Ordine del giorno per il Comitato Politico Nazionale del Prc (3-4 febbraio 2001)



Il Centrosinistra attraversa una crisi profonda che segna lo sfondo delle imminenti elezioni politiche. Una crisi che affonda le proprie radici nella crisi del blocco sociale che ha costituito il supporto dell’Ulivo.
Il cuore del grande capitale e dei poteri forti della società continua a gravitare attorno al Centrosinistra, in continuità con l’intero corso della legislatura. Ma è maturata una reale crisi di egemonia della grande impresa su ampi settori di piccola e media borghesia, in particolare nell’industria e nel commercio; e soprattutto il marchio del capitale finanziario sulle politiche sociali dei propri governi dal ’96 ad oggi ha provocato un processo di progressivo distacco di settori rilevanti di lavoro dipendente ripiegati nell’astensione elettorale e nella demotivazione politica. Questa crisi del blocco sociale del Centrosinistra è il vero punto di forza del Centrodestra: che ha rinsaldato la propria egemonia reazionaria sulla piccola e media borghesia industriale (lungo l’asse Nord-Est – Sud), sulle corporazioni delle libere professioni, sulla Confagricoltura, ricomponendo attorno a sé un blocco vincente nella società, seppur segnato da numerose contraddizioni.

Le forze decisive dell’Ulivo reagiscono alla crisi su due piani complementari e di fondo, ben al di là delle operazioni micro-redistributive della Finanziaria, della politica d’immagine, della stessa scadenza elettorale.
Sul piano economico-sociale lavorano a consolidare il rapporto privilegiato col grande capitale, sia con l’azione di rappresentanza dei propri tradizionali committenti (v. Banche usuraie), sia col tentativo di acquisire rappresentanza e controllo dei nuovi poteri emergenti (settori privatizzati, municipalizzate, informatica) per ricomporre un quadro unitario del blocco dominante e prevenirne possibili smottamenti dopo l’annunciata vittoria del Centrodestra.
Sul piano politico, le principali forze dell’Ulivo lavorano alla parallela ricomposizione della rappresentanza centrale della borghesia italiana, in direzione del cosiddetto partito democratico. Il grosso dell’apparato DS, in particolare, rompendo con il ruolo tradizionale di socialdemocrazia, si candida a rappresentanza diretta della grande borghesia, dei suoi interessi materiali, delle sue esigenze politiche. La Fondazione Italiani-Europei guidata da Massimo D’Alema  e sostenuta da Tronchetti Provera e Colaninno è espressione evidente di questo processo. Un processo che alimenta una forte dinamica conflittuale, potenzialmente distruttiva, all’interno dell’apparato DS, e che accentua, per effetti diretti e indiretti, i processi di disorientamento e passivizzazione politica di rilevanti settori di base del partito.

Su ogni piano, nulla è più lontano dalle preoccupazioni del Centrosinistra borghese che le preoccupazioni e le esigenze delle classi subalterne. Persino nel momento della crisi della coalizione e della sua probabile sconfitta.

Il bilancio conclusivo della legislatura interroga le scelte che il nostro partito ha compiuto. Non solo rivela l’obiettivo fallimento di ogni linea di condizionamento riformatore dell’Ulivo, perseguita anche dall’opposizione (coi quattordici accordi regionali di governo col CS), ma soprattutto misura le gravi responsabilità che ci siamo assunti sostenendo direttamente, per metà legislatura, il governo di CS, per di più nel passaggio strategico del varo della moneta unica e della massima offensiva anti-popolare (record delle privatizzazioni in Europa nel ’97; varo del “pacchetto Treu”; tagli massicci della spesa pubblica per centomila mld; campi di detenzione per gli immigrati…). Il bilancio di quella stagione, sinora rimosso, si conferma tanto più oggi, a fine legislatura, come necessità della rifondazione comunista: al fine di determinare, dall’opposizione, una svolta strategica di fondo del PRC.

Il CPN assume la rivendicazione dell’indipendenza del movimento operaio dalla borghesia, della sua rottura di classe con le forze borghesi, sulla base di un programma anticapitalistico di mobilitazione, quale proposta centrale del partito: una proposta rivolta alle masse lavoratrici e a tutte le loro espressioni politiche e sindacali; una proposta incorporata, parallelamente, alla costruzione del partito comunista tra le masse entro una battaglia aperta per l’egemonia.
Sul piano sociale, i sintomi preziosi di “disgelo” che si vanno producendo contro le politiche dominanti (dalle lotte degli insegnanti alla vicenda Zanussi fino agli scioperi FIAT) ripropongono l’esigenza di un intervento di ricomposizione unitaria del blocco sociale alternativo attorno a una proposta di vertenza generale del mondo del lavoro e dei disoccupati incentrata sulla rivendicazione di forti aumenti salariali; della riduzione dell’orario di lavoro senza contropartite di flessibilità e di finanziamento alle imprese, congiunta alla lotta allo straordinario; di un vero salario garantito ai disoccupati in cerca di lavoro, realmente alternativo ad ogni forma di precarizzazione; di un salario minimo garantito intercategoriale; dell’abolizione del “pacchetto Treu” con l’assunzione di tutti i precari come lavoratori a tempo indeterminato. E’ al contempo necessario costruire l’unità di lotta tra lavoratori italiani e immigrati attorno a comuni obiettivi sociali. Peraltro solo un’autentica esplosione di radicalità sociale, nel segno della rottura con la collaborazione di classe, può ribaltare i rapporti di forza, incrinare il blocco sociale delle destre, scompaginare lo scenario politico.
Parallelamente, sul piano politico, va sviluppata con coerenza la rivendicazione della rottura col centro borghese, in tutte le sue espressioni. Non in direzione di una sinistra plurale a vocazione governista, basata su un blocco politico col grosso dell’apparato DS (ciò che riproporrebbe verso i DS quella illusione di “condizionamento” e “contaminazione” che già è fallita verso il CS). Ma in direzione di un polo autonomo di classe, alternativo a tutte le forze del centro, siano esse tradizionali, siano esse espressione della maggioranza liberale dell’apparato DS. Peraltro solo la rottura del movimento operaio con le forze politiche del centro può creare le condizioni politiche di un ampio dispiegamento della ripresa di mobilitazione di massa.

In coerenza con questa impostazione politica, il CPN orienta le scelte elettorali del partito in direzione di una collocazione pienamente autonoma e alternativa ai due poli borghesi di alternanza. In ordine alle imminenti elezioni amministrative, che coinvolgono anche grandi città, il CPN orienta il partito alla presentazione indipendente delle liste comuniste e di classe e dei relativi candidati sindaci in alternativa al Centrodestra e al Centrosinistra: in particolare respinge ipotesi di apparentamento di governo col CS sia al primo che al secondo turno elettorale preservando o affermando la collocazione del partito all’opposizione.
Sul terreno centrale delle elezioni politiche nazionali il CPN respinge ogni forma di accordo, diretto o indiretto, col CS ed ogni forma di rinuncia alla contrapposizione ad esso (v. la non belligeranza alla Camera). La non belligeranza col CS sarebbe apertamente contraddittoria con la rivendicazione della rottura col centro borghese e dell’autonomia di classe del movimento operaio. Tanto più a fronte del legame profondo del CS con i poteri forti del capitale finanziario e delle politiche liberiste di guerra condotte dai governi di CS in questa legislatura. Una non belligeranza verso il Centrosinistra del capitale sarebbe in contraddizione profonda non solo con una prospettiva anti-capitalistica ma con la stessa azione di opposizione di classe sul piano sociale. Peraltro le più recenti vicende politiche relative al sostegno alle banche usuraie e allo scandalo dell’uranio impoverito indeboliscono ancor più la stessa credibilità della non belligeranza verso il Centrosinistra.

Il CPN pertanto, in coerenza con la prospettiva del polo autonomo di classe,  decide:

a) la presentazione dei candidati comunisti, sia sul livello proporzionale, sia sul livello maggioritario e alla Camera e al Senato, in aperta contrapposizione ai candidati di CD e CS. Ciò significa una presenza alternativa di candidati comunisti nei collegi di fronte ad ogni candidato di centro, sia esso di centro borghese tradizionale, sia esso espressione della maggioranza dell’apparato DS. Eccezioni possono essere realizzate in collegi a massimo rischio solo di fronte a candidati riconoscibili della sinistra critica e del movimento operaio, ovviamente privi di incarichi di governo. Ma sempre all’interno di un quadro complessivo di contrapposizione chiara e netta ai due poli borghesi di alternanza e proprio nel segno della rottura col centro.

b) la presentazione del compagno Fausto Bertinotti come candidato premier in contrapposizione a Berlusconi e Rutelli (come eventualmente a Di Pietro e D’Antoni) quale unica espressione politica del mondo del lavoro e dei disoccupati e dei loro interessi indipendenti. Una scelta che consente oltretutto al partito una notevole estensione degli spazi di comunicazione di massa e di argomentazione delle proprie posizioni generali.

Il CPN sancisce un criterio politico democratico e pluralistico nella composizione della futura rappresentanza istituzionale del partito, rettificando la scelta operata dalla Direzione nazionale di esclusione della minoranza congressuale.

Il CPN avanza parallelamente come base di riferimento della battaglia generale per un polo autonomo di classe una nuova proposta programmatica del PRC. Non più una proposta rivolta all’interlocuzione negoziale col CS, ma rivolta invece apertamente alle masse lavoratrici. Non più una proposta riformistica, tanto minimale quanto utopica e irrealistica, ma una proposta che colleghi i temi rivendicativi della vertenza generale e le rivendicazioni immediate con la prospettiva anticapitalistica complessiva, quale unica risposta di fondo alla crisi della società borghese e alle esigenze più profonde delle masse. Ogni tema e scandalo della società borghese; ogni caso  manifesto di oppressione e irrazionalità capitalistica sul terreno sociale, ambientale, di civiltà, va incorporato sistematicamente alla rivendicazione del controllo dei lavoratori e delle lavoratrici, della rottura dei rapporti capitalistici di proprietà, di una nuova organizzazione razionale della società umana: in definitiva del socialismo quale unica vera alternativa possibile. I casi abnormi dell’inquinamento alimentare (mucca pazza), del fallimento del vertice dell’Aja sul controllo dei gas inquinanti, della pratica usuraia delle banche protetta dal governo borghese, della guerra dell’uranio impoverito coperta dall’ipocrisia di governi e caste militari, della diffusione della criminalità borghese e del suo intreccio inestricabile con il capitale finanziario, indicano, su piani diversi e complementari, l’attualità dell’alternativa socialista; non come soluzione ideologica ma come necessità pratica di risposta a nodi e problemi quotidiani, ben presenti nell’osservatorio delle masse e altrimenti insolubili. Parallelamente l’articolazione transitoria del programma anticapitalistico va assunta come base d’azione e di proposta del nostro partito nell’importantissimo movimento cosiddetto “antiglobalizzazione” accompagnando l’inserimento profondo nel movimento e nella sua inziativa con un’aperta battaglia di egemonia anticapitalistica contro posizioni neoriformistiche in esso presenti.

La svolta politica e programmatica proposta si connette strettamente allo sviluppo, a dieci anni dalla nascita del partito, di una coerente rifondazione comunista e rivoluzionaria. Ciò che significa una ricollocazione del progetto del partito entro un bilancio complessivo del Novecento. L’esigenza di una rottura con lo stalinismo e la sua pagina buia, giustamente sollevata nella manifestazione di Livorno, non può limitarsi ad un annuncio di immagine, né può ridursi alla denuncia più esplicita dei crimini staliniani, che pur è centrale. E’ necessario indagare il cuore della svolta politica e strategica introdotta dallo stalinismo nel movimento comunista internazionale a partire dalla metà degli anni Trenta con l’abbandono del principio dell’autonomia di classe in nome della teoria e della pratica delle coalizioni con la cosiddetta borghesia democratica. Una denuncia dello stalinismo che rimuovesse questo punto decisivo o che addirittura riconducesse, all’opposto, il fondamento genetico dello stalinismo alla stessa tematica del potere proletario e della sua conquista rappresenterebbe, al di là delle intenzioni, una negazione profonda della ricerca stessa della rifondazione rivoluzionaria.
Viceversa il recupero e l’aggiornamento delle connessione centrale tra autonomia di classe e prospettiva rivoluzionaria, proprio dell’esperienza e del pensiero di Marx, Lenin, Luxemburg, Trotskij e Gramsci può e deve essere assunto come nuovo quadro di confronto e di riferimento della rifondazione comunista, della sua ricollocazione politica e strategica nel campo nazionale e internazionale.

Roma, 4 febbraio 2001
 

MARCO FERRANDO, IVANA AGLIETTI, VITO BISCEGLIE,
ANNA CEPRANO, FRANCO GRISOLIA, LUIGI IZZO, MATTEO MALERBA, FRANCESCO RICCI, MICHELE TERRA