di Marco Ferrando
Questa nota vuole introdurre qualche elemento di riflessione sui fatti di Genova: sul loro rilievo politico e sui problemi che pongono al movimento e al nostro stesso intervento.
L'impatto politico delle giornate di Genova è stato ed è
rilevantissimo.
Il governo Berlusconi esce male dalla vicenda G8. Berlusconi stesso
e soprattutto il suo ministro FIAT Renato Ruggiero avevano ricercato a
suo tempo un canale di "dialogo" col GSF al fine di garantire una pacifica
governabilità dell'evento G8 e un conseguente successo d'immagine
dell'Esecutivo sul piano interno e internazionale. La dinamica degli avvenimenti
ha avuto, secondo ogni evidenza, una direzione opposta. Tra i numerosi
fattori che hanno concorso a questo esito, centrale è stato il comportamento
di ampia parte dell'apparato repressivo dello Stato. Sentitosi obiettivamente
coperto dal nuovo governo delle destre, direttamente protetto e incoraggiato
da Alleanza Nazionale e dal SAP, trascinato dalle sue stesse contraddizioni
interne e rivalità di corpo, l'apparato militare dispiegato a Genova
ha precipitato l'intera situazione in uno scontro frontale con il movimento.
L'assassinio di Carlo Giuliani, l'azione squadristica condotta nella notte
del 21 luglio nei locali del GSF, la pratica di arresti di massa, pestaggi,
sequestri e torture, quali emergono dalle stesse testimonianze di questi
giorni, ne sono un segno inequivocabile.
Da un punto di vista marxista potremmo dire che sono la riprova della
"superiorità" dello Stato quale sede del potere reale (ossia della
forza organizzata), rispetto a qualsiasi governo. Il governo, a partire
da Berlusconi e Scaiola, ha fatto naturalmente quadrato a difesa di polizia
e carabinieri. Ma la sua immagine è profondamente scossa. La cassa
di risonanza fornita da settori importanti della stessa stampa borghese
alle denunce e testimonianze delle brutalità poliziesche colpisce
settori vasti dell'opinione pubblica. Le reazioni internazionali fanno
altrettanto. E la riattivazione di massa del "popolo della sinistra" a
sostegno dei manifestanti di Genova e contro il governo sembra rompere
quell'atmosfera di disorientamento passivo che era seguita alla sconfitta
del 13 maggio.
In conclusione: se Berlusconi aveva cercato di disinnescare la miccia
di Genova, quella miccia è in qualche modo esplosa. Nelle sue mani.
Parallelamente i fatti di Genova colpiscono nel profondo i DS, aggravando
ulteriormente, sotto ogni aspetto, la loro crisi verticale. I vari clan
di una burocrazia dirigente allo sbando hanno cercato faticosamente una
parte in commedia nel rapporto col movimento, con l'occhio rivolto all'imminente
congresso. Ma l'esito è stato grottesco, nella stessa percezione
pubblica. Lo scavalco di D'Alema su Cofferati, col primo annuncio di adesione
dei DS alle manifestazioni -realizzato per pure esigenze congressuali-
dava un pesante colpo alla credibilità dell'apparato liberale DS
presso quei poteri forti della società italiana che esso assume
come proprio referente (a tutto vantaggio della concorrenza della Margherita).
Specularmente, il repentino "contrordine compagni" a seguito, paradossalmente,
dell'assassinio di Giuliani, contrapponeva l'apparato del partito a significativi
settori della sua base giovanile e militante: e le repressioni poliziesche
contro il corteo del 21 rafforzavano in questi settori una sensazione di
"abbandono" e "tradimento" sino a provocare contestazioni frontali contro
dirigenti liberali DS in numerose feste dell'Unità (v. Toscana).
In definitiva, il movimento antiglobalizzazione non solo radicalizza obiettivamente
nei DS l'alternativa tra opzione liberale e opzione socialdemocratica ma
fornisce allo scontro interno uno scenario di riferimento nuovo, vivo e
diretto, che complica tutti i giochi su tutti i versanti. Così,
se da un lato D'Alema e Fassino risultano radicalmente spiazzati, dall'altro
l'estraniazione di Cofferati e della maggioranza CGIL dal movimento riduce
le potenzialità di capitalizzazione politica interna dei fatti di
Genova da parte delle tendenze socialdemocratiche dell'apparato.
In conclusione: l'agonia DS si aggrava sino a lambire il coma; e settori
crescenti del tradizionale insediamento sociale DS si sentono privi di
ogni riferimento proprio nel momento in cui subiscono l'attrazione del
movimento e si riattivano contro Berlusconi.
Il movimento esce a testa alta dalle giornate di Genova. Ma i trionfalismi
propagandistici di Agnoletto e Bertinotti appaiono totalmente fuori luogo.
Le manifestazioni di Genova hanno certo confermato la dimensione di
massa del movimento antiglobalizzazione e soprattutto l'ingresso di una
giovane generazione sulla scena della mobilitazione. E' un fatto di grande
rilevanza. Le manifestazioni hanno inoltre rivelato i segnali diffusi di
simpatia popolare che circondano il movimento, sullo sfondo di una profonda
crisi di consenso delle politiche liberiste e, dopo le imprese poliziesche,
di una più generale preoccupazione democratica: il grande successo
delle manifestazioni tenutesi in tutta Italia martedì 24 luglio,
con la ricomposizione unitaria di generazioni diverse del "popolo della
sinistra" e con una vasta presenza di giovani e giovanissimi dimostra un
potenziale prezioso di ulteriore espansione del movimento in atto e delle
sue capacità di "contaminazione". E' questo un dato centrale dell'attuale
situazione politica.
Ma proprio questa realtà e potenzialità sottolinea i
problemi irrisolti dell'orientamento del movimento. Non parlo dell'orientamento
strategico e programmatico, che rappresenta ovviamente il terreno centrale
e, in ultima analisi, determinante. Parlo dello stesso orientamento politico
di direzione del movimento in relazione al nuovo scenario di scontro che
si è determinato: nella consapevolezza, come sempre, della connessione
profonda tra orizzonte strategico e scelte politiche.
La sproporzione tra il livello complessivamente arretrato di coscienza
politica diffusa del movimento e l'elevato livello di scontro con l'apparato
dello Stato e lo stesso governo ha costituito indubbiamente un elemento
di fondo delle manifestazioni di Genova.
Naturalmente, in una certa misura, questa contraddizione era inevitabile
perché irrisolta nell'inesperienza delle giovani generazioni. Ma
l'orientamento della leadership del GSF non sono non mira a superarla ma
contribuisce di fatto a dilatarla, con ricadute profondamente negative.
1) La configurazione del GSF come pura somma "intergruppi" di associazioni,
fuori da un'organizzazione democratica nazionale e di massa del movimento,
ha costituito un grave ostacolo all'esercizio di una direzione reale del
movimento sullo stesso terreno delle indicazioni di piazza, con effetti
pesanti di disorientamento e confusione.
2) La metafisica della "non violenza" ha indotto il GSF a respingere
qualsiasi reale struttura di autodifesa larga e reale del movimento, lasciando
una massa di giovani (e meno giovani) in balia dell'aggressione poliziesca
e delle stesse incursioni del "blocco nero" e producendo una diffusa sensazione
di frustrazione e impotenza.
3) Più in generale, sul piano politico, non è emersa
dal GSF durante le giornate di Genova una proposta unificante, rivendicativa
e di lotta, rivolta al mondo del lavoro in vista dell'autunno, capace di
rilanciare sul terreno ampio della ricomposizione sociale un'opposizione
radicale al governo delle destre.
In altri termini, proprio l'innalzamento del livello dello scontro
ha messo in evidenza, come una cartina di tornasole, i riflessi negativi
della cultura riformistico-pacifista della direzione del movimento.
Il PRC, a sua volta, si è totalmente adattato, nel modo più
subalterno, alla leadership del GSF.
Dopo essersi candidato, nella prima fase, a mediatore politico-istituzionale
tra governo e movimento, accettando pubblicamente la proposta Frattini
di un tavolo politico negoziale tra Berlusconi e GSF, Fausto Bertinotti
ha finito col teorizzare una totale identificazione del PRC col movimento.
Trasformando il principio giustissimo dell'inserimento profondo del PRC
all'interno del movimento nel principio della celebrazione passiva ed entusiasta
di tutto quello che la direzione del movimento esprime. In realtà
il gruppo dirigente del PRC opera a più livelli tra loro intrecciati.
Da un lato ricerca nel movimento antiglobalizzazione e nella sua rappresentanza
istituzionale la leva di rilancio della prospettiva della "sinistra plurale",
che resta il suo obiettivo strategico centrale. Dall'altro lavora, per
linee interne al movimento, a rinsaldare un blocco politico-diplomatico
con tutte le componenti centrali del GSF, facendosi forte del peso del
PRC nel movimento ma evitando di porre qualsiasi problema politico. Una
rinuncia pregiudiziale che Vittorio Agnoletto ha pubblicamente riconosciuto,
ringraziando. Nei fatti questa logica rimuove alla radice la stessa questione
dell'egemonia, con un danno politico non solo e non tanto per il partito
ma per il movimento stesso che resta privo di indicazioni alternative proprio
nel momento in cui l'esperienza di Genova e l'innalzamento dello scontro
moltiplica, al suo interno, una domanda di chiarezza e di prospettiva.
Questa situazione generale allarga gli spazi e l'importanza di un nostro
intervento nel movimento ma sottolinea anche i nostri limiti attuali di
presenza in esso.
A Genova abbiamo avviato un tentativo importante di costruzione di
una presenza organizzata di "tendenza rivoluzionaria" all'interno del movimento
antiglobalizzazione, con la diffusione di quasi diecimila copie dell'Appello
pubblicato anche sul giornale dell'area e con una sua presentazione pubblica.
Parallelamente la nostra presenza nelle manifestazioni, con uno striscione
di Progetto comunista, ha costituito, in quel contesto, un utile elemento
di visibilità politica. Tuttavia va riconosciuto con chiarezza che
il nostro lavoro organizzato nel movimento è tutto da costruire
e richiede un salto di investimento diffuso delle nostre forze. A partire
dai compagni firmatari dell'Appello si dovrà approntare al più
presto un quadro di coordinamento nazionale del lavoro. Ma è essenziale
innanzitutto uno sviluppo generale del nostro inserimento nel movimento
e nelle sue strutture, situazione per situazione. Ogni realtà locale
di Progetto comunista dovrà individuare, nell'economia delle forze
disponibili, quali compagni investire nell'iniziativa e nella vita del
movimento (ovviamente nell'ambito di un più generale lavoro di radicamento
sociale). Tanto più in una fase in cui, dopo i fatti di Genova,
si manifesta una dinamica di estensione del movimento e di moltiplicazione
delle sue iniziative, che continuerà previdibilmente sino alla manifestazione
nazionale del 10 novembre. Essenziale è la comprensione dell'importanza
politica del nostro inserimento: ci troviamo di fronte ad un'occasione
di intervento prezioso in una nuova generazione che può segnare,
con la sua irruzione in campo, un inizio di svolta della situazione nazionale
e che soprattutto può offrire un ambito decisivo per lo sviluppo
del marxismo rivoluzionario in Italia (e non solo). E inoltre è
evidente che il nuovo contesto di movimento e il suo dibattito si intreccerà
profondamente con lo stesso confronto interno al PRC alla vigilia del suo
V Congresso: ogni posizione di riferimento conquistata nel movimento può
dunque trasformarsi in un rafforzamento della nostra battaglia nel PRC.
In questo quadro, entro l'impianto strategico e programmatico che è alla base dell'Appello, credo sia importante avanzare indicazioni e proposte in relazione ai problemi che il movimento vive dopo Genova e che sono al centro oggi del suo confronto interno.
1) Dopo l'aggressione poliziesca contro le manifestazioni e l'esperienza
del "blocco nero", la tematica dell'autodifesa può e deve essere
posta, con equilibrio ma con determinazione, partendo dai livelli più
comprensibili per il movimento. La proposta di strutturazione di veri servizi
d'ordine del movimento è al riguardo di estrema importanza. Il concetto
va posto, credo, nei termini più semplici. Il movimento ha il diritto
di tutelare le proprie manifestazioni, il loro carattere, e chi vi partecipa,
da ogni forma di aggressione, da qualunque parte essa venga: sia che venga
dallo Stato, che ha dimostrato di non arrestarsi di fronte all'esibizione
simbolica della "non violenza", ma che anzi ha visto cinicamente proprio
nel carattere indifeso delle manifestazioni un bersaglio facile e a basso
costo per la propria aggressione; sia che essa venga da frange marginali
violentiste e vandaliche che hanno visto nell'assenza diffusa di strutture
organizzate di autodifesa del movimento uno spazio di incursione politicamente
devastante. Solo approntando un forte e unitario servizio d'ordine, sotto
il controllo del movimento, è possibile sottrarre chi manifesta
alla sensazione di abbandono e di panico, a tutto vantaggio dello stesso
carattere di massa delle manifestazioni.
Segnalo che lo sbarramento preventivo opposto dal GSF ed in particolare
da Bertinotti contro la stessa tematica del servizio d'ordine, si basa
su argomenti tanto inconsistenti quanto "ideologici".Opporre il concetto
di difesa "legale", "giornalistica", di "opinione" (naturalmente sacrosanti)
all'organizzazione materiale dell'autodifesa (vedi la recente intervista
del segretario su Liberazione) è come dire che è bene farsi
massacrare per esibire buone ragioni d'immagine: c'è da dubitare
dell'efficacia persuasiva del messaggio, e proprio dal punto di vista di
massa. In realtà, al fondo di tali argomenti, c'è in ultima
analisi il dogma ideologico del pacifismo in contrapposizione ad ogni prospettiva
rivoluzionaria di conquista del potere politico: ma proprio per questo
la proposta di servizi d'ordine, entro il concetto del diritto democratico
dell'autodifesa di massa, diventa, al di là del suo limite, la metafora
allusoria di un altro orizzonte strategico.
2) Il problema del "blocco nero", così dibattuto nel movimento dopo Genova, si intreccia con queste considerazioni. E al tempo stesso solleva alcune questioni di metodo e di principio. Va intanto evitata, sul piano dell'analisi, ogni semplificazione rozza del fenomeno. Abbiamo assistito in questi giorni alla diffusa rappresentazione del blocco nero come una sorta di battaglione di carabinieri travestiti e, parallelamente, alla richiesta rivolta allo Stato di repressione contro il "blocco nero". A parte la paradossale contraddizione tra analisi e proposta, credo siano sbagliate profondamente entrambe. Il "blocco nero" come fenomeno internazionale è l'espressione di un ribellismo primitivo, privo di collante ideologico (in questo diversissimo sia dall'anarchismo, sia dalla Autonomia Operaia degli anni 70) e tanto più di proposta politica. E' un'espressione di puro "rifiuto" come tale segnata fisiologicamente da elementi spuri, esposta a infiltrazioni esterne poliziesche, ma capace di attrazione in settori marginali di gioventù ribelle. Il "blocco nero" va combattuto? E' indubbio, e nei termini più radicali, perché il danno politico che esso arreca al movimento è direttamente proporzionale all'uso politico strumentale che ne fanno le forze dominanti. Ma va combattuto per quello che è: un fenomeno deviante, ma reale, cui dobbiamo innanzitutto cercare di sottrarre settori di giovani disorientati e dal quale proteggere il movimento e le sue manifestazioni. Proprio per questo va respinta ogni proposta di affidamento del problema alla repressione dello Stato borghese, cioè del nemico di classe. In primo luogo per una ragione elementare di principio: la quale esclude ogni forma di blocco con la borghesia e col suo apparato repressivo contro settori di classi subalterne per quanto disorientati e confusi. Ma anche per ragioni di opportunità politica. Rivolgersi all'apparato delle classi dominanti contro frange marginali significa di fatto contribuire a rafforzare la loro capacità di fascinazione ribellistica presso settori giovanili. E per di più si tratta di un appello boomerang per il movimento stesso: perché significa offrire allo Stato il pretesto di soluzioni e strumenti che verrebbero contro l'intero movimento (blocchi più rigidi alle frontiere, perquisizioni a tappeto dei manifestanti, ecc.).
3) L'espansione del movimento pone ovunque il problema delle sue forme organizzative. In questo senso possiamo proporre, in termini più diretti, un'ipotesi di costruzione democratica e di massa del movimento che segni un salto in avanti rispetto alla situazione attuale. Il GSF si è costituito, com'è noto, come quadro inter-associativo. Ciò significa che l'unità del movimento viene affidata alla ricerca di mediazione tra i vertici delle componenti, mentre la massa degli attivisti e dei soggetti del movimento, priva di ogni potere decisionale, subisce per così dire le risultanti delle relazioni tra componenti. Questa forma organizzativa (basata peraltro sul principio filosofico dell'"organizzazione a rete" contro il principio "centralistico") ha potuto reggere, ed anzi ha svolto una sua funzione propulsiva, nella fase di gestazione del movimento: quando la questione della confluenza originaria di espressioni organizzate diverse era dominante e quando il livello di confronto con la borghesia era prevalentemente mediatico e, in ogni caso, ben più arretrato. Ma ora la stabilizzazione del movimento, lo sviluppo grande della base di massa, l'ingresso in esso di forze giovani (e non) non appartenenti ad alcuna organizzazione, componente o rete, il confronto più diretto con le classi dominanti, pongono una questione nuova, ad un tempo di efficienza e di democrazia. Due sono infatti le esigenze tra loro correlate. La prima è quella di una direzione unitaria del movimento che ai vari livelli superi la forma di pura cassa di mediazione, spesso paralizzante, tra vertici di associazioni, e possa assumersi invece la responsabilità di indicazioni agili, di scelte e iniziative che siano corrispondenti alle necessità e ai tempi dell'iniziativa avversaria. La seconda esigenza, sollevata dalla prima, è quella della valorizzazione piena dei poteri democratici di ogni attivista del movimento: non solo nella discussione ma nella definizione dei portavoce, dei coordinamenti, delle strutture di direzione del movimento che possono e debbono essere sottoposte, ai vari livelli, al criterio democratico dell'elezione, del controllo, della revocabilità. Naturalmente questo indirizzo di proposta può conoscere, con duttilità, diverse articolazioni: anche quella di una combinazione di strutture di coordinamento democraticamente elette con forme di rappresentanza paritetica di diverse realtà e associazioni. Ma essenziale, in ogni caso, è introdurre il concetto della democrazia consiliare in rapporto alle esigenze del movimento.
4) Sul piano direttamente politico è necessario riproporre con
forza nel movimento il terreno dell'incontro con la classe operaia e della
ricomposizione di un blocco sociale alternativo. Non si tratta semplicemente
di una giusta petizione generale: si tratta oggi di un'esigenza decisiva
del movimento e al tempo stesso di una grande opportunità. Di fronte
all'offensiva del governo e dello Stato, e della campagna di criminalizzazione,
la difesa più forte del movimento sta nella sua capacità
di moltiplicare brecce e relazioni con le più vaste masse delle
classi subalterne. Il passaggio d'autunno presenta, al riguardo, una grande
opportunità. I metalmeccanici saranno in campo a settembre, entro
una vicenda che vede l'irrompere, anche da quel versante, di una nuova
generazione. Parallelamente nuove tornate contrattuali si profilano, anche
in settori di grande rilevanza come la scuola. Ma soprattutto un governo
uscito indebolito dalla prova di Genova sarà chiamato dal padronato
italiano (e dai banchieri europei) a varare una linea d'attacco pesante
alle condizioni di vita di grandi masse. In questo quadro il movimento
antiglobalizzazione, già forte di una diffusa simpatia in settori
vasti della società, potrebbe davvero trasformarsi nel detonatore
di un'esplosione sociale: ma alla condizione che dal movimento emerga un
indirizzo nuovo e una proposta nuova. L'incontro con i lavoratori non può
ridursi a una somma di buone relazioni con le rappresentanze del sindacalismo
di classe, né ad un'azione di pressione su Cofferati o alla semplice
registrazione soddisfatta dell'adesione della FIOM alle giornate di Genova
(che certo è importante). Ma deve tradursi in una pubblica proposta
di azione comune, basata su una piattaforma di rivendicazioni semplice
e unificante, che risulti chiara e leggibile a milioni di lavoratori e
lavoratrici, che sappia stabilire un rapporto di sintonia con le domande
sociali delle più vaste masse e che proprio per questo possa sfidare
all'unità d'azione le stesse organizzazioni sindacali, ponendo ognuno
di fronte alle proprie responsabilità.
In questo quadro la proposta della "cacciata del governo Berlusconi,
per una alternativa di classe" può e deve essere posta in modo più
diretto all'interno del movimento. Il tema non è facile a fronte
di una diffusa diffidenza, nel movimento, verso parole d'ordine politiche.
Ma dopo l'esperienza di Genova si crea uno spazio nuovo, entro una possibile
dinamica di politicizzazione di settori giovanili. E la parola d'ordine:
"via il governo degli assassini" (o simili) può conquistarsi un
più ampio spazio d'ascolto e di incidenza.
27 luglio 2001