INTERVENTO DI MARCO FERRANDO AL V CONGRESSO NAZIONALE DEL PRC



Care compagne, cari compagni,
possiamo tutti convenire che in questo quinto congresso il confronto sui temi della Rifondazione ha avuto a disposizione uno sfondo politico nuovo: il riaffacciarsi alla lotta di una giovane generazione, ma anche l’approfondirsi di quella svolta d’epoca che segna l’intero scenario mondiale e la stessa attualità di una rifondazione rivoluzionaria.

E’ questa una svolta non meno profonda di quella che un secolo fa fece da sfondo alla nascita dei Partiti comunisti. Allora si chiudeva un lungo periodo di sviluppo pacifico del capitalismo, di relativo equilibrio, di relativa prosperità, che aveva alimentato la deriva riformista di tanta parte del movimento operaio, e si apriva una stagione di ferro e di fuoco in cui il combinarsi della crisi economica mondiale, delle contese imperialiste, della regressione sociale annunciava l’epoca nuova: l’epoca delle guerre e delle rivoluzioni, un’epoca di grande instabilità mondiale e di convulsioni radicali. Così, in fondo,  è oggi. Non mi riferisco ovviamente allo scenario politico contingente, che è abissalmente diverso, né all’ordine delle previsioni immediate. Mi riferisco invece alla profondità della svolta attuale, alla sua direzione di marcia. Anche oggi si è chiusa una lunga parentesi storica di equilibrio mondiale e di relativa prosperità che il boom postbellico  e l’esistenza dell’URSS avevano in qualche modo sorretto. E si dispiega, da almeno 10 anni un nuovo orizzonte del mondo: non quello dipinto da Marco Revelli all’insegna dell’onnipotenza capitalistica; né quello oggi ritratto da Toni Negri: un IMPERO indistinto che tutto avvolge e plasma. Ma proprio l’opposto: un orizzonte di crisi capitalistica, di nuova instabilità degli equilibri mondiali, di esaurimento degli spazi storici del riformismo. Persino la cronaca  più immediata ne è documentazione. Di cosa ci parla la grande guerra commerciale in corso tra Stati Uniti e Europa attorno all’acciaio, alle compagnie aeree, all’industria tessile? Ci parla della globalizzazione liberista o della ipocrisia ideologica dello stesso libero mercato? Del tramonto degli stati o del loro ruolo centrale e crescente? Di un mondo unipolare o del moltiplicarsi delle contraddizioni tra i grandi blocchi imperialisti sospinte dalla crisi? E lo stesso collasso economico argentino che cosa riflette? Segna gli effetti di un’indistinta globalizzazione al di sopra degli Stati, o gli effetti del saccheggio trentennale che gli stati imperialisti d’America e d’Europa e lo stesso imperialismo italiano hanno esercitato su quel paese anche attraverso il ricorso a dazi protettivi dei propri mercati e  l’abbattimento di ogni barriera difensiva di quell’economia dipendente?  La stessa guerra in Asia centrale rivela oggi nel suo stesso esito il proprio significato vero: non un atto fallimentare nella lotta contro il terrorismo, ma un’operazione criminale di successo per la conquista di nuove zone di influenza e di nuove risorse; non l’esordio, come avevamo sentenziato, di un nuovo direttorio del Mondo tra USA, Russia e Cina: ma la nuova frontiera di quell’antico gioco asiatico in cui tutte le potenze, vecchie e nuove appaiono unite nella conquista del bottino, divise più di prima nel momento della spartizione.Ivi incluse quella Russia borghese di Putin o quella Cina in via di restaurazione che qualcuno indicava, sino a un anno fa, come possibile barriera antimperialista.

Tanto più sullo sfondo di questa svolta d’epoca la lotta contro il liberismo,  contro la guerra, contro ogni oppressione è chiamata più che mai a risolversi in una lotta contro il capitalismo e l’imperialismo per una alternativa socialista fuori da ogni illusione riformista, fuori da ogni illusione pacifista.
Gli stessi fatti di Palestina di queste ore tragiche di cosa ci parlano se non anche di questo?
La verità cruda scolpita definitivamente dai colpi alla nuca di combattenti palestinesi è una sola: non vi sarà mai pace tra oppressi ed oppressori in quella terra, e in nessuna parte del mondo. Non vi sarà mai pace tra carcerieri e carcerati.
Non vi sarà mai pace vera per i palestinesi senza la cacciata delle truppe d’occupazione e dei coloni, senza la riconquista della propria terra, senza il pieno diritto dei profughi al ritorno nelle proprie case, senza la liberazione di quella popolazione arabo-israeliana oggi sequestrata e oppressa dalle leggi discriminatorie del sionismo.
E non vi sarà quindi la pace necessaria e giusta tra maggioranza araba e minoranza ebraica all’ombra dello Stato d’Israele, che è stato artificiale e coloniale che si regge su fondamenti giuridici razziali e che si basa sulla protezione storica di quelle vecchie potenze imperialiste che l’hanno assunto come proprio avamposto in terra araba e strumento di controllo sull’intero medioriente.
Ecco perché la lotta di liberazione della Palestina è inseparabile, oggi più di ieri,  dalla lotta generale contro l’imperialismo, in medioriente e nel mondo.
In questa lotta i nostri fratelli palestinesi non avranno come propri alleati né l’ONU del genocidio antiracheno né le cancellerie europee reduci di guerra e neppure gli sceicchi arabi. Ma potranno invece contare su altre forze: sul coraggio di quella giovane generazione di Gaza e Cisgiordania che chiede giustamente la guerra partigiana contro le truppe d’occupazione; sulla mobilitazione di quelle masse arabe che oggi riprendono a manifestare a Il Cairo, a Damasco, ad Amman e che chiedono contro i propri governi l’unità di lotta della nazione araba. Ma anche sulle contraddizioni che si aprono nelle retrovie dello stato d’Israele, tra i suoi soldati di leva come tra i lavoratori ebrei, stanchi di morire per i coloni o di pagare per i coloni.
Solo l’unità necessaria e  possibile di queste forze può aprire una pagina nuova nelle lotta di liberazione della Palestina, contro ogni ipotesi di sua liquidazione, magari chiamata ancora una volta “pace”, così come contro il terrorismo islamico ( che ha sempre costruito le proprie fortune sul fallimento annunciato di  “paci “ finte ).
Per questo il movimento operaio d’occidente e tutti i movimenti progressivi sono oggi chiamati a issare la bandiera palestinese come una delle bandiere della propria lotta: come fu trent’anni fa per tanta parte della mia generazione la bandiera del Vietnam.

La ripresa dei movimenti di massa è  anch’essa un sintomo dell’epoca nuova di instabilità e di crisi che oggi si apre: nel senso che la radice profonda dell’attuale ripresa dei conflitti, in forme diverse, su scala mondiale, sta nella crisi di egemonia del capitale: nella fragilità della sua base di consenso, nella presenza di una crisi sociale che erode le sue basi materiali. Un capitalismo che dieci anni fa aveva proclamato la sua vittoria sul mondo e la fine della storia, non aveva in realtà, come s’è visto, nulla da offrire né al mondo né alla storia. E non è  un  caso se  la ripresa dei movimenti ha il volto di quella giovane generazione che tante volte ha segnato le svolte profonde e ha annunciato nuove stagioni.
Ma proprio perché la ripresa di massa  ha una radice vasta evitiamo di ridurla ad un unico alveo o ad un unico principio generatore.
Il movimento antiglobalizzazione ha certo costituito e tuttora costituisce una realtà di enorme rilevanza del panorama mondiale: come misura della crisi dell’egemonia dominante, punta emergente della riattivazione giovanile, fattore di positivo contagio di settori di classe e dell’immaginario collettivo di milioni di uomini e di donne.
Ma vestire questo movimento degli abiti del mito,assumerlo come archetipo dei movimenti del nuovo secolo, rappresentarlo come “movimento dei movimenti” identificandolo con le posizioni egemoni della sua leadership, ha rappresentato un errore davvero profondo. Che non solo spiazza la lettura della complessità dei movimenti, ma paradossalmente impoverisce, a me pare, lo stesso significato reale del movimento antiglobal. Perché l’importanza vera di questo movimento non sta nell’essere o l’unico movimento o il movimento centrale o il “modello“ degli altri movimenti. Ma nell’essere invece il prezioso sintomo anticipatore e premonitore di nuovi e più estesi processi di radicalizzazione di massa su scala mondiale e nei diversi paesi: processi che si sviluppano e si svilupperanno attraverso altri canali e strutture, si basano e si baseranno su un'altra composizione delle forze, vedono e vedranno l’ingresso in campo di altri protagonisti, a partire dal cuore del movimento operaio organizzato. Forze che procedono non dalla critica delle ingiustizie del mondo, ma dalla difesa di un diritto colpito, dalla pressione materiale di un bisogno, dalla reazione all’oppressione: e che tuttavia nel loro movimento entrano in collisione con le basi capitalistiche della società e possono aprire crisi radicali e rotture, che sono il fattore decisivo per l’avanzamento reale di quella soluzione socialista che è l’unica vera risposta alle esigenze di fondo poste dal movimento antiglobal.
Di cosa ci parla la rivolta argentina o, su un piano diverso, lo stesso movimento di classe contro Berlusconi in Italia? Di cosa ci parlano, ad un livello ancora diverso, lo sviluppo degli scioperi operai in Cina contro i licenziamenti, il grande sciopero ad oltranza degli operai coreani del settore elettrico, la ripresa degli scioperi dei lavoratori in Russia, tutte lotte ancora parziali, certamente, ma punta dell’iceberg di potenzialità immense? E il compito nostro nel movimento antiglobal è quello di continuare a rivendicarne il primato, come se nulla stesse accadendo, oppure di lavorare a ricomporlo attorno alla centralità dello scontro di classe e dei suoi livelli più avanzati nel mondo?

L’esplosione argentina è al riguardo un riferimento emblematico ed emblematico temo è anche il nostro silenzio. Se parlo qui di questa vicenda non è per averla incrociata, per pochi giorni in realtà, per le vie di Buenos Aires. Ma perché questa vicenda è centrale per la rifondazione comunista e il nostro stesso confronto. Vorrei dirla, un po’ provocatoriamente, così: tutta la dinamica del movimento di massa in Argentina smentisce le categorie della cultura egemone noglobal e del testo di maggioranza di questo congresso; e viceversa pone sul tappeto nel vivo di un’esperienza di massa tutte le questioni strategiche centrali che quella cultura rimuove.
Per anni il paradigma postfordista e poi noglobal non aveva forse affermato che i nuovi movimenti sono fisiologicamente estranei al tema stesso del potere? Che la loro vocazione è la pressione istituzionale e la contaminazione della politica? Che la non violenza è identità antropologica della nuova generazione? Che le rotture rivoluzionarie del Novecento sono insomma memoria da archivio?
Bene: il processo rivoluzionario argentino non ha risparmiato una sola pietra - una sola - di quella costruzione teorica. Un’esplosione sociale radicale si è contrapposta frontalmente al potere dello stato; ha costretto un governo di centro-sinistra democraticamente eletto a fuggire precipitosamente in elicottero; si è difesa con la forza dalla violenza poliziesca e dagli assalti squadristi delle bande peroniste; con la forza ha riaperto dal basso lo scenario politico sedimentando in tutta l’Argentina coordinamenti di assemblee popolari, assemblee piquetere, assemblee di delegati operai, in un processo di autoorganizzazione di massa che richiama di fatto nelle sue potenzialità un contropotere consiliare. Al punto che il principale quotidiano argentino, La Nacion, ha titolato un suo editoriale così: “ soviet a Buenos Aires”. E inequivocabile è il segno delle rivendicazioni emergenti. La Tobin tax liberale che piace a Camdessus e a Luciano Violante è ignorata dalle assemblee popolari che rivendicano la nazionalizzazione delle banche e delle aziende in crisi. Il bilancio partecipativo proposto da Ibarra, sindaco di Buenos Aires, per distribuire l’onere dei sacrifici  è stato respinto dalle assemblee di quartiere con un argomento inequivocabile: “la crisi la paghino i banchieri, non i lavoratori e il popolo. !Que se vaian todos!“.
Non è questa nella traduzione popolare quella domanda di un altro potere che si voleva ormai superata? Non è il riproporsi, più in generale, di quel filo di continuità con le dinamiche rivoluzionarie del Novecento che invece si voleva irrimediabilmente reciso? E soprattutto non rappresenta l’annuncio di altri processi rivoluzionari ad altre latitudini del mondo?

E tuttavia nulla sarebbe più sbagliato che opporre alla mitologia del movimento antiglobal la mitologia del movimento argentino. Perché nessun movimento, per quanto grande nelle sue potenzialità, ha in sé la soluzione dei problemi che pone. Il fattore decisivo è sempre l’incontro con un progetto cosciente, con una direzione politica capace di ricomporre quelle potenzialità sul terreno della rivoluzione. E questo, in Argentina e ovunque, è il compito difficile dei comunisti e della battaglia per l’egemonia. Non quello di abbandonarsi alla mistica dei movimenti, né quello all’opposto, di pretendere in modo dottrinario movimenti di massa con la coscienza infusa e privi di contraddizioni. Ma quello di sviluppare, nel profondo dei movimenti e nel cuore delle loro contraddizioni, una coscienza anticapitalista e rivoluzionaria. Sapendo che l’alternativa è esattamente la loro dispersione e quindi la loro sconfitta.
Non è questa forse la lezione dei movimenti di massa del 900? E’ possibile individuare, in un secolo intero, un solo caso – UNO – in cui un movimento, anche il più grande e possente, abbia potuto vincere a prescindere da una direzione, da un progetto anticapitalista cosciente, dalla costruzione attiva di uno sbocco corrispondente alle sue ragioni più profonde? O non è forse vero che in assenza di quella direzione anche i movimenti più radicali sono stati piegati e dispersi da altre direzioni a tutto vantaggio delle classi dominanti e dello Stato? Penso alle esperienze della mia generazione: al Maggio francese, alla rivoluzione cilena, alla lunga stagione del 68 italiano: quale è stato lì il fattore della sconfitta? La debolezza dei movimenti e delle loro potenzialità, in realtà gigantesche, oppure la politica delle loro direzioni riformiste che hanno disperso quelle potenzialità sull’altare dei compromessi di governo più o meno storici o del rispetto delle istituzioni borghesi dello Stato? Questa è la lezione da portare nel secolo nuovo. Non mancheranno i movimenti e le rivoluzioni, come non sono mancate nel secolo che si è chiuso. Ma decisiva sarà, come in passato, l’egemonia di classe, la direzione di marcia, il partito. Nei vari paesi e su scala mondiale.

E l’attualità di una politica di egemonia anticapitalistica e di classe si pone in tutta la sua rilevanza, qui e ora, nello scenario italiano. Nel vivo di uno scontro drammatico che ripropone e aggiorna tutto il quadro del nostro confronto.

Anche qui, come tutti noi conveniamo, una grande ripresa di lotte di classe ha mosso lo stagno della pace sociale per effetto congiunto della crisi internazionale dell’egemonia dominante e della specifica reazione politica al nuovo governo reazionario delle destre.
Ma ancora una volta proprio l’ampiezza del movimento che si è levato domanda una responsabilità di indicazione e di prospettiva. La gigantesca piazza del 23 marzo a Roma non è solo la registrazione di una potenzialità: ma anche un interrogativo grande sul futuro. E come alla metà degli anni 90 si ripropone un bivio di fondo: o questo movimento sarà piegato alle ragioni della concertazione sociale e dell’alternanza liberale, rischiando oltretutto così la stessa sconfitta nello scontro con Berlusconi; oppure guadagnerà la propria indipendenza dal Centro liberale e da ogni apparato subordinato a quel Centro, e potrà agire così come fattore di ricomposizione di classe e di alternativa anticapitalista. Non esiste una terza via. E la strada che sarà imboccata non si decide domani ma oggi, e ripropone il nodo della direzione.

E’ indubbio che le forze del Centro borghese dell’Ulivo, che hanno regalato l’Italia a Berlusconi, vivacizzano oggi in qualche modo l’opposizione al governo. Ma tutta la loro opposizione a Berlusconi muove dalla volontà di rilanciarsi come carta di ricambio della borghesia italiana, ed in particolare delle grandi famiglie del capitale! Tutta la loro politica, dalle manifestazioni a favore del ministro FIAT Renato Ruggero, alle ostentazioni europeiste, sino all’aperta rivendicazione di una politica più liberista nelle privatizzazioni industriali, configura un segnale preciso: un appello alla borghesia di Agnelli e Provera perché recida il contratto a termine con Berlusconi e si affidi nuovamente ad una rappresentanza Ulivista capace di assicurarle buoni affari e pace sociale. La stessa opposizione di Rutelli, Treu, D’Alema sull’articolo 18 non solo non muove dalla difesa dei lavoratori e del loro Statuto ma si appella esplicitamente alle convenienze della borghesia su come altrimenti perseguire le stesse politiche. E così la campagna Ulivista contro le leggi su rogatorie, falso in bilancio, conflitto d’interessi, non muove da pur fondate ragioni morali o democratiche ma dalla inaffidabilità di Berlusconi come rappresentante dell’interesse capitalistico collettivo e quindi dalla rivendicazione di un ricambio politico borghese. In sostanza: l’opposizione del Centro liberale a Berlusconi muove dall’interesse della classe nemica dei lavoratori.

Per questo esprimo qui il dissenso più netto verso la proposta di apertura unitaria all’Ulivo, avanzata dal Segretario del Partito nella nota intervista all’ Unità.
Sia chiaro: non stiamo discutendo, com’è ovvio, della possibilità obiettiva di convergenze pratiche nell’ostruzionismo parlamentare o la comune presenza di fatto in manifestazioni di movimento.Né dell’unità d’azione tra forze diverse di una medesima classe. Stiamo discutendo di un’altra proposta:della ricerca, come s’è detto, di un accordo programmatico e politico tra PRC e Ulivo per offrire “una sponda unitaria“ al movimento. Giacchè proprio il movimento avrebbe (testualmente) “ rotto i confini e le linee di contrasto o almeno le avrebbe molto fluidificate “.
Qui vedo davvero un  clamoroso capovolgimento della realtà. Dov’è la possibile base di accordo tra il nostro partito e il centro borghese dell’ Ulivo in rapporto al movimento in atto, quando Amato e Treu offrono alla borghesia, quale propria classe di riferimento, l’apertura alla contrattazione individuale e all’arbitrato?
Dov’è lo spazio di una sponda politica comune al movimento quando tutto lo sforzo degli stati maggiori del centro ( Dalemismo incluso ) è di spiegare alla borghesia che ha interesse a scaricare Berlusconi proprio per liquidare il movimento e di spiegare al movimento che deve negoziare con Berlusconi sul terreno proposto dalla borghesia?
Non è evidente che proprio lo sviluppo del movimento ripropone da ogni versante il confine di classe tra opposizione operaia e opposizione borghese liberale?
Qui vedo il concreto disvelarsi di un’impostazione congressuale che continua a rimuovere ogni bilancio delle politiche passate col risultato inevitabile di riproporle. Nel ’94 teorizzammo l’unità dei progressisti come sponda del movimento: e il polo progressista finì per liquidare il movimento per sgombrare il campo al centro sinistra. Dovremmo ora praticare la convergenza col centro sinistra in nome del movimento, per di più dopo aver sentenziato la morte dell’Ulivo, per di più dopo una legislatura liberista e di guerra?

Opposta dev’essere, credo, la nostra politica. Quella della costruzione nel movimento di massa della sua indipendenza politica, dell’autonomia della sua prospettiva. E’ l’asse della proposta che abbiamo avanzato nel Congresso e che ci pare confermata da tutto lo sviluppo degli avvenimenti. Non è una proposta di arroccamento: credo anzi che tanto più oggi il nostro partito sia chiamato all’intervento più largo in tutti i movimenti, alla più ampia proiezione di massa verso il popolo della sinistra, alla capacità di dialogo con quella stessa domanda di unità contro le destre che sale dal movimento dei lavoratori.
Ma la più ampia apertura di massa e lo stesso tema dell’unità contro le destre ha un valore positivo ad una sola condizione: quella di essere dentro la battaglia dell’egemonia e dell’autonomia dei lavoratori e non contro di queste. Alla condizione di porre la rottura col Centro liberale, in tutte le sue espressioni, come necessità stessa del movimento di massa. Cinque anni di subordinazione del movimento operaio al Centro dell’Ulivo hanno consegnato l’Italia a Berlusconi. Ora solo l’emancipazione dal Centro dell’Ulivo può consentire al movimento operaio di battere Berlusconi e preparare le condizioni di un’alternativa vera. Questo può e deve essere l’asse politico del nostro intervento di massa. E non nel nostro interesse, ma nell’interesse vitale del movimento stesso. Perché in un accordo col Centro liberale dei Rutelli, dei Treu, dei D’Alema questo movimento non costruirà né il proprio presente né il proprio futuro. Non difenderà l’articolo 18 in alleanza coi precursori dell’attacco all’articolo 18. Non  romperà la concertazione sociale in alleanza con i padrini politici della concertazione. Non preparerà un’alternativa dei lavoratori in alleanza con uomini della Fiat e della grande impresa.
Per questo la domanda dell’unità contro le destre va tradotta sul terreno di classe: nella campagna rivolta a tutte le tendenze politiche e sindacali del movimento operaio, a tutte le realtà progressive di movimento perché sviluppino la più ampia azione unitaria contro il governo attorno ad una piattaforma indipendente, alternativa alla piattaforma liberale e in piena autonomia dal Centro liberale. Solo così la parola d’ordine dell’unità può diventare un cuneo nelle contraddizioni dell’Ulivo e dei D.S.; un possibile fattore di rafforzamento dell’influenza politica dei comunisti tra le masse.

Peraltro solo questa linea (e proposta) di autonomia di classe  può liberare una lotta coerente per un’altra direzione politica e sindacale del movimento operaio.
E qui si pone la questione Cofferati e il nostro rapporto con essa. Ho considerato e considero un errore il plauso unitario a Cofferati in conclusione dei congressi CGIL. Ma un errore ben più profondo il suo ripetuto incoronamento quale leader della possibile vittoria.
E non solo perché è assai impegnativo incoronare come leader delle vittorie future l’organizzatore scientifico delle sconfitte passate. Ma perché  il disegno strategico del vertice CGIL confligge con le esigenze del movimento in atto: sia sul piano sindacale, sia sul piano politico.
Sul piano sindacale la burocrazia CGIL non solo non ha rotto con la logica della concertazione, ma assume la forza del movimento di massa come leva della sua riconquista: dov’è la svolta strategica del vertice CGIL quando si firma oggi con Berlusconi un accordo sul pubblico impiego che esalta le intese di luglio,  quando si firma oggi un accordo per i lavoratori edili che estende anche lì la piaga dell’interinale, quando si firma oggi un accordo sui chimici che aggrava la precarietà del lavoro?
Sul piano politico Cofferati investe lo spazio nuovo che gli consegna la deriva liberale della maggioranza DS nella prospettiva di una rifondazione socialdemocratica che ricontratti assieme agli equilibri del centrosinistra, l’alleanza del lavoro col centro liberale.
Nell’un caso come nell’altro è la politica della sconfitta del movimento operaio.
Quella linea sindacale e questo progetto politico vanno allora apertamente contrastati dal nostro partito. Ma ciò è possibile solo con comportamenti coerenti. Non combinando subalternità sindacale e apertura all’Ulivo, quasi dovessimo difendere con una mossa d’anticipo un nostro spazio negoziale col centrosinistra che si ritiene insidiato. Ma combinando   il lavoro di egemonia alternativa nelle classe e la lotta per la sua piena indipendenza dall’Ulivo. Rivendicando noi la piena autonomia della CGIL dal centro liberale. Incalzando noi la contraddizione abnorme dell’apparato CGIL tra l’essere il canale dell’espressione di classe e lo strumento della sua subordinazione al Centro. Lavorando noi in questa contraddizione per fare emergere una direzione di massa alternativa che è resa tanto più necessaria dal nuovo livello di scontro col governo e il padronato.

Peraltro solo una linea di costruzione di un’altra direzione può liberare una nuova elaborazione di proposta concreta nel movimento reale.
Dopo il 23 marzo, dopo l’annunciato sciopero generale quale concreta prospettiva di continuità della lotta? Perché né la manifestazione più grande, né lo sciopero generale più riuscito determineranno di per sé il cedimento di questo governo. E se questo governo tiene può vincere; e se vince il movimento rischia una sconfitta pari a quella del movimento operaio inglese sotto il ciclone della Thatcher.

Ma se è questo l’ordine dei problemi quali responsabilità noi ci assumiano?
Penso allora alla necessità di una proposta di piattaforma che non si riduca a  una somma annunciata di iniziative referendarie, proposte di legge, raccolte firme, in una logica di campagne istituzionali e d’opinione, ma possa rappresentare un riferimento per la lotta concreta di milioni di lavoratori, in una logica di vertenza generale che unifichi tutte le loro esigenze.
Penso anche alle forme di lotta. Nel suo piccolo, la splendida lotta a oltranza dei pulitori delle ferrovie che per quattro giorni ha bloccato le stazioni, ha dimostrato che la radicalità della lotta e solo quella può strappare risultati concreti. E per questo rappresenta un’indicazione esemplare per decine di milioni di lavoratori e lavoratrici. La forza espressa il 23 marzo può bloccare l’Italia, salvare l’art.18 e sconfiggere Berlusconi, così come la lotta a oltranza dei lavoratori francesi sconfisse il governo Juppé, così come la massa d’urto della piazza argentina ha sconfitto il governo De La Rua. E oggi solo un’esplosione sociale radicale può aprire una prospettiva reale per il movimento del 23 marzo.

E qui allora si pone la questione dell’obiettivo politico dell’opposizione al governo. L’obiettivo della cacciata del governo Berlusconi-Bossi-Fini come asse politico della proposta di opposizione di massa, mi pare confermato da TUTTA l’esperienza di questi mesi. Sia dal profilo reazionario del governo, sia dalle potenzialità obiettive del movimento, sia dalla progressiva maturazione e radicalizzazione dei sentimenti politici antigovernativi a livello di massa. Nessuna obiezione rivolta a questa rivendicazione ha retto alla prova dei fatti. Ed anzi, se avessimo evitato di criticare fino a 20 giorni fa la cosiddetta “demonizzazione” di Berlusconi sino ad avanzare sullo stesso conflitto d’interessi proposte legislative di salvacondotto per l’attuale legislatura; se avessimo assunto da subito la posizione di avanguardia nell’opposizione POLITICA al governo per la sua cacciata avremmo costruito una sintonia più vasta con i sentimenti del popolo della sinistra e avremmo risparmiato qualche inutile regalo alle speculazioni dell’ULIVO o alla centralità di Cofferati. Ma ora, dopo il 23 marzo e alla vigilia dello sciopero generale, questo Congresso può e deve assumere questa indicazione. Non si tratta, com’è ovvio, di chiedere oggi uno sciopero generale per la caduta del governo: si tratta di portare la rivendicazione politica della cacciata del governo dentro lo sciopero generale e la dinamica in atto: costruendo la consapevolezza che solo questo obiettivo politico è oggi all’altezza del livello nuovo dello scontro; e che solo il rovesciamento dal basso del governo può riaprire da un versante di classe lo scenario politico italiano, ricomponendo attorno alla classe operaia l’intero blocco sociale alternativo e conseguendo rapporti di forza più avanzati per imporre un’alternativa vera. Non l’ennesimo governo di centrosinistra liberale o di sinistra plurale, falliti ovunque e sempre, ma un governo basato sui lavoratori e sulla loro forza. L’unico governo che possa davvero segnare una svolta. L’unico governo in cui possano stare i comunisti.

Allo scetticismo popolare sulla possibilità stessa di una rivoluzione, Marx replicava con una frase molto bella “I sudditi pensano di essere tali perché esiste un re. Non sanno che il re esiste perché loro sono e si sentono sudditi”. Non conosco sintesi più efficace dell’analisi marxista dello Stato e del tema della rivoluzione. Sta a dire che le classi subalterne possono diventare dominanti. Ma alla sola condizione  di liberarsi da quell’abitudine alla sottomissione, da quella percezione ingenua e ingigantita dell’onnipotenza dello Stato che è la vera radice del potere di una minoranza sulla maggioranza della società. Liberare le masse da ogni spirito di sottomissione, costruire nelle masse la coscienza della propria forza, ricondurre ogni esperienza di conflitto, di movimento, ogni obiettivo immediato alla prospettiva rivoluzionaria, come scriveva Gramsci. Questa è la funzione essenziale del partito comunista. Non di un partito più a sinistra degli altri ma di un partito rivoluzionario. Di un partito, come diceva il Manifesto di Marx, che costruisca nel presente, in ogni presente, il futuro della rivoluzione. E che per questo sviluppi le proprie radici sociali, l’ossatura dei propri quadri, la forza della propria organizzazione.

E qui si ripropone il nodo della Rifondazione. Del suo rapporto con la storia e l’avvenire.
Ritorno a Marx “disincrostato” dall’Ottobre da un lato; riferimento all’Ottobre senza il programma dell’Ottobre dall’altro: se questi sono i termini del confronto, mi pare davvero ripropongano da versanti diversi non la discontinuità o la svolta a sinistra ma proprio la cattiva tradizione di tanta parte del 900. Quella che ha ridotto il riferimento al comunismo a simboli, evocazioni, mitologie, bandiere,lì si ideologiche, utili per segnare appartenenze diverse, ma del tutto svuotate di ogni principio e quindi combinabili con politiche di segno opposto. Così  Kautsky combattè la rivoluzione russa e il potere dei Soviet nel nome di Marx e della Comune; e il nome di Lenin e della rivoluzione russa fu per decenni il simbolo onorifico di una casta burocratica che aveva ucciso la rivoluzione e i principi su cui si era basata a difesa dei propri villini sul Baltico. Così, su un altro piano, vorrei ricordare che nella nostra piccola e breve storia il ritorno a Marx fu già celebrato al  nostro III Congresso nel ‘96: assieme al sostegno al governo Prodi e alla vigilia del voto al pacchetto Treu. E il richiamo a Lenin convive in Emilia Romagna col nostro sostegno alla giunta regionale delle privatizzazioni e della continuità dei fondi alle scuole private.

No. Rifondazione è innanzitutto rottura col doppio binario tra parole e cose, tra evocazione e realtà. E’ liberazione dei simboli da ogni retorica celebrativa, è restituzione dei nomi ai loro principi. Autonomia di classe e rivoluzione, indipendenza politica del movimento operaio da ogni forza borghese, come scriveva Rosa Luxembourg “opposizione di classe fino alla conquista del potere”: questi sono i fondamenti originari del marxismo che la socialdemocrazia e lo stalinismo, in forme diverse, hanno rimosso e colpito nella lunga storia del 900. Senza il recupero di quei fondamenti non c’è rottura reale, al di là delle intenzioni, né con la socialdemocrazia né con lo stalinismo, ma l’eterno ritorno del riformismo fosse pure sotto le bandiere della Rifondazione comunista. Di più: senza il recupero di quei fondamenti, la stessa giusta denuncia dello stalinismo e dei suoi tragici orrori approda alla denuncia della presa del potere quale peccato originario del 900: col risultato paradossale di preservare, entro un involucro culturale antistaliniano, proprio quella deriva riformista che lo stalinismo impose dalla metà degli anni Trenta; e di cancellare la memoria di quella generazione di comunisti che in Urss, in Spagna e ovunque si batté contro lo stalinismo per difendere i principi della rivoluzione e che per questo subì gli orrori della persecuzione, delle torture, dell’assassinio.

La stessa categoria dell’“innovazione” che viene proposta come segno di questo V Congresso va allora radicalmente ricollocata. Il problema non è innovazione sì o no, perché è evidente la necessità permanente di affinare l’analisi, sviluppare in modo vivo e creativo riferimenti e linguaggi della politica di massa. Il problema è: innovare cosa? Quale impianto strategico, quale prospettiva politica? E innovare a partire da cosa? Da quali premesse, da quali fondamenti?
Un secolo fa la Rifondazione da cui nacque il movimento comunista si cimentò certo con l’innovazione del marxismo in un confronto intenso che coinvolse la stessa sinistra rivoluzionaria: imperialismo, questione nazionale, questione del partito segnarono nel loro insieme indubbiamente uno sviluppo fecondo del pensiero di Marx. Ma a partire però dal recupero di quei fondamenti rivoluzionari del marxismo che una distorsione riformistica aveva per lungo tempo disperso sull’altare di derive governiste, alleanze riformiste, municipalismi. Ed anzi proprio quel recupero fu l’anima della Rifondazione condotta da Lenin, Luxembourg, Trotsky, Gramsci.

Questo, crediamo, è il metodo da cui ripartire per la rifondazione comunista del nostro tempo. Sapendo certo che le condizioni della rifondazione rivoluzionaria sono più difficili che all’inizio del secolo scorso: più arretrata è la coscienza politica della classe operaia e della sua avanguardia, non esiste un quadro internazionale del movimento operaio paragonabile a quello di allora come terreno di battaglia della sinistra rivoluzionaria, e pesa come un macigno l’esperienza dell’URSS e il suo epilogo. Ma sapendo anche che il recupero dei fondamenti rivoluzionari è proprio per questo,  se così si può dire, ancor più importante di quanto non fosse allora: perché la demolizione che hanno subito nel 900 è ben più profonda, radicale, distruttiva di quanto non fosse accaduto per opera dei Bernstein o dei Kautsky.

E soprattutto sapendo  che il recupero di quel patrimonio è decisivo per l’orientamento del movimento operaio nel nuovo secolo che si annuncia e che un nuovo spazio storico si delinea per il rilancio di una Rifondazione rivoluzionaria. Perché se un piccolo partito marxista rivoluzionario come il Partito Obrero diventa il terzo partito del Paese in alcuni epicentri dello scontro sociale in Argentina. Se in Francia  una forza d’opposizione alla sinistra plurale come Lutte Ouvrière, nonostante i suoi limiti profondi, è accreditata del 10% dei voti su un programma che rivendica non la Tobin Tax, ma l’esproprio delle aziende in crisi, questo misura uno spazio di crescita e di consenso per la sinistra rivoluzionaria nel mondo assolutamente impensabile anche solo dieci anni fa. Anche questa è la misura di un’epoca nuova che ora si apre nel segno della crisi storica del riformismo, il vero piombo nelle ala è non vederlo. Il vero piombo nell’ala è il riformismo

Concludendo, care compagne e cari compagni, abbiamo tutti difeso in questo decennio difficile l’esistenza del nostro partito, a partire dal lavoro quotidiano di migliaia di militanti, nelle federazioni e nei circoli. L’abbiamo difeso dagli attacchi esterni di chi puntava alla sua liquidazione, così come da operazioni scissioniste ripetute che si sono sempre sviluppate dai piani alti –e persino altissimi- delle maggioranze dirigenti e che miravano alla nostra distruzione. L’abbiamo difeso nel pluralismo delle posizioni politiche e strategiche: che può essere fattore di unità vera proprio perché contrasta quei riflessi condizionati dell’unanimismo, del conformismo, dell’omologazione che sono tanta parte dell’eredità del movimento comunista nel secolo che ci sta alle spalle e che proprio la rifondazione è chiamata a rimuovere.
Teniamo ora alto e libero il nostro confronto. Non viviamolo, mi riferisco a tutti, come il rito d’immagine di un congresso dentro la parentesi del suo sipario. Viviamolo invece come confronto vero sulle prospettive, dentro l’unità della nostra azione esterna, capace di coinvolgere e far crescere il corpo profondo di tutto il partito, capace di misurarsi soprattutto con la ripresa di quella giovane generazione che sarà, in Italia e nel mondo, il vero banco di prova della rifondazione comunista.