Il documento programmatico per le elezioni regionali che in questa sede
siamo chiamati a valutare, ancora una volta testimonia in maniera lampante,
a nostro avviso, l’assoluta subalternità progettuale e di proposta
politica all’ideologia riformista che attanaglia sin dalla nascita il nostro
partito. L’oscillazione perenne tra forti enunciazioni di principio, spesso
demagogicamente tese solo all’aumento del consenso elettorale e la pratica
politica quotidiana improntata alla mera gestione istituzionale, ha segnato
la storia del PRC. Il documento propostoci, sia pur inaugurando una discussione
sul “senso” della nostra azione politica in regione di cui si sentiva la
necessità, risulta carente di analisi strutturali della crisi del
cosiddetto “modello emiliano”, ed alimenta di conseguenza una via di fuga
revisionista che occulta la natura delle reali dinamiche di classe riducendole
alla loro fenomenicità sovrastrutturale. Il documento, consapevolmente
o meno non è importante, rimuove la necessità per il nostro
partito della ricerca di favorevoli rapporti di forza attraverso la ricostruzione
di una consapevolezza di classe che rimetta al centro di qualsiasi intervento
politico l’esigenza di una risposta autonoma della classe lavoratrice all’aggressione
della borghesia e della classe dirigente al suo servizio. In sintesi, viene
rimossa completamente la questione del conflitto sociale e della sua costruzione.
I punti cardine del documento nei quali si sostanzia tale indirizzo
sono, a nostro giudizio, sostanzialmente tre.
1. La percezione dell’istituzione pubblica e delle dinamiche sovrastrutturali in termini di pura neutralità.
2. L’analisi del PCI e del “modello emiliano”.
3. La proposta politica complessiva.
1 Neutralità dell’istituzione pubblica
Quel che traspare dal documento sia all’inizio, nel paragrafo dedicato
agli enti locali, che successivamente nella parte propositiva, è
la percezione dell’istituzione pubblica come organo di mediazione politica
assolutamente neutrale, cui può essere imposto dai partiti, tramite
i propri rappresentanti, qualsivoglia indirizzo programmatico.
Logico corollario di tale interpretazione risulterebbe la necessità,
anche per noi, di mantenere una presenza all’interno delle istituzioni,
possibilmente in maggioranza, per poter determinare una svolta riformatrice
complessiva in controtendenza rispetto alle politiche di espropriazione
dei diritti sociali messe in atto dal centrosinistra in questi anni.
A chi ritiene di dover analizzare la realtà con gli strumenti
categoriali della teoria di Marx, immediatamente si pongono due ordini
di problemi.
Prima questione
Da una illustrazione di tal fatta, risulta totalmente espunta la considerazione
che l’organizzazione statale e quindi di conseguenza anche le istituzioni
da esso derivate, rappresentano le sovrastrutture di potere e di gestione
dello stesso della classe economicamente dominante.
Esse sono costruite in modo tale, in un sistema economico capitalista,
da difendere gli interessi della borghesia proprietaria dei mezzi di produzione
e non possono permettere che tali interessi vengano messi in discussione.
Per cui la presunzione di poter imporre riforme strutturali attraverso
la semplice concertazione sovrastrutturale tra forze politiche, si rivela
un parto della fantasia e nulla più. Occorre ribaltare quindi le
affermazioni ideologiche presenti sul documento programmatico.
Gli enti locali non furono costretti alla fine degli anni 70 ad introdurre
l’obbligo del pareggio ponendo così fine alle politiche keynesiane,
ma fu vero proprio il contrario : la fine dell’espansione produttiva innescattasi
all’indomani della seconda guerra mondiale, assieme alla svolta riformista
del PCI, consentiva allo Stato e di conseguenza agli enti locali, di imporre
il pareggio del bilancio al fine di non sperperare un profitto padronale
che si stava riducendo.
E così allo stesso modo, non è lo Stato che si ritrae
da molti settori perché ha fatto proprio il modello dell’impresa,
e cioè secondo questa interpretazione una scelta ideologica determina
una scelta strutturale di politica economica, ma bensì è
il permanere della stagnazione economica protrattasi oltre ogni previsione
associata alla frammentazione della classe operaia dovuta alla ristrutturazione
capitalistica che determina la scelta ideologica del pensiero unico. E’
tipico dell’apparato ideologico borghese e riformista ritenere che siano
le sovrastrutture a determinare le scelte strutturali, in realtà
la dialetticità tra i due livelli è molto più complessa
e contraddittoria e innesca come conseguenza la seconda questione.
Seconda questione
Se le dinamiche oggettive non consentono un subitaneo trasferimento
dalla teoria alla prassi di una ipotesi di trasformazione plausibile attraverso
la semplice concertazione tra forze politiche, qual è lo strumento
che potrebbe consentire tale realizzazione ?
L’unico strumento possibile è la costruzione di rapporti di
forza favorevoli attraverso il tentativo di mobilitazione del nostro blocco
sociale di riferimento e cioè i lavoratori salariati, sulla base
di una piattaforma rivendicativa unificante degli interessi frammentati
che abbia al centro, come fulcro irrinunciabile, l’autonomia della classe
lavoratrice e della sua organizzazione politica di avanguardia.
Questo obiettivo irrinunciabile è totalmente stralciato dall’orizzonte
programmatico del documento per un approccio di natura idealistica alle
questioni.
Come si può pensare realisticamente di poter riuscire a concordare
attraverso un confronto col C.S. una riforma per limitare il lavoro precario,
come quella che viene definita “salario sociale”, quando tutti gli atti
di questi ultimi anni sia del governo nazionale che delle amministrazioni
locali di C.S. tendono nella direzione esattamente opposta e la natura
strutturale della stagnazione economica impedisce significative iniziative
riformatrici?
Come si può pensare realisticamente di poter modificare, attraverso
la concertazione di governo, la legge Rivola per il finanziamento alle
scuole private quando essa è appena stata approvata dagli stessi
membri del governo regionale coi quali si tratta ?
Solo ponendoci come interlocutori reali, anche dalle istituzioni, delle
contraddizioni del mondo del lavoro e lavorando affinché questi
ed altri argomenti inerenti al salario complessivo della classe riescano
a prevalere e costituiscano materia di mobilitazione, possiamo pensare
di invertire l’espropriazione galoppante dei diritti sociali acquisiti
!
2 PCI e modello emiliano
Anche per quanto riguarda l’analisi del cosiddetto “modello emiliano”
e del ruolo svolto dal PCI nella sua realizzazione si concreta, nel documento
programmatico regionale, un approccio di tipo idealistico più attento
ai fenomeni sovrastrutturali che alle reali dinamiche storiche.
Se è vero che all’indomani della guerra il PCI, grazie all’egemonia
che si era conquistato attraverso la lotta partigiana sulla società
emiliano romagnola, riuscì a riformare profondamente l’apparato
produttivo regionale con innegabili benefici per la classe operaia, è
altrettanto vero però che non costituì : “una sorta di zona
franca, in cui esercitare un proprio modello”, non sperimentò :
“diversi modelli sociali” bensì, consapevolmente, (vedere per questo
“Ceto medio e Emilia rossa” discorso di Togliatti a Reggio Emilia del 1946)
si propose nella regione come principale organizzazione modernizzatrice
dei rapporti di produzione all’interno delle compatibilità capitalistiche.
Il tentativo riuscito, fu quello di costituire un blocco sociale stabile
tra gli operai e la piccola borghesia rurale ed intellettuale che, attraverso
la mediazione sociale del partito e del sindacato avrebbe garantito, ai
piccoli e medi produttori, sia associati nelle cooperative che privati,
l’innovazione dell’apparato produttivo in senso compiutamente capitalistico
al riparo dall’intrusione dei grandi monopoli e profitti certi basati sulla
partecipazione del proletariato, al quale del resto veniva assicurato un
futuro di prosperità dovuto all’espansione economica successiva
alla guerra.
Fu una grande esperienza di riforma la cui possibilità, lungi
dall’essere decisa a tavolino, aveva la sua profonda ragion d’essere nella
situazione oggettiva di quell’epoca : espansione economica postbellica,
situazione politica internazionale, grande credito popolare del PCI. Fino
agli anni ’60 questa esperienza mantenne, nelle sue espressioni maggioritarie,
la prospettiva della trasformazione.
In seguito, la crisi degli anni ’70, contribuì a far venire
al pettine i nodi di un atteggiamento che, mutate le condizioni economiche,
si mutava in riformismo fine a se stesso privo di qualsiasi riferimento
ad un’alternativa di sistema.
In quel momento allora, quella struttura produttiva policentrica basata
su quel compromesso sociale riformatore che aveva funzionato così
bene negli anni passati, iniziò a diventare una camicia di forza
neocorporativa che attraverso la triangolazione concertativa tra aziende,
enti locali e sindacato, depresse l’autonomia rivendicativa operaia che,
in effetti, anche grazie all’onda lunga delle conquiste precedenti, fu
molto minore rispetto ad altre regioni.
Il PCI fulcro di quel sistema, si avviava a diventare in Emilia padrone
collettivo, partito-Stato. Negli anni successivi il partito comunista,
divenuto come PDS e successivamente come DS classe dirigente nazionale,
ha mutato il proprio blocco sociale di riferimento e ha virato verso conseguenti
opzioni monopolistiche mantenendo tuttavia un importante controllo sulla
classe lavoratrice che gli ha permesso di esportare a livello nazionale
la concertazione triangolare per comprimere i salari e le condizioni di
vita e di lavoro della classe operaia.
Se si analizza compiutamente dunque, la parabola sociale emiliano romagnola,
ci si rende immediatamente conto che, soluzioni efficaci in un determinato
periodo storico per conservare od espandere il patrimonio collettivo di
socialità, non lo sono in altri.
Per questo motivo le chiavi interpretative prospettate nel documento,
oltre che ad una sopravvalutazione del confronto istituzionale, come si
è già detto in precedenza, assumono elementi riformisti nell’approccio
del tutto inadeguati alla fase storica attuale.
3 Proposta politica complessiva
Gli appelli ad “abbandonare il timore del confronto con la realtà”,
“la necessità di offrire opzioni programmatiche senza chiuderci
nel settarismo”, lo sforzo di contrastare “il neoliberismo dilagante opponendogli
sia politiche di resistenza che di innovazione anticiclica” si sono risolti
infine, nel documento programmatico, in un ben misero risultato.
E’ proprio vero che la montagna dopo mille e mille sforzi partorì
un topolino assai meschino.
La risposta ai nostri problemi, per quanto riguarda le questioni inerenti
al lavoro, sostanzialmente la si ritrova rispolverando lord Keynes, i lavori
socialmente utili e “raddrizzando” sia la cooperazione sociale che quella
canonica come un buon padre di famiglia potrebbe fare nei confronti di
un figlio particolarmente discolo.
Per quanto riguarda Keynes, ci pare opportuno rilevare che ciclicamente,
questo sereno economista borghese, che in vita sua mai avrebbe pensato
di essere tirato così tanto per la giacchetta da trinariciuti comunisti,
viene riesumato per offrire risposte che obiettivamente non può
dare.
Keynesismo. Storicamente Keynes e le sue teorie economiche di deficit
spending, hanno conosciuto nei paesi occidentali sostanzialmente un duplice
inveramento.
Esemplare è il caso italiano che si sviluppò dagli anni
’50, attraverso il primo governo di centrosinistra del ’62, fino
alla metà circa degli anni ’70. Il keynesismo, utilizzato in una
fase espansiva dell’economia di mercato, ha prodotto a seguito di lotte
operaie aspre e cruente e in una situazione politica internazionale che
vedeva il confronto nucleare di due blocchi superpotenti, un miglioramento
sostanziale delle condizioni reali della classe operaia anche per il timore
da parte della borghesia di uno sbocco rivoluzionario concreto.
Lo stesso metodo, applicato ad una fase recessiva dell’economia capitalistica
ha prodotto, un aumento esponenziale della fabbricazione di materiale bellico,
una militarizzazione massiccia della società e la corsa verso una
guerra spaventosa, necessaria al fine di distruggere capitale fisso per
rifinanziare una nuova espansione. Da Welfare (stato sociale) a Warfare
(stato guerra).
Esemplari sono i casi della Germania nazista da una parte e degli Stati
Uniti all’indomani della crisi del ’29.
La nostra situazione economica attuale, non è né in una
fase potentemente espansiva né in una fase drammaticamente recessiva,
tuttavia la stagnazione sostanziale che stiamo attraversando, tende sicuramente
molto più verso la seconda che verso la prima opzione e la guerra
imperialista nei Balcani ha rappresentato in questo senso un segnale importante
cui occorre fare estremamente attenzione.
I lavori socialmente utili. Si sono rivelati nell’applicazione concreta,
pacchetto Treu docet, un assistenzialismo di Stato finanziato con i soldi
dell’INPS e cioè coi soldi dei lavoratori, che ha creato estrema
precarizzazione per la natura temporanea del rapporto di lavoro.
La cooperazione. Nessuno pensiamo, voglia rivestire i panni del generale
Custer, anche per la brutta fine che ha fatto, ma nemmeno si può
continuare a fare la parte di Toro.....Seduto sulla rassicurante convinzione
che essa possa rappresentare il grimaldello per scardinare le compatibilità
capitaliste.
Nella nostra regione la cooperazione rappresenta ancora, per la rilevanza
delle vecchie cooperative di produzione e lavoro o di consumo, e rappresenterà
sempre di più, per la crescente rilevanza delle cosiddette
cooperative sociali, un settore importante dell’economia regionale che
ha assunto dinamiche difficilmente “raddrizzabili”.
Oggi queste aziende, rappresentano la punta di diamante della deregolamentazione
selvaggia del mercato del lavoro, dimostrando in tal modo, la propria completa
sussunzione ad un economia di mercato matura.
In conclusione riteniamo pertanto, che la proposta politica complessiva rappresentata dal documento proposto alla discussione, non sia in alcun modo ricevibile ne tanto meno emendabile per le ragioni esposte.
La costruzione di un’alternativa di sistema praticabile, non può
che passare attraverso la mobilitazione ed il protagonismo del lavoro salariato
su una vertenza generalizzata che tenti di unificare gli interessi frammentati
dei lavoratori.
Per perseguire questi obiettivi non possiamo che costituirci come terzo
polo della politica italiana, alternativo sia al centrosinistra che al
centrodestra, cercando di unificare il movimento operaio ed intrecciando
indissolubilmente, all’interno dello scontro di classe, l’obiettivo immediato
con la prospettiva dell’alternativa di società e di sistema.