Gli sviluppi delle ultime settimane, con le interviste del compagno
Bertinotti, a partire da quella all’Unità del 16 marzo, così come la parte
conclusiva della relazione introduttiva a questo congresso, riconfermano
pienamente le differenze strategiche che esistono tra noi. Il riferimento a un
ruolo del movimento che avrebbe, testualmente, “rotto i confini, le linee di
contrasto tra le due sinistre”, la rivendicazione di un “nuovo compromesso
sociale dinamico progressivo” come “asse della nostra proposta politica”
indicano con chiarezza un progetto che io credo dovremmo respingere con
fermezza. Anche perché ripropone, da un versante movimentistico, quella politica
che è propria della maggioranza del nostro partito da dieci anni: quell’ipotesi
di “pervasione della sinistra moderata”, di “spostamento a sinistra del suo asse
politico” che è fallita clamorosamente, e nella maniera più evidente nella
nostra esperienza di sostegno al governo Prodi.
Perché certo, caro compagno
Ferrero, andando da Torino a Milano si può ovviamente trovarsi di fronte a delle
curve e una “svolticchia” non costituisce una svolta di direzione. Il problema è
sapere se la direzione è quella giusta e, soprattutto, non affermare che andando
verso Milano si va verso il mare (o peggio ancora verso il Socialismo). Perché
io certo non posso contestare, in sé, la coerenza di una strategia sbagliata, ma
certamente posso contestare come molti hanno presentato nel dibattito
congressuale il progetto di maggioranza, cioè come un “movimentismo
radicale”, invece che il tentativo, in forma nuova, di riaprire il terreno delle
alleanze politiche con le forze di una “sinistra” moderata, che, nella prosa
della politica, in Francia ha il nome di Jospin e Hue, ma in Italia ha quelli di
Fassino, Rutelli, Dini, Di Pietro e perfino Clemente Mastella ( e a chi pensa
che stia esagerando ricordo flebilmente che con tutti costoro noi stiamo
gestendo – a favore di quale classe, compagni?- regioni e grandi comuni).
Ed
in effetti, come sempre nella storia del movimento operaio, la questione delle
alleanze è la cartina di tornasole, quella che indica la strategia di una forza
socialista o comunista; se cioè essa è volta a costruire una prospettiva
rivoluzionaria o a gestire il presente nel quadro della società borghese. Perciò
anche oggi questo è il cuore vero del confronto politico nel nostro congresso.
Naturalmente altri temi hanno una importanza centrale, come la questione
dell’imperialismo. Personalmente trovo bizzarra la teoria del “superamento della
concezione classica dell’imperialismo” proprio nel momento in cui la nuova
realtà mondiale sottolinea, ancor più che nel periodo del boom postbellico, le
caratteristiche fondamentali poste da Lenin a base della sua teoria; come lo
sviluppo senza precedenti del parassitismo finanziario e la crescita delle
multinazionali (le “associazioni monopolistiche internazionali di capitalisti,
che si ripartiscono il mondo” per usare la formula leniniana).
Ma anche qui
ciò che conta non è l’astrazione teorica. Lenin scrisse L’Imperialismo nel 1916
come arma di lotta contro l’opportunismo kautskyano e la sua teoria del
superimperialismo. Alcuni hanno paragonato la teoria assunta dalla maggioranza
del partito a quella di Kautsky. Questa accusa è in parte vera e in parte falsa.
La teoria kautskyana ipotizzava, di fronte all’orrore della guerra mondiale
imperialista l’utopia di un mondo democratico e pacifico in cui sviluppare una
lotta graduale per il socialismo. La teoria dei compagni Bertinotti e Mantovani
ha una valenza per certi versi opposta, ma non meno, anzi, a me pare, più
opportunista: la denuncia degli orrori del capitalismo globale per, in
definitiva, glorificare il “paradiso perduto” del “compromesso sociale
keynesiano” dell’epoca del boom postbellico, col suo statalismo borghese,
nell’utopica speranza di riproporlo con la prospettiva –testuale- “in Italia e
in Europa, di governi riformatori”.
I compagni che, all’interno del
documento di maggioranza, hanno presentato le tesi alternative contestano il
concetto del “superamento della nozione classica di imperialismo”.
Bene, e
poi, sulla politica?
Cosa pensano i compagni del problema delle alleanze,
dei “governi riformatori”, del “compromesso sociale”?
Silenzio o adesione!
Sì, veramente, come ha affermato il compagno Grassi motivando l’adesione
complessiva alle tesi di maggioranza, vi è da parte dei compagni emendatari una
“prevalenza” di accordo su una strategia riformista.
Ecco perché il vero
confronto e la vera contrapposizione politica nel congresso è avvenuta tra i due
documenti. Con un confronto che non è stato e non è tra chi sostiene una linea
“più aperta e concreta” e chi invece propone l’arroccamento “settario e
ideologico”. Ma tra un gruppo dirigente che avanza una linea riformista, che
cerca nei movimenti una rendita di posizione per i negoziati con le forze di
centro sinistra (e che per questo rimuove ogni battaglia di egemonia tra le
masse), e chi invece propone una linea rivolta alla conquista delle masse per
sviluppare una prospettiva rivoluzionaria.
E’ qui il senso della divergenza
sul concetto centrale di egemonia, che non è concetto organizzativo, né
ideologico, ma politico e programmatico. Una battaglia per l’egemonia che oggi
dovrebbe passare attraverso la proposizione, nel movimento sindacale come in
quello no-global, di un programma di vertenza generale e di sciopero prolungato
per respingere in toto l’attacco governativo e per cacciare il governo
Berlusconi.
Una battaglia per l’egemonia che dovrebbe trovare il suo
riferimento nel tradizionale metodo del programma transitorio. Quel programma di
obbiettivi transitori che oggi l’avanguardia rivoluzionaria (in primo luogo il
Partido Obrero, ma anche le più avanzate organizzazioni di massa unite nel
Bloque Piquetero Nacional) porta avanti nella crisi argentina: nelle assemblee
dei piqueteros, nelle assemblee popolari di quartiere e oggi nell’assemblea
nazionale dei lavoratori (tutte strutture organizzate attraverso la più chiara
democrazia dei delegati e che dovrebbero essere un esempio anche su questo
terreno per il nostro movimento no-global). Porta avanti, dicevo, intorno a
rivendicazioni come la “nazionalizzazione delle banche e delle grandi imprese”,
la “nazionalizzazione e messa in funzione sotto controllo operaio delle aziende
in crisi” o la “ripartizione tra tutti i lavoratori delle ore di lavoro senza
riduzione del salario”. Quelle rivendicazioni transitorie che, del resto, come
ci ricorda non la minoranza del partito ma il nostro quotidiano Liberazione o il
Manifesto, fanno la forza elettorale di un’organizzazione, per altri versi
criticabile, come Lutte Ouvriére in Francia. Perché indicano alle masse la
prospettiva di un’altra società, che è quella che loro ricercano di fronte alla
crisi della nostra.
Ecco quindi che a bilancio del congresso che si chiude
riaffermiamo, con pacatezza ma con chiarezza, che continueremo la nostra lotta
per quel progetto che solo può rifondare veramente una prospettiva comunista in
Italia. A partire certo dalla rottura con ogni elemento e tradizione stalinista,
ma sulla base del recupero pieno della tradizione vera del marxismo
rivoluzionario.
Perché il dibattito che abbiamo svolto è stato nella storia
del movimento operaio una costante, che nel metodo mantiene tutta la sua
attualità. E’ quel dibattito che oltre cento anni fa vide contrapporsi la grande
figura di Rosa Luxemburg ai riformisti e gradualisti della sua epoca intorno
alle stesse tematiche che hanno percorso il nostro congresso: la questione del
potere e quella del rapporto tra il progetto del comunismo e i movimenti.
Concludeva così dunque la nostra Rosa il suo intervento in un dibattito
congressuale della socialdemocrazia tedesca:
<La conquista del potere
politico resta il nostro scopo finale e lo scopo finale resta l’anima della
nostra lotta. La classe operaia non deve porsi nell’ottica [di chi dice] “lo
scopo finale non è niente, è il movimento che è tutto.” No, al contrario: il
movimento in quanto tale, senza rapporto con lo scopo finale, il movimento come
fine in sé non è niente, è lo scopo finale che è tutto.>
Sono parole
giuste, le facciamo nostre perché sintetizzano senza infingimenti il senso del
progetto comunista e rivoluzionario che abbiamo avanzato nel dibattito
congressuale e che certamente continueremo a portare avanti dopo di esso.