INTERVENTO DI FRANCO GRISOLIA AL V CONGRESSO DEL PRC (RIMINI 7/4/02)


Gli sviluppi delle ultime settimane, con le interviste del compagno Bertinotti, a partire da quella all’Unità del 16 marzo, così come la parte conclusiva della relazione introduttiva a questo congresso, riconfermano pienamente le differenze strategiche che esistono tra noi. Il riferimento a un ruolo del movimento che avrebbe, testualmente, “rotto i confini, le linee di contrasto tra le due sinistre”, la rivendicazione di un “nuovo compromesso sociale dinamico progressivo” come “asse della nostra proposta politica” indicano con chiarezza un progetto che io credo dovremmo respingere con fermezza. Anche perché ripropone, da un versante movimentistico, quella politica che è propria della maggioranza del nostro partito da dieci anni: quell’ipotesi di “pervasione della sinistra moderata”, di “spostamento a sinistra del suo asse politico” che è fallita clamorosamente, e nella maniera più evidente nella nostra esperienza di sostegno al governo Prodi.
Perché certo, caro compagno Ferrero, andando da Torino a Milano si può ovviamente trovarsi di fronte a delle curve e una “svolticchia” non costituisce una svolta di direzione. Il problema è sapere se la direzione è quella giusta e, soprattutto, non affermare che andando verso Milano si va verso il mare (o peggio ancora verso il Socialismo). Perché io certo non posso contestare, in sé, la coerenza di una strategia sbagliata, ma certamente posso contestare come molti hanno presentato nel dibattito congressuale il progetto di maggioranza, cioè come  un “movimentismo radicale”, invece che il tentativo, in forma nuova, di riaprire il terreno delle alleanze politiche con le forze di una “sinistra” moderata, che, nella prosa della politica, in Francia ha il nome di Jospin e Hue, ma in Italia ha quelli di Fassino, Rutelli, Dini, Di Pietro e perfino Clemente Mastella ( e a chi pensa che stia esagerando ricordo flebilmente che con tutti costoro noi stiamo gestendo – a favore di quale classe, compagni?- regioni e grandi comuni).
Ed in effetti, come sempre nella storia del movimento operaio, la questione delle alleanze è la cartina di tornasole, quella che indica la strategia di una forza socialista o comunista; se cioè essa è volta a costruire una prospettiva rivoluzionaria o a gestire il presente nel quadro della società borghese. Perciò anche oggi questo è il cuore vero del confronto politico nel nostro congresso.
Naturalmente altri temi hanno una importanza centrale, come la questione dell’imperialismo. Personalmente trovo bizzarra la teoria del “superamento della concezione classica dell’imperialismo” proprio nel momento in cui la nuova realtà mondiale sottolinea, ancor più che nel periodo del boom postbellico, le caratteristiche fondamentali poste da Lenin a base della sua teoria; come lo sviluppo senza precedenti del parassitismo finanziario e la crescita delle multinazionali (le “associazioni monopolistiche internazionali di capitalisti, che si ripartiscono il mondo” per usare la formula leniniana).
Ma anche qui ciò che conta non è l’astrazione teorica. Lenin scrisse L’Imperialismo nel 1916 come arma di lotta contro l’opportunismo kautskyano e la sua teoria del superimperialismo. Alcuni hanno paragonato la teoria assunta dalla maggioranza del partito a quella di Kautsky. Questa accusa è in parte vera e in parte falsa. La teoria kautskyana ipotizzava, di fronte all’orrore della guerra mondiale imperialista l’utopia di un mondo democratico e pacifico in cui sviluppare una lotta graduale per il socialismo. La teoria dei compagni Bertinotti e Mantovani ha una valenza per certi versi opposta, ma non meno, anzi, a me pare, più opportunista: la denuncia degli orrori del capitalismo globale per, in definitiva, glorificare il “paradiso perduto” del “compromesso sociale keynesiano” dell’epoca del boom postbellico, col suo statalismo borghese, nell’utopica speranza di riproporlo con la prospettiva –testuale- “in Italia e in Europa, di governi riformatori”.
I compagni che, all’interno del documento di maggioranza, hanno presentato le tesi alternative contestano il concetto del “superamento della nozione classica di imperialismo”.
Bene, e poi, sulla politica?
Cosa pensano i compagni del problema delle alleanze, dei “governi riformatori”, del “compromesso sociale”?
Silenzio o adesione!
Sì, veramente, come ha affermato il compagno Grassi motivando l’adesione complessiva alle tesi di maggioranza, vi è da parte dei compagni emendatari una “prevalenza” di accordo su una strategia riformista.
Ecco perché il vero confronto e la vera contrapposizione politica nel congresso è avvenuta tra i due documenti. Con un confronto che non è stato e non è tra chi sostiene una linea “più aperta e concreta” e chi invece propone l’arroccamento “settario e ideologico”. Ma tra un gruppo dirigente che avanza una linea riformista, che cerca nei movimenti una rendita di posizione per i negoziati con le forze di centro sinistra (e che per questo rimuove ogni battaglia di egemonia tra le masse), e chi invece propone una linea rivolta alla conquista delle masse per sviluppare una prospettiva rivoluzionaria.
E’ qui il senso della divergenza sul concetto centrale di egemonia, che non è concetto organizzativo, né ideologico, ma politico e programmatico. Una battaglia per l’egemonia che oggi dovrebbe passare attraverso la proposizione, nel movimento sindacale come in quello no-global, di un programma di vertenza generale e di sciopero prolungato per respingere in toto l’attacco governativo e per cacciare il governo Berlusconi.
 Una battaglia per l’egemonia che dovrebbe trovare il suo riferimento nel tradizionale metodo del programma transitorio. Quel programma di obbiettivi transitori che oggi l’avanguardia rivoluzionaria (in primo luogo il Partido Obrero, ma anche le più avanzate organizzazioni di massa unite nel Bloque Piquetero Nacional) porta avanti nella crisi argentina: nelle assemblee dei piqueteros, nelle assemblee popolari di quartiere e oggi nell’assemblea nazionale dei lavoratori (tutte strutture organizzate attraverso la più chiara democrazia dei delegati e che dovrebbero essere un esempio anche su questo terreno per il nostro movimento no-global). Porta avanti, dicevo, intorno a rivendicazioni come la “nazionalizzazione delle banche e delle grandi imprese”, la “nazionalizzazione e messa in funzione sotto controllo operaio delle aziende in crisi” o la “ripartizione tra tutti i lavoratori delle ore di lavoro senza riduzione del salario”. Quelle rivendicazioni transitorie che, del resto, come ci ricorda non la minoranza del partito ma il nostro quotidiano Liberazione o il Manifesto, fanno la forza elettorale di un’organizzazione, per altri versi criticabile, come Lutte Ouvriére in Francia. Perché indicano alle masse la prospettiva di un’altra società, che è quella che loro ricercano di fronte alla crisi della nostra.
Ecco quindi che a bilancio del congresso che si chiude riaffermiamo, con pacatezza ma con chiarezza, che continueremo la nostra lotta per quel progetto che solo può rifondare veramente una prospettiva comunista in Italia. A partire certo dalla rottura con ogni elemento e tradizione stalinista, ma sulla base del recupero pieno della  tradizione vera del marxismo rivoluzionario.
Perché il dibattito che abbiamo svolto è stato nella storia del movimento operaio una costante, che nel metodo mantiene tutta la sua attualità. E’ quel dibattito che oltre cento anni fa vide contrapporsi la grande figura di Rosa Luxemburg ai riformisti e gradualisti della sua epoca intorno alle stesse tematiche che hanno percorso il nostro congresso: la questione del potere e quella del rapporto tra il progetto del comunismo e i movimenti.
Concludeva così dunque la nostra Rosa il suo intervento in un dibattito congressuale della socialdemocrazia tedesca:
<La conquista del potere politico resta il nostro scopo finale e lo scopo finale resta l’anima della nostra lotta. La classe operaia non deve porsi nell’ottica [di chi dice] “lo scopo finale non è niente, è il movimento che è tutto.” No, al contrario: il movimento in quanto tale, senza rapporto con lo scopo finale, il movimento come fine in sé non è niente, è lo scopo finale che è tutto.>
Sono parole giuste, le facciamo nostre perché sintetizzano senza infingimenti il senso del progetto comunista e rivoluzionario che abbiamo avanzato nel dibattito congressuale e che certamente continueremo a portare avanti dopo di esso.