VERSO LA CONFERENZA NAZIONALE DEI GIOVANI COMUNISTI


Care compagne, cari compagni, nei giorni 22 e23 Dicembre 2001 si è svolta a Foligno l'Assemblea Nazionale dei Giovani Comunisti, primo passaggio di discussione tra i giovani in vista della II conferenza nazionale dell'organizzazione giovanile del Partito.
La partecipazione è stata molto larga, al di là di ogni previsione, tenuto conto anche della data non certo felice in cui era stata convocata.
Circa duecento giovani, provenienti da tutte le federazioni del PRC, hanno discusso intensamente per due giorni, in assemblea plenaria e in commissioni tematiche ristrette, delle problematiche che riguardano più da vicino le giovani generazioni, dal lavoro alla scuola alla mobilitazione contro la guerra imperialista in Afghanistan ecc.
Come compagni di Progetto comunista abbiamo incentrato i nostri interventi sulla necessità di imprimere una svolta di 180 gradi alla politica fin qui seguita dai GC.
Abbiamo evidenziato come oggi, di fronte ad un risveglio sociale delle classi sfruttate sia in Italia sia all'estero (con particolare attenzione agli avvenimenti in Argentina), i giovani comunisti debbano porsi il compito di costruirsi come organizzazione dotata di un programma per l'alternativa anticapitalista, da propagandare nel vivo delle lotte e all'interno dei movimenti, con l'obiettivo di conquistarne l'egemonia politica su una piattaforma marxista rivoluzionaria, mentre il gruppo dirigente dei GC sostiene una linea di adattamento politico ed organizzativo alle direzioni riformiste del movimento.
Questa metodologia di intervento ha avuto risultati immediati. Abbiamo potuto riscontrare non solo una grande attenzione da parte dei partecipanti all'Assemblea alle nostra posizioni, ma siamo anche riusciti ad avere nuovi contatti (specialmente coi compagni delle federazioni del Nord Est) e riattivare quelli di vecchia data che col tempo si erano allentati.
Il risultato politico della due giorni di Foligno ci fa ben sperare, non solo in vista della conferenza dei GC e del V congresso di Rifondazione, ma anche per la battaglia che come marxisti rivoluzionari stiamo sostenendo nel partito.
Le prossime scadenze politiche in vista della II conferenza nazionale saranno sicuramente un terreno privilegiato per continuare il lavoro politico iniziato con l'Assemblea Nazionale.
Di seguito troverete la bozza del documento da noi preparata per la conferenza. Avete già ricevuto nei giorni scorsi uno specifico odg di solidarietà col proletariato argentino che abbiamo presentato all'Assemblea. Si tratta di un odg che la maggioranza dell'Esecutivo dei GC non ha fatto votare ma che ha semplicemente "assunto" come contributo al dibattito, insieme ad un altro da lei presentato sullo stesso argomento in cui, invece, si fa appello al Governo e alle istituzioni italiane (!!) perché intervengano per favorire il ritorno alla normalità in Argentina.
Ogni ulteriore commento è del tutto superfluo.

Alberto Madoglio
 


 
DOCUMENTO PER LA CONFERENZA NAZIONALE DEI GIOVANI COMUNISTI


Sono ormai trascorsi oltre dieci anni dal crollo del muro di Berlino e dalla dissoluzione del-l'Unione Sovietica: tutti quelli che allora proclamavano la fine della storia e la definitiva vit-toria del capitalismo su ogni altra ipotesi di sviluppo economico non basato sullo sfrutta-mento, hanno oggi la dimostrazione di quanto le loro previsioni fossero errate.
Il periodo storico in cui viviamo, oggi più che mai, ha dimostrato come il capitalismo non sia in grado di garantire sviluppo e prosperità per l'intero genere umano, e come in realtà la sua antistorica sopravvivenza sia inscindibile da guerra, carestie, devastazione ambien-tale, crisi sociali ed economiche sempre più devastanti, fondata in sostanza su un genera-le imbarbarimento dell'intera umanità.
Gli esempi da citare sono infiniti.
Nell'ex Unione Sovietica e nei paesi dell'Est europeo, la reintroduzione dell'economia di mercato ha spazzato via tutte le conquiste sociali frutto della rivoluzione d'Ottobre, che settant'anni di dominio burocratico dello stalinismo avevano fortemente limitato, ma non completamente distrutto.
Dieci anni di questo processo hanno dimostrato tutti i suoi nefasti prodotti: generale impo-verimento della popolazione, ricomparsa d'epidemie che si credevano definitivamente sconfitte, abbassamento della speranza di vita media tra le popolazioni, rigurgito di un na-zionalismo esasperato (in particolar modo in Russia e in Ungheria, qui contro gli zingari e la minoranza rumena), responsabile di crimini efferati in Cecenia, nel Caucaso, nell'ex Yu-goslavia
I paesi del cosiddetto "terzo mondo" hanno continuato a subire il saccheggio indiscrimina-to delle potenze imperialiste.
La situazione in Africa si avvia sempre più in un baratro fatto di guerre e massacri senza fine, di cui la guerra civile in Ruanda con i suoi oltre 500000 morti, è forse l'esempio più tragico.
In medio oriente, la questione palestinese è ben lungi dall'essere risolta: assistiamo in questo periodo al massacro di giovani militanti dell'intifada da parte dell'esercito d'Israele.
I paesi in "via di sviluppo" non sono ancora usciti dallo shock finanziario del 1998, l'Argen-tina sta entrando nel terzo anno di recessione, e le famose tigri asiatiche sono il caso più evidente di come lo sviluppo economico avvenuto negli anni precedenti fosse molto insta-bile, perché basato non sull'aumento del consumo interno, cioè su di un miglioramento del tenore di vita delle popolazioni, ma sulla capacità d'importazione delle maggiori potenze mondiali.
Nei paesi del cosiddetto "occidente avanzato", abbiamo assistito ad un generale impove-rimento delle masse lavoratrici, causato da politiche ultraliberiste, approvate sia da governi conservatori sia da quelli sedicenti progressisti (sia di centrosinistra che di sinistra plurale), che hanno via via diminuito i salari, lo stato sociale, aumentato i carichi di lavoro, a fronte di sempre più ingenti finanziamenti alle imprese ed ad un aumento delle spese militari.
Il Giappone, in crisi ormai dal 1990, è un caso rappresentativo di come, a fronte di uno svi-luppo economico esasperato, la stagnazione produttiva che segue possa essere profonda e, nel caso specifico, senza apparenti vie d'uscita.
Dall'aggressione imperialista all'Irak nel 1991 (che doveva segnare la nascita di un Nuovo Ordine Mondiale capitalista), con il conseguente blocco economico, causa di centinaia di migliaia di morti, all'invasione della Somalia nel 1993, fino alla guerra nei Balcani contro la Serbia, l'imperialismo si è lanciato in un'escalation guerrafondaia per ridisegnare i propri confini d'intervento nel pianeta dopo la fine dell'Urss, e per ridefinire i rapporti di forza al proprio interno, soprattutto per gli interessi delle tre maggiori potenze mondiali, USA, Giappone ed Unione Europea.
In particolar modo, la guerra all'ex Yugoslavia che ha chiuso il XX secolo così come si era aperto (l'aggressione alla Cina del 1900) ha dimostrato che i dissidi tra le varie potenze imperialiste non si sono ad oggi definitivamente risolti in una impossibile concorde divisio-ne dei compiti, ed ha anzi rappresentato il maggior momento di tensione fra due dei bloc-chi imperialisti, USA e UE, per il controllo di un'area strategica e di vitale importanza nella lotta per l'appropriazione di nuove aree di mercato, così come la competizione capitalistica impone.
Lo stesso processo d'integrazione politica economica europea, con l'obiettivo di creare u-n'unica superpotenza imperialista, si scontra con le resistenze delle varie borghesie nazio-nali, sostenute in molti casi dai rispettivi governi, a cedere in parte o in toto il controllo di settori vitali dell'economia (come nelle banche, assicurazioni, telefonia, industria aeronau-tica o automobilistica ecc.) ai loro concorrenti stranieri, ancorché membri dell'Unione Eu-ropea.
Scrivevamo già in precedenza che il XXI secolo si è aperto all'insegna della più pesante crisi dell'economia mondiale dal 1945, ancor più grave perché solo pochi anni fa le attese di sviluppo erano ben diverse.
Verso la seconda metà degli anni novanta, diversi economisti borghesi hanno sostenuto che la lunga fase di ristagno dell'economia, prolungatasi per oltre un decennio, era ormai giunta al termine. In più, abbagliati da un aumento senza fine dei valori borsistici in tutti i mercati mondiali, confortati dal progredire delle applicazioni al processo produttivo delle scoperte scientifiche nel campo dell'informatica e delle biotecnologie (la cosiddetta New Economy) con la conseguente creazione di nuovi sbocchi di mercato, questi guru della fi-nanza sono arrivati a decretare la fine dello sviluppo economico classico, fondato sul cicli-co susseguirsi di fasi d'espansione e recessione, e ad ipotizzare una crescita senza fine.
Tuttavia, i fatti, anche in quest'occasione, hanno dimostrato che la realtà è ben più forte d'ogni illusoria attesa.
La bolla della speculazione borsistico-finanziaria è esplosa e le quote di mercato legate al-la New Economy hanno raggiunto un alto livello di saturazione. La risposta che il capitali-smo ha dato alla crisi è stata la stessa applicata quando era "l'Old Economy" ad imperare: tagli ai salari, chiusura di fabbriche, migliaia di licenziamenti, sussidi alle imprese pagati con i soldi dei lavoratori. Davanti a quest'attacco delle classi dominanti, è scattata la rea-zione delle masse sfruttate di tutto il pianeta. Infatti, già nel corso degli anni '90 non sono mancate mobilitazioni da parte dei giovani e dei lavoratori (Italia 1994, Francia 1995, Al-bania Sud Corea e Indonesia 1997, Argentina dal 1999), dimostrando che il proletariato in-ternazionale, pur duramente colpito nel corso degli anni '80, non era stato definitivamente sconfitto, e che le teorie sviluppate nel tempo sulla fine della contrapposizione di classe, non erano altro che assurdità.
E' il sistema capitalistico stesso, arrivato oggi in una fase del suo sviluppo segnata da una sempre più accentuata internazionalizzazione dei mercati e da una totale predominanza di politiche neoliberiste, che crea le condizioni per mandare in rovina milioni di persone in tut-to il mondo, e che in ultima istanza crea la necessità stessa per il suo abbattimento.
Oggi più che mai, la necessità di una prospettiva socialista diventa attuale e ogni suo ritar-do mette in pericolo sempre più le sorti stesse dell'umanità.
La storia ci ha fortunatamente dimostrato che ciò che è indispensabile è anche realizzabi-le.
La rivoluzione russa del 1917 ha per la prima volta stabilmente palesato che solo espro-priando gli sfruttatori capitalisti, pianificando democraticamente e coscientemente l'eco-nomia, si può avviare un tentativo di creare un armonioso sviluppo dell'umanità. Ha mo-strato chiaramente che tutto ciò non è realizzabile attraverso quegli strumenti statali che la borghesia si è data per meglio esercitare il suo dominio. Solo una rivoluzione condotta dal-le masse oppresse, sotto la direzione politica della classe operaia può sostituire alla de-mocrazia parlamentare borghese (fondata essenzialmente sulla corruzione e l'imbroglio, come la vicenda di Tangetopoli in Italia, e casi simili nel resto d'Europa, hanno dimostrato) una più ampia e realmente democratica forma di potere, ossia la democrazia sovietica o dei consigli dei lavoratori.
Perché ciò avvenga, è indispensabile che la rivoluzione non si rinchiuda negli angusti am-biti di una sola nazione. Se il capitalismo ha dimostrato di poter progredire soltanto svilup-pandosi a livello globale, necessariamente l'alternativa ad esso non potrà che essere di carattere mondiale. A tale proposito, la dissoluzione dell'URSS e la rapida evoluzione della Cina verso una sempre più selvaggia economia di mercato, dimostrano drammaticamente quanto sia fallace non la prospettiva socialista, ma l'idea che essa possa persistere in un paese solo, isolato dal contesto dei rapporti di classe a livello internazionale.
I comunisti, battendosi per questa prospettiva, non partono da zero. Devono recuperare il formidabile patrimonio d'esperienze della rivoluzione d'Ottobre, del partito che la rese pos-sibile, il Partito Bolscevico di Lenin e Trotsky, e dell'avanguardia internazionale che lottò contro la degenerazione staliniana dell'Urss, che giustificava il suo dominio burocratico e il tradimento dei principi del marxismo in nome della teoria del socialismo in un paese solo.
Il compito che dobbiamo affrontare non è sicuramente facile e breve. Ma oggi questo compito non appare così improbabile perché a fronte di una crisi profonda del capitalismo, vi è la ricomparsa a livello internazionale sia di un risveglio operaio sia di un movimento, il cosiddetto "popolo di Seattle", che lottando oggi contro le conseguenze nefande della glo-balizzazione, hanno la possibilità di porre fine alla tirannide dell'economia di mercato.
 

L'inizio delle operazioni militari, il 7 ottobre, contro l'Afghanistan, rappresenta una vera e propria aggressione militare dell'imperialismo a quel paese, e come tale deve essere com-battuta dai comunisti.
Fin dall'inizio delle ostilità, la propaganda bellica in tutti i paesi, utilizzando i mezzi d'infor-mazione a sua disposizione, ha cercato di mascherare la vera natura del conflitto in corso.
Si è cercato di millantare quella che è un'operazione volta a riconfermare e ridefinire i rap-porti all'interno delle varie potenze economiche mondiali, come il tentativo di sconfiggere definitivamente il terrorismo islamico, colpendo quelle nazioni che ne forniscono protezio-ne.
L'attentato dell'11 settembre a New York che ha causato migliaia di morti, è servito come copertura agli occhi dell'opinione pubblica mondiale.
Condannando l'attacco alle Torri Gemelle, perché si è trattata di un'operazione stragista che è costata la vita a migliaia di lavoratori d'ogni etnia, come il maggior sindacato ameri-cano, l'AFL CIO, ha segnalato, ordinata con ogni probabilità da un'organizzazione reazio-naria islamica, non possiamo però tacere che i bombardamenti su Kabul nulla hanno a che fare col ripristino di una presunta "legalità internazionale", che in una società divisa in classi non può esistere.
La storia del secolo che si è appena chiuso, ha largamente dimostrato che è stato l'impe-rialismo il vero terrorista internazionale.
Dalla spedizione militare in Cina del 1900 fino alla guerra nei Balcani, passando per due conflitti mondiali, bombardamenti con testate atomiche su popolazioni inermi, guerre in Corea Algeria Vietnam, sostegno a regimi dittatoriali responsabili della morte di milioni di persone in Argentina Guatemala Cile Indonesia, ciò di cui si sono preoccupate le maggiori potenze economiche mondiali, non è stato creare una società senza ingiustizie, ma la ri-cerca disperata del profitto, a costo di causare immani tragedie per l'umanità.
Neanche la guerra attualmente in corso è sfuggita a questa regola.
La soluzione politica che si prospetta dopo la caduta del regime dei Talebani, dimostra quanto le dichiarazioni fatte dalla propaganda dei paesi aggressori, sulla volontà di ripristi-nare la democrazia a Kabul, fossero solo delle volgari menzogne.
L'Alleanza del Nord è un'eterogenea coalizione di forze che sono state responsabili del massacro di decine di migliaia di civili nella guerra civile scoppiata dopo il ritiro dell'Armata Russa nel 1992, e durata fino al 1997, con la presa del poter da parte degli studenti di teo-logia islamici.
Quello che riserva il futuro a milioni di cittadini afgani, lo possiamo vedere già ora.
Nelle città liberate dalla avanzata delle truppe dell'Alleanza, ci sono state violenze inde-scrivibili ai danni della popolazione.
A Mazar i Sharif, una rivolta di prigionieri talebani è stata repressa col sangue, causando centinaia di vittime.
Le donne che speravano di potersi togliere la burqa, simbolo della loro disperata condizio-ne sociale, e iniziare una nuova vita, hanno subito assaggiato la frusta dei loro padroni, come diverse immagini televisive ci hanno mostrato.
Possiamo affermare che la lunga notte del medioevo afgano è lontana dal terminare.
Altre, dicevamo, sono le ragioni scatenanti di questo conflitto.
La prima riguarda la posizione strategica dell'Afghanistan nella decennale lotta per il con-trollo delle materie prime, in particolare del petrolio e del gas naturale, di cui l'area euro-asiatica è ricchissima.
In quel paese, infatti, secondo i piani dell'imperialismo, dovrebbe passare un importante oleodotto che dovrebbe trasferire gli idrocarburi estratti dai giacimenti delle ex repubbliche sovietiche dell'Asia centrale, ai porti Pakistani sull'oceano indiano.
Per far ciò è indispensabile poter contare su un governo affidabile, in grado di garantire la sicurezza di un'opera di tale importanza, e una assoluta mano libera per il suo sfruttamen-to da parte delle potenze economiche mondiali.
Il regime dei Mullah, che dopo cinque anni dalla presa del potere non controlla la totalità del territorio afgano, non potevano essere il governo di cui gli Usa e i suoi alleati avevano bisogno.
Da qui la scelta di optare per il suo rovesciamento, scelta già paventata da esponenti della Casa Bianca diversi mesi prima dell'attentato al World Trade Center.
In secondo luogo, in un momento in cui l'economia mondiale sta attraversando un periodo di crisi profonda, in cui lo spettro di una pesante recessione economica si avvicina sempre più, la guerra può servire come "stimolo" alla ripresa della produzione.
Ecco quindi le commesse miliardarie in America ed Europa per le industrie belliche, ecco un piano di ricostruzione dell'Afghanistan, dell'ordine di decine di migliaia di miliardi, le cui beneficiarie saranno le multinazionali che in questi mesi hanno visto crollare i loro profitti.
Ma questo piano, in apparenza perfetto, comincia già a mostrare le prime crepe.
I mujiaeddin del Nord, si stanno rivelando degli alleati meno affidabili del previsto, tanto che potrebbero a breve diventare il nuovo "pericolo per la democrazia mondiale" contro il quale si dovrà combattere.
Tensioni si stanno via via verificando anche tra le stesse potenze mondiali, Usa ed Euro-pa.
Gli Stati Uniti vogliono gestire le operazioni direttamente, senza alcun accordo con gli alle-ati del vecchio continente.
Questo perché, come accennato, si tratta di un conflitto legato alla più generale lotta per l'accaparrarsi nuovi mercati per le proprie esigenze d'economia imperialista.
Naturale, di converso, che l'Unione Europea, la quale aspira a diventare nuovo punto di ri-ferimento del mercato globale, cerchi di avere una voce nella battaglia in corso.
I vari distinguo di Francia, Germania, Italia, persino Gran Bretagna, su alcune decisioni di Wasghington, non sono dovuti ad una presunta vena umanitaria delle vecchie potenze eu-ropee, ma ad un gioco delle parti tra briganti per la spartizione del bottino.
In questa lotta, l'Italia tenta di entrare a pieno titolo come nuova potenza, non solo econo-mica, ma anche militare.
Il coro quasi unanime di stampa, televisione, forze politiche, nel rivendicare la scelta di in-viare truppe d'occupazione a Kabul, sotto la bandiera tricolore, è stata motivata, dagli opi-nionisti più cinici, dalla necessità di evitare che il Paese non possa partecipare ad un evento che molto probabilmente andrà a definire nuovi rapporti ed equilibri su scala plane-taria, con buona pace di chi denuncia il ruolo subalterno di Roma nei confronti dell'alleato d'oltreoceano.
Questo, infatti, è il vero senso del voto bipartisan dato da Polo e Ulivo in Parlamento, nel concedere il via libera alle truppe della borghesia nazionale.
La vecchia politica delle cannoniere, oggi ritorna prepotentemente d'attualità.
Ma gli obiettivi di questa guerra, oltrepassano anche le contingenze di natura economica, avendo anche una valenza di natura politica generale.
L'imperialismo vuole, con l'occasione, colpire duramente coloro i quali anche all'interno delle nazioni avanzate, non si vogliono inchinare di fronte alla sua politica.
Il movimento antiglobalizzazione è uno di questi obiettivi, come dimostra la campagna di criminalizzazione nei suoi confronti, volta ad equiparare ai terroristi, tutti coloro i quali lot-tano per un mondo che non sia alla mercé del capitale, così come il movimento operaio, vittima di una politica che, in nome dell'urgenza bellica, vuole colpirne e restringerne i diritti democratici e le conquiste ottenute con decenni di dure lotte.
Nei paesi del terzo mondo, è certamente il popolo arabo, quello che rischia di subire mag-giormente i costi degli eventi in corso.
Da un lato si cerca, da parte della borghesia internazionale, di riaffermare il controllo asso-luto su di un'area di vitale importanza nello scacchiere della competizione mondiale: lo comprova l'ormai incondizionato sostegno al governo d'Israele nella sua criminale repres-sione della lotta di liberazione del popolo palestinese.
Dall'altro si avrà, di fronte al fallimento del nazionalismo arabo e alla mancanza di una di-rezione alternativa di classe di quel popolo, un rafforzarsi di tutte le forze integraliste isla-miche reazionarie, che saranno viste da milioni di persone come unica, anche se illusoria, soluzione alla loro disperata condizione.
Per fermare questa deriva, è assolutamente indispensabile che in tutti i paesi vi sia una mobilitazione di massa contro la guerra.
Solo i giovani e i lavoratori si potranno contrapporre con la loro forza e la loro organizza-zione alla politica criminale del neoliberismo.
Non certo l'ONU che anche in questa occasione si è dimostrato quell'accozzaglia di pre-doni internazionali, come già Lenin caratterizzava la sua versione prebellica, la Società delle Nazioni, tanto che oggi ha avuto un ruolo centrale nella costituzione del governo di occupazione neo coloniale dell'imperialismo europeo e statunitense in Afghanistan.
Tanto meno il pacifismo, se uno dei suoi più noti esponenti, il Dalai Lama, viene oggi af-fermando che quella in corso è una giusta guerra per la libertà!
Un ruolo di primissimo piano lo avrà senza dubbio il movimento italiano.
In Italia si sono avute le più imponenti e significative manifestazioni contro la guerra, che per il momento non hanno avuto proporzioni simili in nessun altro paese.
Il Governo Berlusconi, più d'altri governi stranieri, utilizza il clima d'incertezza creato dal conflitto, per far passare provvedimenti che andrebbero a peggiorare ulteriormente le con-dizioni di vita di milioni di persone, a tutto vantaggio di poche famiglie della borghesia.
Il tentativo d'abrogazione dell'articolo 18 dello statuto dei lavoratori, che obbliga a reinte-grare sul posto di lavoro coloro che sono stati ingiustamente licenziati, è il tentativo più vi-stoso di questa volontà.
Ecco perché la parola d'ordine dello sciopero generale contro la finanziaria di guerra, della nazionalizzazione delle industrie militari sotto controllo operaio, della diserzione e del-l'ammutinamento delle truppe, deve essere l'asse su cui aggregare nei prossimi giorni, tutti quei soggetti, studenti, lavoratori, popolo di Seattle, che sono stati fino ad oggi i protagoni-sti del disgelo sociale.
Tale operazione deve vedere i Giovani Comunisti e la loro organizzazione, lottare in prima fila per questo obiettivo.
 

Nel corso degli ultimi dieci anni, pur in presenza di un pesante arretramento della capacità di mobilitazione della classe operaia, dovuta ad una serie di sconfitte che essa aveva subi-to a livello internazionale, prima fra tutte la dissoluzione delle economie di transizione del-l'Europa dell'est, e l'avvio del processo di reintroduzione del capitalismo in quei paesi, non sono tuttavia mancati i momenti in cui il proletariato si è mobilitato contro i ripetuti tentativi del capitalismo di peggiorare le sue condizioni di vita.
I più indicativi tra questi episodi sono state, come già accennavamo nel punto iniziale delle nostre tesi, le rivolte degli indigeni del Chapas a partire dal 1994, le proteste e gli scioperi contro i tentativi di riforma delle pensioni in Italia e Francia nel 1994 e 1995, la rivoluzione albanese del 1997, nata dallo scandalo delle finanziarie a piramide, e sempre nel corso di quell'anno la lotta degli operai sudcoreani contro una riforma liberticida del codice del lavo-ro.
Negli ultimi due anni, vi è stato, per così dire, un miglioramento nella capacità dei giovani e dei lavoratori nel rispondere agli attacchi del capitale.
Intendiamo parlare della lotta alla globalizzazione dei mercati capitalistici, iniziata nell'au-tunno del 1999 a Seattle in occasione della riunione del WTO, l'organizzazione mondiale del commercio.
Se è vero che in realtà la lotta alla globalizzazione non nasceva in quella data, ma era frut-to di un percorso già in atto da qualche tempo, la si fa nascere convenzionalmente in quei giorni, se non altro per il risalto che le mobilitazioni di strada che sono riuscite ad impedire lo svolgimento della riunione dell'Organizzazione Mondiale del Commercio, hanno avuto sui mezzi d'informazione a livello mondiale, e per l'impatto che hanno avuto sui livelli di coscienza di milioni di persone in tutto il pianeta.
Da quel momento, ovunque vi fossero riunioni d'organismi sovranazionali al servizio del capitale, vi sono state al tempo stesso state manifestazioni di protesta con la partecipazio-ne di centinaia di migliaia di persone, per la maggior parte giovani, che esprimevano il loro rifiuto alle politiche sociali ed economiche del capitalismo internazionale.
Così è stato a Wasghinton, Praga, Nizza, Davos, Quebec City e Genova.
La molla che ha fatto scattare questo genere di proteste, è stata l'incapacità del capitali-smo di creare consenso di massa alla sua azione, perché per mantenere i livelli di profitto, in un'epoca segnata dalla stagnazione economica, il capitalismo ha dovuto colpire i salari e, più in generale, peggiorare le già precarie condizioni di vita dei lavoratori, nei paesi del terzo mondo, così come nell'occidente sviluppato.
In ogni nazione abbiamo assistito a provvedimenti dei governi, indipendentemente dal fat-to che essi fossero formati da partiti conservatori o sedicenti progressisti, in cui a fronte di agevolazioni a non finire per le imprese, per i lavoratori erano previsti solo sacrifici.
Naturale quindi che, di fronte a questo stato di cose, ci sia stata una reazione di ampi set-tori popolari che ha sorpreso solo chi, anche tra i presunti intellettuali di sinistra, aveva de-finitivamente seppellito ogni forma di conflittualità di classe.
Se è naturale che come organizzazione comunista si decida di partecipare attivamente al processo di costruzione del movimento contro la globalizzazione per le potenzialità antisi-stema che esso è stato capace di mettere in campo, rifiutando ogni idea di un nostro iso-lamento settario da esso in quanto non ancora politicamente "puro", non dobbiamo però nasconderne i forti limiti programmatici, che con la nostra incessante azione nel movimen-to stesso, dobbiamo riuscire a far superare positivamente, cioè in un'ottica di una lotta per una prospettiva marxista rivoluzionaria.
Una delle caratteristiche maggiormente positive del "popolo di Seattle", è quella di essere un movimento dal carattere internazionale, perciò in ogni paese coloro i quali vi partecipa-no, sentono, pur in maniera confusa e contraddittoria, di far parte di un processo che non riguarda solo la loro specifica situazione, ma che li accomuna ad altri milioni sparsi nel mondo che come loro hanno bisogni simili.
In secondo luogo, vi è la discesa in campo di una nuova generazione che se da un lato è priva degli strumenti e dell'esperienza delle lotte passate, dall'altro non è direttamente se-gnata dalle sconfitte che la generazione che l'ha preceduta aveva subito nello scontro di classe col capitale, e di conseguenza ha uno spirito più combattivo e crede nelle proprie possibilità di modificare lo stato di cose attuale.
Ma come tutti i movimenti che l'hanno preceduto, anche questo ha dei forti limiti di natura programmatica, che solo l'azione cosciente dei marxisti rivoluzionari, potrà eliminare.
Il limite più evidente, ma come già detto assolutamente inevitabile, è quello di lottare in u-n'ottica riformista, pensare cioè che la globalizzazione non sia, come in realtà è, il naturale sbocco di un sistema, quello capitalistico, che sta attraversando una profonda crisi storica alla quale, per il momento, non sembrano esservi vie d'uscita, ma come una delle opzioni possibili, e che quindi essa possa subire delle riforme, che la rendano conciliabile con quelle che sono le richieste delle masse sfruttate.
Ecco spiegato quindi, il carattere assolutamente inadeguato, del programma d'azione e delle finalità che il movimento no global si è dato, specialmente dopo la riunione del Forum Sociale a Porto Alegre del gennaio 2001.
Le tre principali rivendicazioni, Tobin Tax, bilancio partecipato, consumo equo, sono e-semplificative di questi limiti.
La prima è la richiesta di una minima tassazione delle speculazioni finanziarie, con l'obiet-tivo assolutamente illusorio di limitarne gli effetti negativi sull'economia reale, e di utilizzar-ne il ricavato per fini in qualche modo sociali.
Quanto utopistico ciò possa essere lo dimostra che essa è richiesta da quei settori di bor-ghesia internazionale, che non hanno a cuore gli interessi delle loro popolazioni, ma quelli della loro classe di appartenenza (significativo che in questi giorni il governo di Jospin- Hue, che in Francia si è distinto per una marcata attività antioperaia, in particolare varando un ampio programma di privatizzazioni, abbia approvato una legge per l'applicazione della Tobin Tax, il che la dice lunga su quanto possa essere rivoluzionaria una tale rivendica-zione!).
Tali settori vogliono soltanto limitare gli eccessi della finanziarizzazione dell'economia, fa-vorendo l'economia cosiddetta reale (in realtà d'impossibile individuazione in quanto è ca-ratteristica dell'attuale sviluppo imperialistico, la fusione tra capitale finanziario e industria-le).
Nel caso, assolutamente teorico, in cui fosse applicata, nulli sarebbero i benefici per i lavo-ratori e i giovani, non solo perché il ricavato di tale tassa non basterebbe a sanare nean-che minimamente l'azione di 10 anni di politiche ultraliberiste a livello mondiale. Ma anche perché la gestione del ricavato di questa tassa sarebbe in mano a governi che, grazie alla loro azione, si sono dimostrati come non mai essere dei comitati d'affari dei trust industrial finanziari.
La seconda rivendicazione, il bilancio partecipato, non è altro che uno dei miti della nostra epoca.
Applicato dal governo locale di Porto Alegre, città dello Stato brasiliano del Rio Grande do Sul, guidato dall'ala di sinistra del Partito dei Lavoratori, esso maschera la politica di colla-borazione di classe di questo esecutivo, fatta di sussidi alle multinazionali (Ford in testa), privatizzazioni del trasporto pubblico, repressione poliziesca degli scioperi, con la possibili-tà che le popolazioni di quella città hanno di fornire il loro parere consultivo, su alcune ma-terie di bilancio cittadino, senza però poterne intaccare la natura complessivamente bor-ghese.
Con la proposta di scegliere un consumo equo e solidale, infine, si crede di poter indivi-duare una serie di prodotti e di aziende che, in qualche maniera, siano fuori del circuito di produzione capitalistica.
Teoria questa doppiamente sbagliata e pericolosa, poiché crea illusioni sul fatto che all'in-terno di un sistema basato sull'economia di mercato, vi possano essere settori dell'eco-nomia che vivono al di fuori di esso; inoltre, invece di puntare sulla necessaria coscienza e organizzazione collettiva degli sfruttati per arrivare all'esproprio della proprietà privata e al controllo dei lavoratori su di essa, delega alla scelta individuale dei consumatori la lotta contro le aberrazioni dell'economia di mercato.
In realtà non dobbiamo stupirci dei limiti programmatici del movimento no global.
Già Lenin agli inizi del secolo scorso nel "Che Fare?" individuava nell'impossibilità che i la-voratori autonomamente si dotassero di un programma rivoluzionario, la ragione per co-struire un partito di classe e comunista.
A quasi cento anni di distanza ci troviamo nella stessa situazione, e anche oggi solo la co-struzione indipendente e l'intervento dei comunisti nel movimento con un chiaro program-ma di classe alternativo a tutti gli altri è un obiettivo assolutamente irrinunciabile.
Solo propagandando l'urgenza di una lotta per l'espropriazione della proprietà privata, per il controllo operaio sulla produzione, per l'abolizione del segreto bancario e commerciale, per l'autodifesa del movimento dagli attacchi repressivi degli apparati dello Stato così co-me si sono verificati a Genova (e a Porto Alegre contro i Sem terra), per l'abbattimento del dominio della borghesia su scala planetaria attraverso la lotta rivoluzionaria dei giovani e dei lavoratori, e la creazione di un altro potere e di un'altra economia democraticamente pianificata, riusciremo a conquistare l'egemonia politica del movimento e garantirne il suo conseguente sviluppo anticapitalistico.
 
 

Col risultato elettorale del 13 maggio 2001, si è aperta una fase nuova nello scenario poli-tico italiano.
La vittoria della Casa delle Libertà è stata il frutto di cinque anni di politiche ultraliberiste dei Governi di centrosinistra che si sono succeduti nella legislatura precedente.
Nonostante una sempre più vaga e sbiadita fraseologia di "sinistra", gli esecutivi dell'Ulivo hanno svolto la più larga politica d'attacco ai diritti e alle conquiste dei lavoratori, ad esclu-sivo vantaggio delle grandi famiglie capitaliste italiane, dal secondo dopoguerra ad oggi.
Nessun campo è stato escluso: dalla politica restrittiva sui redditi, alla riforma delle pen-sioni, della sanità, della scuola, fino ad un rilancio della propensione militarista dell'imperialismo nostrano (i governi Prodi – D'Alema – Amato hanno permesso alla borghesia nazionale di beneficiare dell'opera di "risanamento" dello Stato, e di assurgere ad un ruolo di primo piano nell'ambito della competizione interimperilasta su scala mondiale).
Grazie anche al ruolo rivestito dal maggior partito del movimento operaio, i Ds, e dai sin-dacati confederali, in modo particolare la CGIL, tutta questa operazione di smaccato carat-tere antipopolare, è stata attuata in una condizione di sostanziale pace sociale: i primi anni dei governi ulivisti sono stati caratterizzati dal più basso numero di ore di sciopero dalla caduta del fascismo.
In questo scenario, un ruolo particolarmente negativo è stato giocato anche dal nostro par-tito.
L'appoggio accordato al Governo Prodi nei primi due anni, (i più duri per il movimento ope-raio, se pensiamo alle finanziarie per Maastricht e alla riforma del mondo del lavoro più no-ta come "pacchetto Treu"che inseriva ulteriori forme di flessibilità nel mondo del lavoro), ha nei fatti portato il nostro partito ad essere corresponsabile di pesanti misure antiope-raie.
La stessa tardiva rottura con l'Ulivo, è stata segnata da forti contraddizioni (il mantenimen-to del sostegno alle giunte locali di importanti città come Roma e Napoli, accordi di gover-no col centrosinistra alle elezioni regionali, ecc.), e non ha impedito al PRC di entrare in un periodo di flessione sia in termini di voti, sia in termini di iscritti e militanti, crisi da cui sol-tanto oggi si comincia ad uscire.
E' chiaro dunque perché in un certo modo la Casa delle Libertà si è trovata il terreno spia-nato per la vittoria elettorale.
I primi segnali del Governo Berlusconi sono stati contraddittori.
A fronte di una maggioranza e di un programma politico certamente reazionari, le prime dichiarazioni del Premier sono state improntate alla cautela.
I continui richiami al mantenimento del metodo della concertazione sindacale non sono da considerarsi casuali.
Da un lato, vi era la volontà di continuare a percorrere quella via maestra che tanto ha re-so in termini d'accumulazione di capitale alla borghesia italiana (e a Berlusconi in primo luogo), evitando perciò lo scontro con la CGIL, che per ovvie ragioni non poteva avere col nuovo Governo l'atteggiamento di totale subalternità mantenuto con i precedenti.
Dall'altro lato, c'è stata l'intenzione di guadagnarsi il favore dei poteri forti dell'economia italiana, (i vari Agnelli, Benetton, Tronchetti Provera), i quali avrebbero sostanzialmente preferito una riconferma della vecchia maggioranza, e che in parte ancora dubitavano del-la capacità di governare senza creare forti tensioni sociali da parte della CDL.
Il progetto iniziale è però parzialmente fallito. Le promesse preelettorali di una politica volta ad accontentare tutti i settori della società italiana, sono crollate come un castello di carte.
In primo luogo, in una società divisa in classi, l'unica beneficiaria delle decisioni governati-ve è sempre la borghesia.
In secondo luogo, la crisi economica in cui è precipitata in questi mesi l'economia mondia-le, con segnali che lasciano presagire una lunga fase di recessione, ha reso inattuabile qualsiasi ipotesi anche solo parzialmente redistributiva.
Davanti a questa nuova situazione, le grandi famiglie capitalistiche italiane, hanno chiesto al governo l'accelerazione della sua politica economico sociale, per arrivare al definitivo smantellamento dello stato sociale iniziato dai governi dell'Ulivo.
Abolizione dell'obbligo del reintegro per i lavoratori ingiustamente licenziati; nuove forme di flessibilità in materia d'occupazione; tagli ai salari; limitazione del diritto di sciopero; tagli allo stato sociale in materia di scuola, sanità, pensioni con la ripresa a ritmo sempre più sostenuto dei progetti di privatizzazione selvaggia; una nuova legge sull'immigrazione, for-temente repressiva (legge Bossi-Fini), nuovi sgravi alle imprese (Tremonti due) e infine una sanatoria a favore di chi negli anni passati aveva trasferito all'estero illegalmente i propri capitali.
In aggiunta a ciò, la decisione di inviare truppe militari italiane per partecipare direttamente all'aggressione contro l'Afghanistan avrà come conseguenza immediata un vertiginoso aumento delle spese militari, e il restringimento delle libertà democratiche all'interno del Paese.
Insomma, una vera e propria finanziaria di guerra, che se da un verso sembra promettere nuove possibilità di guadagni alle imprese, dall'altro porterà un ulteriore pesante peggio-ramento delle condizioni di vita per le  masse popolari che della finanziaria dovranno so-stenere i costi.
In modo particolare, le ulteriori riforme in materia d'occupazione e di scuola, tendono a colpire più duramente i giovani.
Questi tentativi del Governo Berlusconi di ultimare il processo di distruzione delle conqui-ste sociali ottenute nei decenni passati dalle lotte di studenti e di lavoratori, hanno già su-scitato la reazione di larghi settori di popolazione. Perché se è vero che cinque anni di go-verno di centrosinistra e di concertazione sindacale, hanno sì fiaccato la capacità di resi-stenza e di mobilitazione della classe operaia, è indubbio che, pur duramente colpita, essa non è stata definitivamente sconfitta.
Episodi di conflittualità di classe si erano già verificati all'epoca del governo ulivista, ma è stato soltanto negli ultimi tempi che si è assistito a quel fenomeno che abbiamo nominato "disgelo".
Il primo segnale di questa nuova fase è stato lo sciopero dei metalmeccanici del maggio scorso nella vertenza per il rinnovo contrattuale: dopo molto tempo, si è assistito ad una massiccia partecipazione di giovani (compresi anche i cosiddetti "lavoratori atipici"), ritenu-ti da alcuni  incapaci di qualsiasi mobilitazione a difesa dei propri diritti.
Altri episodi che hanno registrato una controtendenza rispetto agli ultimi anni, sono state le imponenti manifestazioni di Genova contro la riunione dei G8, e quelle tenutesi i giorni immediatamente successivi in tutta Italia in segno di protesta per la brutale repressione poliziesca contro il movimento antiglobalizzazione, causa della morte del compagno Carlo Giuliani.
La stessa aggressione imperialista all'Afghanistan, avvenuta dopo l'attentato alle Torri Gemelle dell'undici settembre, ha contribuito a rilanciare la mobilitazione del movimento pacifista, che pur tra mille difficoltà e contraddizioni, ha massicciamente espresso il suo no alla guerra in occasione della marcia Perugia-Assisi e nella grande manifestazione di Ro-ma il 10 novembre, inizialmente avversata dalle parti più moderate del movimento.
E' quindi evidente che da un lato, il governo incontrerà senza dubbio enormi problemi nel-l'attuare la sua politica reazionaria e guerrafondaia, dall'altro per il movimento stesso, per Rifondazione Comunista e la sua organizzazione giovanile si aprono, nelle prossime set-timane, prospettive di sviluppo nella lotta appena iniziata.
Il punto principale sul quale, come Giovani Comunisti, dobbiamo incentrare la nostra azio-ne nelle prossime settimane, è quello di porre nel movimento il terreno di incontro tra lo stesso e la classe operaia per la ricomposizione di un blocco sociale alternativo.
Non si deve trattare solo di un'astratta petizione di principio, ma di un'esigenza fondamen-tale per la battaglia per l'egemonia nel movimento.
Di fronte alla campagna di criminalizzazione attuata dal governo e dallo Stato, a partire soprattutto dall'11 settembre, la migliore difesa che il movimento può mettere in campo, è quella della costruzione di relazioni politiche più salde con ampi strati delle classi subalter-ne, in particolar modo col proletariato.
Il compito che quindi come partito dobbiamo adempiere è quello che, attraverso i social fo-rum locali, la lotta alla globalizzazione si incontri in maniera permanente con quella dei la-voratori, per far sì che gli stessi forum si trasformino in luoghi di coordinamento delle lotte.
Questa trasformazione potrà avvenire solo se si sarà in grado di avanzare ai vari spezzoni del movimento un programma di rivendicazioni unificanti, in cui la lotta alla globalizzazione capitalistica e le rivendicazioni del proletariato diventino un tutt'uno inscindibile.
Preliminare a tutto questo è la battaglia per la democratizzazione delle "istituzioni di movi-mento", superando l'attuale strutturazione per intergruppi. Questa forma organizzativa ha svolto, nella fase di gestazione del movimento, una funzione propulsiva. Ma ora lo svilup-po dello stesso con l'ingresso di forze (specialmente giovani) non appartenenti a nessuna organizzazione, pone una questione di democrazia. Ogni attivista del movimento deve po-ter incidere realmente nella discussione, nella assunzione delle scelte, nella definizione dei portavoce. Questi ultimi debbono essere sottoposti al criterio democratico dell'elezione, del controllo e della revocabilità. Naturalmente questo indirizzo di proposta può conoscere diverse articolazioni a seconda della situazione, ma è essenzialmente in ogni caso indi-spensabile introdurre il concetto della democrazia consigliare in rapporto alle esigenze del movimento.
Sul versante politico generale, diventa di primaria importanza evitare che, come è succes-so in passato, ad esempio durante le manifestazioni contro la riforma delle pensioni pro-posta dal primo governo di centrodestra nell'autunno del 1994, le legittime rivendicazioni del movimento siano utilizzate strumentalmente per individuare altre maggioranze parla-mentari, e che quindi i giovani e i lavoratori, invece di essere i protagonisti di un possibile quanto necessario cambiamento sociale, diventino un mero strumento all'interno della dia-triba tutta istituzionale tra i due poli dell'alternanza borghese, Ulivo e Casa delle Libertà.
Il Partito della Rifondazione Comunista è il solo soggetto politico che, col suo intervento nelle mobilitazioni, può impedire che lo scenario prima illustrato possa avverarsi.
Solo intervenendo nelle mobilitazioni con un chiaro programma di classe per l'alternativa socialista alla barbarie del capitale, vi potrà essere quell'unione tra popolo no global e la-voratori.
Si devono propagandare nel movimento parole d'ordine di immediata comprensione ed ef-ficacia.
Ad esempio la richiesta di un aumento di salario per recuperare il potere d'acquisto perso negli ultimi anni, la riduzione dell'orario di lavoro a parità di salario fino alla scomparsa del-la disoccupazione, un salario minimo intercategoriale ed uno sociale per i disoccupati, l'a-bolizione di tutte le forme di lavoro precario con la trasformazione dei contratti atipici in contratti a tempo indeterminato, la difesa dello stato sociale e la conseguente abolizione delle riforme liberiste dello stesso, un piano di ingenti investimenti pubblici sotto il controllo di studenti lavoratori e disoccupati.
E' evidente che tale programma metterebbe immediatamente in discussione le fondamen-ta di un sistema basato sullo sfruttamento capitalistico e rendere comprensibile la necessi-tà dell'espropriazione della proprietà privata, della distruzione del dominio statale della borghesia e la sua sostituzione con un nuovo potere basato sulla partecipazione reale del-la maggioranza della popolazione.
In altre parole è indispensabile che i Giovani Comunisti intervengano sulla base di un pro-gramma che partendo dai livelli di coscienza delle masse giovanili, crei nelle lotte il ponte tra le rivendicazioni immediate e l'alternativa di sistema.
Dobbiamo, in sintesi, riappropriarci di un programma per la transizione, utilizzando il me-todo degli obiettivi transitori, che fu quello che permise al proletariato russo di conquistare il potere nell'ottobre del 1917 sotto la guida del partito bolscevico.
Se questo è il programma sul quale è indispensabile costruire il nostro intervento nelle mobilitazioni in corso, diventa al tempo stesso non più rinviabile un'inversione di rotta nella linea politica fin qui seguita dal Partito.
Purtroppo l'asse centrale del documento per il V congresso del Partito, rilancia l'ipotesi, già mostratasi fallimentare, di accordi tra Rifondazione i Democratici di Sinistra e l'Ulivo.
La tesi numero 37 (bozza presentata al CPN di Novembre) così recita:"In questo quadro la prospettiva della sinistra plurale, cioè della concreta attivazione di un campo più ampio di quello fin qui descritto e il coinvolgimento in esso di settori consistenti della sinistra mode-rata e riformista, pur rimanendo irrinunciabile ai fini della costruzione di un'alternativa di governo, appare un cammino reso più difficile e tormentato dalle scelte compiute dalla maggioranza dei DS e dell'Ulivo di schierarsi con la guerra e con l'ingresso diretto nel con-flitto da parte del nostro paese, cui si aggiunge una crescente insensibilità verso le que-stioni sociali e la subordinazione culturale e politica ai paradigmi del liberismo."
Viene cioè qui riproposta la costruzione di una sinistra plurale di governo coi Ds (e con lo stesso centrosinistra) per il 2006.
Si tratta di una proposta in contraddizione con la stessa necessità della "rottura col cen-tro", resa ancor più contraddittoria dalla definizione, peraltro corretta, dei DS come partito "neocentrista".
Questa proposta evidenzia quanto la discussione congressuale del nostro partito (e di ri-flesso dei GC) sia ben lungi dallo spostare il baricentro politico dalle istituzioni al movimen-to. Al contrario il movimento è concepito come elemento di forza per il futuro riavvicina-mento coi Ds e con l'Ulivo in vista di un ipotetico post Berlusconi che nel 2006 apra la strada del governo riformatore.
La stessa impostazione politica di fondo la troviamo nelle più recenti decisioni prese dal-l'attuale maggioranza del gruppo dirigente dei Giovani Comunisti.
La scelta di dar vita ad un blocco politico organizzativo con l'area delle Tute Bianche di Casarini e con la Rete No Global di Caruso, creando il coordinamento Nazionale dei Di-sobbidienti è consequenziale ad un'impostazione in cui il ruolo dei comunisti è subalterno a quello delle forze riformiste presenti nel movimento.
Le prime due dichiarazioni pubbliche dei portavoce nazionali del Laboratorio dei Disobbe-dienti, la giornata di mobilitazione del 17 novembre, in cui è prevalso il lato mass-mediatico eclatante dell'evento, la scelta fatta in alcune federazioni di non utilizzare la fir-ma dei Giovani Comunisti per pubblicizzare iniziative politiche, usando invece quella del Laboratorio dei Disobbedienti, in un momento in cui la visibilità della nostra organizzazione dovrebbe essere la massima possibile, giustificano i nostri timori.
Si rende, quindi, necessaria una svolta di 180 gradi nella politica dei Giovani Comunisti che sia la tappa d'inizio di un percorso per la costruzione dell'egemonia comunista tra le giovani generazioni, guadagnandole al progetto di trasformazione rivoluzionaria e dimo-strando al contempo l'illusorietà d'ogni ipotesi riformista.
La stessa ripresa della lotta di classe e dei movimenti nel mondo è un'occasione straordi-naria da cogliere per rilanciare la prospettiva socialista tra i giovani, intesa come risposta rivoluzionaria alle loro legittime aspirazioni (democratiche, sociali, ambientali), che sono incompatibili col sistema di dominio borghese.
Si tratta quindi, per i Giovani Comunisti, di ricondurre il diffuso sentimento antiliberista pre-sente nei movimenti in una chiara prospettiva per l'alternativa di classe.
Per fare ciò è indispensabile una battaglia per l'egemonia nei movimenti, cioè lottare aper-tamente al loro interno per l'affermazione della prospettiva socialista, contro ogni ipotesi neoriformista che è destinata a condurre al fallimento il movimento stesso.
Lo sviluppo, dopo decenni, di un movimento di massa su scala internazionale apre ai co-munisti nuovi spazi per porre questa questione in un'ottica internazionale. E' oggi necessa-rio e possibile impegnarsi in un processo di raggruppamento rivoluzionario nel mondo di tutte le forze d'avanguardia della classe lavoratrice, e delle loro organizzazioni giovanili, che siano disponibili a convergere nel recupero e nella riattualizzazione degli assi pro-grammatici del marxismo rivoluzionario, fondamenta della rifondazione di una internazio-nale comunista.
 
 
 

Dieci anni di tagli della spesa pubblica nel settore scolastico e universitario, accompagnati da processi sempre più evidenti di aziendalizzazione e di ingresso dei privati nel mondo dell’istruzione, sponsorizzati da Confindustria e dal Vaticano e portati avanti indistintamen-te dai governi di centrodestra e di centrosinistra, sono giunti oggi alla loro fase culminante.
La riforma Moratti chiude definitivamente il cerchio di un percorso di attacco al diritto allo studio: dietro l’apparente svolta rispetto alla riforma dei cicli voluta da Berlinguer, si na-scondono elementi di sostanziale continuità, rispetto alle riforme dei precedenti esecutivi di centrosinistra; l’asse centrale resta lo stesso: meno soldi alla scuola pubblica, ingresso sempre più prepotente degli interessi delle imprese nella scuola (sia sotto il profilo finan-ziario che sotto quello, assai più intollerabile, della didattica), parificazione tra pubbliche e private, agevolazioni per gli istituti confessionali, gestione manageriale (si propone addirit-tura di sostituire i consigli d’istituto con fantomatici consigli d’amministrazione), accompa-gnata da forme di autoritarismo crescente (presidi padroni, ridimensionamento delle rap-presentanze studentesche, repressione delle forme di protesta).
In sintesi, la riforma Moratti sostanzia in maniera ancora più evidente e reazionaria quel progetto di destrutturazione del sistema formativo pubblico ad uso e consumo delle logi-che di profitto delle aziende.
A fronte di questo stato di cose, nel corso dell’autunno si sono avvertiti i segnali di un pri-mo risveglio delle lotte e delle mobilitazioni studentesche: cortei, occupazioni, assemblee su tutto il territorio hanno dimostrato  come gli studenti siano ancora capaci di scendere in piazza per difendere i propri diritti. La passivizzazione degli ultimi anni è stata il frutto non di un congenito e irreversibile allontanamento dei giovani dalla politica, bensì della frustra-zione e della disillusione di migliaia di studenti nei confronti degli apparati burocratici e ri-formisti maggioritari all’interno del movimento studentesco, i quali all’indomani del 1994 (vedi UDS), hanno immediatamente abbandonato le piazze per trasformarsi in agenti del Centrosinistra e della concertazione studentesca negli istituti, assumendo così il ruolo di ammortizzatori del conflitto.
Compito centrale dei Giovani Comunisti in questa fase deve essere quello di rilanciare un percorso di lotta a medio e lungo termine contro ogni logica privatistica all’interno della scuola; affinché gli studenti rappresentino la punta di lancia, assieme ai lavoratori, di un’opposizione generalizzata al governo Berlusconi, ai suoi ministri e alle sue politiche, in-dicando come obiettivo imprescindibile la cacciata del governo stesso. Per fare ciò indivi-duiamo come luogo centrale della costruzione del conflitto i collettivi studenteschi autorga-nizzati, all’interno dei quali i Giovani Comunisti devono lavorare in modo assiduo, aperto e leale per la costruzione di una soggettività studentesca nazionale capace di rappresentare un riferimento alternativo alle burocrazie riformiste dell’UDS, al confuso movimentismo di vecchi surrogati studentisti, nella prospettiva di una egemonia politica capace di sottrarre le masse studentesche dall’abbraccio mortale del centrosinistra, il quale è il principale re-sponsabile delle innumerevoli sconfitte del movimento studentesco ad oggi.
Tale discorso vale a maggior ragione anche nel lavoro dei GC sull’università. Questo è stato il settore in cui in misura maggiore è calata una cappa di silenzio totale negli anni del Centrosinistra ciò a dispetto di un peggioramento sempre più evidente delle condizioni de-gli studenti universitari e del diritto allo studio più in generale, dalla riforma Ruberti ad oggi.
A parte qualche barlume di mobilitazione ai tempi della bozza Martinotti e a un timido ri-sveglio, lo scorso anno, con le occupazioni a Roma contro il caro tasse, fin dall’indomani del 1994, i processi di aziendalizzazione (crediti formativi, stage a costo zero per le impre-se, obbligo di frequenza, stipulazione contratto con l’università, in modalità part time o full time)portati avanti dall'Ulivo parallelamente alla già citata aziendalizzazione della scuola, sono entrati in vigore senza la benché minia opposizione all’interno degli atenei. Ma l’attacco al diritto allo studio non si è fermato a questo: la privatizzazione dei servizi, con conseguente aumento dei costi, l’aumento vertiginoso delle tasse e la carenza cronica del-le strutture (mense, case dello studente sono la dimostrazione palese di quanto il nuovo modello di università, voluto dai padroni, sia funzionale alle logiche del mercato e imposta-to su una chiara selezione di classe dove la cultura diventa un beneficio per pochi eletti. Lo stato di desertificazione politica appena descritta si è, purtroppo, riversato sullo stesso operato dei G. C.; la nostra attività ha scontato limiti notevoli, sia sul piano dell’organizzazione interna che su quello della proiezione esterna dei nostri contenuti.
Occorre innanzitutto rilanciare un dibattito a tutto campo, dentro e fuori i G.C., sulla merci-ficazione del diritto allo studio e sul quadro complessivo che la determina, ossia le innume-revoli riforme a “mosaico” che negli anni hanno, pezzo dopo pezzo, destrutturato l’università pubblica. In questo senso è fondamentele rafforzare il ruolo delle commissioni universitari. All’interno dei G.C., così come diventa strategico, soprattutto a fronte dei nuo-vi attacchi portati avanti dal governo di destra, il ruolo è di rilancio dei circoli universitari. Sul piano della mobilitazione diretta negli atenei, è centrale un forte investimento dei G.C. nei collettivi universitari, rilanciando in maniera decisa la costruzione di un coordinamento nazionale dei collettivi studenteschi, capace di rappresentare un riferimento alternativo all’egemonia di burocrazie istituzionalizzate filo padronali quali la Confederazione degli Studenti, e al tempo stesso di arginare la preoccupante crescita di fazioni apertamente re-azionarie  quali Azione Universitaria. La stessa Udu, analogamente all’Uds, rappresenta nient’altro che il tentativo da parte di settori burocratici, in primo luogo Ds, di ritagliarsi spazi di consenso concertativo all’interno dell’università, con ambizioni di grande sindaca-to studentesco, in realtà pronti all’occorrenza a tramutarsi in sponsor del Centrosinistra o, nella migliore delle ipotesi, in opposizione di “sua maestà” (lo testimonia il “silenzio assen-so” tenuto per anni da questa organizzazione in occasione degli attacchi portati avanti dal-la riforma Berlinguer).
Risulta urgente la ridefinizione della nostra politica sull’università: è ormai da considerarsi conclusa l’esperienza, rivelatasi fallimentare, di condizionare dall’interno l’operato di orga-nizzazioni come l’Udu, la quale oramai da tempo ha dimostrato palesemente la sua “irri-formabilità”, mentre oggi come mai centrale è la costruzione dei collettivi universitari come luoghi orizzontali di dibattito e di mobilitazione.
 

Il processo di “flessibilizzazione” che investe il mondo del lavoro, di fatto significa precarie-tà ed introduzione di forme sempre più brutali di sfruttamento, segnando un feroce arre-tramento rispetto ai diritti conquistati con dure lotte dal movimento operaio.
La tendenza , manifestata dal capitale ad introdurre un numero sempre crescente di forme di contratto atipiche, rende necessaria la cancellazione del contratto nazionale.
A partire dal governo Amato del ‘92, lo smantellamento dei diritti dei lavoratori è stato una costante di tutti i governi che si sono succeduti, passando dal governo Prodi con il pac-chetto Treu alle privatizzazioni degli esecutivi seguenti e oggi al “libro bianco” di Maroni.
L’abolizione dell’art.18 dello Statuto dei lavoratori, a cui mira il governo reazionario di Ber-lusconi, rappresenta, quindi, solo una tappa del processo più generale che punta allo smantellamento complessivo dei diritti dei lavoratori, in nome di una totale liberalizzazione spacciata come soluzione al problema della disoccupazione. Là dove viene meno ogni li-mite alla possibilità (del padrone), di licenziare arbitrariamente, chi da “adulto” viene e-spulso dal ciclo produttivo, non viene più reintegrato e per i giovani lavoratori l’unica pro-spettiva (oltre alla disoccupazione) è un’assunzione con contratti di formazione o, gene-ralmente, “atipici” (contratti a termine, a chiamata, a progetto, interinale, collaborazione coordinata e continuativa). In questo modo, aumenta vertiginosamente la ricattabilità del lavoratore, soprattutto dei giovani. A fronte di una disoccupazione dilagante, migliaia di giovani lavoratori, se pure assunti a tempo indeterminato, a causa delle gabbie salariali (reintrodotte con i contratti d’area), non solo vengono sottoposti a turnazioni disumane, ma in moltissimi casi vengono poi licenziati per esubero o costretti a rifiutare il lavoro poiché il salario non consente neanche la stretta sopravvivenza (vedi l’esempio indicativo della Fiat Sata di Melfi). Soluzioni di questo tipo dimostrano la falsità della ricetta "flessibilità ugua-le a maggiore occupazione", soprattutto se consideriamo che solitamente ad essa si ac-compagna lo smantellamento di quei settori un tempo ritenuti trainanti dell’economia (side-rurgia, cantieristica, chimica) ed oggi invece definiti “sensibili” e destinati a morire per as-senza di finanziamenti. A questa deindustrializzazione, che si abbatte soprattutto sul Mez-zogiorno, ed alla disoccupazione da essa determinata, si è aggiunta una legge sulla rie-mersione dal sommerso che oltre a regalare al padrone piena libertà di licenziare addirittu-ra lo “premia” con gli incentivi. Dinanzi a questo stato di cose, caratterizzato a nord e so-prattutto a Nord-est da sempre maggiore flessibilità e concorrenza al ribasso dei salari (te-sa a scatenare contrapposizioni tra lavoratori italiani e immigrati) e al Sud la precarietà e disoccupazione giovanile sempre più dilagante, è necessario un netto cambiamento di rot-ta nella politica dei G.C.. La scarsa presenza e partecipazione di giovani precari e disoc-cupati alla vita dei G.C. è forse l’elemento più preoccupante nel complesso delle attività del Partito tutto, tale da richiedere una severa riflessione. Risulta sempre più urgente un intervento diretto, non più limitato a simboliche campagne contro la precarietà, tra quelle nuove generazioni di lavoratori sfruttati, i quali privi di punti di riferimento d’opposizione a sinistra, rivolgono le loro speranze in maniera sempre più massiccia agli slogan e alla de-magogia dei partiti di destra e di estrema destra (come testimoniano i dati preoccupanti di un sondaggio condotto recentemente dal Corriere della Sera). I G.C. in questo senso han-no il compito di riportare al centro dell’attenzione, a partire dalle lotte quotidiane condotte dai metalmeccanici, dai precari di ogni genere, fino ai disoccupati del Sud rivendicazioni da troppo tempo relegate ai margini del nostro lavoro politico, quali quella della riduzione dell’orario di lavoro, con forti aumenti salariali, senza annualizzazioni, trasformazione di tutti i contratti a tempo determinato in contratti a tempo indeterminato, il salario garantito a tutti i disoccupati e la reintroduzione per legge della scala mobile dei salari. Solo facendo vivere queste parole d’ordine nel vivo delle lotte di tutti i giorni, sul territorio e lanciando campagne di mobilitazione centrate su una piattaforma generale unificante del lavoro, del precariato e del non lavoro, potremo riconquistare la credibilità di larghe masse di giovani lavoratori.
 

La prima conferenza nazionale dei Giovani Comunisti, svoltasi a Chianciano nel 1997, ri-prendendo la riflessione già avviata nell'assemblea nazionale di Firenze del 1995, rilevava alcuni difetti organizzativi nella struttura giovanile del Prc, molti dei quali rimangono ancora oggi irrisolti.
Da un lato è veritiero affermare che la prima conferenza nazionale ha dissolto alcuni dubbi su come dovesse essere organizzato il lavoro dei Giovani Comunisti a livello locale: si as-siste alla nascita di veri e propri coordinamenti eletti dopo approfondito dibattito nelle con-ferenze provinciali, che, interagendo con il Coordinamento Nazionale, hanno il compito di sviluppare l’attività dei Giovani Comunisti tra le nuove generazioni. Dall'altro lato, è neces-sario ammettere che nella pratica poco di questo si è concretizzato.
A quattro anni dalla prima conferenza nazionale dei Giovani Comunisti, si deve osservare che molti dei limiti già allora presenti, col passare del tempo sono diventati cronici.
Il rapporto col partito nel suo complesso non ha cessato di essere conflittuale, soprattutto per ciò che riguarda il livello locale: in molte federazioni i giovani hanno dovuto scontrarsi con i gruppi dirigenti che vedono con sospetto la struttura giovanile del partito, spesso non comprendendone la necessità, spesso avvertendola come un pericolo per la normale ge-stione della routine politica.
A livello nazionale, nonostante gli impegni, anche statutari, assunti dal Partito nei confronti dell'organizzazione giovanile, i Giovani Comunisti sono stati spesso intesi come un mero strumento d’immagine, e non come un potenziale strumento per radicare la presenza del partito tra le giovani generazioni, data soprattutto la notevole capacità d'attrazione che il Prc esercita sui giovani. Se così non fosse, non si spiegherebbe lo scarso investimento fi-nanziario riservato dal partito alla sua struttura giovanile, fatto che impedisce il regolare svolgimento dell'attività politica dei GC o, in alcuni casi (es. le commissioni nazionali su specifici settori) lo rende sostanzialmente impossibile; non si spiegherebbe nemmeno l’assolutamente inesistente spazio che il dibattito politico giovanile trova sulle pagine di "Liberazione", fatto che ha contribuito in modo non secondario a trasformare il Coordina-mento Nazionale in un momento di confronto sostanzialmente auto referenziale.
Non che importanti passi in avanti non siano stati fatti: il campeggio nazionale, ormai dive-nuto un appuntamento fisso, durante il quale, pur con mille limiti, centinaia di giovani mili-tanti possono trovare momenti di discussione e di approfondimento del dibattito interno; le campagne politiche su tematiche giovanili; la convocazione e la partecipazione a manife-stazioni nazionali, ecc.. Tutti momenti importanti in cui i giovani hanno fatto risaltare e va-lere la loro presenza, ma momenti a sé stanti, non conseguenti ad un regolare lavoro poli-tico di tutta l'organizzazione.
Lavoro che sarebbe necessario specialmente oggi, in un momento che vede un nuovo af-flusso di iscritti all'organizzazione giovanile, frutto del lavoro da noi svolto nelle mobilita-zioni degli ultimi mesi, da quelle nel movimento no global, tra i metalmeccanici, fino a quel-le riprese nelle scorse settimane contro il progetto di privatizzazione della scuola, intrapre-so dal Ministro Moratti
Vero che i giovani in particolare subiscono, come, e più del Partito, un fortissimo turn over, ma sarebbe un errore legare le difficoltà odierne solo ad un’inevitabile questione anagrafi-ca o a fattori esterni.
Il fatalismo non aiuterebbe certo a superare la crisi.
E' necessario che i GC si dotino di strumenti organizzativi più adeguati ai compiti che la prossima fase chiederà loro di assolvere.
E’ indispensabile rivendicare nei confronti del partito un più consistente investimento politi-co ed economico che permetta all’organizzazione di spiccare l’indispensabile salto di qualità.
E’ necessario che i giovani, dopo tanti anni, possano finalmente disporre sia di un regolare spazio sulle pagine del quotidiano del partito, in modo che le loro posizioni politiche pos-sano veicolare tra un pubblico più vasto, sia di un bollettino di discussione interno, in modo da poter creare quel collegamento regolare fra le strutture periferiche e il centro politico e organizzativo dei GC, in modo che tutti possano essere a conoscenza e partecipare al di-battito dell’organizzazione.
E' indispensabile poi che i giovani chiariscano e strutturino in modo più chiaro ed efficiente i vari livelli organizzativi dei GC.
Commissioni nazionali e coordinamenti locali, devono essere delle reali strutture di lavoro intermedio per i giovani, e contribuire così a rafforzarne la presenza, sia territorialmente, sia su specifici settori d’intervento.
Dobbiamo realizzare una struttura che sappia rispondere alle esigenze di fondo che ab-biamo: quella di creare nuovi quadri politici in grado di costruire- nel vivo delle lotte e dei movimenti- l’egemonia dei comunisti tra vasti strati di giovani lavoratori, studenti e disoc-cupati.
Dobbiamo costruire un’organizzazione di giovani rivoluzionari che sappia guadagnare lar-ghe masse giovanili al progetto della rifondazione comunista e, quindi, della trasformazio-ne socialista della società.