O.d.G. per la conferenza programmatica regionale 29/01/2000



Il documento programmatico per le elezioni regionali che in questa sede siamo chiamati a valutare, ancora una volta testimonia in maniera lampante, a nostro avviso, l’assoluta subalternità progettuale e di proposta politica all’ideologia riformista che attanaglia sin dalla nascita il nostro partito. L’oscillazione perenne tra forti enunciazioni di principio, spesso demagogicamente tese solo all’aumento del consenso elettorale e la pratica politica quotidiana improntata alla mera gestione istituzionale, ha segnato la storia del PRC. Il documento propostoci, sia pur inaugurando una discussione sul “senso” della nostra azione politica in regione di cui si sentiva la necessità, risulta carente di analisi strutturali della crisi del cosiddetto “modello emiliano”, ed alimenta di conseguenza una via di fuga revisionista che occulta la natura delle reali dinamiche di classe riducendole alla loro fenomenicità sovrastrutturale. Il documento, consapevolmente o meno non è importante, rimuove la necessità per il nostro partito della ricerca di favorevoli rapporti di forza attraverso la ricostruzione di una consapevolezza di classe che rimetta al centro di qualsiasi intervento politico l’esigenza di una risposta autonoma della classe lavoratrice all’aggressione della borghesia e della classe dirigente al suo servizio. In sintesi, viene rimossa completamente la questione del conflitto sociale e della sua costruzione.
I punti cardine del documento nei quali si sostanzia tale indirizzo sono, a nostro giudizio, sostanzialmente tre.

1. La percezione dell’istituzione pubblica e delle dinamiche sovrastrutturali in termini di pura neutralità.

2. L’analisi del PCI e del “modello emiliano”.

3. La proposta politica complessiva.
 
 
 
 
 

1 Neutralità dell’istituzione pubblica

Quel che traspare dal documento sia all’inizio, nel paragrafo dedicato agli enti locali, che successivamente nella parte propositiva, è la percezione dell’istituzione pubblica come organo di mediazione politica assolutamente neutrale, cui può essere imposto dai partiti, tramite i propri rappresentanti, qualsivoglia indirizzo programmatico.
Logico corollario di tale interpretazione risulterebbe la necessità, anche per noi, di mantenere una presenza all’interno delle istituzioni, possibilmente in maggioranza, per poter determinare una svolta riformatrice complessiva in controtendenza rispetto alle politiche di espropriazione dei diritti sociali messe in atto dal centrosinistra in questi anni.
A chi ritiene di dover analizzare la realtà con gli strumenti categoriali della teoria di Marx, immediatamente si pongono due ordini di problemi.

Prima questione
Da una illustrazione di tal fatta, risulta totalmente espunta la considerazione che l’organizzazione statale e quindi di conseguenza anche le istituzioni da esso derivate, rappresentano le sovrastrutture di potere e di gestione dello stesso della classe economicamente dominante.
Esse sono costruite in modo tale, in un sistema economico capitalista, da difendere gli interessi della borghesia proprietaria dei mezzi di produzione e non possono permettere che tali interessi vengano messi in discussione.
Per cui la presunzione di poter imporre riforme strutturali attraverso la semplice concertazione sovrastrutturale tra forze politiche, si rivela un parto della fantasia e nulla più. Occorre ribaltare quindi le affermazioni ideologiche presenti sul documento programmatico.
Gli enti locali non furono costretti alla fine degli anni 70 ad introdurre l’obbligo del pareggio ponendo così fine alle politiche keynesiane, ma fu vero proprio il contrario : la fine dell’espansione produttiva innescattasi all’indomani della seconda guerra mondiale, assieme alla svolta riformista del PCI, consentiva allo Stato e di conseguenza agli enti locali, di imporre il pareggio del bilancio al fine di non sperperare un profitto padronale che si stava riducendo.
E così allo stesso modo, non è lo Stato che si ritrae da molti settori perché ha fatto proprio il modello dell’impresa, e cioè secondo questa interpretazione una scelta ideologica determina una scelta strutturale di politica economica, ma bensì è il permanere della stagnazione economica protrattasi oltre ogni previsione associata alla frammentazione della classe operaia dovuta alla ristrutturazione capitalistica che determina la scelta ideologica del pensiero unico. E’ tipico dell’apparato ideologico borghese e riformista ritenere che siano le sovrastrutture a determinare le scelte strutturali, in realtà la dialetticità tra i due livelli è molto più complessa e contraddittoria e innesca come conseguenza la seconda questione.

Seconda questione
Se le dinamiche oggettive non consentono un subitaneo trasferimento dalla teoria alla prassi di una ipotesi di trasformazione plausibile attraverso la semplice concertazione tra forze politiche, qual è lo strumento che potrebbe consentire tale realizzazione ?
L’unico strumento possibile è la costruzione di rapporti di forza favorevoli attraverso il tentativo di mobilitazione del nostro blocco sociale di riferimento e cioè i lavoratori salariati, sulla base di una piattaforma rivendicativa unificante degli interessi frammentati che abbia al centro, come fulcro irrinunciabile, l’autonomia della classe lavoratrice e della sua organizzazione politica di avanguardia.
Questo obiettivo irrinunciabile è totalmente stralciato dall’orizzonte programmatico del documento per un approccio di natura idealistica alle questioni.
Come si può pensare realisticamente di poter riuscire a concordare attraverso un confronto col C.S. una riforma per limitare il lavoro precario, come quella che viene definita “salario sociale”, quando tutti gli atti di questi ultimi anni sia del governo nazionale che delle amministrazioni locali di C.S. tendono nella direzione esattamente opposta e la natura strutturale della stagnazione economica impedisce significative iniziative riformatrici?
Come si può pensare realisticamente di poter modificare, attraverso la concertazione di governo, la legge Rivola per il finanziamento alle scuole private quando essa è appena stata approvata dagli stessi membri del governo regionale coi quali si tratta ?
Solo ponendoci come interlocutori reali, anche dalle istituzioni, delle contraddizioni del mondo del lavoro e lavorando affinché questi ed altri argomenti inerenti al salario complessivo della classe riescano a prevalere e costituiscano materia di mobilitazione, possiamo pensare di invertire l’espropriazione galoppante dei diritti sociali acquisiti !

2 PCI e modello emiliano

Anche per quanto riguarda l’analisi del cosiddetto “modello emiliano” e del ruolo svolto dal PCI nella sua realizzazione si concreta, nel documento programmatico regionale, un approccio di tipo idealistico più attento ai fenomeni sovrastrutturali che alle reali dinamiche storiche.
Se è vero che all’indomani della guerra il PCI, grazie all’egemonia che si era conquistato attraverso la lotta partigiana sulla società emiliano romagnola, riuscì a riformare profondamente l’apparato produttivo regionale con innegabili benefici per la classe operaia, è altrettanto vero però che non costituì : “una sorta di zona franca, in cui esercitare un proprio modello”, non sperimentò : “diversi modelli sociali” bensì, consapevolmente, (vedere per questo “Ceto medio e Emilia rossa” discorso di Togliatti a Reggio Emilia del 1946) si propose nella regione come principale organizzazione modernizzatrice dei rapporti di produzione all’interno delle compatibilità capitalistiche.
Il tentativo riuscito, fu quello di costituire un blocco sociale stabile tra gli operai e la piccola borghesia rurale ed intellettuale che, attraverso la mediazione sociale del partito e del sindacato avrebbe garantito, ai piccoli e medi produttori, sia associati nelle cooperative che privati, l’innovazione dell’apparato produttivo in senso compiutamente capitalistico al riparo dall’intrusione dei grandi monopoli e profitti certi basati sulla partecipazione del proletariato, al quale del resto veniva assicurato un futuro di prosperità dovuto all’espansione economica successiva alla guerra.
Fu una grande esperienza di riforma la cui possibilità, lungi dall’essere decisa a tavolino, aveva la sua profonda ragion d’essere nella situazione oggettiva di quell’epoca : espansione economica postbellica, situazione politica internazionale, grande credito popolare del PCI. Fino agli anni ’60 questa esperienza mantenne, nelle sue espressioni maggioritarie, la prospettiva della trasformazione.
In seguito, la crisi degli anni ’70, contribuì a far venire al pettine i nodi di un atteggiamento che, mutate le condizioni economiche, si mutava in riformismo fine a se stesso privo di qualsiasi riferimento ad un’alternativa di sistema.
In quel momento allora, quella struttura produttiva policentrica basata su quel compromesso sociale riformatore che aveva funzionato così bene negli anni passati, iniziò a diventare una camicia di forza neocorporativa che attraverso la triangolazione concertativa tra aziende, enti locali e sindacato, depresse l’autonomia rivendicativa operaia che, in effetti, anche grazie all’onda lunga delle conquiste precedenti, fu molto minore rispetto ad altre regioni.
Il PCI fulcro di quel sistema, si avviava a diventare in Emilia padrone collettivo, partito-Stato. Negli anni successivi il partito comunista, divenuto come PDS e successivamente come DS classe dirigente nazionale, ha mutato il proprio blocco sociale di riferimento e ha virato verso conseguenti opzioni monopolistiche mantenendo tuttavia un importante controllo sulla classe lavoratrice che gli ha permesso di esportare a livello nazionale la concertazione triangolare per comprimere i salari e le condizioni di vita e di lavoro della classe operaia.
Se si analizza compiutamente dunque, la parabola sociale emiliano romagnola, ci si rende immediatamente conto che, soluzioni efficaci in un determinato periodo storico per conservare od espandere il patrimonio collettivo di socialità, non lo sono in altri.
Per questo motivo le chiavi interpretative prospettate nel documento, oltre che ad una sopravvalutazione del confronto istituzionale, come si è già detto in precedenza, assumono elementi riformisti nell’approccio del tutto inadeguati alla fase storica attuale.

3 Proposta politica complessiva

Gli appelli ad “abbandonare il timore del confronto con la realtà”, “la necessità di offrire opzioni programmatiche senza chiuderci nel settarismo”, lo sforzo di contrastare “il neoliberismo dilagante opponendogli sia politiche di resistenza che di innovazione anticiclica” si sono risolti infine, nel documento programmatico, in un ben misero risultato.
E’ proprio vero che la montagna dopo mille e mille sforzi partorì un topolino assai meschino.
La risposta ai nostri problemi, per quanto riguarda le questioni inerenti al lavoro, sostanzialmente la si ritrova rispolverando lord Keynes, i lavori socialmente utili e “raddrizzando” sia la cooperazione sociale che quella canonica come un buon padre di famiglia potrebbe fare nei confronti di un figlio particolarmente discolo.
Per quanto riguarda Keynes, ci pare opportuno rilevare che ciclicamente, questo sereno economista borghese, che in vita sua mai avrebbe pensato di essere tirato così tanto per la giacchetta da trinariciuti comunisti, viene riesumato per offrire risposte che obiettivamente non può dare.

Keynesismo. Storicamente Keynes e le sue teorie economiche di deficit spending, hanno conosciuto nei paesi occidentali sostanzialmente un duplice inveramento.
Esemplare è il caso italiano che si sviluppò dagli anni ’50, attraverso il primo governo di centrosinistra  del ’62, fino alla metà circa degli anni ’70. Il keynesismo, utilizzato in una fase espansiva dell’economia di mercato, ha prodotto a seguito di lotte operaie aspre e cruente e in una situazione politica internazionale che vedeva il confronto nucleare di due blocchi superpotenti, un miglioramento sostanziale delle condizioni reali della classe operaia anche per il timore da parte della borghesia di uno sbocco rivoluzionario concreto.
Lo stesso metodo, applicato ad una fase recessiva dell’economia capitalistica ha prodotto, un aumento esponenziale della fabbricazione di materiale bellico, una militarizzazione massiccia della società e la corsa verso una guerra spaventosa, necessaria al fine di distruggere capitale fisso per rifinanziare una nuova espansione. Da Welfare (stato sociale) a Warfare (stato guerra).
Esemplari sono i casi della Germania nazista da una parte e degli Stati Uniti all’indomani della crisi del ’29.
La nostra situazione economica attuale, non è né in una fase potentemente espansiva né in una fase drammaticamente recessiva, tuttavia la stagnazione sostanziale che stiamo attraversando, tende sicuramente molto più verso la seconda che verso la prima opzione e la guerra imperialista nei Balcani ha rappresentato in questo senso un segnale importante cui occorre fare estremamente attenzione.
I lavori socialmente utili. Si sono rivelati nell’applicazione concreta, pacchetto Treu docet, un assistenzialismo di Stato finanziato con i soldi dell’INPS e cioè coi soldi dei lavoratori, che ha creato estrema precarizzazione per la natura temporanea del rapporto di lavoro.

La cooperazione. Nessuno pensiamo, voglia rivestire i panni del generale Custer, anche per la brutta fine che ha fatto, ma nemmeno si può continuare a fare la parte di Toro.....Seduto sulla rassicurante convinzione che essa possa rappresentare il grimaldello per scardinare le compatibilità capitaliste.
Nella nostra regione la cooperazione rappresenta ancora, per la rilevanza delle vecchie cooperative di produzione e lavoro o di consumo, e rappresenterà sempre di  più, per la crescente rilevanza delle cosiddette cooperative sociali, un settore importante dell’economia regionale che ha assunto dinamiche difficilmente “raddrizzabili”.
Oggi queste aziende, rappresentano la punta di diamante della deregolamentazione selvaggia del mercato del lavoro, dimostrando in tal modo, la propria completa sussunzione ad un economia di mercato matura.

In conclusione riteniamo pertanto, che la proposta politica complessiva rappresentata dal documento proposto alla discussione, non sia in alcun modo ricevibile ne tanto meno emendabile per le ragioni esposte.

La costruzione di un’alternativa di sistema praticabile, non può che passare attraverso la mobilitazione ed il protagonismo del lavoro salariato su una vertenza generalizzata che tenti di unificare gli interessi frammentati dei lavoratori.
Per perseguire questi obiettivi non possiamo che costituirci come terzo polo della politica italiana, alternativo sia al centrosinistra che al centrodestra, cercando di unificare il movimento operaio ed intrecciando indissolubilmente, all’interno dello scontro di classe, l’obiettivo immediato con la prospettiva dell’alternativa di società e di sistema.