NEL MOVIMENTO, PER L'EGEMONIA

di Marco Ferrando


Il movimento antiglobal è un fatto di enorme rilevanza. Esso misura, dopo vent'anni, la crisi di egemonia delle politiche liberiste presso ampi settori di giovani generazioni. E proprio l'irruzione di una nuova generazione dà il segno caratterizzante del movimento come le stesse manifestazioni di Genova documentano in modo impressionante. Per di più proprio quelle manifestazioni, e ancor più le iniziative in tutta Italia di martedì 24, hanno rivelato in forme diverse i segnali di simpatia popolare che circondano il movimento, le potenzialità di ricomposizione attorno ad esso di generazioni diverse del popolo della sinistra, il suo rilevante impatto politico. Cogliere questi elementi è importante sul piano dell'analisi e decisivo sul piano della nostra azione politica. L'inserimento profondo nel movimento è infatti il primo compito di tutto il nostro partito: ciò che significa non solo contributo di presenza alle manifestazioni, ma lavoro attivo di costruzione del movimento stesso, partecipazione piena alle sue strutture, promozione diretta delle sue iniziative. La sottovalutazione di questa priorità - come mi è parso di cogliere nelle posizioni espresse dai compagni Burgio e Grassi - credo vada apertamente combattuta nel Prc.

Ma l'internità al movimento dev'essere la base di una nostra battaglia per l'egemonia, non la bandiera ideologica della sua rimozione. E questo a me pare il punto centrale di riflessione critica su cui concentrare il nostro dibattito. Temo infatti di cogliere nelle interviste del nostro compagno segretario, come negli interventi dei compagni Giordano e Ferrero, una vera e propria mistica del movimento antiglobalizzazione, combinata con una identificazione totale del partito, persino teorizzata, nelle posizioni espresse dalle direzioni attuali del movimento. Considero questo posizionamento sbagliato e profondamente dannoso. Dannoso non solo per il partito, che rischia di ridursi ad appendice del GSF, o a suo semplice collante. Ma soprattutto per il movimento, tanto più dopo i fatti di Genova: quando da un lato il nuovo livello dello scontro politico sollecita uno sviluppo della coscienza politica di migliaia di giovani; e dall'altro proprio la cultura riformistico-pacifista dell'attuale direzione del GSF ostacola di fatto tale evoluzione.

Guardiamo al dibattito in atto nel movimento dopo Genova. La questione ad esempio dell'autodifesa, e quindi dei "servizi d'ordine", è stata posta obiettivamente dai fatti: dall'esperienza pratica, a tratti drammatica, di centinaia di migliaia di manifestanti, oggetto indifeso delle brutalità poliziesche e, su un piano diverso, delle incursioni del "blocco nero". E' possibile allora riproporre, come se nulla fosse accaduto, l'integralismo dogmatico del pacifismo? Ho un sincero rispetto per le filosofie della "non-violenza, conosco l'influenza vasta che esse esercitano nel corpo giovane del movimento (come per altro l'esercitavano in vasti settori critici di gioventù prima del '68). Ma ciò non sposta di una virgola la realtà obiettiva: decine di migliaia di mani alzate non solo non hanno evitato la violenza poliziesca, ma hanno purtroppo costituito il bersaglio più comodo (e per questo paradossalmente incentivante) di quella violenza. Così come la rappresentazione mediatica di "guerre" finte (stile tute bianche), che Luigi Manconi presentava su Repubblica come utile sublimazione collettiva della violenza, ha purtroppo incontrato una polizia per nulla disposta a recitare la parte in commedia che le era stata "teoricamente" assegnata. Occorre allora una svolta seria. Il servizio d'ordine, ampio, unitario, organizzato, non è affatto "deriva militarista e minoritaria": è all'opposto lo strumento indispensabile per tutelare le manifestazioni pacifiche di massa dalle aggressioni dello Stato o dal violentismo vandalico di forze marginali; per sottrarre migliaia di comuni manifestanti ad una sensazione pericolosissima di abbandono e di panico. Significa questo ignorare le forme di autotutela "legale", "giornalistica", "d'opinione"? Tutt'altro: esse sono della massima importanza. Ma contrapporre la rivendicazione del "controllo dell'opinione pubblica" alla necessità del servizio d'ordine (come fanno Bertinotti e Ferrero) credo rappresenti una posizione del tutto astratta, che vedo discendere in ultima analisi da un presupposto di fondo, questo sì "ideologico": la rimozione strategica dalla visione comunista del problema stesso della forza, ridotto ad un semplice problema di consenso. Ma così temo si finisca col riproporre nelle giovani generazioni i miti ingenui di quell'illusione riformista che lungo l'intero Novecento ha causato tragedie di massa infinitamente più grandi di quelle prodotte dai peggiori avventurismi militaristi. Il Cile non docet?

Parallelamente, dopo i fatti di Genova, si pone l'esigenza di una stagione nuova nella politica di massa del movimento. L'incontro più largo con la classe operaia e il mondo del lavoro si ripropone come tema centrale e ineludibile. Tanto più in vista del passaggio di autunno. Il governo Berlusconi, obiettivamente provato dai fatti di Genova, sarà chiamato dal proprio blocco sociale ad un attacco profondo alle condizioni sociali di grandi masse. E questo in un contesto segnato dalla crisi di consenso del liberismo, dalla straordinaria lotta dei metalmeccanici, ma anche da un impressionante vuoto di indicazione e di prospettiva per i lavoratori da parte delle loro vecchie direzioni (vertice FIOM incluso). Il movimento antiglobal non può essere ovviamente il surrogato di una direzione alternativa del movimento operaio ma potrebbe svolgere in questo quadro un ruolo prezioso di possibile detonatore sociale, forte di un capitale d'ascolto presso il popolo della sinistra che i fatti di Genova e la contrapposizione a Berlusconi hanno rafforzato enormemente. Ma allora il rapporto col mondo del lavoro non può ridursi ad un cartello di buone relazioni (preziose) con le rappresentanze del sindacalismo di classe, alla registrazione dell'adesione (preziosa) della FIOM alle manifestazioni di Genova, alla pressione su Sergio Cofferati. Occorre che il movimento promuova una vasta iniziativa diretta verso le grandi masse: una proposta pubblica, rivolta a milioni di lavoratori, precari, giovani disoccupati, per una comune azione di massa in autunno attorno a una comune piattaforma: una piattaforma di rivendicazioni unificanti che rompa con vent'anni di concertazione e punti a una vera esplosione sociale di lavoratori e giovani contro le classi dominanti e il governo delle destre. E' l'unico evento che può rovesciare Berlusconi e smuovere nel profondo, da un versante di classe, l'intera situazione politica italiana, nell'interesse comune del movimento operaio, delle più generali istanze antiglobal e persino delle preoccupazioni "democratiche". Ma può il movimento candidarsi a questo ruolo di detonatore di un blocco sociale più vasto senza che al suo interno maturi come riferimento egemone la centralità del conflitto fra capitale e lavoro, senza che sia contrastata e superata quell'autorappresentazione di "movimento dei movimenti", sommatoria autocentrata ed autosufficiente dell'universo antagonista, o più spesso, di un'indistinta società civile progressista? E qui si ripropone, ancora una volta, la necessità di un'aperta battaglia di egemonia dei comunisti, certo capace di dialogo con la sensibilità attuale del movimento ma determinata sul proprio progetto.

E' necessaria, in definitiva, una chiarezza strategica di fondo sul nostro rapporto di comunisti con "l'antiliberismo": questione su cui il dibattito in corso su Liberazione mi pare invece registri una confusione profonda.

L'antiliberismo è oggi certamente per milioni di giovani nel mondo un sentimento di reazione salutare e di svolta contro le politiche dominanti del Capitale: in questo senso ha una valenza assolutamente progressiva e rappresenta una nuova base di possibile maturazione di una prospettiva anticapitalistica di massa. Ma l'antiliberismo è anche un insieme di culture, strategie, programmi di settori politici intellettuali, di un'ala della burocrazia socialdemocratica, di parti rilevanti dell'istituzione Chiesa, di buona parte del ceto politico verde: e in questo senso esso non si manifesta solo come critica delle politiche dominanti, ma anche come alternativa esplicita alla centralità di classe, al socialismo, alla rivoluzione. Come tentativo di tradurre e contenere su un terreno ideologico riformista e pacifista (per di più velleitario e utopico) spinte e pulsioni di rivolta, in particolare tra i giovani, che potrebbero altrimenti dislocarsi su un orizzonte di alternativa di sistema. Non vedere il lato progressivo dell'antiliberismo dal punto di vista di massa, con un atteggiamento di distacco dottrinario, sarebbe prova di un settarismo imperdonabile. Ma non cogliere il lato conservatore dell'ideologia antiliberista nella sua espressione organizzata oggi egemone, significa di fatto subordinarsi ad essa. Come comunisti possiamo e dobbiamo invece favorire, nel movimento, la maturazione anticapitalistica dei sentimenti di massa antiliberisti proprio contrastando con una proposta di fondo di alternativa anticapitalistica l'antiliberismo riformista. E' facile? No, è molto complesso. Ma tanto più oggi a me pare l'essenziale.

… l'essenziale, s'intende, se il nostro progetto punta ad assumere l'attuale disgelo come terreno di rilancio di una prospettiva rivoluzionaria, in Italia e nel mondo, nel cuore e nella ragione di una giovane generazione. Se invece assumessimo il disgelo (legittimamente) come laboratorio di ricomposizione di una sinistra plurale di governo "jospiniana" con l'apparato liberale DS in vista del 2006 (magari benedetta dal cemento simbolico di una proposta comune di Tobin Tax), allora non sarebbe certo necessaria alcuna battaglia di egemonia nel movimento. Ma quello temo sarebbe il vero disastro: un apparente movimentismo radicale come leva di un'operazione politicista subalterna; un film già visto troppo volte dalle vecchie generazioni nel secolo che ci è alle spalle. Milioni di giovani che oggi rialzano la testa meritano davvero una prospettiva nuova.