo riflesso nella ripresa del movimento degli studenti e soprattutto nel maturare al suo interno di più visibili spunti di politicizzazione. L'intersezione frequente tra movimento degli studenti e movimento antiglobalizzazione è sotto questo profilo indicativa.

Tanto più oggi i comunisti devono assumere la scuola come uno dei terreni prioritari di ricomposizione di un blocco alternativo anticapitalistico. Per questo il nostro partito non può limitarsi a sostenere e rivendicare lo sviluppo del movimento e dei movimenti contro le politiche reazionarie sull'istruzione, cosa naturalmente preziosa e insostituibile. Ma deve combinare la propria partecipazione alla costruzione attiva del movimento con una assunzione di responsabilità di proposta in funzione della ricomposizione unitaria della lotta e della costruzione di uno sbocco.
Occorre innanzitutto lavorare a una piattaforma unificante delle mobilitazioni che favorisca la ricomposizione di lotta tra insegnanti e studenti e leghi le rivendicazioni immediate a un programma più complessivo di alternativa di classe. La rivendicazione degli aumenti salariali per i lavoratori della scuola, della riduzione del numero massimo di alunni per classe e di classi per insegnante; lo sviluppo e risanamento delle strutture scolastiche; l'estensione della scuola pubblica (a partire dalla scuola per l'infanzia) e del suo servizio in rapporto alla popolazione adulta, agli immigrati, agli anziani; vanno nel loro insieme collegate all'obiettivo dell'abolizione di ogni forma di finanziamento diretto o indiretto, anche a livello di giunte locali (di centrodestra e centrosinistra), alla scuola privata e confessionale, alla prospettiva di una riacquisizione su basi pubbliche e gratuite di tutta l'istruzione, alla rivendicazione della tassazione progressiva dei grandi patrimoni, rendite e profitti, come fonte di finanziamento della scuola. Così la lotta contro lo smantellamento degli organi collegiali -promosso dal governo Berlusconi- va sviluppata non in una logica difensiva e conservativa ma in nome di una proposta di controllo sociale sull'istruzione pubblica basata sulla partecipazione degli insegnanti, degli studenti, dell'insieme della popolazione scolastica in alternativa al controllo delle imprese e dei loro interessi.

Congiuntamente i comunisti debbono avanzare la proposta di una unificazione del movimento studentesco in atto sul terreno dell’autorganizzazione democratica. Una situazione di atomizzazione del movimento e delle occupazioni, senza piattaforma unificata, senza un quadro democratico di verifica della rappresentatività delle diverse posizioni e proposte, sarebbe priva di sbocchi vincenti. Ed anzi spianerebbe la strada, come l’esperienza insegna, ai vertici dell’Uds e al relativo riflusso del movimento. Si può invece imparare dall’esperienza degli studenti francesi: proporre che ogni assemblea di scuola occupata designi democraticamente i propri delegati, permanentemente revocabili, e che i coordinamenti dei delegati, ai vari livelli, sino al livello nazionale siano la sede democratica di definizione della piattaforma rivendicativa del movimento. Solo così il peso delle diverse posizioni, organizzazioni ed aree sarà misurato dall’effettivo livello di rappresentatività democratica. Solo così potrà svilupparsi una vertenza nazionale vera tra movimento e governo. Solo così le stesse forme di lotta e la loro continuità saranno finalizzate su obiettivi chiari, rappresentativi, verificabili.


Tesi 27 - QUESTIONE MERIDIONALE
Le masse meridionali sono un alleato strategico decisivo della classe operaia nella prospettiva anticapitalistica, ed una forza determinante per l’affermazione di tale prospettiva. La questione meridionale si ripropone come questione centrale della vita nazionale e uno dei punti di massima intersezione di questione sociale e questione democratica.

Già la storia degli anni Ottanta ha segnato la continuità del processo di emarginazione economico e sociale del Sud all’interno della divisione nazionale e internazionale del lavoro. La svolta degli anni Novanta e l’avvio della II Repubblica ha indotto la situazione meridionale a una vera e propria precipitazione: il taglio dei trasferimenti assistenziali, il disegno liberista del federalismo, la flessibilizzazione dilagante (v. i contratti d'area esemplari di Manfredonia, Crotone, Castellamare) si pongono su uno sfondo sociale già segnato da una profonda deindustrializzazione e dall’ulteriore espansione di una disoccupazione di massa, specie giovanile già da tempo drammatica. L’ingresso nell’Europa di Maastricht consolida e accentua queste tendenze di fondo: confermando una volta di più che là crescente marginalità dell’economia meridionale lungi dall’essere un’espressione di arretratezza e di "ritardo" è il risvolto di una reale integrazione nel moderno mercato capitalistico e un laboratorio di sperimentazione delle forme più avanzate di sfruttamento.

Peraltro l’ulteriore declino del Sud produce al suo interno una polarizzazione della ricchezza e del contrasto di classe. Da un lato abbiamo una borghesia meridionale emergente legata alle costruzioni, al terziario e all’economia turistica, protagonista spregiudicata delle operazioni speculative sulle aree industriali dismesse e che moltiplica i propri capitali attraverso i meccanismi della rendita. Al polo opposto il pesante ridimensionamento della classe operaia industriale si accompagna ad un processo di più ampia pauperizzazione segnato dal peso crescente dei disoccupati, dalla precarietà del lavoro stagionale, dal declassamento del pubblico impiego, dal supersfruttamento del lavoro femminile.

In questo quadro la criminalità organizzata trova il suo spazio naturale di riproduzione sociale: essa si intreccia profondamente con la borghesia meridionale di cui è organica frazione, attraverso un complesso rapporto: da un lato esercita su di essa un prelievo fiscale illegale e diffuso, largamente sostitutivo del fisco statale, entrando così in contraddizione con l’interesse complessivo della borghesia nazionale, ma dall’altro le assicura protezione sociale e credito bancario (anche attraverso l’utilizzo di settori dello Stato). Inoltre la criminalità agisce come ufficio di collocamento di giovani disoccupati e quindi, paradossalmente, come ammortizzatore sociale, tanto più in una fase in cui lo Stato borghese, da sempre esattore e gendarme, giunge a negare persino l’assistenza. In questo quadro nessuna sentenza di tribunale o iniziativa giudiziaria, nessun proclama solenne di lotta alla mafia possono rimuovere peso sociale e radici della criminalità organizzata, obiettivamente incorporata al blocco storico dominante.

Il nuovo governo delle destre costituisce oggi un fattore di ulteriore aggravamento della situazione meridionale. Le politiche di flessibilizzazione selvaggia del lavoro e di attacco alle conquiste sociali ricadranno in forma concentrata sulle condizioni materiali di ampi settori di giovani e di donne meridionali. Parallelamente il rilancio delle politiche delle “grandi opere” mira a rafforzare il blocco affaristico speculativo con l’aperto coinvolgimento di settori malavitosi del capitale, a scapito dell’ambiente e della stessa occupazione (v. ponte sullo stretto).

La piattaforma di lotta per la vertenza generale unificante di lavoratori e disoccupati acquista dunque una valenza centrale per le masse del Mezzogiorno. Le rivendicazioni del salario garantito ai disoccupati e ai giovani in cerca di prima occupazione, della trasformazione dei lavoratori precari in lavoratori a tempo indeterminato, dell’abolizione del “Pacchetto Treu” e delle leggi di flessibilizzazione del lavoro vanno assunte, tanto più oggi, come terreno di unificazione del blocco sociale alternativo nel sud e come ambito di ricomposizione in esso dell’egemonia di classe. In questo senso vanno ricondotte a un programma anticapitalistico più complessivo, basato su un vasto piano di rinascita e di sviluppo generale del Mezzogiorno, e sulla necessita di un’azione di lotta radicale a suo sostegno da parte dell’insieme del movimento operaio, in rottura con la logica delle politiche concertative adottate fino ad oggi dal sindacato.
Occorre organizzare comitati di lotta che vedano come protagonisti ovunque possibile lavoratori, disoccupati, precari, migranti e studenti, che sostengano scelte occupazionali in netta controtendenza con quelle attualmente dominanti, ponendo anche l’obiettivo della nazionalizzazione delle fabbriche che licenziano, evadono, sfruttano mano d’opera a basso costo (con scarse norme di sicurezza, bassi salari, scarsa specializzazione, part-time, ecc. Occorre rivendicare come politica sociale per la rinascita del Mezzogiorno l’eliminazione dei privilegi di classe della borghesia: l’abolizione del segreto bancario, commerciale, finanziario quale unica condizione per la lotta all’elusione ed evasione fiscale; l’imposizione di una patrimoniale ordinaria e straordinaria sulle grandi ricchezze; la tassazione fortemente progressiva dei profitti e delle grandi rendite; l’abolizione dei trasferimenti pubblici alle imprese, vera assistenzialismo di Stato che sottrae ogni anno all’erario pubblico decine di migliaia di miliardi.

In conclusione al blocco storico dominante tra la grande borghesia del Nord e la borghesia meridionale, ivi inclusa la sua frazione criminale, occorre contrapporre il blocco storico tra la classe operaia e le masse popolari del Sud, a partire dai lavoratori e dai disoccupati, sulla base di un programma anticapitalistico. Ed anzi questo blocco di classe è il solo che può trasformare la questione meridionale in una leva decisiva dell'alternativa anticapitalista.


Tesi 28 - PER UN MOVIMENTO DI MASSA DELLE DONNE
Il PRC può e deve impegnarsi per lo sviluppo di un movimento di massa delle donne sul terreno della ricomposizione dell'opposizione di classe e anticapitalistica.

Negli anni Settanta l'ascesa della classe operaia italiana aprì un varco importante allo sviluppo del movimento delle donne. E a sua volta la lotta delle donne fece un'irruzione forte nel dibattito politico, nella cultura, nella società italiana, favorendo la maturazione di una esperienza di massa più avanzata sullo stesso terreno democratico e ottenendo anche risultati importanti, seppur limitati, dal punto di vista del costume e del diritto (v. legislazione sulle lavoratrici madri, L. 194/78).

Con gli anni Ottanta l'arretramento del movimento operaio trascinò con sé un'involuzione più generale della sensibilità democratica e della coscienza di massa e, con esse, un arretramento del movimento delle donne.
Ma soprattutto su quello sfondo si svilupparono nel movimento femminile orientamenti culturali di distacco progressivo dai temi sociali e di classe, di rifiuto della contraddizione capitale/lavoro, di ripiegamento intellettualistico-elitario. Le teorie idealistiche oggi presenti in una parte rilevante del pensiero femminista -che riconducono l'oppressione femminile a una radice biologica e a un codice simbolico maschile- nacquero in quel clima sociale e culturale.

Oggi l'inizio di una ripresa del movimento operaio, la crisi di egemonia delle politiche liberiste, l'affacciarsi di una giovane generazione, creano uno spazio nuovo per il possibile rilancio di un movimento di massa delle donne, capace di coinvolgere in primo luogo i settori più oppressi e sfruttati della popolazione femminile. E tanto più oggi il PRC deve impegnarsi in questa direzione fuori da ogni adattamento a espressioni elitarie del pensiero femminista.

Le politiche sociali dell'intera legislatura di centrosinistra hanno determinato un attacco profondo alle condizioni di vita di milioni di donne (Legge 40/98 del governo Prodi, Legge Bassanini del '97 a favore della sussidiarietà, purtroppo sostenute dal voto del PRC). Oggi il governo Berlusconi da un lato dà fiato all'arroganza del peggiore integralismo cattolico (v. l'attacco alla 194), dall'altro innesta il rilancio della "centralità della famiglia" su un ulteriore smantellamento dello Stato sociale. Attraverso detrazioni fiscali e assegni irrisori il nucleo familiare, cioè la donna, è incentivato a farsi carico di compiti di cura prima propri del Welfare State. La privatizzazione del sistema sanitario e degli asili nido va nella medesima direzione. Le donne sono costrette a subire doppiamente sulla propria pelle il carico di lavoro di cura nei confronti dei soggetti a rischio e marginalizzati di questa società (anziani, malati terminali, sieropositivi, portatori di handicap). E questo nel mentre subiscono come prime vittime l'attacco ai posti di lavoro (licenziamenti) e la compressione dei salari.
Da più versanti l'oppressione di milioni di donne ha sempre più un contenuto sociale riconoscibile e inequivoco.

Su Questo terreno va costruito un intervento di classe teso a ricomporre la più vasta opposizione di massa, a partire dalle donne. La lotta alle privatizzazioni e contro l'attacco allo Stato sociale; la lotta per il diritto al lavoro e per un salario garantito quando il lavoro non c'è; la lotta per il diritto alla salute garantito dal servizio pubblico e gratuito; la lotta per gli asili nido e contro la chiusura dei consultori, possono coinvolgere, in prima fila, i settori più oppressi della popolazione femminile. Ma è essenziale che il movimento operaio assuma queste tematiche all'interno delle proprie lotte come terreno di egemonia e ricomposizione. E che il PRC ponga queste tematiche congiuntamente all'interno del movimento operaio (contro ogni logica concertativa) e come ambito di sviluppo di un movimento di massa delle donne.

Il PRC ha il compito di monitorare tutte le espressioni di lotta delle donne, di radicarsi al loro interno, di lavorare a estenderle e unificarle. Ma costruendo sempre una connessione viva tra obiettivi immediati e prospettiva anticapitalistica, entro la logica transitoria. E quindi riconducendo ogni lotta delle donne al processo più generale di emancipazione della classe lavoratrice, per un'alternativa di società e di potere.


Tesi 29 - INTERVENTO SULL'IMMIGRAZIONE
Il fenomeno dell¹immigrazione ­uno dei prodotti più macroscopici del carattere ineguale e squilibrato dello sviluppo capitalistico­ è utilizzato dalla classe dominante per dividere e indebolire la classe operaia.
L¹impegno dei comunisti per i diritti sociali e politici degli immigrati e contro la xenofobia e il razzismo è parte integrante della lotta per la ricomposizione dell¹unità della classe e per la costruzione del blocco sociale alternativo.

Le migrazioni sono uno degli effetti più macroscopici delle contraddizioni dello sviluppo capitalistico, ed oggi anche delle guerre e delle catastrofi ambientali.
Anche l'Italia conosce da tempo una presenza crescente di lavoratori provenienti da Paesi dell¹Europa dell'Est e del Terzo mondo che la classe dominante punta ad utilizzare come forza lavoro disponibile a basso costo e con poche pretese.
Chiusura delle frontiere, flussi programmati, controllo poliziesco sono i punti salienti delle politiche dell'immigrazione attuate nell'ultimo decennio e condivise, al di là delle differenze di tono e di accento, dal centrosinistra e dal centrodestra.
Lungi dal disciplinare il fenomeno, questa linea repressiva aggrava le già difficili condizioni di vita dei migranti, crea i cosiddetti clandestini, contribuisce a costruire una percezione distorta dell'immigrazione come fenomeno criminale e criminogeno e ad alimentare la xenofobia e i pregiudizi razzisti. Peraltro, la condizione di clandestinità, il ricatto dell'espulsione, la minaccia della xenofobia sono funzionali a rendere gli immigrati disponibili per qualsiasi lavoro e a qualsiasi condizione, a farne cioè un elemento di indebolimento e di divisione della classe operaia.
Di fronte alla novità dell'immigrazione, la risposta delle forze del movimento operaio è stata del tutto subalterna alle tendenze politiche dominanti, limitandosi al più, a generici sussulti di impegno umanitario. Anche il PRC, nel quadro dell'appoggio al governo Prodi, porta la responsabilità della legge Turco-Napolitano che uniforma il nostro Paese alla legislazione poliziesca di Schengen e introduce per gli immigrati irregolari i campi di concentramento e la deportazione.
I comunisti devono essere consapevoli che i fenomeni migratori pongono una sfida sul terreno della ricomposizione dell'unità della classe operaia e della costruzione del blocco sociale alternativo. Nella difesa dei lavoratori immigrati il PRC deve saper svolgere, secondo l'indicazione leninista, la funzione del "tribuno del popolo" che dà voce a coloro che in questa società non hanno voce perché sono i più oppressi. Da un lato occorre battersi per realizzare l'unità fra lavoratori stranieri e italiani, dall'altro occorre impegnarsi risolutamente contro la xenofobia e il razzismo e per costruire la risposta militante, unitaria e di massa alle aggressioni xenofobe.
Occorre rivendicare innanzitutto il rispetto del diritto d'asilo, la chiusura dei cosiddetti centri di permanenza temporanea, la regolarizzazione di tutti gli immigrati presenti sul territorio nazionale, l'abolizione delle procedure poliziesche per il permesso di soggiorno e di lavoro, l'attuazione di concrete misure materiali e socio-culturali di accoglienza e integrazione; ma l'obiettivo dev'essere l¹abolizione di tutte le restrizioni all¹ingresso e i pieni diritti di cittadinanza, sociali e politici, per tutti coloro che cercano migliori condizioni di vita nel nostro Paese. Nel contempo occorre battersi per sottrarre i lavoratori stranieri al lavoro nero, ai bassi salari, al supersfruttamento, impegnandosi per la loro sindacalizzazione e la piena integrazione nel movimento operaio e nelle sue organizzazioni.

In questo ambito generale assume oggi un carattere di priorità la piò ampia mobilitazione contro la legge Bossi-Fini e l’ulteriore salto reazionario che essa configura (annullamento del diritto d’asilo, introduzione del reato penale di immigrazione clandestina, condanna del lavoratore migrante alla flessibilità a vita in subordine all’impresa). Ciò che richiede, tanto più oggi, la diretta assunzione della difesa dei diritti dei lavoratori stranieri da parte dell’insieme del movimento operaio come parte integrante della piattaforma di lotta contro il governo per la sua cacciata.
 
Tesi 30 - IMPOSTAZIONE PROGRAMMATICA DELL'ALTERNATIVA DI CLASSE
Il PRC è e deve essere in prima fila nell’opposizione all’aggressione liberista. Ma non può limitarsi ad una pura azione difensiva, pur prioritaria. E’ invece essenziale collegare, ovunque possibile, l’azione di difesa e ampliamento dello stato sociale e dei diritti con un programma anticapitalistico contro la crisi che indichi una soluzione di classe alternativa. La questione della proprietà e del potere non può essere solo enunciata: dev'essere posta al centro dell'elaborazione programmatica del partito come filo conduttore dell'intervento dei comunisti nella classe operaia.

In questi anni il nostro partito ha assunto come proprio orizzonte programmatico d'intervento, un orizzonte di riforma della società capitalistica in direzione di un modello di sviluppo non liberista. Ogni rivendicazione immediata, dalla tassazione dei BOT alle 35 ore, ai diritti dei lavoratori, è stata ricondotta a un programma di riforma indicato come terreno realistico di un'alternativa di società oggi "possibile", e di una "sinistra plurale" di governo che la persegua. La rivendicazione della "Tobin Tax" per un'"Europa sociale" è l'esemplificazione attuale di questa impostazione .

Questa impostazione ad onta del suo presunto realismo, si è rivelata nei fatti profondamente utopica. Immaginare una soluzione riformistica complessiva, che sia ad un tempo compatibile col capitalismo e di carattere "progressivo", significa nelle condizioni storiche dell'oggi perseguire un'utopia. Lo riprovano le esperienze concretamente vissute o osservate negli anni '90. Dal versante del governo, sotto Prodi come sotto Jospin, quel programma di riforme possibili si è capovolto in una politica controriformatrice e in una pesante corresponsabilizzazione dei comunisti alle politiche liberiste del capitale. Dal versante dell'opposizione quello stesso programma, sistematicamente proposto come terreno di confronto alle forze politiche dominanti, e all'apparato liberale dei DS non ha ottenuto neppure un ascolto. Continuare a perseguire questa impostazione significa alimentare tra i lavoratori quelle illusioni neoriformistiche che i comunisti in quanto tali sono chiamati a combattere.

L'impostazione programmatica dell'intervento di classe va allora esattamente rovesciata. I comunisti non possono assumere come proprio orizzonte i cosiddetti obiettivi "tangibili e possibili". Debbono invece costruire la propria politica sulla spiegazione costante che nessun serio obiettivo di progresso sociale può essere raggiunto e consolidato senza mettere in discussione in ultima istanza i rapporti di proprietà e di potere. Non si tratta affatto, com'è ovvio, di rinunciare alle rivendicazioni immediate ed elementari, che anzi vanno articolate e ricomposte in una precisa proposta d'azione (vertenza generale). Si tratta di spiegare, sulla base dell'esperienza pratica dei lavoratori, che ogni riforma, ogni eventuale conquista parziale, ogni eventuale difesa di vecchie conquiste può realizzarsi solo come sottoprodotto di uno scontro generale con la società capitalistica e i suoi governi (comunque colorati). E che solo la rottura dei rapporti capitalistici, solo un governo dei lavoratori e delle lavoratrici, basato sulla loro forza organizzata, può dischiudere una reale alternativa di società.

Ma proprio per questo va superata ogni impostazione programmatica "compatibilista", apparentemente concreta, concretamente astratta. E' necessario individuare su ogni terreno un sistema di rivendicazioni che da un lato si raccordi alla specifica concretezza dello scontro di classe e dall'altro prefiguri la necessità di uno sbocco anticapitalistico complessivo, fuori da ogni illusione riformistica.

La difesa delle conquiste sociali del movimento operaio dalle politiche dominanti; lo sviluppo e l'estensione dei diritti sociali come diritti universali, rappresentano rivendicazioni programmatiche essenziali del PRC. Ma il loro perseguimento implica non solo la richiesta di abolizione delle controriforme liberiste realizzate bensì una ridislocazione sul versante della spesa sociale di nuove immense risorse. Non è realistico pensare che la rinegoziazione del patto di stabilità entro le maglie dell'Europa imperialistica possano configurare una risposta al problema. E' necessario invece prospettare la liberazione di almeno trecentomila mld attraverso l'eliminazione di insopportabili privilegi di classe della borghesia:
- l'abolizione del segreto bancario, commerciale, finanziario, quale unica condizione concreta di una seria lotta all'elusione ed evasione fiscale;
- una patrimoniale straordinaria e ordinaria sulle grandi ricchezze;
- un drastico aumento della tassazione dei grandi profitti e delle rendite, accresciuti in questi anni dalle politiche dominanti;
- l'abolizione dei trasferimenti pubblici alle imprese, vero e proprio assistenzialismo statale al capitale che costa ogni all'erario pubblico decine di migliaia di miliardi;
- l'abolizione unilaterale del debito pubblico con piene garanzie per i piccoli risparmiatori;
queste rivendicazioni rappresentano nel loro insieme gli strumenti reali e possibili per finanziare una nuova politica sociale al servizio delle grandi masse lavoratrici, dei disoccupati, dei giovani, dei pensionati, della rinascita del Mezzogiorno.

Al tempo stesso, tanto più in quest'epoca di crisi e di gigantesche concentrazioni capitalistiche, ogni serio programma redistributivo della ricchezza cozza contro i limiti della proprietà borghese.
Ogni disegno di nuovo modello di sviluppo conforme ai bisogni delle masse lavoratrici, dei disoccupati, delle popolazioni povere del Sud richiede la messa in discussione della proprietà nei settori strategici dell'economia, nel quadro di un'alternativa di fondo di società e di potere.

In questo senso il V Congresso impegna il PRC a sviluppare una coerente campagna anticapitalistica non in termini ideologici ma a partire dall'esperienza delle grandi masse. Ad esempio: l'inquinamento dei cibi da parte della grande industria alimentare con la copertura della Commissione Europea pone l'esigenza di un controllo dei lavoratori e dei consumatori sulla produzione del settore e l'abolizione del segreto commerciale quale garanzia di autodifesa sociale. Le speculazioni dell'industria petrolifera sui prezzi della benzina richiedono l'apertura dei libri contabili delle compagnie sotto il controllo dei consumatori e della società. Gli scandali cronici e ripetuti della grande industria farmaceutica a danno della salute e della vita richiedono una sua nazionalizzazione senza indennizzo sotto controllo sociale. Ogni episodio di criminalità del profitto contro la larga maggioranza della società va raccordato all'esigenza di una risposta anticapitalistica quale unica soluzione di fondo.
Parallelamente la questione della proprietà va posta all'interno delle dinamiche di lotta dei movimenti fuori da ogni adattamento alla loro pura e semplice spontaneità. Nel movimento per la pace, entro una più generale impostazione antimperialista, va posta la rivendicazione dell'esproprio dell'industria bellica senza indennizzo e sotto il controllo dei lavoratori. Nel movimento ambientalista va messa in discussione la proprietà privata della grande industria inquinante quale condizione di una sua reale riconversione. Più in generale la questione della proprietà è obiettivamente posta dai movimenti di resistenza a difesa del lavoro entro i processi di crisi e ristrutturazione: la rivendicazione della nazionalizzazione delle industrie in crisi senza indennizzo e sotto il controllo dei lavoratori può costituire un elemento di ricomposizione unitaria di un fronte strategicamente centrale seppur oggi disarticolato e disperso.

Va peraltro chiarito ai lavoratori che le nazionalizzazioni che noi proponiamo non hanno nulla a che vedere con le vecchie cattedrali dell’industria pubblica. Infatti i comunisti: si battono per nazionalizzazioni senza indennizzo (con la doverosa tutela dei piccoli risparmiatori), perché l’indennizzo è già stato “pagato” dallo sfruttamento dei lavoratori e dai trasferimenti pubblici; si battono perché contestualmente alla nazionalizzazione siano messi in campo strumenti di controllo operaio e popolare, terreno centrale di autorganizzazione di massa democratica e consiliare; si battono contro ogni illusione di economia mista e di democratizzazione del capitalismo collegando la rivendicazione delle nazionalizzazioni alla prospettiva dell’alternativa di sistema.


Tesi 31 - RUOLO DELLA CHIESA E BATTAGLIA ANTICLERICALE
L’opposizione comunista deve recuperare una coerenza di proposta sullo stesso terreno sociale delle rivendicazioni democratiche. Con l'apertura di una campagna per l'abolizione del Concordato tra Stato e Chiesa, modificando l'orientamento sinora assunto verso il papato e le gerarchie ecclesiastiche.

Il PRC deve aprire una grande campagna politica per l’abolizione del Concordato tra Stato e Chiesa, modificando le posizioni contraddittorie e confuse sino ad ora sostenute nei confronti della Chiesa cattolica. L’avallo ripetutamente offerto ad un presunto “anticapitalismo” del papato, in una logica di comune “ricerca” ha rappresentato un errore profondo del nostro partito.
Il Vaticano rappresenta tuttora, come sempre, un baluardo storico dell’ordine esistente. Gli intrecci materiali tra gerarchie ecclesiastiche e proprietà capitalistica nel settore finanziario, immobiliare, terriero, costituiscono la base materiale di questa funzione conservatrice. Le formali posizione di “apertura” della Chiesa a istanze sociali o antiglobalizzazione, così come la critica all’assolutismo del profitto non solo non rappresentano un anticapitalismo reale ma rientrano o in un più generale antimaterialismo ideologico o in una aperta “concorrenza” e lotta al marxismo all’interno delle masse oppresse. Inoltre la natura integralistica dell’istituzione ecclesiastica si esprime da sempre nelle posizioni reazionarie del papato sul terreno dei diritti civili, dell’autodeterminazione della donna, dei diritti degli omosessuali e delle lesbiche, dell’istruzione. In particolare la lotta centrale delle donne per la difesa della legge 194 trova nell’apparato della Chiesa il proprio nemico frontale.

La saldatura politica oggi tra interessi ecclesiastici e governo Berlusconi su molteplici terreni rafforza sensibilmente l'importanza della lotta contro le gerarchie ecclesiastiche. Certo il PRC non è e non deve essere un partito “ideologico”; il marxismo stesso va concepito come programma di trasformazione, non come credo; la conquista di settori di massa cattolici ad una prospettiva socialista è un aspetto importante della strategia rivoluzionaria, tanto più in un contesto che vede oggi settori cattolici di giovane generazione ben presenti nel movimento antiglobalizzazione. Ma proprio questo implica il disvelamento delle contraddizioni enormi tra le esigenze progressive di quei settori e la natura reazionaria della Chiesa, a partire dalla lotta di classe e dalla stessa battaglia per le rivendicazioni democratiche.

In questo quadro, oggi, sull’onda dello scontro apertosi in ordine alla scuola privata e alla libertà delle donne, la rivendicazione dell’abolizione del Concordato, della fine dei privilegi materiali e simbolici che esso garantisce alla Chiesa, riconquista una forte attualità.


Tesi 32 - NATURA DEL PARTITO
La proposta avanzata di "superamento della funzione d'avanguardia" del partito, a favore di una sua "contaminazione" di movimento, rappresenta un rischio serio per il PRC e un danno per i movimenti stessi. Il bilancio decennale della nostra esperienza di partito, il varo di una svolta politica e strategica indicano la necessità della costruzione reale del partito comunista come strumento centrale di lotta per l'egemonia anticapitalista.

La natura del partito, la sua funzione, le sue forme d’organizzazione e di vita, non sono separabili dal programma che il partito persegue e dai caratteri della sua politica. Ed anzi: programma e politica del partito selezionano inevitabilmente la sua stessa natura.
Lungo l’itinerario di dieci anni sullo sfondo delle scelte politiche e istituzionali compiute o perseguite e della rimozione di un progetto strategico anticapitalista, il nostro partito ha progressivamente accumulato un insieme di patologie largamente riconoscibili: la ciclica scissione delle rappresentanze istituzionali dal partito, a vari livelli; uno scarso coinvolgimento dei militanti nella definizione ed elaborazione delle scelte, una insufficiente trasparenza, agli occhi degli iscritti, del confronto politico interno al partito; il mancato sviluppo di una robusta rete di quadri, una crisi profonda e perdurante del radicamento sociale e di classe. In altri termini, il nostro partito ha difeso la sua propria esistenza, ma per molti aspetti non si è costruito. Si è riprodotto come importante luogo d’aggregazione, come strumento di mobilitazione, come presenza politica istituzionale, ma non ha sviluppato una vita collettiva di partito, né una incidenza reale sulla dinamica della lotta di classe.
Da questo bilancio dovrebbe derivare la necessità di una svolta, tesa a rimontare il tempo perduto, in direzione della centralità della costruzione del partito e di una nuova politica che la trascini; una politica di alternativa anticapitalistica e di corrispondente egemonia nei movimenti. La sola politica che possa motivare realmente, al di là degli appelli, una cultura d’organizzazione, formazione, militanza, radicamento..

Invece la proposta che viene avanzata ha un segno esattamente opposto: da un lato riconferma la continuità della linea politica e strategica, sul piano nazionale e locale; dall’altro lato, propone una maggiore diluizione del partito nei movimenti entro un attacco diretto, come mai in precedenza, alla concezione stessa dell’”egemonia”. La tesi del “definitivo superamento” della funzione “d’avanguardia” del partito, il concetto di “pari dignità” tra sedi di partito e luoghi di movimento, la critica esplicita allo stesso concetto di “circolo” e di “federazione" da aprire invece alla “contaminazione” dei movimenti configurano nel loro insieme una linea di tendenza profondamente negativa. Invece che sviluppare finalmente una linea di egemonia del partito nei movimenti, si teorizza per la prima volta un principio di egemonia dei movimenti sul partito. E così l’invito dell’apertura ai movimenti, in sé importantissimo, si trasforma in un rischio di dissoluzione nel movimento stesso o di trasformazione delle proprie strutture in indistinti luoghi di movimento. Il risultato paradossale, non è il rafforzamento del partito nel movimento ma all’opposto, un principio di dispersione delle forze e di loro ulteriore sradicamento a tutto danno sia del partito che del movimento stesso.


Tesi 33 - PARTITO, EGEMONIA, MOVIMENTO
E’ necessario costruire il PRC come partito comunista nell’accezione leninista e gramsciana di intellettuale collettivo, impegnato nella lotta per l’egemonia anticapitalistica nella classe operaia e nei movimenti di massa. Il recupero e attualizzazione della concezione leninista del partito è parte decisiva della costruzione reale del PRC, tanto più nella stagione della ripresa dei movimenti. Fuori e contro la cultura gramsciana dell'egemonia, ogni difesa della "forma partito" si riduce a evocazione debole e retorica.

La lotta di classe e i movimenti di massa sono la leva centrale della trasformazione socialista: ciò significa che il lavoro di massa per la promozione dei movimenti di lotta, la loro estensione e sviluppo; il lavoro di radicamento profondo nei movimenti e nella loro dinamica, sono compiti elementari di un partito comunista. Ogni esternità ai movimenti di massa, ogni atteggiamento di distacco -comunque motivato- rappresenta non la “difesa” del partito ma, all’opposto, la compromissione di un progetto anticapitalista cioè della ragione stessa del partito comunista. Per questo simili atteggiamenti vanno seriamente contrastati, sul piano culturale e politico, all’interno del PRC.

Ma l’inserimento profondo nei movimenti va assunto come leva di una battaglia per l’egemonia, non come bandiera della sua rimozione.
Nella concezione leninista e gramsciana -antitetica alle impostazioni teoriche e pratiche dello stalinismo- “egemonia” non significa “controllo amministrativo”, pretesa di un “primato” del partito all’interno dei movimenti. All’opposto essa significa lotta politica e ideale, libera e leale, per la conquista dei movimenti a una prospettiva rivoluzionaria: in aperta contrapposizione a direzioni politiche e culturali burocratico-riformistiche. Fuori da questa azione si disperde la ragione stessa di un partito comunista, e si compromettono le ragioni di fondo dei movimenti stessi. L’intera esperienza del 900 dimostra infatti che i più grandi e radicali movimenti di massa, privi di una direzione rivoluzionaria cosciente e sotto l’egemonia di forze riformiste sono destinati in definitiva alla sconfitta. L’antica teoria revisionistica di fine 800 secondo cui “il movimento è tutto, il fine è nulla” (Bernstein) è stata confutata radicalmente dalla storia. Non può essere riproposta, in nessuna forma, come principio “nuovo” della rifondazione comunista.

L'argomento avanzato secondo cui la concezione leninista e gramsciana dell’egemonia sarebbe oggi superata in quanto basata sulla separatezza antica tra “movimenti prepolitici” e “dottrina” (a fronte invece dell’anticapitalismo latente dei movimenti attuali) fraintende radicalmente sia il passato che il presente.
La rappresentazione dei movimenti come massa apolitica e del partito come “dottrina” distorce in modo caricaturale la concezione marxista sia dei movimenti che del partito. Ogni movimento di lotta delle classi subalterne, anche limitato, racchiude una potenzialità politica: muove pulsioni e idee nuove, sviluppa l’esperienza dei protagonisti, arricchisce la loro consapevolezza. In questo senso ogni movimento di lotta rivela un naturale “anticapitalismo latente”. La funzione decisiva del partito, non è di portare dall'esterno del movimento apolitico, la scolastica della dottrina: ma di far leva, nel profondo del movimento, sui sentimenti progressivi che esso esprime e sulla dinamica viva di lotta che li accompagna, per sviluppare l'anticapitalismo latente del movimento in coscienza politica anticapitalista. Questo salto della coscienza non si produce “spontaneamente”. Richiede il lavoro metodico del partito, perché solo il partito comunista detiene una memoria storica delle lezioni della lotta di classe che nessun movimento contingente può possedere; solo il partito comunista può basarsi su un progetto strategico complessivo che nessun movimento può avere e che da nessun movimento si può pretendere; solo il partito comunista può lottare in forma organizzata e concentrata per liberare i movimenti dal controllo di vecchi apparati o dalle influenze culturali neoriformiste che ipotecano la loro sconfitta. La funzione d’avanguardia del Partito come “intellettuale collettivo” trova in questo compito decisivo la propria radice.

Peraltro lungi dall’essere superata, la concezione leninista del partito è tanto più attuale nel momento storico attuale. In una situazione segnata da un lato dalla ripresa dei movimenti della nuova generazione e dall'altro dal retaggio della lunga cesura storica tra marxismo rivoluzionario e giovani la funzione del partito è più che mai decisiva come costruttore di coscienza, come portatore nei movimenti di una visione politica complessiva, di un metodo marxista di lettura e comprensione della realtà.
Parallelamente proprio i processi frantumazione della classe, sotto il peso delle sconfitte profonde degli ultimi vent’anni- processi spesso addotti a sostegno del "tramonto" del partito ne riprovano più che mai la funzione centrale: come fattore di controtendenza, di ricomposizione sociale del blocco alternativo e in esso di un egemonia di classe anticapitalistica.
A sua volta così come il partito è lo strumento decisivo dell’egemonia, solo la politica dell’egemonia fonda la ragione robusta di un partito comunista. Fuori e contro la concezione leninista e gramsciana dell’egemonia ogni difesa della “forma partito” per quanto sincera, si riduce a evocazione rituale.


Tesi 34 - RIFORMA DEL PRC, NON DILUIZIONE NEL MOVIMENTO
Proprio perché portatore nei movimenti di un progetto anticapitalista e rivoluzionario il partito non può diluire le proprie strutture nei luoghi di movimento: ma invece deve difenderle e svilupparle nella loro specificità, come strumento di intervento di massa. Ciò che richiede una riforma profonda dell’attuale costituzione materiale del PRC.

Un partito comunista come “intellettuale collettivo” ha l’esigenza centrale di sviluppare la propria organizzazione, nella sua autonomia, quale strumento d’azione nella lotta di classe. La tesi avanzata circa “la pari dignità” tra luoghi di partito e luoghi di movimento in una logica di osmosi reciproca e di reciproca “contaminazione” è, in questo senso profondamente regressiva: perché dissolve in una astratta equivalenza di valori un’obiettiva diversità di funzioni e di assetti. Non si tratta di attentare all’autonoma sovranità dei movimenti e delle loro strutture, che va invece rispettata e difesa. Né si tratta di negare l'apporto che l’esperienza di movimento può portare alla formazione del partito, che invece può e deve arricchirsi di ogni viva relazione di massa. Si tratta invece di portare nel profondo dei movimenti e delle loro autonome sedi, entro la partecipazione attiva alla loro costruzione, il progetto rivoluzionario dei comunisti. E per questo è indispensabile l’organizzazione del partito comunista, il suo sviluppo autonomo, il suo radicamento organizzato, come fatto rigorosamente distinto dal movimento. Senza la comprensione e assimilazione collettiva di questa relazione tra organizzazione d’avanguardia ed azione di massa il PRC è destinato ad oscillare, nella sua vita concreta, tra distacco istituzionale dai movimenti e dissoluzione politica del proprio ruolo in essi a favore di un ingenuo movimentismo. E spesso a combinare entrambi gli aspetti.
L'assunzione della politica dell’egemonia anticapitalista nei movimenti richiede a sua volta una riforma profonda del nostro partito.
Va affermata innanzitutto la concezione di un partito certo capace di presenza istituzionale, ma non istituzionalista. Un partito che quindi non finalizza la politica al voto ma chiede il voto a una politica: che non subordina la propria azione di massa alla propria rappresentanza istituzionale ma subordina la propria rappresentanza all’azione di massa, allo sviluppo dell’opposizione sociale, alla ricomposizione di un blocco anticapitalista.
Il carattere di massa del partito sta, prima di tutto, in questa sua proiezione quotidiana verso la conquista delle classi subalterne: da qui la necessità di un radicamento sociale nei luoghi di lavoro e sul territorio, della costruzione e formazione dei militanti e dei quadri, del controllo vigile e costante sui propri rappresentanti istituzionali, che vanno considerati a tutti gli effetti rappresentanze del partito nelle istituzioni e non delle istituzioni nel partito. Infine va affrontato con serietà e concretezza il problema della costruzione organizzata del partito. A questo proposito occorre educare il partito e i suoi organismi dirigenti a tutti i livelli a formulare progetti definiti, concreti e verificabili, in funzione del radicamento sociale e della vitalità delle strutture, fuori da ogni mera proiezione d’immagine o di mero inseguimento delle scadenze elettorali.


Tesi 35 - DEMOCRAZIA DEL PARTITO
Questa riforma politica profonda della nostra concezione e costruzione del partito richiama una riforma altrettanto profonda della sua democrazia, quale terreno decisivo della stessa rifondazione comunista.

Abbiamo bisogno di rendere tutti i compagni “padroni di casa” nel proprio comune partito: di incoraggiare, non emarginare, le disponibilità dei giovani compagni; di valorizzare, non di comprimere, spirito d’iniziativa e indipendenza di giudizio, che sono lievito indispensabile per un partito vitale; e soprattutto di rendere tutti i militanti del partito partecipi delle elaborazioni e decisioni ai vari livelli del partito stesso: perché gli orientamenti democraticamente definiti sono anche quelli maggiormente sostenuti nell’azione pratica, mentre le scelte passivamente subite, quand’anche condivise, non mobilitano le energie e l’iniziativa.

Parallelamente va affermato il diritto di ogni compagno del partito a conoscere il dibattito, le deliberazioni, le posizioni diverse che emergono nel partito e di contribuirvi consapevolmente (e non per impressioni ricevute magari dalla stampa avversaria). E’ essenziale in questo senso uno strumento di dibattito interno nazionale, con verbali e atti degli organismi direttivi, a partire dalla Direzione nazionale, ed un’ampia possibilità di contributi delle federazioni, circoli, singoli o gruppi di militanti. Al contempo Liberazione deve essere aperto agli interventi dell’insieme del partito e rispettarne la vita democratica, senza alcuna intromissione politica da parte di redattori o responsabili del giornale.

E’ necessario inoltre che la formazione dei compagni - che va assunta come tema centrale del partito - sia concepita anche come sviluppo reale della sua democrazia interna; perché solo lo sviluppo di conoscenze, competenze, preparazione, rafforza l’autonomia di giudizio e quindi la libertà reale della valutazione.

Abbiamo bisogno più in generale di un partito di liberi/e e di eguali, che fa della lotta costante al proprio interno contro ogni forma di burocratismo e di discriminazione il codice nuovo della propria costituzione materiale; va dunque ripristinata la facoltà di iniziativa del circolo contro ogni forma di controllo burocratico della federazione; vanno profondamente rivisti ruolo e natura degli attuali esecutivi regionali. Va ripristinato e realmente affermato il diritto delle federazioni a designare democraticamente le proprie candidature elettorali ai vari livelli, contro logiche di imposizione da parte delle istanze superiori del partito.

Infine il nostro partito deve combinare la necessaria unità nell’azione esterna - fondamentale in una battaglia per l’egemonia - con la più ampia libertà di discussione interna e quindi con il rispetto pieno dei diritti delle minoranze (a partire da quello di poter diventare a loro volta maggioranza): solo questo rapporto di piena democrazia interna e di pari dignità reale (non formale) tra tutte le posizioni può educare alla concezione e alla pratica di un partito di liberi e di eguali e soprattutto può legittimare il principio dell’unità nell’azione esterna come principio assunto e interiorizzato dall’insieme del partito. In questo senso va superata ad ogni livello ogni discriminazione pregiudiziale verso componenti politiche del partito in ordine alla definizione della sua rappresentanza istituzionale e delle sue strutture esecutive.

Peraltro l’esperienza che abbiamo vissuto ha dimostrato che i veri rischi per l’unità del partito non stanno nel libero e leale confronto delle opinioni politiche diverse, ma nella manovra burocratica silenziosa, nello spirito di clan, nella logica del frazionismo burocratico e della cordata: che magari fino al giorno prima recitava l’unanimismo del voto e la “disciplina” di partito.


Tesi 36 - I GIOVANI COMUNISTI
I Giovani Comunisti hanno in questa fase un grande potenziale di crescita. Ma una battaglia per costruire l'egemonia politica tra i giovani su un progetto di alternativa rivoluzionaria necessita di un rafforzamento organizzativo dei GC e soprattutto del loro profilo politico alternativo, fuori da ogni ipotesi di diluizione nelle aree astrattamente "antagoniste" presenti nei movimenti (v. "Tute bianche")

Il V congresso di rifondazione Comunista deve riservare alla questione giovanile una particolare attenzione, per il ruolo strategico che essa ha assunto nello scontro di classe in Italia.
I giovani, lavoratori, studenti o disoccupati, hanno subito più di altri il peso di dieci anni di politiche neoliberiste che i governi succedutesi alla guida del paese hanno intrapreso.
In alcune aree del Paese, in particolare nel Mezzogiorno, l'esercito di riserva dei senza lavoro, è in larghissima parte composto di ragazzi e ragazze giovanissimi.
Per loro, molto spesso, l'unica alternativa che si pone alla loro condizione sociale, è quello di accettare lavori in nero, sottopagati, il più delle volte in settori dell'economia controllati dalla criminalità organizzata.
Meno tragica, ma non per questo meno pesante, è la situazione di chi un lavoro più o meno regolare riesce a trovarlo.
Negli ultimi tempi, specialmente dopo l'entrata in vigore del cosiddetto "Pacchetto Treu", sciaguratamente approvato anche dal nostro partito, abbiamo assistito ad un proliferare di forme di rapporto di lavoro atipico (CFL, apprendistato, contratti di collaborazione coordinata, partite Iva ecc.), che per i neo assunti sono in realtà la "tipicità" del loro ingresso nel mondo del lavoro.
Queste forme d'occupazione hanno avuto dei costi sociali  molto alti: hanno significato bassi salari, aumento dei carichi di lavoro, minor tutela contrattuale e sindacale, mancanza di rispetto delle condizioni igienico sanitarie nelle fabbriche e negli uffici (si spiegano così sia l'enorme numero di morti sia quello di feriti ed invalidi causati da incidenti sul lavoro), insomma una situazione di perenne precarietà e di ricattabilità da parte dei datori di lavoro.
Nel mondo della scuola, abbiamo assistito ad un sistematico attacco all'istruzione pubblica, a tutto vantaggio di quella privata, iniziato dai ministri ulivisti Berlinguer e De Mauro, e che oggi è portato a compimento dal ministro Moratti.
Il progetto di parificazione tra scuola pubblica e privata, che prevede finanziamenti statali e regionali a quest'ultima a fronte di tagli di decine di migliaia di miliardi alla scuola statale, la creazione di un'unica graduatoria per insegnanti pubblici e privati (i secondi assunti in base alla fedeltà all'ideologia degli istituti privati, quasi tutti confessionali), l'istituzione della figura del preside manager, gli investimenti fatti dalle imprese alle università, con lo scopo di determinare le scelte didattiche, rendono ancor più chiaro il carattere classista dell'istruzione in Italia.
A tutto ciò si aggiunga la campagna reazionaria che si è negli anni aperta, in materia di libertà sessuale (omofobia, ipotesi di limitazione del diritto d'aborto, ecc.) e nella lotta al consumo di stupefacenti, campagne rivolte in particolare contro i giovani.
Se questa è la situazione nella quale sono costrette le giovani generazioni, non stupisce che esse stiano avendo un ruolo di primo piano nelle mobilitazioni che segnano il "disgelo" nella conflittualità di classe.
In questa situazione bisogna quindi che il nostro partito, e la sua organizzazione giovanile, si dotino di un programma politico per intervenire all'interno di questi movimenti, per svilupparvi una battaglia d'egemonia

Se il capitalismo dimostra sempre più la sua incapacità nel garantire un futuro alle nuove generazioni, un'organizzazione che si batta per il suo rovesciamento e per la creazione di un'alternativa di classe socialista, potrà rispondere alle legittime aspirazioni dei giovani, arrivando a conquistarne politicamente la fiducia.
Per questo è necessaria una battaglia che partendo dagli attuali livelli di coscienza presenti nei movimenti, le leghi alla necessità di una più complessiva lotta contro il capitalismo, spiegando come solo in una prospettiva più di cambiamento di sistema, anche le aspirazioni per un salario adeguato, per un lavoro stabile, per una scuola non asservita ai diktat del capitale, potranno trovare soddisfazione.
Risulta viceversa non condivisibile la scelta recente dell'attuale gruppo dirigente dei GC di fare un blocco politico e organizzativo con le Tute bianche (Casarini) e la Rete No Global (Caruso) costituendo nel movimento antiglobalizzazione l'area dei "disubbidienti sociali". Ovviamente non è in discussione la possibilità di stringere alleanze tattiche con alcune soggettività ma vi è il rischio che, al di là della volontà soggettiva, questa scelta metta in secondo piano l'azione per la costruzione dell'organizzazione giovanile di rifondazione come soggetto motore e potenzialmente egemone delle mobilitazioni in corso, specialmente in una fase in cui le adesioni alla struttura giovanile sono in forte aumento e sarebbe indispensabile un investimento pieno su di essa; soprattutto, questa scelta rischia di tradursi in una diluizione subalterna delle strutture dei GC in una aggregazione su basi politiche confuse e sbagliate -un misto di generico "antagonismo", movimentismo antipartito e riformismo- che configurano nei fatti i "disobbedienti" come un ostacolo e non una tappa di un progetto per la costruzione dell'egemonia comunista tra le giovani generazioni.
E' per questi motivi che si rende necessaria, anche in questo campo, una svolta politica del Partito e dei Giovani Comunisti, i quali affronteranno questi temi nella loro prossima Conferenza nazionale.