II° Conferenza nazionale dei Giovani Comunisti
PER L'EGEMONIA DEL PROGETTO RIVOLUZIONARIO TRA I GIOVANI

Alberto Madoglio
Peppe D'Alesio
Massimiliano Meloni
Annamaria Sicilia

1. CRISI GLOBALE DEL CAPITALISMO E ALTERNATIVA COMUNISTA

Sono ormai trascorsi oltre dieci anni dal crollo del muro di Berlino e dalla dissoluzione dell'Unione Sovietica: tutti quelli che allora proclamavano la "fine della storia", e la definitiva vittoria del capitalismo su ogni altra ipotesi di sviluppo economico non basato sullo sfruttamento, hanno oggi la dimostrazione di quanto le loro previsioni fossero errate.
Il periodo storico in cui viviamo, ha dimostrato, oggi più che mai, come il capitalismo non sia in grado di garantire sviluppo e prosperità per l'intero genere umano, e come in realtà la sua antistorica sopravvivenza sia inscindibile da guerra, carestie, distruzione ambientale, crisi sociali ed economiche sempre più devastanti, con un generale imbarbarimento dell'intera umanità.
Gli esempi citabili sono infiniti.
Nell'ex Unione Sovietica e nei paesi dell'Est europeo, la reintroduzione dell'economia di mercato ha spazzato via tutte le conquiste sociali frutto della rivoluzione d'Ottobre, che settant'anni di dominio burocratico dello stalinismo avevano fortemente limitato ma non completamente distrutto.
Questo processo ha dimostrato tutti i suoi nefasti prodotti: generale impoverimento della popolazione, ricomparsa di epidemie che si credevano definitivamente sconfitte, abbassamento della speranza di vita media tra le popolazioni, rigurgito di un nazionalismo esasperato, responsabile di crimini efferati in Cecenia, nel Caucaso, nell'ex Yugoslavia.
I paesi del cosiddetto "terzo mondo" hanno continuato a subire il saccheggio indiscriminato delle potenze imperialiste.
La situazione in Africa si avvia sempre più verso un baratro fatto di guerre e massacri senza fine, di cui le guerre civili in Ruanda, Sierra Leone e Congo, sono forse gli esempi più tragici.
I paesi definiti "in via di sviluppo" non sono ancora usciti dallo shock finanziario del 1998; l'Argentina sta entrando nel quarto anno di recessione, e le famose tigri asiatiche sono il caso più evidente di come lo sviluppo economico avvenuto negli anni precedenti fosse molto instabile, perché basato non sull'aumento del consumo interno, cioè su di un miglioramento del tenore di vita delle popolazioni, ma sulla capacità d'importazione delle maggiori potenze mondiali.
Nei paesi dell' "occidente avanzato", abbiamo assistito ad un generale impoverimento delle masse lavoratrici, causato da politiche ultraliberiste, approvate sia da governi di centrodestra sia da quelli sedicenti progressisti che hanno via via diminuito i salari e lo stato sociale, aumentato i carichi di lavoro, a fronte di sempre più ingenti finanziamenti alle imprese e di un aumento delle spese militari.
Il Giappone, in crisi ormai dal 1990, è un caso rappresentativo di come la stagnazione produttiva, conseguente ad uno sviluppo economico esasperato, possa essere profonda e, senza apparenti vie d'uscita.
Dall'aggressione imperialista all'Irak nel 1991 (che doveva segnare la nascita di un Nuovo Ordine Mondiale capitalista), con il conseguente blocco economico, causa di centinaia di migliaia di morti, all'invasione della Somalia nel 1993, fino alla guerra nei Balcani contro la Serbia, l'imperialismo si è lanciato in un'escalation guerrafondaia per ridisegnare i propri confini d'intervento nel pianeta dopo la fine dell'Urss, e per ridefinire i rapporti di forza al proprio interno, soprattutto in nome degli interessi delle tre maggiori potenze mondiali concorrenti: Usa, Giappone ed Unione Europea.
In particolar modo, la guerra all'ex Yugoslavia, che ha chiuso il XX secolo così come si era aperto (l'aggressione alla Cina del 1900), ha dimostrato che i dissidi tra le varie potenze imperialiste non si sono definitivamente risolti in una impossibile concorde divisione dei compiti, ed ha anzi rappresentato il maggior momento di tensione fra due dei blocchi imperialisti, Usa e UE, per il controllo di un'area strategica e di vitale importanza nella lotta per l'appropriazione di nuove aree di mercato, così come la competizione capitalistica impone.
Lo stesso processo di integrazione politica economica europea, con l'obiettivo di creare un'unica superpotenza imperialista, si scontra con le resistenze delle varie borghesie nazionali, sostenute in molti casi dai rispettivi governi, a cedere in parte o in toto il controllo di settori vitali dell'economia (banche, assicurazioni, telefonia, industria aeronautica o automobilistica ecc.) ai loro concorrenti stranieri, ancorché membri dell'Unione Europea.
Scrivevamo già in precedenza che il XXI secolo si è aperto all'insegna della più pesante crisi dell'economia mondiale dal 1945, ancor più grave perché solo pochi anni fa le attese di sviluppo erano ben diverse. Verso la seconda metà degli anni novanta, diversi economisti borghesi hanno sostenuto che la lunga fase di ristagno dell'economia, prolungatasi per oltre un decennio, era ormai giunta al termine. In più, abbagliati da un aumento esponenziale dei valori borsistici in tutti i mercati mondiali, confortati dal progredire delle applicazioni al processo produttivo delle scoperte scientifiche nel campo dell'informatica e delle biotecnologie (la cosiddetta New Economy) con la conseguente creazione di nuovi sbocchi di mercato, questi guru della finanza sono arrivati a decretare la fine dello sviluppo economico classico, fondato sul ciclico susseguirsi di fasi di espansione e recessione, e ad ipotizzare una crescita senza fine.
Tuttavia, i fatti, anche in questa occasione, hanno dimostrato che la realtà è ben più forte di ogni illusoria attesa.
La bolla della speculazione borsistico-finanziaria è esplosa e le quote di mercato legate alla New Economy hanno raggiunto un alto livello di saturazione. La risposta che il capitalismo ha dato alla crisi è stata la stessa applicata quando era "l'Old Economy" ad imperare: tagli ai salari, chiusura di fabbriche, migliaia di licenziamenti, sussidi alle imprese pagati con i soldi dei lavoratori. Davanti a questo attacco delle classi dominanti, è iniziata la reazione delle masse sfruttate di tutto il pianeta. Infatti, già nel corso degli anni novanta non sono mancate mobilitazioni da parte dei giovani e dei lavoratori (Italia 1994, Francia 1995, Albania, Sud Corea e Indonesia 1997, Argentina dal 1999), dimostrando che il proletariato internazionale, pur duramente colpito nel corso degli anni '80, non era stato definitivamente sconfitto, e che le teorie sviluppate nel tempo sulla "fine della contrapposizione di classe", non erano altro che assurdità.
E' il sistema capitalistico stesso, arrivato oggi in una fase del suo sviluppo segnata da una sempre più accentuata internazionalizzazione dei mercati e da una totale predominanza di politiche neoliberiste, che crea le condizioni per mandare in rovina milioni di persone in tutto il mondo, e che in ultima istanza crea la necessità stessa per il suo abbattimento.
Oggi più che mai, la necessità di una prospettiva socialista diventa attuale e ogni suo ritardo mette in pericolo sempre più le sorti stesse dell'umanità. Ma la storia ci ha fortunatamente dimostrato che ciò che è indispensabile, è anche realizzabile.
La rivoluzione russa del 1917 ha per la prima volta stabilmente palesato che solo espropriando gli sfruttatori capitalisti, pianificando democraticamente e coscientemente l'economia, si può avviare un tentativo di creare un armonioso sviluppo dell'umanità. L'Ottobre bolscevico ha mostrato chiaramente che tutto ciò non è realizzabile attraverso una illusoria "democratizzazione" di quegli strumenti statali che la borghesia si è data per meglio esercitare il suo dominio. Solo una rivoluzione condotta dalle masse oppresse, sotto la direzione politica della classe operaia, può attraverso una "rottura della macchina statale borghese" (Marx) sostituire alla democrazia parlamentare (fondata essenzialmente sulla corruzione e l'imbroglio, come la vicenda di Tangetopoli in Italia e casi simili nel resto d'Europa hanno dimostrato) una più ampia e realmente democratica forma di potere, ossia la democrazia sovietica o dei consigli dei lavoratori.
Perché ciò avvenga, è indispensabile che la rivoluzione non si rinchiuda negli angusti ambiti di una sola nazione. Se il capitalismo ha dimostrato di poter progredire soltanto sviluppandosi a livello globale, necessariamente l'alternativa ad esso non potrà che essere di carattere mondiale. A tale proposito, la dissoluzione dell'Urss e la rapida evoluzione della Cina verso una sempre più selvaggia economia di mercato, dimostrano drammaticamente quanto sia fallace non la prospettiva socialista, ma l'idea che essa possa persistere in un Paese solo, isolato dal contesto dei rapporti di classe a livello internazionale.
I comunisti, battendosi per questa prospettiva, non partono da zero. Devono recuperare il formidabile patrimonio di esperienze della rivoluzione d'Ottobre, del partito che la rese possibile, il Partito Bolscevico di Lenin e Trotsky, e dell'avanguardia internazionale che lottò contro la degenerazione staliniana dell'Urss e contro quella casta burocratica che giustificava il suo dominio e il tradimento dei principi del marxismo in nome della teoria "del socialismo in un Paese solo".
Il compito che dobbiamo affrontare non è sicuramente facile e breve. Ma oggi questo compito non appare così improbabile perché, a fronte di una crisi profonda del capitalismo, vi è la ricomparsa a livello internazionale sia di un "risveglio operaio" sia di un movimento giovanile di massa che hanno la possibilità di aprire una nuova prospettiva in cui sia posta fine alla tirannide dell'economia di mercato.
 
2. LA LOTTA DEI COMUNISTI CONTRO LA GUERRA E L'IMPERIALISMO

L'aggressione militare all'Afghanistan dell'autunno scorso, secondo molti teorici, avrebbe dovuto fornire un'ulteriore prova, forse quella definitiva, circa il carattere cosiddetto "imperiale" della società nata dalla globalizzazione capitalistica.
Con la guerra gli USA avrebbero dimostrato il loro carattere di unica superpotenza economica e militare del pianeta, relegando definitivamente  gli altri imperialismi, Europa e Giappone, ad un ruolo subalterno. Di più, la guerra avrebbe segnato il declino dell'importanza degli Stati nazione, a tutto vantaggio delle multinazionali, che quindi si troverebbero a vivere (anche se questi nuovi teorici non lo esplicitano) in un empireo astratto dalla materialità delle cose.
In verità i fatti stanno in modo diverso.
E' ormai evidente a tutti che le operazioni belliche in Afghanistan non avevano come scopo quello di sconfiggere il terrorismo internazionale e di ristabilire un governo democratico a Kabul (la cronaca di questi mesi evidenzia quanto sia ancora lontano il processo di pacificazione e di democratizzazione del Paese, nonostante la rapida disfatta del regime dei Talebani. Né il premier Karzai, né i capi tribù riuniti nella Loya Girga, potranno assolvere il compito di liberare il paese dal giogo dell'oppressione imperialista e dell'oscurantismo islamico).
Ma non è  altrettanto chiaro a tutti che la molla che ha fatto iniziare le operazioni militari è stata proprio la perdurante conflittualità tra gli imperialismi oggi esistenti, cioè tra gli Stati Uniti e il nascente polo imperialista Europeo (somma degli imperialismi francese, tedesco, italiano e, con qualche difficoltà, inglese). La volontà degli americani di gestire la lotta ai Talebani senza l'aiuto degli alleati (concedendo solo un ruolo marginale alla Gran Bretagna), le difficoltà nate alla Conferenza di Bonn, che doveva creare il nuovo governo a Kabul , futuro garante per le varie potenze mondiali del saccheggio delle materie prime di quel Paese (petrolio e gas naturali) sono stati tutti chiari segnali di quanto astratta fosse l'idea di un super governo mondiale dominato dagli USA.
Tutto ciò dimostra come affermare oggi che la teoria leniniana dell'imperialismo sia superata dalla nuova fase del capitalismo "globalizzato", significa non comprendere i meccanismi reali che caratterizzano questa fase dello sviluppo capitalistico. Una tendenza sempre maggiore all'esportazione dei capitali, alla ricerca di mercati dove trarre più profitti e rallentare la tendenza alla caduta del saggio di profitto, concentrazione monopolistica dei mercati stessi, fusione tra capitale finanziario e industriale, saldatura sempre più evidente tra il Governo e la borghesia, tensioni sempre più accese tra le varie nazioni, questi secondo Lenin erano -e lo sono ancora- le caratteristiche principali della fase imperialista. I fautori del "superamento" della concezione di imperialismo portano a sostegno della loro tesi l'argomento secondo cui non saremmo in presenza di una tensione militare fra le nazioni né essa potrebbe prodursi in futuro in quanto i paesi capitalistici avrebbero ormai scelto la gestione pacifica delle loro controversie. In realtà, quanto queste controversie possano risolversi amichevolmente, lo si può vedere dall'aspra contesa circa i dazi su diversi prodotti che USA e UE hanno iniziato da mesi, e che è ben lontana da una soluzione soddisfacente per entrambi i contendenti.
La fine dell'Urss e degli Stati ad economia collettivizzata, il processo di dissoluzione della Cina come stato operaio, la sempre più profonda crisi economica che il capitalismo sta attraversando da tempo, sono segnali di quanto in realtà le tensioni fra le varie potenze imperialiste siano destinate ad inasprirsi, in una competizione sempre più serrata per la conquista di nuovi sbocchi di mercato, in cui le multinazionali, che mantengono forti legami con gli stati di origine, sono un elemento ulteriore che spinge ad un inasprimento dei contrasti interimperialisti.
In questa prospettiva, la possibilità di conflitti armati per determinare nuovi equilibri non può essere esclusa a priori, e questo spiega perché l'Europa stia sempre più cercando di smarcarsi dalla tutela militare degli USA.
Impostare oggi una battaglia antimperialista significa allora riconoscere che il capitalismo non è in grado di darsi un governo universale stabile, e che anzi la sua stessa sopravvivenza è portatrice di disastri sempre maggiori per miliardi di persone.
D'altra parte la creazione di un blocco antimperialista internazionale non può essere l'appello "all'unità" con quei paesi come la Russia o la Cina che pur rivendicando un loro ruolo autonomo da USA e UE tentano di costruirsi loro stessi come nuove potenze imperialiste.
E' necessario piuttosto che le lotte degli oppressi e degli sfruttati in ogni angolo del pianeta si unifichino sulla base di un programma che preveda la conquista del potere per mezzo di un processo rivoluzionario di massa su scala internazionale, potere basato sulla proprietà collettiva dei mezzi di produzione e sulla democrazia diretta consigliare o sovietica.
Ma questo compito urgente ("socialismo o barbarie", appunto) può essere realizzato solo dalla classe operaia e dalle sue avanguardie organizzate in partiti comunisti e internazionalisti.
 
3. CRISI INTERNAZIONALE E CRESCITA DELLE MOBILITAZIONI DEI LAVORATORI E DELLE MASSE OPPRESSE

Sono tre le aree a livello mondiale in cui la lotta tra imperialismo e proletariato ha raggiunto il suo apice, in termini di conflittualità e di polarizzazione fra differenti opzioni politiche e sociali: Palestina, Argentina e Francia.

A) In Palestina, l'esplosione della rabbia popolare che ha dato inizio alla seconda Intifada nell'ottobre del 2000 è stata determinata dalle insopportabili condizioni di vita in cui la maggioranza araba (di quella regione) versa da decenni, a causa della politica coloniale della minoranza ebrea sionista appoggiata dalle potenze imperialiste mondiali.
Le ragioni delle tensioni attuali in medio oriente, si fondano sull'opera di colonizzazione attuata in Palestina dalla popolazione ebrea, iniziata nel 1900 e progressivamente ampliata a partire dagli anni '30; colonizzazione che fu originata anche dal tentativo di sfuggire alle persecuzioni e discriminazioni antisemite dell'Europa (culminate con la tragedia della Shoah, che costò la vita a sei milioni di ebrei) e che si indirizzò verso la Palestina visto il rifiuto degli Usa di accettare una massiccia immigrazione ebrea sul loro territorio.
L'effetto di questa politica è stato una sistematica espulsione dei Palestinesi dalla loro terra attraverso una serie di guerre combattute tra il 1948 e il 1973, l'esproprio delle loro ricchezze, l'impossibilità di veder riconosciuta una loro indipendenza nazionale, e il costante peggioramento delle condizioni di vita, sia che vivessero nei cosiddetti "territori occupati", sia che fossero formalmente cittadini di Israele.
Questi sono i motivi che hanno causato l'esplosione sociale in corso e che hanno fatto sì che a livello mondiale nascesse una mobilitazione di solidarietà con la lotta dei giovani palestinesi, nonostante la criminale campagna orchestrata dai principali mezzi d'informazione volta ad accusare di antisemitismo chiunque non approvi l'azione del governo sionista di Gerusalemme.
A questa campagna diffamatoria bisogna rispondere con una più ferma ed inflessibile mobilitazione antirazzista, respingendo tutti i tentativi delle forze fasciste e xenofobe di utilizzare strumentalmente la crisi mediorientale per propagandare le proprie deliranti idee contro il "pericolo ebraico".
La seconda Intifada è stata quindi la dimostrazione dell'impossibilità di una pacifica convivenza fra oppressi e oppressori, e dell'assoluta incapacità delle direzioni nazionaliste arabe di trovare una soluzione alla questione palestinese.
L'Autorità Nazionale Palestinese e il suo leader Arafat, in questi ultimi anni ed in particolare dopo gli accordi di Oslo del 1993, hanno portato avanti una politica subalterna alle esigenze dell'imperialismo, accettando che il futuro Stato Palestinese fosse in realtà un'entità senza continuità territoriale, limitata ai territori occupati nel 1967 e totalmente dipendente da Israele. Il continuo appellarsi agli USA e all'Unione Europea, con l'illusione che possano intervenire per porre fine alla brutale aggressione sulle masse in rivolta, è un'ulteriore prova dell'incapacità di Arafat di rispondere alle esigenze manifestate dalla popolazione palestinese, favorendo così il sorgere e il radicarsi di formazioni reazionarie islamiche (Hamas, ecc.).
In realtà una soluzione definitiva alla crisi in Palestina non può prescindere dal diritto della maggioranza araba della regione a costruire un suo stato indipendente, dal diritto al ritorno per i profughi di tutte le guerre e per i loro discendenti, dalla sconfitta dello stato sionista di Israele, riconoscendo i diritti nazionali alla minoranza ebraica.
Un tale stato non potrà che nascere dall'organizzazione indipendente del proletariato palestinese che riesca ad unire nella sua lotta tutti i settori della società, e che cerchi un'alleanza con le masse sfruttate della popolazione ebrea che stanno cominciando a ribellarsi alla politica guerrafondaia e antioperaia del governo di unità nazionale tra Conservatori e Laburisti a Gerusalemme. Uno stato indipendente di Palestina per sopravvivere non potrà che basarsi su forme di autogoverno dei lavoratori e sullo sviluppo pianificato dell'economia, utilizzando infrastrutture e materie prime non per gli interessi delle multinazionali e dei potentati locali ma per gli interessi della maggioranza della popolazione. Per questo la parola d'ordine della "federazione socialista del medio oriente" è la sola rivendicazione che possa oggi rispondere alle legittime aspirazioni non solo della popolazione palestinese , ma anche di tutte le masse arabe oggi costrette a vivere sotto regimi, come quelli (Giordania, Egitto, Arabia Saudita) che sono diretta rappresentanza degli interessi dell'imperialismo, o sotto regimi che, pur opponendosi formalmente alla politica degli USA e della UE, (Siria, Iran, Libia e Iraq), reprimono i lavoratori, le donne, i giovani e le minoranze etniche, e le cui scelte in materia economica non si sottraggono ai diktat del Fondo Monetario Internazionale e del WTO.

B) Gli avvenimenti rivoluzionari argentini, iniziati il 19-20 dicembre 2001 e tuttora in corso, hanno fatto giustizia di tutte le discussioni teoriche volte ad affermare che dopo il 1989 il capitalismo era, pur con le sue storture, l'unico modello di sviluppo possibile. D fatti la crisi finanziaria argentina causa della più eclatante catastrofe economica che la storia ricordi non è stata il frutto di un'applicazione sbagliata di un modello economico intrinsecamente valido. Le classi dominanti argentine hanno sostenuto negli anni passati, attraverso varie forme di governo -dalla dittatura militare, alla democrazia borghese "formale" che ha visto un succedersi di governi di centrosinistra e centrodestra- una politica di arricchimento, basata sul saccheggio delle ricchezze del Paese a vantaggio loro e delle maggiori potenze imperialistiche, gettando nella miseria milioni di lavoratori.
La situazione attuale, per la quale non sembrano esservi al momento vie d'uscita, è stata quindi la filiazione legittima di questa politica criminale. In realtà una soluzione alla crisi, anzi l'unica soluzione progressiva possibile, possiamo già oggi intravederla.
La classe operaia argentina, smentendo chi facendosi suggestionare dalle moderne teorie postfordiste l'aveva ormai relegata a svolgere un ruolo passivo di accettazione dei meccanismi del mercato, si è ribellata in massa e con le giornate rivoluzionarie di dicembre ha indicato un'alternativa reale allo sfacelo politico, economico e sociale.
Con la cacciata in pochi giorni di quattro governi, nel darsi forme embrionali di autogoverno in tutto il Paese (le assemblee popolari di "barrio", cioè di quartiere), in diretta competizione col potere "legittimamente costituito", rispondendo con la forza alla violenza degli apparati dello Stato, contrapponendo nelle strade la propria forza organizzata agli assalti delle squadracce peroniste, rifiutando di pagare ancora una volta il prezzo di una crisi causata dai padroni e dalle multinazionali, il proletariato argentino ha dimostrato di essere la sola forza progressiva della società, capace di aggregare altri settori oppressi (disoccupati e sottoproletariato) e strati della stessa piccola borghesia.
Avendo sperimentato direttamente la profondità della devastazione economica, il proletariato ha rifiutato ogni ipotesi gradualistico-riformista (Tobin Tax, Bilancio Partecipato, ecc.) mirante in definitiva a far pagare ai settori popolari il prezzo della crisi.
Nazionalizzazione senza indennizzo delle banche e delle industrie che licenziano, controllo popolare su produzione e distribuzione delle merci, annullamento unilaterale del debito estero, monopolio del commercio con l'estero, potere alle assemblee di barrio: sono queste le rivendicazioni che le avanguardie proletarie hanno avanzato ormai da mesi, approvate dalla risoluzione finale dell'Assemblea Nazionale Piquetera del 16 febbraio. Un programma che indica l'aspirazione degli strati popolari alla creazione di un nuovo potere  statale e di una nuova economia in Argentina, che può nascere solo dal rovesciamento del capitalismo.
Gli eventi in corso non sono però il frutto di una ribellione spontanea. Sono i risultati di un lungo e faticoso lavoro preparatorio che ha visto le forze della sinistra rivoluzionaria argentina, in particolare il Partido Obrero, lottare per conquistare l'egemonia politica tra settori combattivi della classe operaia (in prima fila i "piqueteros"), che già da molti anni lottavano contro le scelte di politica sociale imposte nel Paese dal FMI. Ciò con buona pace di chi ritiene che oggi il ruolo di partito d'avanguardia non risponda più alle necessità imposte dalla "globalizzazione".
Ancora non sappiamo come si evolverà la vicenda Argentina. Ma certamente possiamo affermare che i fatti in corso sono la prova ulteriore che l'epoca delle rivoluzioni contro il capitale non è ancora terminata e che alla barbarie del capitalismo si può solo opporre l'alternativa di classe socialista. Ogni utopistica idea su una possibile "terza via" che miri alla collaborazione tra classi, a un nuovo "compromesso sociale", è destinata a essere rimossa dalla concretezza della lotta di classe, in Argentina come in ogni angolo del pianeta.

C) Il risultato del primo turno delle elezioni presidenziali in Francia, con l'esclusione dal ballottaggio dell'ex premier socialista Jospin a vantaggio del candidato dell'estrema destra fascista Le Pen, ha profondamente colpito l'opinione pubblica non soltanto in Francia, ma anche all'estero.
Se analizzando il risultato in termini di voti si nota che Le Pen ha confermato livelli più o meno già raggiunti in elezioni precedenti, in realtà è chiaro che le conseguenze politiche di queste elezioni avranno forti ripercussioni nella vita politica non solo francese ma dell'intero continente europeo.
Ciò che esce definitivamente sconfitta dal risultato delle urne è l'idea che un governo di sinistra plurale possa, nel quadro del mantenimento di un'economia di mercato, soddisfare le richieste dei capitalisti senza farne pagare il costo sociale agli strati popolari della società
Cinque anni di un simile governo hanno dimostrato quanto illusorie fossero queste aspettative, anche per chi nel nostro Partito, come la maggioranza del gruppo dirigente, vedeva nel caso francese una positiva esperienza da imitare, tanto da arrivare a indicare nella "sinistra plurale" (termine mutuato appunto dall'esperienza francese) il punto d'approdo della politica del PRC. Non a caso, ancora non molto tempo fa, il giornale del partito, Liberazione, dedicava la prima pagina a Jospin celebrandolo come "un socialista che s'aggira per l'Europa".
Il governo di Jospin e Robert Hue (segretario del PCF, partito ridotto ai minimi termini) ha mantenuto una linea d'azione che, sulle questioni fondamentali, non si è discostata da quella sostenuta in passato da governi di centrodestra in Francia, o da quelli che attualmente governano in Europa.
Tagli allo stato sociale, privatizzazioni, riduzione dei salari, aumento esponenziale della flessibilità, sostegno deciso alle aggressioni imperialiste in Serbia e Afghanistan ecc.
La stessa legge sulle 35 ore, che secondo alcuni doveva costituire la prova del carattere progressista del governo, stabilendo che la riduzione d'orario sia calcolata come media annua, e introducendo allo stesso tempo nuove forme di flessibilità (ad esempio il lavoro notturno per le lavoratrici), ha in realtà risposto a quelle che erano le richieste dei padroni, volte ad avere un mercato del lavoro totalmente subalterno alle esigenze della produzione.
Contro questa politica antioperaia, milioni di giovani e di lavoratori si sono mobilitati, rendendo sempre più evidente ed acuto lo scontro di classe nel Paese.
Il risultato elettorale è stato quindi, come spesso accade, lo specchio, seppur deformato, di una situazione già maturata in passato.
Ma in Francia non è stata solo la destra estrema a capitalizzare il malcontento popolare.
L'affermazione elettorale della due maggiori organizzazioni della sinistra rivoluzionaria francese, trotskysta, Lutte Ouvrière e la LCR, è la prova di come oggi sia possibile lottare per un'alternativa di classe socialista alla società borghese, e di come questa battaglia possa diventare credibile e condivisa non solo da piccole avanguardie.
Certo queste organizzazioni non sono esenti da limiti politici anche rilevanti (il settarismo operaista di LO, che rifiuta di lavorare nel movimento no global, bollandolo come "piccolo borghese", il confuso movimentismo della Ligue), ma rappresentano comunque una potenziale opzione alternativa ai poli dell'alternanza borghese.
In Francia (come in Italia) non è l'unità indistinta della sinistra su di un programma politico borghese, non sono i governi di sinistra plurale composti da "sinistra moderata" e "sinistra alternativa" che possono fermare l'avanzata sociale delle destre, anzi l'esperienza dei due paesi dimostra il contrario. Sono le mobilitazioni di piazza sviluppatesi dopo le elezioni a Parigi, e in tutte le maggiori città francesi, che potranno fermare l'ascesa del Fronte Nazionale di Le Pen.
Costruire il partito della classe operaia, basato su di un programma conseguentemente anticapitalistico: questa è l'esigenza che esce dalle urne francesi, e questa è la sola possibilità perché la politica demagogica e razzista dell'estrema destra sia sconfitta definitivamente.
Si tratta di insegnamenti che anche i Giovani Comunisti e tutto il PRC devono trarre per il futuro.
 
4. LOTTA INTERNAZIONALE ALLA GLOBALIZZAZIONE CAPITALISTICA: PER UN PROGRAMMA TRANSITORIO DEI G.C. NEI MOVIMENTI

Nel corso degli ultimi dieci anni, pur in presenza di un pesante arretramento della capacità di mobilitazione della classe operaia dovuto ad una serie di sconfitte subite a livello internazionale, prima fra tutte la dissoluzione delle economie di transizione dell'Europa dell'est, e l'avvio del processo di reintroduzione del capitalismo in quei paesi, non sono tuttavia mancati momenti in cui il proletariato si è mobilitato contro i tentativi del capitalismo di peggiorare le sue condizioni di vita.
Come già accennavamo nel punto iniziale delle nostre tesi, tra i vari episodi i più indicativi sono stati le rivolte degli indigeni del Chapas a partire dal 1994, le proteste e gli scioperi contro i tentativi di riforma delle pensioni in Italia e Francia nel 1994 e 1995, la rivoluzione albanese del 1997, nata dallo scandalo delle finanziarie a piramide, e, sempre nel corso di quell'anno, la lotta degli operai sudcoreani contro una riforma liberticida del codice del lavoro.
Negli ultimi tre anni, vi è stato, per così dire, un ulteriore salto nella capacità dei giovani e dei lavoratori nel rispondere agli attacchi del capitale. Intendiamo parlare della lotta alla globalizzazione dei mercati capitalistici, iniziata nell'autunno del 1999 a Seattle in occasione della riunione del WTO, l'organizzazione mondiale del commercio.
Se è vero che in realtà la "lotta alla globalizzazione" non nasce in quella data, ma è stata frutto di un percorso già in atto da qualche tempo, convenzionalmente la si fa risalire a quei giorni, se non altro per il risalto che le mobilitazioni di strada che sono riuscite ad impedire lo svolgimento della riunione dell'Organizzazione Mondiale del Commercio hanno avuto sui mezzi d'informazione a livello mondiale, e per l'impatto che hanno avuto sui livelli di coscienza di milioni di persone in tutto il pianeta.
Da quel momento, ovunque vi fossero riunioni di organismi sovranazionali al servizio del capitale, vi sono state manifestazioni di protesta con la partecipazione di centinaia di migliaia di persone, per la maggior parte giovani, che esprimevano il loro rifiuto alle politiche sociali ed economiche del capitalismo internazionale.
Così è stato a Wasghinton, Praga, Nizza, Davos, Quebec City e Genova.
La molla che ha fatto scattare questo genere di proteste è stata l'incapacità del capitalismo di creare consenso di massa alla sua azione, perché per mantenere i livelli di profitto, in un'epoca segnata dalla stagnazione economica, il capitalismo ha dovuto colpire i salari e, più in generale, peggiorare le già precarie condizioni di vita dei lavoratori e dei giovani, nei paesi del terzo mondo, così come nell'occidente sviluppato.
In ogni nazione, i governi, indipendentemente dal fatto che fossero formati da partiti conservatori o sedicenti progressisti, hanno assunto provvedimenti che, a fronte di agevolazioni illimitate per le imprese, prevedevano per i lavoratori solo sacrifici.
Naturale quindi che, di fronte a questo stato di cose, ci sia stata una reazione di ampi settori popolari che ha sorpreso solo chi, anche tra i presunti intellettuali di sinistra, aveva definitivamente seppellito ogni forma di conflittualità di classe.
Se è naturale che come organizzazione comunista dei giovani si decida di partecipare attivamente al processo di costruzione del movimento contro la globalizzazione, per le potenzialità antisistema che esso è stato capace di mettere in campo, rifiutando ogni idea di un nostro isolamento settario da esso in quanto non ancora politicamente "puro", non dobbiamo però nasconderne i forti limiti programmatici che, con la nostra incessante azione nel movimento, dobbiamo riuscire a far superare positivamente, in un'ottica cioè di lotta per una prospettiva marxista rivoluzionaria.
Una delle caratteristiche maggiormente positive del "movimento dei movimenti" è quella di avere un carattere internazionale: in ogni Paese chi vi partecipa sente, pur in maniera confusa e contraddittoria, di far parte di un processo che non riguarda solo la sua specifica situazione, ma che lo accomuna ad altri milioni sparsi nel mondo che hanno bisogni simili.
In secondo luogo, vi è la discesa in campo di una nuova generazione che se da un lato è priva degli strumenti e dell'esperienza delle lotte passate, dall'altro non è direttamente segnata dalle sconfitte che la generazione precedente ha subito nello scontro di classe col capitale e ha di conseguenza uno spirito più combattivo e crede nelle proprie possibilità di modificare lo stato di cose attuale.
Ma come tutti i movimenti che l'hanno preceduto, anche questo ha dei forti limiti di natura programmatica, che solo l'azione cosciente dei comunisti, potrà eliminare.
Il limite più evidente espresso dalle attuali direzioni del movimento è quello di lottare in un'ottica riformista, pensando cioè che la globalizzazione non sia, come in realtà è, il naturale sbocco di un sistema, quello capitalistico, che sta attraversando una profonda crisi storica alla quale, per il momento, non sembrano esservi vie d'uscita, ma che sia una delle opzioni possibili e che quindi essa possa subire delle riforme che la rendano conciliabile con le richieste delle masse sfruttate.
Ecco spiegato, quindi, il carattere assolutamente inadeguato del programma d'azione e delle finalità che il movimento no global si è dato e che sono state confermate dal Forum Sociale a Porto Alegre del gennaio 2002
Le tre principali rivendicazioni - Tobin Tax, bilancio partecipato, consumo equo - sono esemplificative di questi limiti.
La prima è la richiesta di una minima tassazione delle speculazioni finanziarie(0,01%) con l'obiettivo, assolutamente illusorio, di limitarne gli effetti negativi sull'economia reale e di utilizzarne il ricavato per fini in qualche modo sociali.
Quanto utopistico ciò possa essere lo dimostra che essa è sostenuta da quei settori di borghesia internazionale che hanno a cuore non gli interessi delle loro popolazioni, ma quelli della loro classe di appartenenza (significativo che il governo di Jospin - Hue, che in Francia si è distinto per una marcata attività antioperaia, in particolare varando un ampio programma di privatizzazioni, abbia approvato, tra i suoi ultimi atti prima delle elezioni presidenziali, una legge per l'applicazione della Tobin Tax!).
Tali settori vogliono soltanto limitare gli eccessi della finanziarizzazione dell'economia, favorendo l'economia cosiddetta reale (in realtà di impossibile individuazione in quanto è caratteristica dell'attuale sviluppo imperialistico, la fusione tra capitale finanziario e industriale). Nel caso, assolutamente teorico, in cui la Tobin Tax fosse applicata, i benefici sarebbero nulli per i lavoratori e i giovani, non solo perché il ricavato di tale tassa non basterebbe a sanare neanche minimamente l'azione di dieci anni di politiche ultraliberiste a livello mondiale, ma anche perché la gestione del ricavato di questa tassa sarebbe in mano a governi che, con le loro azioni, hanno dimostrato di essere degli autentici "comitati d'affari" dei trust industrial-finanziari.
La seconda rivendicazione, il bilancio partecipato, non è altro che uno dei miti della nostra epoca. Applicato nella città di Porto Alegre e nello Stato brasiliano del Rio Grande do Sul da governi guidati dalla sinistra del Partito dei Lavoratori, esso maschera dietro la presunta "partecipazione popolare" alla definizione del bilancio la politica di collaborazione di classe di questi esecutivi: una politica fatta di sussidi alle multinazionali (Ford in testa) e privatizzazioni (a partire dal trasporto pubblico). In realtà in questo modo i lavoratori rinunciano all'opposizione di classe alle politiche borghesi in cambio di un fittizio poter (consultivo) su una parte irrisoria del bilancio (peraltro del tutto rispettoso del bilancio nazionale brasiliano, dettato dal FMI). Si tratta di una politica che dà i suoi frutti: ma per la borghesia. L'anno scorso i profitti sono cresciuti in quello Stato del Brasile il doppio della media nazionale, mentre il tasso di disoccupazione è in crescita costante. Questo serve forse a spiegare perché la Banca Mondiale ha riconosciuto che il bilancio partecipato è uno "strumento efficace di gestione pubblica" e perché diversi sindaci di centrosinistra (Veltroni a Roma, la Jervolino a Napoli, ecc.) abbiano subito individuato in esso una efficace nuova formula concertativa, in grado di legare le classi subalterne al carro delle politiche dominanti garantendo la "pace sociale".
Con la proposta di scegliere un consumo equo e solidale, infine, si crede di poter individuare una serie di prodotti e di aziende che, in qualche maniera, siano fuori dal circuito di produzione capitalistica. Teoria questa doppiamente sbagliata e pericolosa, poiché crea illusioni sul fatto che, all'interno di un sistema basato sull'economia di mercato, vi possano essere settori economici che vivono al di fuori di esso; inoltre, invece di puntare sulla necessaria coscienza e organizzazione collettiva degli sfruttati per arrivare all'esproprio della proprietà privata e al controllo dei lavoratori su di essa, delega alla scelta individuale dei consumatori la lotta contro le aberrazioni dell'economia di mercato.
In realtà non dobbiamo stupirci dei limiti programmatici del movimento no global. Già Lenin agli inizi del secolo scorso nel "Che Fare?" individuava, nell'impossibilità che i lavoratori autonomamente si dotassero di un programma rivoluzionario, la ragione per costruire un partito di classe e comunista.
A quasi cento anni di distanza, ci troviamo nella stessa situazione ed anche oggi solo la costruzione indipendente e l'intervento dei comunisti nel movimento con un chiaro programma di classe alternativo a tutti gli altri sono obiettivi assolutamente irrinunciabili.
Si tratta quindi di intervenire con un più generale programma, del PRC e dei GC, che, partendo dai livelli di coscienza delle masse giovanili, crei nelle lotte il ponte tra le rivendicazioni immediate e l'alternativa di sistema. Dobbiamo, in sintesi, riappropriarci del metodo del "programma di transizione" che fu proprio del partito di Gramsci (Programma di Lione) e dei primi anni dell'Internazionale Comunista leniniana; il metodo che permise al proletariato russo di conquistare il potere nell'ottobre '17.
Solo propagandando l'esigenza di una lotta per l'espropriazione della proprietà privata, per il controllo operaio sulla produzione, per l'abolizione del segreto bancario e commerciale, per l'autodifesa del movimento dagli attacchi repressivi degli apparati dello Stato (così come si sono verificati a Genova e a Napoli), per l'abbattimento del dominio della borghesia su scala planetaria attraverso la lotta rivoluzionaria dei giovani e dei lavoratori, e la creazione di un altro potere e di un'altra economia democraticamente pianificata, riusciremo a conquistare l'egemonia politica del movimento e a garantirne un suo conseguente sviluppo anticapitalistico.
 
5. DALLA VITTORIA ELETTORALE DEL CENTRODESTRA ALLO SCIOPERO GENERALE DEL 16 APRILE. UNA PIATTAFORMA DI CLASSE PER LA CACCIATA DEL GOVERNO BERLUSCONI

La vittoria elettorale, il 13 maggio 2001, del Polo berlusconiano è stata anche il frutto delle politiche ultraliberiste dei governi di centrosinistra che si sono succeduti nell’intera legislatura precedente. Dietro una sempre più sbiadita fraseologia “di sinistra” i governi Prodi, D’Alema e Amato hanno condotto per anni la più dura politica d’attacco ai diritti e alle conquiste dei lavoratori del secondo dopoguerra, ad esclusivo vantaggio delle grandi famiglie del capitalismo italiano. Nessun campo è stato risparmiato: dalla politica restrittiva sui redditi, alla controriforma delle pensioni, dallo smantellamento della Sanità pubblica alla privatizzazione dell’Istruzione, per finire con il rilancio di una politica di riarmo funzionale a un pieno inserimento dell’Italia nella competizione interimperialista su scala mondiale. Grazie al ruolo svolto dai DS e dalle burocrazie sindacali (la Cgil specialmente) questa politica di attacco alle classi subalterne è stata condotta in una condizione di sostanziale pace sociale: i primi anni dei governi ulivisti sono stati significativamente caratterizzati da un crollo delle ore di sciopero.
In questo ambito un ruolo particolarmente negativo è stato giocato anche dal nostro partito. L’appoggio accordato al governo Prodi nei primi due anni di quell’Esecutivo (i più duri per il movimento operaio, segnati dalle finanziarie per Maastricht e dalla controriforma del mondo del lavoro con il “pacchetto Treu” che apriva a nuove forme di flessibilità) ha nei fatti privato il movimento operaio di ogni possibile sponda di opposizione di sinistra alle politiche borghesi gestite dall’Ulivo.
La stessa tardiva rottura con l’Ulivo è stata segnata da forti contraddizioni e dal mantenimento e sviluppo di accordi di governo in decine di giunte (anche in grandi città come Roma e Napoli) e caratterizzata da una mancata razionalizzazione della rottura, funzionale a futuri riavvicinamenti con il centrosinistra (secondo la nota formula utilizzata nei giorni della crisi del governo Prodi: “fare un passo indietro per farne due in avanti”, con riferimento non alle sorti del movimento operaio ma ai rapporti col centrosinistra).
Il governo Berlusconi ha cercato, per tutta una prima fase, di muoversi con cautela, preservando il metodo della concertazione sindacale e tentando al contempo di guadagnare un più ampio sostegno da parte di quei poteri forti dell’economia (gli Agnelli, i Tronchetti Provera, ecc.) che avevano inizialmente guardato con scarso entusiasmo alla nuova maggioranza di governo (dubitando del suo personale politico e soprattutto del “conflitto d’interessi” tra gli affari personali del premier e quelli più generali della borghesia italiana). Ma questo disegno di “tranquilla navigazione”, che evitasse gli scogli dello scontro sociale che provocarono nel ’94 l’affondamento del primo governo Berlusconi, ha funzionato solo per poche settimane. Berlusconi non è riuscito a far quadrare il cerchio cioè a soddisfare contemporaneamente le esigenze della grande borghesia e a onorare le promesse elettorali rivolte ai diversi strati sociali: perché il quadro economico, nazionale e internazionale, ha reso inattuabile qualsiasi ipotesi anche solo parzialmente redistributiva. Davanti a uno scenario economico internazionale delimitato da una fase probabilmente lunga di recessione, il capitalismo italiano nel suo insieme ha chiesto al governo l’accelerazione della sua politica economico-sociale per condurre a termine l’opera di smantellamento dello Stato sociale avviata dall’Ulivo. Pur differenziandosi sugli strumenti da usare per perseguire questo fine (la via dell’attacco frontale –propugnata dai settori di Confindustria rappresentati da D’Amato- preoccupa settori consistenti di grande borghesia, intimorita da una riaccensione dello scontro sociale), la borghesia ha difficoltà oggi ad ottenere quello spirito “bipartizan” che aveva fortemente incoraggiato negli scorsi mesi, funzionale a preservare nel clima di pace sociale i propri affari.
Ma il nuovo attacco gestito dal governo di centrodestra ha incontrato negli ultimi mesi una crescente resistenza delle classi subalterne. Il movimento no global ha avuto in questo processo di “disgelo sociale” un importante ruolo propulsore. Le straordinarie giornate di Genova e le mobilitazioni delle settimane successive in tutta Italia, contro la brutale repressione attuata dagli apparati dello Stato borghese, sono state un vero e proprio detonatore in un processo che già aveva visto (con lo sciopero dei metalmeccanici del maggio 2001) una ripresa di conflittualità in generale e l’affacciarsi di una nuova generazione, operaia e studentesca, alla lotta. Il trauma repressivo di Genova ha introdotto un primo elemento di svolta. La lotta degli studenti e docenti contro la riforma Moratti, la mobilitazione contro la legge anti-immigrati hanno ulteriormente alimentato l’opposizione al governo.
Anche l'aggressione imperialista all’Afghanistan, nonostante un iniziale ondeggiamento del movimento (favorito anche dalle proposte di “ritirata” avanzate dai suoi settori più moderati e vicini all’Ulivo), ha provocato indirettamente –con le mobilitazioni contro la guerra e l’ampio dibattito su modi e contenuti della lotta- la sua crescita e maturazione. Ma il principale alimento all’intrecciarsi dei movimenti e alla loro radicalizzazione è venuto dall’attacco del governo all’articolo 18, giustamente vissuto come il segnale di un attacco più generale al movimento operaio e alle classi subalterne che comprende: tagli salariali; limitazione del diritto di sciopero; un nuovo affondo sul terreno della Scuola, della Sanità; l’annuncio di una nuova manomissione delle Pensioni; la legge Bossi-Fini sull’immigrazione (funzionale all’intensificazione dello sfruttamento padronale degli immigrati); nuovi sgravi fiscali alle imprese, ecc.
La  rottura tra CGIL e Berlusconi sull’art. 18 –che pure non configura affatto una svolta strategica della Confederazione dacché risponde all’esigenza della burocrazia sindacale di difendere e rilanciare il proprio ruolo concertativo contro il rischio reale di un suo ridimensionamento- tuttavia ha aperto un nuovo varco allo sviluppo della lotta di classe e libera nuove imponenti energie ed aspettative.
E’ in questo scenario profondamente mutato e avanzato che si trovano ad operare il nostro partito e i Giovani Comunisti: e nuove e diverse sono le responsabilità e i compiti che abbiamo di fronte nei prossimi mesi.
a) Nel movimento no global come Giovani Comunisti, per una battaglia di egemonia
Se è indubbio che il movimento no global non è mai stato (a differenza di quanto sostenuto da alcuni, anche nel nostro partito) un elemento separato o separabile dal movimento più generale dei lavoratori (tra i 300 mila di Genova c’erano, a fianco di giovani studenti e disoccupati, migliaia di lavoratori), è però vero che molto resta ancora da fare per unificare i diversi movimenti in un nuovo blocco sociale alternativo attorno alla classe operaia. E’ a questo fine che deve mirare la nostra presenza, come GC, nelle stesse strutture del movimento no global. In primo luogo avanzando nei social forum come nelle mobilitazioni più in generale un programma di rivendicazioni unificanti. Perché una battaglia egemonica su un programma d’alternativa al capitalismo (e non genericamente al “modello neoliberista”) possa trovare canali di espressione e di crescita nel movimento no global è necessario coniugarla con una proposta di differente strutturazione dei social forum. E’ nostro compito avanzare una proposta di strutturazione democratica del movimento che superi l’attuale gestione verticistica per intergruppi. E’ lo sviluppo stesso del movimento, le sue potenzialità di terreno unificante e ulteriormente propulsore dello sviluppo dei movimenti a richiederlo. Va proposta allora una diversa organizzazione: ogni attivista del movimento deve poter partecipare realmente non solo alla discussione ma alla definizione delle scelte e dei portavoce. Va recuperato il vecchio criterio (tipico del movimento operaio dai suoi primi passi) del controllo e della revocabilità dei portavoce. In altre parole possiamo e dobbiamo, come GC, proporre una strutturazione nazionale e locale del movimento basata sui principi della democrazia consigliare. Si tratta peraltro dell’unica strutturazione che può consentirci di sviluppare una battaglia di egemonia all’interno del movimento sulla base del nostro progetto politico generale.
A ciò va unito una revisione profonda delle scelte più recenti operate dal gruppo dirigente di maggioranza dei GC con la costituzione del blocco politico-organizzativo dei cosiddetti “disobbedienti”, in cui un autonomo progetto comunista rischia di essere diluito in una prospettiva “antagonista” subalterna alle illusorie logiche riformiste delle Tute bianche dei Casarini o della Rete No Global diretta da Caruso. Scelte sbagliate che trovano talvolta un’applicazione locale che accentua –al di là delle intenzioni reali- l’abbandono di una visibilità della nostra struttura organizzata (in questo senso possono essere lette le scelte fatte in alcune federazioni di non utilizzare la nostra sigla in iniziative e prese di posizione pubbliche).
L’area dei “disobbedienti” assume come suoi assi portanti il rifiuto della centralità del conflitto capitale-lavoro, la liquidazione del concetto di proletariato a favore di indistinte “moltitudini", l’individuazione del principale terreno di conflitto non più nell’ambito dei rapporti di produzione bensì nella sfera della distribuzione ("consumo critico"). Se a ciò si aggiunge l’atteggiamento refrattario nei confronti di qualsiasi ipotesi di strutturazione permanente attorno ad un comune programma e ad una comune piattaforma di azione (il rifiuto del concetto di partito), unito ad una pratica autoreferenziale tesa a sostituire le lotte di massa con azioni finalizzate ad un effimero impatto mediatico, risulterà evidente come il nostro progetto comunista risulti totalmente incompatibile con il Laboratorio dei disobbedienti, specialmente nel momento in cui quest'ultimo aspira ad uscire dai ranghi della semplice area tematica all’interno del movimento per trasformarsi in un soggetto politico.
Tuttalpiù questa struttura potrà risultare utile a chi, anche all’interno del movimento no-global intende traghettare forme di malcontento sociale giovanile diffuso verso i lidi istituzionali del centrosinistra.
I GC hanno viceversa un futuro e un’utilità solo costituendosi come organizzazione giovanile rivoluzionaria capace di rappresentare una direzione di classe alternativa per il movimento studentesco e di attrarre e rendere combattive, sulla base di un programma anticapitalista, le migliaia di giovani lavoratori, precari e disoccupati oggi estranei a qualsiasi forma di lotta e proprio per questo spesso serbatoio elettorale della destra berlusconiana che, soprattutto al Sud, attrae grazie alla sua retorica populista e demagogica.
b) Nelle mobilitazioni contro il governo, con una piattaforma unificante dei movimenti
Dopo la gigantesca manifestazione a Roma del 23 marzo, dopo lo sciopero generale, dopo le grandi manifestazioni del 25 aprile e 1 maggio, quale prospettiva, quali obiettivi per la continuità della mobilitazione di classe? Non si tratta di lamentare l’”assenza” di una piattaforma CGIL, ma di definire e avanzare noi, come partito e come GC, una proposta di piattaforma di classe, in ogni luogo di lavoro, di organizzazione, di movimento.
E non semplicemente una generica piattaforma “anticoncertativa”, ma una piattaforma mirata a ricomporre il fronte generale dei movimenti di lotta e degli interessi in campo in una grande vertenza generale unificante che chiami all’unità l’insieme del lavoro dipendente, il precariato sociale, la massa dei disoccupati e studenti. Unire attorno ad una piattaforma comune ciò che le manifestazioni uniscono nelle piazze: questa è la necessità del momento. Si tratta in altri termini di avanzare una proposta di piattaforma che risponda sia all’esigenza della più vasta ricomposizione del blocco sociale alternativo, sia all’esigenza di dare prospettiva di continuità allo sciopero generale innescando una esplosione sociale concentrata e radicale. Tra i punti qualificanti di una simile piattaforma possono essere indicati i seguenti:
*** ritiro di tutte le deleghe governative, a partire da quella sull’art. 18;
*** estensione a tutti i lavoratori dell’art. 18;
*** soppressione della legge Bossi-Fini sull’immigrazione;
*** ritiro della “riforma Moratti” sulla scuola e abolizione dei ticket sanitari;
*** aumento salariale per tutti i lavoratori (ad es. di 200 euro);
*** assunzione a tempo indeterminato di tutti i lavoratori precari e abolizione del “pacchetto Treu” e di tutte le leggi “precarizzanti”;
*** salario minimo intercategoriale e salario garantito ai disoccupati;
*** riduzione a 35 ore dell’orario settimanale, senza contropartite fiscali o di flessibilità.
c) Per la cacciata del governo Berlusconi-Bossi-Fini, per un’alternativa di classe
Come abbiamo detto il quadro politico è definito da una parte dalla volontà del governo Berlusconi di andare allo sfondamento di ogni residuo argine dei lavoratori; dall’altra da una reazione di massa, imponente, di quella classe operaia che molti davano prematuramente per morta, con una crescita esponenziale delle ore di sciopero e una disponibilità a radicalizzare lo scontro col governo. In mezzo abbiamo i tentativi dell’Ulivo, delle burocrazie dei DS e della CGIL di incanalare questa generosa disponibilità di lotta dei lavoratori nella ricerca di un nuovo spazio concertativo o, nel migliore dei casi, in uno strumento dell’alternanza borghese, come fu nel 1994, per tornare a governare come hanno fatto nella scorsa legislatura in nome e per conto della grande borghesia.
Di fronte a tutto ciò può il nostro partito alimentare nuove illusioni in quelle burocrazie parlando di “accantonare le differenze”? O viceversa dovremmo aver chiaro che questo movimento può crescere solo se riesce a riguadagnare una propria indipendenza di classe dal centrosinistra e dalle stesse burocrazie sindacali (le quali continuano a rivendicare il recupero della concertazione e ovunque possibile a praticarla come dimostrano i gravi accordi sindacali di queste settimane su Edili, Chimici, pubblico impiego)?
Alla stessa domanda di “unità” che cresce nei movimenti va data una risposta basata sulla piena indipendenza di classe. Va allora rivendicata l’unità d’azione tra tutte le forze che si basano sul movimento operaio attorno a una comune piattaforma di lotta ad oltranza che miri alla cacciata del governo indicando con chiarezza che l’opposizione dei lavoratori contro il governo non ha niente a che spartire con l’opposizione borghese dei Rutelli, dei Dini, dei Treu, dei D’Alema, già sostenitori dell’attacco all’articolo 18 ed oggi preoccupati unicamente di ritessere i legami con le grandi famiglie del capitalismo italiano per tornare a governare in loro nome. Solo una piena autonomia del movimento operaio dal centro borghese dell’Ulivo può consentirgli di battere il governo e di preparare le condizioni di una vera alternativa di classe.
Questo movimento può e deve crescere oltre lo sciopero generale, dotandosi di forme di autorganizzazione sui luoghi di lavoro, non affidandosi in nessun modo a quelle burocrazie che sono responsabili di decenni di sconfitte e che hanno regalato l’Italia a Berlusconi. E’ questo il compito che il nostro partito dovrebbe assumere come centrale (prendendo esempio dalla Francia del 1995): lo sviluppo del movimento, e quindi della sua piattaforma, e quindi di forme di lotta in grado di bloccare il Paese, fino alla coerente traduzione della lotta: e cioè fino alla cacciata del governo Berlusconi!
La parola d’ordine che possiamo assumere è quella di “sciopero generale prolungato sino al ritiro di tutte le deleghe”. Dando continuità alla mobilitazione attraverso l’estensione della radicalità della lotta: blocco delle merci, picchetti, occupazioni... Si tratta insomma di affermare un concetto di fondo: solo un’esplosione sociale radicale e concentrata può realmente sconfiggere il governo e difendere lo stesso Statuto dei lavoratori.
E’ questo il vero obiettivo che è alla portata del movimento e della gigantesca forza che ha messo in campo in queste settimane. Non una ripresa della concertazione ma la piena sconfitta del governo. E non per riaprire la strada al centrosinistra, a nuovi governi d’alternanza ulivisti o di sinistra plurale. Ma per costruire nelle lotte reali, nelle lotte presenti, un’alternativa di classe.
d) Per una nuova direzione del movimento operaio
Questo orizzonte richiama non un nuovo abbraccio con l’Ulivo, non “l’accantonamento” delle differenze con D’Alema e Rutelli nella prospettiva di un governo comune, ma l’esigenza di una piattaforma di classe e soprattutto l’esigenza di costruire Rifondazione e i GC come nuova direzione del movimento operaio per rilanciare nel vivo di queste lotte un’alternativa di classe, una prospettiva di rovesciamento del dominio borghese e dei suoi governi (siano essi di centrodestra o di centrosinistra).
 
6. MUTARE L’ORIENTAMENTO TATTICO E STRATEGICO DEI GC E DEL PRC

Ma le condizioni indicate nei quattro punti precedenti assumono un significato solo in riferimento a una svolta profonda dell’orientamento del PRC e dei GC che riveda gli assi centrali dello stesso documento a tesi approvato dal recente V Congresso del partito.
Dopo aver fatto un dibattito congressuale all’insegna della “svolta a sinistra”, dopo che in molti dibattiti è stato ripetuto che non si ipotizzava alcun riavvicinamento al centrosinistra, che la minoranza congressuale faceva un “processo alle intenzioni”, a quindici giorni dal congresso nazionale la segreteria ha rilanciato un’apertura all’Ulivo con quella che qualcuno (ad esempio Parlato sul Manifesto) ha definito una “svolta” e che è piuttosto l’esplicitazione della proposta politica mai abbandonata dal gruppo dirigente (e peraltro contenuta anche nella famosa tesi 37 del documento approvato dal Congresso di Rimini.) Si parla di “un clima nuovo” tra PRC e centrosinistra. Così, dopo aver ripetuto per mesi che “l’Ulivo è morto” si propone di farlo resuscitare –subito dopo la Pasqua- con i tanti accordi elettorali e di governo locale per le elezioni del 26 maggio. Come sempre si dice –con apparente pragmatismo- che gli accordi si faranno solo sulla base di reali convergenze programmatiche. Ma in realtà l’intera esperienza del nostro partito –in decine di giunte- ha già ampiamente dimostrato che il centrosinistra non è schizofrenico, non pratica a livello locale politiche diverse da quelle che ha praticato a livello nazionale.
Anche a livello amministrativo le “svolte” rimangono una vana attesa, mentre la realtà è fatta di politiche antioperaie e di una difficoltà nostra di radicarci dovendo talvolta stare contemporaneamente nelle piazze contro le politiche borghesi dell’Ulivo e nelle giunte che quelle politiche promuovono.
La proposta politica di maggioranza –del partito e dell’attuale gruppo dirigente dei GC- che ha come orizzonte la costruzione di una sinistra plurale di governo coi DS e con l’insieme del centrosinistra per un “governo riformatore” nel post-Berlusconi è densa di contraddizioni: con il suo modello ispiratore originale (la sinistra plurale jospiniana in crisi mortale), come vediamo in altre parti di questo testo; è in contraddizione con le necessità di sviluppo delle mobilitazioni di massa in Italia; è in contraddizione con la stessa proclamata necessità di “rottura col centro”. E’ una proposta che purtroppo evidenzia come la discussione nel nostro partito, e di riflesso nei GC, sia ben lungi dall’aver spostato il baricentro politico “dalle istituzioni al movimento”. Al contrario il movimento è concepito in questa ottica come leva di pressione per la ricomposizione –graduale e negoziale- di schieramenti di governo; non la “svolta a sinistra ma la riproposizione della linea perseguita (e fallita) per dieci anni.
Altra e diversa deve invece essere la prospettiva in cui ci muoviamo. La stessa ripresa della lotta di classe e dei movimenti nel mondo è un’occasione straordinaria da cogliere per rilanciare –anche tra i giovani- la prospettiva socialista, rivoluzionaria, intesa come unica realistica soluzione alle legittime aspirazioni (democratiche, sociali, ambientali) di una nuova generazione; l’aspirazione a un “altro mondo” che è incompatibile con il dominio borghese e con la società divisa in classi.
Il problema non è allora quello di stare nei movimenti “come pesci nell’acqua” (cioè muti?), alternando una presenza subalterna a una domenicale agitazione di una imprecisata prospettiva “rivoluzionaria”. Il problema è viceversa quello di far crescere tra le masse, di giovani e lavoratori, attraverso una aperta battaglia di egemonia la comprensione della necessità, possibilità ed urgenza di affermare un progetto socialista e rivoluzionario a partire dalle lotte di oggi. Che era e resta non quello della costruzione di un governo riformatore di sinistra plurale. Era e resta viceversa quello di guadagnare la maggioranza del proletariato, nel corso delle sue lotte quotidiane, alla comprensione dell'impossibilità di riformare il capitalismo attraverso governi riformatori e alla conseguente necessità di mirare alla costruzione di “un governo dei lavoratori per i lavoratori” (Marx).
Perché l’unico possibile progetto comunista, l’unico fine a cui vale la pena di sacrificare i nostri sforzi quotidiani è ancora oggi quello che Marx così indicava in una celebre lettera scritta dopo la Comune di Parigi:
 “il movimento politico della classe operaia ha, naturalmente, come fine ultimo la conquista del potere politico per la classe operaia stessa.”
La Comune sfiorò soltanto quell’obiettivo; il partito di Lenin e Trotsky lo realizzò nel ’17 ma per pochi anni. Lo stesso compito si ripone storicamente di fronte a noi: mettere fine alla barbarie del capitalismo trasformando il proletariato in classe dominante. E’ un’impresa che può sembrare impossibile ma che, a dispetto della sfiducia degli scettici e del loro presunto realismo, costituisce il senso stesso della rifondazione comunista. Una rifondazione che oggi più che mai può svilupparsi solo su scala internazionale. Ciò che pone ai GC e al nostro partito la possibilità e l’esigenza di avanzare il progetto comunista in un’ottica realmente internazionalista. Ciò significa impegnarsi da subito in un processo di raggruppamento rivoluzionario nel mondo di tutte le forze d’avanguardia della classe lavoratrice e delle loro organizzazioni giovanili che siano disponibili a convergere nel recupero e nella riattualizzazione degli assi programmatici del marxismo rivoluzionario, fondamenta della rifondazione di una internazionale comunista.
Si tratta di ripartire dal concetto, fondamentale in Marx e nel movimento comunista fin dalle sue origini, secondo cui il proletariato ha bisogno in ogni fase di un partito mondiale d’avanguardia, di un’internazionale. Questa esigenza è tanto più evidente oggi ed è posta nei fatti dallo sviluppo delle mobilitazioni su scala mondiale contro la globalizzazione capitalistica e dalla contemporanea bancarotta delle vecchie direzioni del movimento operaio, che rendono urgente la costruzione di una nuova direzione internazionale: ciò che significa, noi crediamo, porsi oggi l’obiettivo della rifondazione della Quarta Internazionale. Quarta Internazionale perché, dopo il fallimento della Terza, non si è sviluppata nessun’altra esperienza rivoluzionaria internazionale di massa e perché la nuova Internazionale rifondata non può ripartire da zero ma deve recuperare e attualizzare gli assi fondamentali del programma marxista rivoluzionario, che ha trovato la sua più alta applicazione nell’esperienza leninista della rivoluzione d’Ottobre: la concezione della conquista del potere politico e della dittatura del proletariato come leva decisiva della transizione al socialismo, la necessità di un programma transitorio che, nell’azione di massa, riconduca gli obiettivi immediati e il livello di coscienza dei lavoratori alla necessità della rottura anticapitalistica. Questo programma è stato difeso dalla fine degli anni Venti, contro lo stalinismo e contro la socialdemocrazia, dalla lotta dell’Opposizione di Sinistra, in Russia e nel mondo, che, diretta da Trotsky, ha poi dato vita all’esperienza –rimasta embrionale- della Quarta Internazionale. Da quel programma è necessario ripartire oggi per raccogliere tutte le forze e tendenze del movimento operaio che, indipendentemente dalla loro provenienza o tradizione, vogliono rompere coerentemente con il riformismo e lo stalinismo. Contro il capitale globale occorre raggruppare tutte le forze che siano disposte a riprendere e il cammino dell'Ottobre costruendo il partito globale della classe operaia e della sua avanguardia, strumento indispensabile per la prospettiva della rivoluzione socialista internazionale.

 
7. CONTRORIFORMA SCOLASTICA E MOBILITAZIONI STUDENTESCHE: IL RUOLO DEI GC

Dieci anni di tagli della spesa pubblica nel settore scolastico e universitario, accompagnati da processi sempre più evidenti di aziendalizzazione e di ingresso dei privati nel mondo dell’istruzione, sponsorizzati da Confindustria e dal Vaticano e portati avanti indistintamente dai governi di centrodestra e di centrosinistra, sono giunti oggi alla loro fase culminante.
La riforma Moratti chiude definitivamente il cerchio di un percorso di attacco al diritto allo studio: dietro l’apparente svolta rispetto alla riforma dei cicli voluta da Berlinguer, si nascondono elementi di sostanziale continuità rispetto alle riforme dei precedenti esecutivi di centrosinistra. L’asse centrale resta lo stesso: meno soldi alla scuola pubblica, ingresso sempre più prepotente degli interessi delle imprese nella scuola (sia sotto il profilo finanziario che sotto quello, assai più intollerabile, della didattica), parificazione tra pubbliche e private, agevolazioni per gli istituti confessionali, gestione manageriale (si propone addirittura di sostituire i consigli d’istituto con fantomatici consigli d’amministrazione), accompagnata da forme di autoritarismo crescente (presidi padroni, ridimensionamento delle rappresentanze studentesche, repressione delle forme di protesta).
In sintesi, la riforma Moratti sostanzia in maniera ancora più evidente e reazionaria un progetto di destrutturazione del sistema formativo pubblico ad uso e consumo delle logiche di profitto delle aziende.
A fronte di questo stato di cose, nel corso dell’autunno si sono avvertiti i segnali di un risveglio delle lotte e delle mobilitazioni studentesche: cortei, occupazioni, assemblee su tutto il territorio hanno dimostrato come gli studenti siano ancora capaci di scendere in piazza per difendere i propri diritti. La passivizzazione degli anni precedenti è stata il frutto non di un congenito e irreversibile allontanamento dei giovani dalla politica, bensì della frustrazione e della disillusione di migliaia di studenti nei confronti degli apparati burocratici e riformisti maggioritari all’interno del movimento studentesco, i quali all’indomani del 1994 (vedi UDS) hanno immediatamente abbandonato le piazze per trasformarsi in agenti del centrosinistra e della concertazione studentesca negli istituti, assumendo così il ruolo di ammortizzatori del conflitto.
Compito centrale dei GC in questa fase deve essere quello di rilanciare un percorso di lotta a medio e lungo termine contro ogni logica privatistica all’interno della scuola; affinché gli studenti rappresentino la punta di lancia, assieme ai lavoratori, di un’opposizione generalizzata al governo Berlusconi, ai suoi ministri e alle sue politiche, indicando come obiettivo imprescindibile la cacciata del governo stesso. Per fare ciò individuiamo come luogo centrale della costruzione del conflitto i collettivi studenteschi autorganizzati, all’interno dei quali i GC devono lavorare in modo assiduo, aperto e leale, per la costruzione di una soggettività studentesca nazionale capace di rappresentare un riferimento alternativo alle burocrazie riformiste dell’UDS, al confuso movimentismo di vecchi surrogati studentisti, nella prospettiva di una egemonia politica capace di sottrarre le masse studentesche dall’abbraccio mortale del centrosinistra, il quale è il principale responsabile delle innumerevoli sconfitte del movimento studentesco ad oggi.
Tale discorso vale a maggior ragione anche nel lavoro dei GC sull’università. Questo è stato il settore in cui in misura maggiore è calata una cappa di silenzio totale negli anni del centrosinistra, ciò a dispetto di un peggioramento sempre più evidente delle condizioni degli studenti universitari e del diritto allo studio più in generale, dalla riforma Ruberti ad oggi.
A parte qualche barlume di mobilitazione ai tempi della bozza Martinotti e a un timido risveglio, lo scorso anno, con le occupazioni a Roma contro il caro tasse, fin dall’indomani del 1994, i processi di aziendalizzazione (crediti formativi, stage a costo zero per le imprese, obbligo di frequenza, stipulazione contratto con l’università, in modalità part time o full time) portati avanti dall'Ulivo parallelamente alla già citata aziendalizzazione della scuola, sono entrati in vigore senza la benché minima opposizione all’interno degli atenei. Ma l’attacco al diritto allo studio non si è fermato a questo: la privatizzazione dei servizi, con conseguente aumento dei costi, l’aumento vertiginoso delle tasse e la carenza cronica delle strutture (mense, case dello studente) sono la dimostrazione palese di quanto il nuovo modello di università, voluto dai padroni, sia funzionale alle logiche del mercato e impostato su una chiara selezione di classe dove la cultura diventa un beneficio per pochi eletti. Lo stato di desertificazione politica appena descritta si è, purtroppo, riversato sullo stesso operato dei GC; la nostra attività ha scontato limiti notevoli, sia sul piano dell’organizzazione interna che su quello della proiezione esterna dei nostri contenuti.
Occorre innanzitutto rilanciare un dibattito a tutto campo, dentro e fuori i GC, sulla mercificazione del diritto allo studio e sul quadro complessivo che la determina, ossia le innumerevoli riforme a “mosaico” che negli anni hanno, pezzo dopo pezzo, destrutturato l’università pubblica. In questo senso è fondamentale rafforzare il ruolo delle commissioni universitarie all’interno dei GC, così come diventa strategico, soprattutto a fronte dei nuovi attacchi portati avanti dal governo di destra, il ruolo è di rilancio dei circoli universitari. Sul piano della mobilitazione diretta negli atenei, è centrale un forte investimento dei GC nei collettivi universitari, rilanciando in maniera decisa la costruzione di un coordinamento nazionale dei collettivi studenteschi, capace di rappresentare un riferimento alternativo all’egemonia di burocrazie istituzionalizzate filo-padronali quali la Confederazione degli Studenti, e al tempo stesso di arginare la preoccupante crescita di fazioni apertamente reazionarie, quali Azione Universitaria. La stessa Udu, analogamente all’Uds, rappresenta nient’altro che il tentativo da parte di settori burocratici, in primo luogo Ds, di ritagliarsi spazi di consenso concertativo all’interno dell’università, con ambizioni di grande sindacato studentesco, in realtà pronti all’occorrenza a tramutarsi in sponsor del centrosinistra o, nella migliore delle ipotesi, in opposizione di “sua maestà” (lo testimonia il “silenzio assenso” tenuto per anni da questa organizzazione in occasione degli attacchi portati avanti dalla riforma Berlinguer).
Risulta urgente la ridefinizione della nostra politica sull’università: è ormai da considerarsi conclusa l’esperienza, rivelatasi fallimentare, di condizionare dall’interno l’operato di organizzazioni come l’Udu, la quale da tempo ha dimostrato palesemente la sua “irriformabilità”. Oggi centrale è invece la costruzione dei collettivi universitari come luoghi orizzontali di dibattito e di mobilitazione.
 
8. LA LOTTA ALLA PRECARIZZAZIONE NEL MONDO DEL LAVORO

Il processo di “flessibilizzazione” che investe il mondo del lavoro, di fatto significa precarietà ed introduzione di forme sempre più brutali di sfruttamento, segnando un feroce arretramento rispetto ai diritti conquistati con dure lotte dal movimento operaio.
La tendenza manifestata dal capitale ad introdurre un numero sempre crescente di forme di contratto atipiche, rende necessaria per la borghesia la cancellazione del contratto nazionale.
A partire dal governo Amato del 1992, lo smantellamento dei diritti dei lavoratori è stato una costante di tutti i governi che si sono succeduti, passando dal governo Prodi con il pacchetto Treu alle privatizzazioni degli esecutivi seguenti e oggi al “libro bianco” di Maroni.
L’abolizione dell’art.18 dello Statuto dei lavoratori, a cui mira il governo reazionario di Berlusconi, rappresenta, quindi, solo una tappa del processo più generale che punta allo smantellamento complessivo dei diritti dei lavoratori, in nome di una totale liberalizzazione spacciata come soluzione al problema della disoccupazione. Là dove viene meno ogni limite alla possibilità (del padrone), di licenziare arbitrariamente, chi da “adulto” viene espulso dal ciclo produttivo non viene più reintegrato, mentre per i giovani lavoratori l’unica prospettiva (oltre alla disoccupazione) è un’assunzione con contratti di formazione o, generalmente, “atipici” (contratti a termine, a chiamata, a progetto, interinale, collaborazione coordinata e continuativa). In questo modo, aumenta vertiginosamente la ricattabilità del lavoratore, soprattutto dei giovani. A fronte di una disoccupazione dilagante, migliaia di giovani lavoratori, se pure assunti a tempo indeterminato, a causa delle gabbie salariali (reintrodotte con i contratti d’area), non solo vengono sottoposti a turnazioni disumane, ma in moltissimi casi vengono poi licenziati per esubero o costretti a rifiutare il lavoro poiché il salario non consente neanche la stretta sopravvivenza (vedi l’esempio indicativo della Fiat Sata di Melfi). Soluzioni di questo tipo dimostrano la falsità della ricetta "flessibilità uguale a maggiore occupazione", soprattutto se consideriamo che solitamente ad essa si accompagna lo smantellamento di quei settori un tempo ritenuti trainanti dell’economia (siderurgia, cantieristica, chimica) ed oggi invece definiti “sensibili” e destinati a morire per assenza di finanziamenti. A questa deindustrializzazione, che si abbatte soprattutto sul Mezzogiorno, ed alla disoccupazione da essa determinata, si è aggiunta una legge sulla riemersione dal sommerso che oltre a regalare al padrone piena libertà di licenziare addirittura lo “premia” con gli incentivi. Dinanzi a questo stato di cose, caratterizzato a nord e soprattutto a Nord-est da sempre maggiore flessibilità e concorrenza al ribasso dei salari (tesa a scatenare contrapposizioni tra lavoratori italiani e immigrati) e al Sud da precarietà e disoccupazione giovanile sempre più dilagante, è necessario un netto cambiamento di rotta nella politica dei GC. La scarsa presenza e partecipazione di giovani precari e disoccupati alla vita dei GC è forse l’elemento più preoccupante nel complesso delle attività del Partito tutto, tale da richiedere una severa riflessione. Risulta sempre più urgente un intervento diretto, non più limitato a simboliche campagne contro la precarietà, tra quelle nuove generazioni di lavoratori sfruttati, i quali privi di punti di riferimento d’opposizione a sinistra, rivolgono le loro speranze in maniera sempre più massiccia agli slogan e alla demagogia dei partiti di destra e di estrema destra (come testimoniano i dati preoccupanti di un sondaggio condotto recentemente dal Corriere della Sera). I GC in questo senso hanno il compito di riportare al centro dell’attenzione, a partire dalle lotte quotidiane condotte dai metalmeccanici, dai precari di ogni genere, fino ai disoccupati del Sud, rivendicazioni da troppo tempo relegate ai margini del nostro lavoro politico, quali la riduzione dell’orario di lavoro con forti aumenti salariali, senza annualizzazioni, la trasformazione di tutti i contratti a tempo determinato in contratti a tempo indeterminato, il salario garantito a tutti i disoccupati e la reintroduzione per legge della scala mobile dei salari. Solo facendo vivere queste parole d’ordine nelle lotte di tutti i giorni sul territorio e lanciando campagne di mobilitazione centrate su una piattaforma generale unificante del lavoro, del precariato e del non lavoro, potremo riconquistare la credibilità presso larghe masse di giovani lavoratori.
 
9. CONTRO LA LEGGE BOSSI-FINI: PER L'UNITA' DI CLASSE CON I LAVORATORI IMMIGRATI

Ogni anno milioni di proletari migranti sono costretti ad abbandonare i loro Paesi a causa di guerre, persecuzioni politiche, miseria, disastri economici ed ambientali, frutto di politiche di rapina e di saccheggio da parte dei cosiddetti Paesi sviluppati.
Con il Trattato di Schengen si è istituzionalizzato il diritto per la libera circolazione delle merci e non quello per la libera circolazione degli esseri umani, e tutti gli Stati dell’U.E. hanno adeguato la propria legislazione interna a questo principio, in molti casi recenti andando anche oltre (come in Italia).
Le questioni etniche rappresentano solo una scusa: in realtà, dietro il tentativo di istigare l’odio razziale si nasconde un capitale sempre più aggressivo che per la propria sopravvivenza ha bisogno di dividere il proletariato, scatenando delle vere e proprie guerre fra poveri.
Il governo Berlusconi, con la legge sull’immigrazione( Bossi-Fini), sta cercando di riportare a forme di schiavitù i lavoratori, cominciando dall’anello più debole della catena: gli immigrati, appunto. Con la Bossi-Fini si va ad un ulteriore restringimento dei diritti e delle libertà dei proletari migranti non solo in condizione di irregolarità ma anche regolari, costringendo questi ultimi ad entrare di forza in clandestinità.
 La linea di condotta di questo governo è quella di chi vuole non solo difendere ad ogni costo i profitti del capitale ma, anche, di chi vuole sedimentare un clima di intolleranza e di paura della diversità.
Riteniamo che i GC debbano sviluppare politicamente la loro battaglia tra i migranti, a partire dall'interesse che folti gruppi di proletari migranti organizzati hanno manifestato nei nostri confronti.
Battaglie per l'abolizione della Bossi-Fini e di tutte le leggi precedenti (come la Turco- Napolitano voluta dall'Ulivo e purtroppo votata anche dal nostro partito all'epoca del sostegno al governo Prodi), per una sanatoria generalizzata, per la chiusura di tutti i campi-lager, per il diritto di voto, per il permesso di soggiorno rilasciato dai comuni e non dalle questure devono rientrare nella piattaforma generale transitoria contro l’attacco ai diritti dei lavoratori tutti e contro precarietà e flessibilità, per il diritto alla casa e i diritti civili.
Ma ciò non può bastare: l’autoemancipazione degli immigrati, come parte del movimento di emancipazione delle classi sfruttate, è condizione necessaria ed indispensabile per la costruzione di un fronte unitario del proletariato internazionale. Questo può avvenire solo saldando la coscienza di un progetto politico di ribaltamento dei rapporti economici e sociali attuali con la coscienza di classe di larghi settori di masse proletarie.

 
10. LOTTA DELLE DONNE E LOTTA DI CLASSE. CONTRO OGNI FORMA DI DISCRIMINAZIONE SESSUALE

Le giovani generazioni hanno raccolto dalle battaglie del passato un’eredità di diritti che già negli ultimi quindici anni sono stati falcidiati dai governi di centrosinistra: diritti che costituiscono un patrimonio di tutta la sinistra di classe e che oggi il governo di centrodestra sta tentando di cancellare definitivamente. (vedi l’attacco reiterato alla L.194/78 e alla personalità giuridica dell’embrione).
L’oppressione della donna è una questione centrale nella società borghese. Le donne sono, in questo, costrette a subire doppiamente, sulla propria pelle, il carico di lavoro di cura nei confronti dei soggetti a rischio e marginalizzati dalla società. Il principio di "sussidiarietà", individua come erogatore di prestazione non solo il soggetto privato, defraudando il soggetto pubblico della sua naturale funzione (vedi la vicenda dei consultori) e relegandolo ad un ruolo marginale di “regia” del servizi, ma, attraverso detrazioni fiscali o assegni irrisori, persino lo stesso nucleo familiare che è incentivato a farsi carico dei compiti di cura prima propri del welfare state. Il diritto a una sessualità libera deve essere un dei punti privilegiati di lotta per il Partito e per i GC, dove per libertà sessuale si deve intendere pure il diritto ad una contraccezione libera e gratuita
Occorre spezzare la catena dell’oppressione della donna, per questo liberazione della donna e lotta di classe sono inscindibili, nell’ottica di una prospettiva rivoluzionaria per la costruzione di una società socialista.
 Allo stesso tempo è indispensabile iniziare una campagna contro le discriminazioni verso gli omosessuali e i transessuali.
Il governo di centrodestra, in accordo con le gerarchie ecclesiastiche e il Vaticano, ha iniziato contro queste categorie una durissima politica discriminatoria. Con la scusa di voler tutelare la "famiglia naturale" si vogliono reprimere tutte quelle scelte che, anche in campo sessuale, mettono in discussione decenni di pregiudizi morali e filosofici che sono il corollario indispensabile del dominio di classe. Rivendicando per questi soggetti il pieno godimento dei diritti (sociali, civili, economici ecc.) così come sono riconosciuti per agli eterosessuali, mettiamo in discussione un sistema di oppressione di classe basato sulla discriminazione e l'emarginazione. Le battaglie per migliorare le nostre condizioni di vita e di lavoro, per difenderci dall’attacco allo Stato sociale e dalle privatizzazioni, per l’autodeterminazione della donna, di gay, lesbiche e transessuali, senza distinzione di colore della pelle, sono sicuramente obiettivi che dobbiamo perseguire come GC, ma essi vanno assunti come obiettivi transitori, proprio per il fatto che non sono separabili dal processo più generale di emancipazione della classe lavoratrice.
 
11. RILANCIARE L'ORGANIZZAZIONE DEI GC: PER L'EGEMONIA DEL PROGETTO COMUNISTA TRA I GIOVANI

La prima conferenza nazionale dei GC, svoltasi a Chianciano nel 1997, riprendendo la riflessione già avviata nell'assemblea nazionale di Firenze del 1995, rilevava alcuni difetti organizzativi nella struttura giovanile del Prc, molti dei quali rimangono ancora oggi irrisolti.
Da un lato è veritiero affermare che la prima conferenza nazionale ha dissolto alcuni dubbi su come dovesse essere organizzato il lavoro dei Giovani Comunisti a livello locale: sono nati coordinamenti eletti dopo approfondito dibattito nelle conferenze provinciali, che, interagendo con il Coordinamento Nazionale, hanno il compito di sviluppare l’attività dei Giovani Comunisti. Dall'altro lato, è necessario ammettere che nella pratica poco di questo si è concretizzato. E in diverse federazioni i GC sono purtroppo solo una sigla apposta sui manifesti e manca talvolta un reale lavoro politico organizzativo.
A cinque anni dalla prima conferenza nazionale dei Giovani Comunisti, si deve osservare che molti dei limiti già allora presenti, col passare del tempo sono rimasti.
Il rapporto col partito nel suo complesso non ha cessato in alcuni casi di essere conflittuale, soprattutto per ciò che riguarda il livello locale: in molte federazioni i giovani hanno dovuto scontrarsi con i gruppi dirigenti che vedono con sospetto la struttura giovanile del partito, spesso non comprendendone la necessità, spesso avvertendola come un intralcio per la normale gestione della routine politica.
A livello nazionale, nonostante gli impegni, anche statutari, assunti dal Partito nei confronti dell'organizzazione giovanile, i Giovani Comunisti sono stati spesso intesi come un mero strumento d’immagine, e non come un potenziale strumento per radicare la presenza del partito tra le giovani generazioni, a partire dalla notevole capacità d'attrazione che il Prc esercita sui giovani. Se così non fosse, non si spiegherebbe lo scarso investimento finanziario riservato dal partito alla sua struttura giovanile, fatto che impedisce il regolare svolgimento dell'attività politica dei GC o, in alcuni casi (es. le commissioni nazionali su specifici settori) lo rende sostanzialmente impossibile; non si spiegherebbe nemmeno l’inesistente spazio che il dibattito politico giovanile trova sulle pagine di "Liberazione", fatto che ha contribuito in modo non secondario a trasformare il Coordinamento Nazionale in un momento di confronto sostanzialmente auto referenziale.
Non che importanti passi in avanti non siano stati fatti: il campeggio nazionale, ormai divenuto un appuntamento fisso, durante il quale, pur con mille limiti, centinaia di giovani militanti possono trovare momenti di discussione e di approfondimento del dibattito interno; le campagne politiche su tematiche giovanili; la convocazione e la partecipazione a manifestazioni nazionali, ecc.. Tutti momenti importanti in cui i giovani hanno fatto risaltare e valere la loro presenza, ma momenti a sé stanti, non conseguenti ad un regolare lavoro politico di tutta l'organizzazione.
Lavoro che sarebbe necessario specialmente oggi, in un momento che vede un nuovo afflusso di iscritti all'organizzazione giovanile, frutto del lavoro da noi svolto nelle mobilitazioni degli ultimi mesi, da quelle nel movimento no global, tra i metalmeccanici, fino a quelle riprese nelle scorse settimane contro il progetto di privatizzazione della scuola, intrapreso dal Ministro Moratti
E'' vero che i giovani in particolare subiscono, come, e più del Partito, un fortissimo turn over, ma sarebbe un errore legare le difficoltà odierne solo ad un’inevitabile questione anagrafica o a fattori esterni. Il fatalismo non aiuterebbe certo a superare la crisi.
E' necessario che i GC si dotino di strumenti organizzativi più adeguati ai compiti che la prossima fase chiederà loro di assolvere.
E’ indispensabile rivendicare nei confronti del partito un più consistente investimento politico ed economico che permetta all’organizzazione di spiccare l’indispensabile salto di qualità.
E’ necessario che i giovani, dopo tanti anni, possano finalmente disporre sia di un regolare spazio sulle pagine del quotidiano del partito, in modo che la loro elaborazione possa raggiungere un pubblico più vasto, sia di un bollettino di discussione interno, in modo da poter creare quel collegamento regolare fra le strutture periferiche e il centro politico e organizzativo dei GC,perché tutti possano essere a conoscenza e partecipare al dibattito dell’organizzazione.
E' indispensabile poi strutturare in modo più chiaro ed efficiente i vari livelli organizzativi dei GC.
Commissioni nazionali e coordinamenti locali devono essere delle reali strutture di lavoro intermedio per i giovani, e contribuire così a rafforzarne la presenza, sia territorialmente, sia su specifici settori d’intervento. La stessa partecipazione alla costruzione del movimento richiede un rafforzamento delle strutture organizzative dei GC: non una loro diluizione.
Dobbiamo in definitiva realizzare una struttura che sappia rispondere alla esigenza di fondo che abbiamo: quella di creare nuovi quadri politici in grado di costruire- nel vivo delle lotte e dei movimenti- l’egemonia dei comunisti tra vasti strati di giovani lavoratori, studenti e disoccupati.
Dobbiamo costruire un’organizzazione di giovani rivoluzionari che sappia guadagnare larghe masse giovanili al progetto della rifondazione comunista e, quindi, della trasformazione socialista della società.