Non si oltrepassano i criteri giuridici della società illuministico-borghese – con le sue guerre, ben peggiori dei gulag – senza una modificazione radicale dei rapporti di produzione e di proprietà. Tale modificazione induceva quelle introdotte nel processo penale, della Russia degli anni Venti, poi degenerate nella inquisizione ideologica stalinista: vi assumevano ruolo primario l'indagine sociale sull'imputato, la «legalità socialista», la confessione, l'autocritica. Non credo che per uscire dalla legalità borghese si debba ripercorrere quel cammino, ma quella direzione sì (F. Fortini, Insistenze, Garzanti, p. 224).
Il movimento antiglobalizzazione ha dimostrato e dimostra che le grandi
potenze del pianeta e il loro ordine possono essere contestati da settori
crescenti delle giovani generazioni del mondo e che tutte le ragioni sociali,
ambientali, umanitarie colpite dalle politiche dominanti possono rivolgersi
unitariamente contro quelle politiche su scala internazionale.
Ma quanto più ampia è l'unità del movimento, tanto
più aperto dev'essere al suo interno il confronto sulle posizioni
e sulle prospettive. L'unità non è unanimismo, che è
anzi nemico dell'unità. Per questo vogliamo avanzare un abbozzo
di proposta programmatica alternativa ad altre impostazioni. Una proposta
che non intendiamo usare come «leva di separazione», ma come
asse di una battaglia politica aperta e leale nel movimento.
1. Respingiamo una rappresentazione astratta e mitologica della «globalizzazione».
La globalizzazione che combattiamo non è né la dimensione
mondiale dell'economia né un'entità metafisica: è
il capitalismo internazionale nel processo storico della ricomposizione
capitalistica dell'unità del mondo dispiegatosi dopo l'89. Imperialismo
non è un concetto ideologico o antiquato. Esso indica il dominio
del capitale sulla società internazionale, che oggi ripropone in
forme nuove i suoi tratti storici (parassitismo finanziario, concentrazioni
monopolistiche, saccheggio dei paesi poveri, guerra), ma anche le sue contraddizioni
(anzitutto la lotta tra grandi potenze per la spartizione del pianeta,
ripresa su larga scala dopo il crollo dell'URSS).
Il movimento deve secondo noi riconoscere il proprio avversario nell'imperialismo,
e ciò significa in ogni potenza imperialistica: non solo nell'imperialismo
americano, ma anche nell'imperialismo europeo, nelle sue multinazionali,
nelle sue banche, nei suoi governi, siano essi di centrodestra, di centrosinistra
o socialdemocratici. Anzi, qui in Europa, la lotta contro l'imperialismo
«di casa nostra» è compito centrale del movimento e
condizione della sua autonomia politica. E la denuncia dell'imperialismo
europeo e italiano, delle sue politiche di saccheggio coloniale nella penisola
balcanica, delle sue politiche reazionarie contro gli immigrati, del suo
militarismo, deve legarsi alla rivendicazione di un'alternativa di società
e di potere su scala continentale.
2. Gran parte della direzione attuale del movimento promuove una piattaforma
antiliberista, ma non anticapitalistica. Secondo noi quest'impostazione
è errata. Il liberismo non è una «cattiva politica»
del capitale rimpiazzabile con una politica «buona» del capitale
stesso, bensì una manifestazione naturale del capitalismo nella
fase storica della sua crisi. Pensare di poter lottare contro il liberismo
(e la guerra) senza lottare contro il capitalismo è illusorio.
La rivendicazione di un capitalismo «equo» (di un commercio
«equo», di una finanza «equa») è solo il
recupero di una vecchia utopia sempre fallita e tanto più inverosimile
oggi. Il sogno di un capitale imbrigliato da una rete di regole democratiche,
come vorrebbe Lilliput, è appunto la fiaba di Gulliver. Nella sua
traduzione concreta, quest'impostazione si riduce a rivendicare o mere
misure di razionalizzazione antispeculativa come la Tobin Tax (che viene
appoggiata dal capitale monopolistico internazionale contro gli speculatori
locali e che infatti – come segnala il Manifesto del 31/1/2002 – trova
oggi il consenso dell'ex-presidente del Fmi, Camdessus, e dei presidenti
del Credito Lionese e di Usinor); o una riforma del WTO e della Banca Mondiale
(che è come chiedere ad un covo di briganti e rapinatori del pianeta
di modificare lo statuto del proprio club); o una cosiddetta economia «extramercantile»
(vedi terzo settore) che in realtà si integra nelle stesse politiche
liberiste come espressione della privatizzazione dello stato sociale e
spesso come luogo di precariato e supersfruttamento; o il bilancio partecipativo
(che non a caso la Banca Mondiale loda come «strumento efficace di
gestione pubblica», poiché rende possibile al capitale guadagnare
l'assenza di un'opposizione alle sue politiche in cambio della concessione
del potere consultivo sul 5% del bilancio).
Quest'impostazione va capovolta. Non si tratta di chiedere al capitale
di essere sociale, democratico, ambientalista e pacifico (cioè di
andare contro la sua propria natura), ma di impugnare ogni rivendicazione
sociale, democratica, ambientale e di pace contro il capitalismo. L'alternativa
è oggi socialismo o barbarie. Il capitalismo sta conducendo l'intera
umanità a una regressione di civiltà, segnata dalla guerra,
dall'aumento della miseria e dello sfruttamento, dalla precipitazione del
degrado ambientale, dal ripresentarsi del razzismo. Per questo proponiamo
nel movimento antiglobalizzazione una chiara prospettiva socialista.
3. La questione della proprietà è la grande questione
rimossa nella riflessione del movimento. Noi la consideriamo invece una
questione strategicamente decisiva. Non per pregiudizio ideologico, ma
per il motivo opposto: per un principio di coerenza con le ragioni e le
istanze che il movimento pone.
Tutte le rivendicazioni poste dal movimento riconducono di fatto al
tema della proprietà. La lotta per la difesa e l'espansione dei
diritti sindacali e sociali in tema di lavoro, sanità, pensioni
riconduce al nodo delle compatibilità capitalistiche imposte dall'interesse
della proprietà e della concorrenza internazionale. La rivendicazione
del controllo e della qualità dei cibi confligge con la fame di
profitto dell'industria agroalimentare. La lotta internazionale all'AIDS
riconduce alla proprietà dei colossi farmaceutici e alle loro ciniche
speculazioni. La lotta per il rispetto degli equilibri ambientali, a partire
dalla riconversione delle produzioni inquinanti, riconduce al nodo del
potere proprietario del capitale su interi settori produttivi. La lotta
contro il militarismo confligge con gli interessi dell'industria bellica
e della lobby da essa controllata.
Pensare di «educare» questa proprietà a politiche
sociali e umanitarie significa condannare all'impotenza le istanze del
movimento (la stessa Naomi Klein riconosce con onestà intellettuale
questa impasse nel suo No logo). Bisogna invece rivendicare, su scala internazionale,
la nazionalizzazione – senza indennizzo e sotto il controllo dei lavoratori
– delle industrie che licenziano, inquinano, affamano. In particolare,
la rivendicazione dell'esproprio dell'industria militare, farmaceutica
e agroalimentare può acquistare oggi vasto consenso su scala mondiale.
4. Gran parte della direzione del movimento ritiene che il socialismo
sia fallito o comunque inattuale. Secondo noi le esperienze del «socialismo
reale» sono fallite, ma proprio perché non hanno realizzato
il socialismo. In quei paesi, una casta burocratica ha prima espropriato
le masse lavoratrici di ogni potere democratico e di ogni controllo sull'economia
pianificata e poi ha gestito contro i lavoratori la restaurazione del capitalismo.
Si tratta di riscattare il socialismo dalla tragedia dello stalinismo e
di rilanciarlo come prospettiva di liberazione dell'umanità.
Del resto tutte le istanze di fondo del movimento antiglobalizzazione
riconducono in ultima analisi al problema di riconsegnare all'umanità
il potere di decidere sulla ricchezza che essa produce e sul rapporto tra
produzione, ambiente e vita.
Cosa c'è di più disumano di una sistema economico-sociale
in cui la guerra e la crescita della disoccupazione può determinare
l'euforia delle borse, mentre la fine di una guerra o l'aumento dell'occupazione
può provocare la loro depressione, e in cui la crescita della povertà
viene determinata da un eccesso di ricchezza prodotta? Cosa c'è
di più ipocrita di una «democrazia» internazionale in
cui duecento colossi multinazionali in lotta per il controllo dell'economia
mondiale concentrano nelle proprie mani un potere incontrollabile? Solo
spezzando il potere di questi colossi e riconducendo alla proprietà
sociale i mezzi di produzione e riproduzione della vita, possono crearsi
le condizioni di una programmazione democratica dell'economia che ne ridefinisca
le priorità in base alla volontà e ai bisogni della grande
maggioranza dell'umanità. Il socialismo è oggi più
attuale che mai.
5. In gran parte del movimento è diffusa l'idea del tramonto
del lavoro salariato e della lotta di classe come leva della trasformazione.
Quest'idea ci pare del tutto infondata nell'analisi e deviante nelle implicazioni
politiche.
Il lavoro salariato, lungi dall'essere scomparso, è in espansione
a livello mondiale. E la classe operaia dell'industria, se ha subito una
contrazione in alcuni paesi imperialisti, cresce enormemente in molti paesi
dipendenti.
Nonostante le sconfitte subite dal movimento operaio negli ultimi decenni,
la crisi capitalistica non permette alle classi dominanti di conquistare
il consenso attivo delle sue vittime sociali. Il potere del capitale si
rafforza, ma la sua egemonia si riduce. Sintomi di ripresa della lotta
di classe si manifestano oggi in vari paesi di tutti i continenti: dall'Europa,
all'Argentina, alla Corea.
Secondo noi il movimento antiglobalizzazione deve ricercare un incontro
con queste nuove generazioni di lavoratori. In forme diverse, le esperienze
di Seattle, di Nizza e soprattutto di Genova dimostrano che questo incontro
è possibile e fecondo. Esso va ovunque promosso in modo sistematico
e coerente: collegando obiettivi e rivendicazioni comuni, sul piano immediato,
a una comune prospettiva anticapitalistica.
Chiediamo a tutti coloro che condividono almeno in parte questa proposta
di segnalarci la loro adesione e le loro osservazioni.
I compagni di Progetto comunista (area programmatica della sinistra
del PRC) di Bologna