Alberto Madoglio
Peppe D'Alesio
Massimiliano Meloni
Annamaria Sicilia
1. CRISI GLOBALE DEL CAPITALISMO E ALTERNATIVA COMUNISTA
Sono ormai trascorsi oltre dieci anni dal crollo del muro di Berlino
e dalla dissoluzione dell'Unione Sovietica: tutti quelli che allora proclamavano
la "fine della storia", e la definitiva vittoria del capitalismo su ogni
altra ipotesi di sviluppo economico non basato sullo sfruttamento, hanno
oggi la dimostrazione di quanto le loro previsioni fossero errate.
Il periodo storico in cui viviamo, ha dimostrato, oggi più che
mai, come il capitalismo non sia in grado di garantire sviluppo e prosperità
per l'intero genere umano, e come in realtà la sua antistorica sopravvivenza
sia inscindibile da guerra, carestie, distruzione ambientale, crisi sociali
ed economiche sempre più devastanti, con un generale imbarbarimento
dell'intera umanità.
Gli esempi citabili sono infiniti.
Nell'ex Unione Sovietica e nei paesi dell'Est europeo, la reintroduzione
dell'economia di mercato ha spazzato via tutte le conquiste sociali frutto
della rivoluzione d'Ottobre, che settant'anni di dominio burocratico dello
stalinismo avevano fortemente limitato ma non completamente distrutto.
Questo processo ha dimostrato tutti i suoi nefasti prodotti: generale
impoverimento della popolazione, ricomparsa di epidemie che si credevano
definitivamente sconfitte, abbassamento della speranza di vita media tra
le popolazioni, rigurgito di un nazionalismo esasperato, responsabile di
crimini efferati in Cecenia, nel Caucaso, nell'ex Yugoslavia.
I paesi del cosiddetto "terzo mondo" hanno continuato a subire il saccheggio
indiscriminato delle potenze imperialiste.
La situazione in Africa si avvia sempre più verso un baratro
fatto di guerre e massacri senza fine, di cui le guerre civili in Ruanda,
Sierra Leone e Congo, sono forse gli esempi più tragici.
I paesi definiti "in via di sviluppo" non sono ancora usciti dallo
shock finanziario del 1998; l'Argentina sta entrando nel quarto anno di
recessione, e le famose tigri asiatiche sono il caso più evidente
di come lo sviluppo economico avvenuto negli anni precedenti fosse molto
instabile, perché basato non sull'aumento del consumo interno, cioè
su di un miglioramento del tenore di vita delle popolazioni, ma sulla capacità
d'importazione delle maggiori potenze mondiali.
Nei paesi dell' "occidente avanzato", abbiamo assistito ad un generale
impoverimento delle masse lavoratrici, causato da politiche ultraliberiste,
approvate sia da governi di centrodestra sia da quelli sedicenti progressisti
che hanno via via diminuito i salari e lo stato sociale, aumentato i carichi
di lavoro, a fronte di sempre più ingenti finanziamenti alle imprese
e di un aumento delle spese militari.
Il Giappone, in crisi ormai dal 1990, è un caso rappresentativo
di come la stagnazione produttiva, conseguente ad uno sviluppo economico
esasperato, possa essere profonda e, senza apparenti vie d'uscita.
Dall'aggressione imperialista all'Irak nel 1991 (che doveva segnare
la nascita di un Nuovo Ordine Mondiale capitalista), con il conseguente
blocco economico, causa di centinaia di migliaia di morti, all'invasione
della Somalia nel 1993, fino alla guerra nei Balcani contro la Serbia,
l'imperialismo si è lanciato in un'escalation guerrafondaia per
ridisegnare i propri confini d'intervento nel pianeta dopo la fine dell'Urss,
e per ridefinire i rapporti di forza al proprio interno, soprattutto in
nome degli interessi delle tre maggiori potenze mondiali concorrenti: Usa,
Giappone ed Unione Europea.
In particolar modo, la guerra all'ex Yugoslavia, che ha chiuso il XX
secolo così come si era aperto (l'aggressione alla Cina del 1900),
ha dimostrato che i dissidi tra le varie potenze imperialiste non si sono
definitivamente risolti in una impossibile concorde divisione dei compiti,
ed ha anzi rappresentato il maggior momento di tensione fra due dei blocchi
imperialisti, Usa e UE, per il controllo di un'area strategica e di vitale
importanza nella lotta per l'appropriazione di nuove aree di mercato, così
come la competizione capitalistica impone.
Lo stesso processo di integrazione politica economica europea, con
l'obiettivo di creare un'unica superpotenza imperialista, si scontra con
le resistenze delle varie borghesie nazionali, sostenute in molti casi
dai rispettivi governi, a cedere in parte o in toto il controllo di settori
vitali dell'economia (banche, assicurazioni, telefonia, industria aeronautica
o automobilistica ecc.) ai loro concorrenti stranieri, ancorché
membri dell'Unione Europea.
Scrivevamo già in precedenza che il XXI secolo si è aperto
all'insegna della più pesante crisi dell'economia mondiale dal 1945,
ancor più grave perché solo pochi anni fa le attese di sviluppo
erano ben diverse. Verso la seconda metà degli anni novanta, diversi
economisti borghesi hanno sostenuto che la lunga fase di ristagno dell'economia,
prolungatasi per oltre un decennio, era ormai giunta al termine. In più,
abbagliati da un aumento esponenziale dei valori borsistici in tutti i
mercati mondiali, confortati dal progredire delle applicazioni al processo
produttivo delle scoperte scientifiche nel campo dell'informatica e delle
biotecnologie (la cosiddetta New Economy) con la conseguente creazione
di nuovi sbocchi di mercato, questi guru della finanza sono arrivati a
decretare la fine dello sviluppo economico classico, fondato sul ciclico
susseguirsi di fasi di espansione e recessione, e ad ipotizzare una crescita
senza fine.
Tuttavia, i fatti, anche in questa occasione, hanno dimostrato che
la realtà è ben più forte di ogni illusoria attesa.
La bolla della speculazione borsistico-finanziaria è esplosa
e le quote di mercato legate alla New Economy hanno raggiunto un alto livello
di saturazione. La risposta che il capitalismo ha dato alla crisi è
stata la stessa applicata quando era "l'Old Economy" ad imperare: tagli
ai salari, chiusura di fabbriche, migliaia di licenziamenti, sussidi alle
imprese pagati con i soldi dei lavoratori. Davanti a questo attacco delle
classi dominanti, è iniziata la reazione delle masse sfruttate di
tutto il pianeta. Infatti, già nel corso degli anni novanta non
sono mancate mobilitazioni da parte dei giovani e dei lavoratori (Italia
1994, Francia 1995, Albania, Sud Corea e Indonesia 1997, Argentina dal
1999), dimostrando che il proletariato internazionale, pur duramente colpito
nel corso degli anni '80, non era stato definitivamente sconfitto, e che
le teorie sviluppate nel tempo sulla "fine della contrapposizione di classe",
non erano altro che assurdità.
E' il sistema capitalistico stesso, arrivato oggi in una fase del suo
sviluppo segnata da una sempre più accentuata internazionalizzazione
dei mercati e da una totale predominanza di politiche neoliberiste, che
crea le condizioni per mandare in rovina milioni di persone in tutto il
mondo, e che in ultima istanza crea la necessità stessa per il suo
abbattimento.
Oggi più che mai, la necessità di una prospettiva socialista
diventa attuale e ogni suo ritardo mette in pericolo sempre più
le sorti stesse dell'umanità. Ma la storia ci ha fortunatamente
dimostrato che ciò che è indispensabile, è anche realizzabile.
La rivoluzione russa del 1917 ha per la prima volta stabilmente palesato
che solo espropriando gli sfruttatori capitalisti, pianificando democraticamente
e coscientemente l'economia, si può avviare un tentativo di creare
un armonioso sviluppo dell'umanità. L'Ottobre bolscevico ha mostrato
chiaramente che tutto ciò non è realizzabile attraverso una
illusoria "democratizzazione" di quegli strumenti statali che la borghesia
si è data per meglio esercitare il suo dominio. Solo una rivoluzione
condotta dalle masse oppresse, sotto la direzione politica della classe
operaia, può attraverso una "rottura della macchina statale borghese"
(Marx) sostituire alla democrazia parlamentare (fondata essenzialmente
sulla corruzione e l'imbroglio, come la vicenda di Tangetopoli in Italia
e casi simili nel resto d'Europa hanno dimostrato) una più ampia
e realmente democratica forma di potere, ossia la democrazia sovietica
o dei consigli dei lavoratori.
Perché ciò avvenga, è indispensabile che la rivoluzione
non si rinchiuda negli angusti ambiti di una sola nazione. Se il capitalismo
ha dimostrato di poter progredire soltanto sviluppandosi a livello globale,
necessariamente l'alternativa ad esso non potrà che essere di carattere
mondiale. A tale proposito, la dissoluzione dell'Urss e la rapida evoluzione
della Cina verso una sempre più selvaggia economia di mercato, dimostrano
drammaticamente quanto sia fallace non la prospettiva socialista, ma l'idea
che essa possa persistere in un Paese solo, isolato dal contesto dei rapporti
di classe a livello internazionale.
I comunisti, battendosi per questa prospettiva, non partono da zero.
Devono recuperare il formidabile patrimonio di esperienze della rivoluzione
d'Ottobre, del partito che la rese possibile, il Partito Bolscevico di
Lenin e Trotsky, e dell'avanguardia internazionale che lottò contro
la degenerazione staliniana dell'Urss e contro quella casta burocratica
che giustificava il suo dominio e il tradimento dei principi del marxismo
in nome della teoria "del socialismo in un Paese solo".
Il compito che dobbiamo affrontare non è sicuramente facile
e breve. Ma oggi questo compito non appare così improbabile perché,
a fronte di una crisi profonda del capitalismo, vi è la ricomparsa
a livello internazionale sia di un "risveglio operaio" sia di un movimento
giovanile di massa che hanno la possibilità di aprire una nuova
prospettiva in cui sia posta fine alla tirannide dell'economia di mercato.
2. LA LOTTA DEI COMUNISTI CONTRO LA GUERRA E L'IMPERIALISMO
L'aggressione militare all'Afghanistan dell'autunno scorso, secondo
molti teorici, avrebbe dovuto fornire un'ulteriore prova, forse quella
definitiva, circa il carattere cosiddetto "imperiale" della società
nata dalla globalizzazione capitalistica.
Con la guerra gli USA avrebbero dimostrato il loro carattere di unica
superpotenza economica e militare del pianeta, relegando definitivamente
gli altri imperialismi, Europa e Giappone, ad un ruolo subalterno. Di più,
la guerra avrebbe segnato il declino dell'importanza degli Stati nazione,
a tutto vantaggio delle multinazionali, che quindi si troverebbero a vivere
(anche se questi nuovi teorici non lo esplicitano) in un empireo astratto
dalla materialità delle cose.
In verità i fatti stanno in modo diverso.
E' ormai evidente a tutti che le operazioni belliche in Afghanistan
non avevano come scopo quello di sconfiggere il terrorismo internazionale
e di ristabilire un governo democratico a Kabul (la cronaca di questi mesi
evidenzia quanto sia ancora lontano il processo di pacificazione e di democratizzazione
del Paese, nonostante la rapida disfatta del regime dei Talebani. Né
il premier Karzai, né i capi tribù riuniti nella Loya Girga,
potranno assolvere il compito di liberare il paese dal giogo dell'oppressione
imperialista e dell'oscurantismo islamico).
Ma non è altrettanto chiaro a tutti che la molla che ha
fatto iniziare le operazioni militari è stata proprio la perdurante
conflittualità tra gli imperialismi oggi esistenti, cioè
tra gli Stati Uniti e il nascente polo imperialista Europeo (somma degli
imperialismi francese, tedesco, italiano e, con qualche difficoltà,
inglese). La volontà degli americani di gestire la lotta ai Talebani
senza l'aiuto degli alleati (concedendo solo un ruolo marginale alla Gran
Bretagna), le difficoltà nate alla Conferenza di Bonn, che doveva
creare il nuovo governo a Kabul , futuro garante per le varie potenze mondiali
del saccheggio delle materie prime di quel Paese (petrolio e gas naturali)
sono stati tutti chiari segnali di quanto astratta fosse l'idea di un super
governo mondiale dominato dagli USA.
Tutto ciò dimostra come affermare oggi che la teoria leniniana
dell'imperialismo sia superata dalla nuova fase del capitalismo "globalizzato",
significa non comprendere i meccanismi reali che caratterizzano questa
fase dello sviluppo capitalistico. Una tendenza sempre maggiore all'esportazione
dei capitali, alla ricerca di mercati dove trarre più profitti e
rallentare la tendenza alla caduta del saggio di profitto, concentrazione
monopolistica dei mercati stessi, fusione tra capitale finanziario e industriale,
saldatura sempre più evidente tra il Governo e la borghesia, tensioni
sempre più accese tra le varie nazioni, questi secondo Lenin erano
-e lo sono ancora- le caratteristiche principali della fase imperialista.
I fautori del "superamento" della concezione di imperialismo portano a
sostegno della loro tesi l'argomento secondo cui non saremmo in presenza
di una tensione militare fra le nazioni né essa potrebbe prodursi
in futuro in quanto i paesi capitalistici avrebbero ormai scelto la gestione
pacifica delle loro controversie. In realtà, quanto queste controversie
possano risolversi amichevolmente, lo si può vedere dall'aspra contesa
circa i dazi su diversi prodotti che USA e UE hanno iniziato da mesi, e
che è ben lontana da una soluzione soddisfacente per entrambi i
contendenti.
La fine dell'Urss e degli Stati ad economia collettivizzata, il processo
di dissoluzione della Cina come stato operaio, la sempre più profonda
crisi economica che il capitalismo sta attraversando da tempo, sono segnali
di quanto in realtà le tensioni fra le varie potenze imperialiste
siano destinate ad inasprirsi, in una competizione sempre più serrata
per la conquista di nuovi sbocchi di mercato, in cui le multinazionali,
che mantengono forti legami con gli stati di origine, sono un elemento
ulteriore che spinge ad un inasprimento dei contrasti interimperialisti.
In questa prospettiva, la possibilità di conflitti armati per
determinare nuovi equilibri non può essere esclusa a priori, e questo
spiega perché l'Europa stia sempre più cercando di smarcarsi
dalla tutela militare degli USA.
Impostare oggi una battaglia antimperialista significa allora riconoscere
che il capitalismo non è in grado di darsi un governo universale
stabile, e che anzi la sua stessa sopravvivenza è portatrice di
disastri sempre maggiori per miliardi di persone.
D'altra parte la creazione di un blocco antimperialista internazionale
non può essere l'appello "all'unità" con quei paesi come
la Russia o la Cina che pur rivendicando un loro ruolo autonomo da USA
e UE tentano di costruirsi loro stessi come nuove potenze imperialiste.
E' necessario piuttosto che le lotte degli oppressi e degli sfruttati
in ogni angolo del pianeta si unifichino sulla base di un programma che
preveda la conquista del potere per mezzo di un processo rivoluzionario
di massa su scala internazionale, potere basato sulla proprietà
collettiva dei mezzi di produzione e sulla democrazia diretta consigliare
o sovietica.
Ma questo compito urgente ("socialismo o barbarie", appunto) può
essere realizzato solo dalla classe operaia e dalle sue avanguardie organizzate
in partiti comunisti e internazionalisti.
3. CRISI INTERNAZIONALE E CRESCITA DELLE MOBILITAZIONI DEI LAVORATORI
E DELLE MASSE OPPRESSE
Sono tre le aree a livello mondiale in cui la lotta tra imperialismo e proletariato ha raggiunto il suo apice, in termini di conflittualità e di polarizzazione fra differenti opzioni politiche e sociali: Palestina, Argentina e Francia.
A) In Palestina, l'esplosione della rabbia popolare che ha dato inizio
alla seconda Intifada nell'ottobre del 2000 è stata determinata
dalle insopportabili condizioni di vita in cui la maggioranza araba (di
quella regione) versa da decenni, a causa della politica coloniale della
minoranza ebrea sionista appoggiata dalle potenze imperialiste mondiali.
Le ragioni delle tensioni attuali in medio oriente, si fondano sull'opera
di colonizzazione attuata in Palestina dalla popolazione ebrea, iniziata
nel 1900 e progressivamente ampliata a partire dagli anni '30; colonizzazione
che fu originata anche dal tentativo di sfuggire alle persecuzioni e discriminazioni
antisemite dell'Europa (culminate con la tragedia della Shoah, che costò
la vita a sei milioni di ebrei) e che si indirizzò verso la Palestina
visto il rifiuto degli Usa di accettare una massiccia immigrazione ebrea
sul loro territorio.
L'effetto di questa politica è stato una sistematica espulsione
dei Palestinesi dalla loro terra attraverso una serie di guerre combattute
tra il 1948 e il 1973, l'esproprio delle loro ricchezze, l'impossibilità
di veder riconosciuta una loro indipendenza nazionale, e il costante peggioramento
delle condizioni di vita, sia che vivessero nei cosiddetti "territori occupati",
sia che fossero formalmente cittadini di Israele.
Questi sono i motivi che hanno causato l'esplosione sociale in corso
e che hanno fatto sì che a livello mondiale nascesse una mobilitazione
di solidarietà con la lotta dei giovani palestinesi, nonostante
la criminale campagna orchestrata dai principali mezzi d'informazione volta
ad accusare di antisemitismo chiunque non approvi l'azione del governo
sionista di Gerusalemme.
A questa campagna diffamatoria bisogna rispondere con una più
ferma ed inflessibile mobilitazione antirazzista, respingendo tutti i tentativi
delle forze fasciste e xenofobe di utilizzare strumentalmente la crisi
mediorientale per propagandare le proprie deliranti idee contro il "pericolo
ebraico".
La seconda Intifada è stata quindi la dimostrazione dell'impossibilità
di una pacifica convivenza fra oppressi e oppressori, e dell'assoluta incapacità
delle direzioni nazionaliste arabe di trovare una soluzione alla questione
palestinese.
L'Autorità Nazionale Palestinese e il suo leader Arafat, in
questi ultimi anni ed in particolare dopo gli accordi di Oslo del 1993,
hanno portato avanti una politica subalterna alle esigenze dell'imperialismo,
accettando che il futuro Stato Palestinese fosse in realtà un'entità
senza continuità territoriale, limitata ai territori occupati nel
1967 e totalmente dipendente da Israele. Il continuo appellarsi agli USA
e all'Unione Europea, con l'illusione che possano intervenire per porre
fine alla brutale aggressione sulle masse in rivolta, è un'ulteriore
prova dell'incapacità di Arafat di rispondere alle esigenze manifestate
dalla popolazione palestinese, favorendo così il sorgere e il radicarsi
di formazioni reazionarie islamiche (Hamas, ecc.).
In realtà una soluzione definitiva alla crisi in Palestina non
può prescindere dal diritto della maggioranza araba della regione
a costruire un suo stato indipendente, dal diritto al ritorno per i profughi
di tutte le guerre e per i loro discendenti, dalla sconfitta dello stato
sionista di Israele, riconoscendo i diritti nazionali alla minoranza ebraica.
Un tale stato non potrà che nascere dall'organizzazione indipendente
del proletariato palestinese che riesca ad unire nella sua lotta tutti
i settori della società, e che cerchi un'alleanza con le masse sfruttate
della popolazione ebrea che stanno cominciando a ribellarsi alla politica
guerrafondaia e antioperaia del governo di unità nazionale tra Conservatori
e Laburisti a Gerusalemme. Uno stato indipendente di Palestina per sopravvivere
non potrà che basarsi su forme di autogoverno dei lavoratori e sullo
sviluppo pianificato dell'economia, utilizzando infrastrutture e materie
prime non per gli interessi delle multinazionali e dei potentati locali
ma per gli interessi della maggioranza della popolazione. Per questo la
parola d'ordine della "federazione socialista del medio oriente" è
la sola rivendicazione che possa oggi rispondere alle legittime aspirazioni
non solo della popolazione palestinese , ma anche di tutte le masse arabe
oggi costrette a vivere sotto regimi, come quelli (Giordania, Egitto, Arabia
Saudita) che sono diretta rappresentanza degli interessi dell'imperialismo,
o sotto regimi che, pur opponendosi formalmente alla politica degli USA
e della UE, (Siria, Iran, Libia e Iraq), reprimono i lavoratori, le donne,
i giovani e le minoranze etniche, e le cui scelte in materia economica
non si sottraggono ai diktat del Fondo Monetario Internazionale e del WTO.
B) Gli avvenimenti rivoluzionari argentini, iniziati il 19-20 dicembre
2001 e tuttora in corso, hanno fatto giustizia di tutte le discussioni
teoriche volte ad affermare che dopo il 1989 il capitalismo era, pur con
le sue storture, l'unico modello di sviluppo possibile. D fatti la crisi
finanziaria argentina causa della più eclatante catastrofe economica
che la storia ricordi non è stata il frutto di un'applicazione sbagliata
di un modello economico intrinsecamente valido. Le classi dominanti argentine
hanno sostenuto negli anni passati, attraverso varie forme di governo -dalla
dittatura militare, alla democrazia borghese "formale" che ha visto un
succedersi di governi di centrosinistra e centrodestra- una politica di
arricchimento, basata sul saccheggio delle ricchezze del Paese a vantaggio
loro e delle maggiori potenze imperialistiche, gettando nella miseria milioni
di lavoratori.
La situazione attuale, per la quale non sembrano esservi al momento
vie d'uscita, è stata quindi la filiazione legittima di questa politica
criminale. In realtà una soluzione alla crisi, anzi l'unica soluzione
progressiva possibile, possiamo già oggi intravederla.
La classe operaia argentina, smentendo chi facendosi suggestionare
dalle moderne teorie postfordiste l'aveva ormai relegata a svolgere un
ruolo passivo di accettazione dei meccanismi del mercato, si è ribellata
in massa e con le giornate rivoluzionarie di dicembre ha indicato un'alternativa
reale allo sfacelo politico, economico e sociale.
Con la cacciata in pochi giorni di quattro governi, nel darsi forme
embrionali di autogoverno in tutto il Paese (le assemblee popolari di "barrio",
cioè di quartiere), in diretta competizione col potere "legittimamente
costituito", rispondendo con la forza alla violenza degli apparati dello
Stato, contrapponendo nelle strade la propria forza organizzata agli assalti
delle squadracce peroniste, rifiutando di pagare ancora una volta il prezzo
di una crisi causata dai padroni e dalle multinazionali, il proletariato
argentino ha dimostrato di essere la sola forza progressiva della società,
capace di aggregare altri settori oppressi (disoccupati e sottoproletariato)
e strati della stessa piccola borghesia.
Avendo sperimentato direttamente la profondità della devastazione
economica, il proletariato ha rifiutato ogni ipotesi gradualistico-riformista
(Tobin Tax, Bilancio Partecipato, ecc.) mirante in definitiva a far pagare
ai settori popolari il prezzo della crisi.
Nazionalizzazione senza indennizzo delle banche e delle industrie che
licenziano, controllo popolare su produzione e distribuzione delle merci,
annullamento unilaterale del debito estero, monopolio del commercio con
l'estero, potere alle assemblee di barrio: sono queste le rivendicazioni
che le avanguardie proletarie hanno avanzato ormai da mesi, approvate dalla
risoluzione finale dell'Assemblea Nazionale Piquetera del 16 febbraio.
Un programma che indica l'aspirazione degli strati popolari alla creazione
di un nuovo potere statale e di una nuova economia in Argentina,
che può nascere solo dal rovesciamento del capitalismo.
Gli eventi in corso non sono però il frutto di una ribellione
spontanea. Sono i risultati di un lungo e faticoso lavoro preparatorio
che ha visto le forze della sinistra rivoluzionaria argentina, in particolare
il Partido Obrero, lottare per conquistare l'egemonia politica tra settori
combattivi della classe operaia (in prima fila i "piqueteros"), che già
da molti anni lottavano contro le scelte di politica sociale imposte nel
Paese dal FMI. Ciò con buona pace di chi ritiene che oggi il ruolo
di partito d'avanguardia non risponda più alle necessità
imposte dalla "globalizzazione".
Ancora non sappiamo come si evolverà la vicenda Argentina. Ma
certamente possiamo affermare che i fatti in corso sono la prova ulteriore
che l'epoca delle rivoluzioni contro il capitale non è ancora terminata
e che alla barbarie del capitalismo si può solo opporre l'alternativa
di classe socialista. Ogni utopistica idea su una possibile "terza via"
che miri alla collaborazione tra classi, a un nuovo "compromesso sociale",
è destinata a essere rimossa dalla concretezza della lotta di classe,
in Argentina come in ogni angolo del pianeta.
C) Il risultato del primo turno delle elezioni presidenziali in Francia,
con l'esclusione dal ballottaggio dell'ex premier socialista Jospin a vantaggio
del candidato dell'estrema destra fascista Le Pen, ha profondamente colpito
l'opinione pubblica non soltanto in Francia, ma anche all'estero.
Se analizzando il risultato in termini di voti si nota che Le Pen ha
confermato livelli più o meno già raggiunti in elezioni precedenti,
in realtà è chiaro che le conseguenze politiche di queste
elezioni avranno forti ripercussioni nella vita politica non solo francese
ma dell'intero continente europeo.
Ciò che esce definitivamente sconfitta dal risultato delle urne
è l'idea che un governo di sinistra plurale possa, nel quadro del
mantenimento di un'economia di mercato, soddisfare le richieste dei capitalisti
senza farne pagare il costo sociale agli strati popolari della società
Cinque anni di un simile governo hanno dimostrato quanto illusorie
fossero queste aspettative, anche per chi nel nostro Partito, come la maggioranza
del gruppo dirigente, vedeva nel caso francese una positiva esperienza
da imitare, tanto da arrivare a indicare nella "sinistra plurale" (termine
mutuato appunto dall'esperienza francese) il punto d'approdo della politica
del PRC. Non a caso, ancora non molto tempo fa, il giornale del partito,
Liberazione, dedicava la prima pagina a Jospin celebrandolo come "un socialista
che s'aggira per l'Europa".
Il governo di Jospin e Robert Hue (segretario del PCF, partito ridotto
ai minimi termini) ha mantenuto una linea d'azione che, sulle questioni
fondamentali, non si è discostata da quella sostenuta in passato
da governi di centrodestra in Francia, o da quelli che attualmente governano
in Europa.
Tagli allo stato sociale, privatizzazioni, riduzione dei salari, aumento
esponenziale della flessibilità, sostegno deciso alle aggressioni
imperialiste in Serbia e Afghanistan ecc.
La stessa legge sulle 35 ore, che secondo alcuni doveva costituire
la prova del carattere progressista del governo, stabilendo che la riduzione
d'orario sia calcolata come media annua, e introducendo allo stesso tempo
nuove forme di flessibilità (ad esempio il lavoro notturno per le
lavoratrici), ha in realtà risposto a quelle che erano le richieste
dei padroni, volte ad avere un mercato del lavoro totalmente subalterno
alle esigenze della produzione.
Contro questa politica antioperaia, milioni di giovani e di lavoratori
si sono mobilitati, rendendo sempre più evidente ed acuto lo scontro
di classe nel Paese.
Il risultato elettorale è stato quindi, come spesso accade,
lo specchio, seppur deformato, di una situazione già maturata in
passato.
Ma in Francia non è stata solo la destra estrema a capitalizzare
il malcontento popolare.
L'affermazione elettorale della due maggiori organizzazioni della sinistra
rivoluzionaria francese, trotskysta, Lutte Ouvrière e la LCR, è
la prova di come oggi sia possibile lottare per un'alternativa di classe
socialista alla società borghese, e di come questa battaglia possa
diventare credibile e condivisa non solo da piccole avanguardie.
Certo queste organizzazioni non sono esenti da limiti politici anche
rilevanti (il settarismo operaista di LO, che rifiuta di lavorare nel movimento
no global, bollandolo come "piccolo borghese", il confuso movimentismo
della Ligue), ma rappresentano comunque una potenziale opzione alternativa
ai poli dell'alternanza borghese.
In Francia (come in Italia) non è l'unità indistinta
della sinistra su di un programma politico borghese, non sono i governi
di sinistra plurale composti da "sinistra moderata" e "sinistra alternativa"
che possono fermare l'avanzata sociale delle destre, anzi l'esperienza
dei due paesi dimostra il contrario. Sono le mobilitazioni di piazza sviluppatesi
dopo le elezioni a Parigi, e in tutte le maggiori città francesi,
che potranno fermare l'ascesa del Fronte Nazionale di Le Pen.
Costruire il partito della classe operaia, basato su di un programma
conseguentemente anticapitalistico: questa è l'esigenza che esce
dalle urne francesi, e questa è la sola possibilità perché
la politica demagogica e razzista dell'estrema destra sia sconfitta definitivamente.
Si tratta di insegnamenti che anche i Giovani Comunisti e tutto il
PRC devono trarre per il futuro.
4. LOTTA INTERNAZIONALE ALLA GLOBALIZZAZIONE CAPITALISTICA: PER UN
PROGRAMMA TRANSITORIO DEI G.C. NEI MOVIMENTI
Nel corso degli ultimi dieci anni, pur in presenza di un pesante arretramento
della capacità di mobilitazione della classe operaia dovuto ad una
serie di sconfitte subite a livello internazionale, prima fra tutte la
dissoluzione delle economie di transizione dell'Europa dell'est, e l'avvio
del processo di reintroduzione del capitalismo in quei paesi, non sono
tuttavia mancati momenti in cui il proletariato si è mobilitato
contro i tentativi del capitalismo di peggiorare le sue condizioni di vita.
Come già accennavamo nel punto iniziale delle nostre tesi, tra
i vari episodi i più indicativi sono stati le rivolte degli indigeni
del Chapas a partire dal 1994, le proteste e gli scioperi contro i tentativi
di riforma delle pensioni in Italia e Francia nel 1994 e 1995, la rivoluzione
albanese del 1997, nata dallo scandalo delle finanziarie a piramide, e,
sempre nel corso di quell'anno, la lotta degli operai sudcoreani contro
una riforma liberticida del codice del lavoro.
Negli ultimi tre anni, vi è stato, per così dire, un
ulteriore salto nella capacità dei giovani e dei lavoratori nel
rispondere agli attacchi del capitale. Intendiamo parlare della lotta alla
globalizzazione dei mercati capitalistici, iniziata nell'autunno del 1999
a Seattle in occasione della riunione del WTO, l'organizzazione mondiale
del commercio.
Se è vero che in realtà la "lotta alla globalizzazione"
non nasce in quella data, ma è stata frutto di un percorso già
in atto da qualche tempo, convenzionalmente la si fa risalire a quei giorni,
se non altro per il risalto che le mobilitazioni di strada che sono riuscite
ad impedire lo svolgimento della riunione dell'Organizzazione Mondiale
del Commercio hanno avuto sui mezzi d'informazione a livello mondiale,
e per l'impatto che hanno avuto sui livelli di coscienza di milioni di
persone in tutto il pianeta.
Da quel momento, ovunque vi fossero riunioni di organismi sovranazionali
al servizio del capitale, vi sono state manifestazioni di protesta con
la partecipazione di centinaia di migliaia di persone, per la maggior parte
giovani, che esprimevano il loro rifiuto alle politiche sociali ed economiche
del capitalismo internazionale.
Così è stato a Wasghinton, Praga, Nizza, Davos, Quebec
City e Genova.
La molla che ha fatto scattare questo genere di proteste è stata
l'incapacità del capitalismo di creare consenso di massa alla sua
azione, perché per mantenere i livelli di profitto, in un'epoca
segnata dalla stagnazione economica, il capitalismo ha dovuto colpire i
salari e, più in generale, peggiorare le già precarie condizioni
di vita dei lavoratori e dei giovani, nei paesi del terzo mondo, così
come nell'occidente sviluppato.
In ogni nazione, i governi, indipendentemente dal fatto che fossero
formati da partiti conservatori o sedicenti progressisti, hanno assunto
provvedimenti che, a fronte di agevolazioni illimitate per le imprese,
prevedevano per i lavoratori solo sacrifici.
Naturale quindi che, di fronte a questo stato di cose, ci sia stata
una reazione di ampi settori popolari che ha sorpreso solo chi, anche tra
i presunti intellettuali di sinistra, aveva definitivamente seppellito
ogni forma di conflittualità di classe.
Se è naturale che come organizzazione comunista dei giovani
si decida di partecipare attivamente al processo di costruzione del movimento
contro la globalizzazione, per le potenzialità antisistema che esso
è stato capace di mettere in campo, rifiutando ogni idea di un nostro
isolamento settario da esso in quanto non ancora politicamente "puro",
non dobbiamo però nasconderne i forti limiti programmatici che,
con la nostra incessante azione nel movimento, dobbiamo riuscire a far
superare positivamente, in un'ottica cioè di lotta per una prospettiva
marxista rivoluzionaria.
Una delle caratteristiche maggiormente positive del "movimento dei
movimenti" è quella di avere un carattere internazionale: in ogni
Paese chi vi partecipa sente, pur in maniera confusa e contraddittoria,
di far parte di un processo che non riguarda solo la sua specifica situazione,
ma che lo accomuna ad altri milioni sparsi nel mondo che hanno bisogni
simili.
In secondo luogo, vi è la discesa in campo di una nuova generazione
che se da un lato è priva degli strumenti e dell'esperienza delle
lotte passate, dall'altro non è direttamente segnata dalle sconfitte
che la generazione precedente ha subito nello scontro di classe col capitale
e ha di conseguenza uno spirito più combattivo e crede nelle proprie
possibilità di modificare lo stato di cose attuale.
Ma come tutti i movimenti che l'hanno preceduto, anche questo ha dei
forti limiti di natura programmatica, che solo l'azione cosciente dei comunisti,
potrà eliminare.
Il limite più evidente espresso dalle attuali direzioni del
movimento è quello di lottare in un'ottica riformista, pensando
cioè che la globalizzazione non sia, come in realtà è,
il naturale sbocco di un sistema, quello capitalistico, che sta attraversando
una profonda crisi storica alla quale, per il momento, non sembrano esservi
vie d'uscita, ma che sia una delle opzioni possibili e che quindi essa
possa subire delle riforme che la rendano conciliabile con le richieste
delle masse sfruttate.
Ecco spiegato, quindi, il carattere assolutamente inadeguato del programma
d'azione e delle finalità che il movimento no global si è
dato e che sono state confermate dal Forum Sociale a Porto Alegre del gennaio
2002
Le tre principali rivendicazioni - Tobin Tax, bilancio partecipato,
consumo equo - sono esemplificative di questi limiti.
La prima è la richiesta di una minima tassazione delle speculazioni
finanziarie(0,01%) con l'obiettivo, assolutamente illusorio, di limitarne
gli effetti negativi sull'economia reale e di utilizzarne il ricavato per
fini in qualche modo sociali.
Quanto utopistico ciò possa essere lo dimostra che essa è
sostenuta da quei settori di borghesia internazionale che hanno a cuore
non gli interessi delle loro popolazioni, ma quelli della loro classe di
appartenenza (significativo che il governo di Jospin - Hue, che in Francia
si è distinto per una marcata attività antioperaia, in particolare
varando un ampio programma di privatizzazioni, abbia approvato, tra i suoi
ultimi atti prima delle elezioni presidenziali, una legge per l'applicazione
della Tobin Tax!).
Tali settori vogliono soltanto limitare gli eccessi della finanziarizzazione
dell'economia, favorendo l'economia cosiddetta reale (in realtà
di impossibile individuazione in quanto è caratteristica dell'attuale
sviluppo imperialistico, la fusione tra capitale finanziario e industriale).
Nel caso, assolutamente teorico, in cui la Tobin Tax fosse applicata, i
benefici sarebbero nulli per i lavoratori e i giovani, non solo perché
il ricavato di tale tassa non basterebbe a sanare neanche minimamente l'azione
di dieci anni di politiche ultraliberiste a livello mondiale, ma anche
perché la gestione del ricavato di questa tassa sarebbe in mano
a governi che, con le loro azioni, hanno dimostrato di essere degli autentici
"comitati d'affari" dei trust industrial-finanziari.
La seconda rivendicazione, il bilancio partecipato, non è altro
che uno dei miti della nostra epoca. Applicato nella città di Porto
Alegre e nello Stato brasiliano del Rio Grande do Sul da governi guidati
dalla sinistra del Partito dei Lavoratori, esso maschera dietro la presunta
"partecipazione popolare" alla definizione del bilancio la politica di
collaborazione di classe di questi esecutivi: una politica fatta di sussidi
alle multinazionali (Ford in testa) e privatizzazioni (a partire dal trasporto
pubblico). In realtà in questo modo i lavoratori rinunciano all'opposizione
di classe alle politiche borghesi in cambio di un fittizio poter (consultivo)
su una parte irrisoria del bilancio (peraltro del tutto rispettoso del
bilancio nazionale brasiliano, dettato dal FMI). Si tratta di una politica
che dà i suoi frutti: ma per la borghesia. L'anno scorso i profitti
sono cresciuti in quello Stato del Brasile il doppio della media nazionale,
mentre il tasso di disoccupazione è in crescita costante. Questo
serve forse a spiegare perché la Banca Mondiale ha riconosciuto
che il bilancio partecipato è uno "strumento efficace di gestione
pubblica" e perché diversi sindaci di centrosinistra (Veltroni a
Roma, la Jervolino a Napoli, ecc.) abbiano subito individuato in esso una
efficace nuova formula concertativa, in grado di legare le classi subalterne
al carro delle politiche dominanti garantendo la "pace sociale".
Con la proposta di scegliere un consumo equo e solidale, infine, si
crede di poter individuare una serie di prodotti e di aziende che, in qualche
maniera, siano fuori dal circuito di produzione capitalistica. Teoria questa
doppiamente sbagliata e pericolosa, poiché crea illusioni sul fatto
che, all'interno di un sistema basato sull'economia di mercato, vi possano
essere settori economici che vivono al di fuori di esso; inoltre, invece
di puntare sulla necessaria coscienza e organizzazione collettiva degli
sfruttati per arrivare all'esproprio della proprietà privata e al
controllo dei lavoratori su di essa, delega alla scelta individuale dei
consumatori la lotta contro le aberrazioni dell'economia di mercato.
In realtà non dobbiamo stupirci dei limiti programmatici del
movimento no global. Già Lenin agli inizi del secolo scorso nel
"Che Fare?" individuava, nell'impossibilità che i lavoratori autonomamente
si dotassero di un programma rivoluzionario, la ragione per costruire un
partito di classe e comunista.
A quasi cento anni di distanza, ci troviamo nella stessa situazione
ed anche oggi solo la costruzione indipendente e l'intervento dei comunisti
nel movimento con un chiaro programma di classe alternativo a tutti gli
altri sono obiettivi assolutamente irrinunciabili.
Si tratta quindi di intervenire con un più generale programma,
del PRC e dei GC, che, partendo dai livelli di coscienza delle masse giovanili,
crei nelle lotte il ponte tra le rivendicazioni immediate e l'alternativa
di sistema. Dobbiamo, in sintesi, riappropriarci del metodo del "programma
di transizione" che fu proprio del partito di Gramsci (Programma di Lione)
e dei primi anni dell'Internazionale Comunista leniniana; il metodo che
permise al proletariato russo di conquistare il potere nell'ottobre '17.
Solo propagandando l'esigenza di una lotta per l'espropriazione della
proprietà privata, per il controllo operaio sulla produzione, per
l'abolizione del segreto bancario e commerciale, per l'autodifesa del movimento
dagli attacchi repressivi degli apparati dello Stato (così come
si sono verificati a Genova e a Napoli), per l'abbattimento del dominio
della borghesia su scala planetaria attraverso la lotta rivoluzionaria
dei giovani e dei lavoratori, e la creazione di un altro potere e di un'altra
economia democraticamente pianificata, riusciremo a conquistare l'egemonia
politica del movimento e a garantirne un suo conseguente sviluppo anticapitalistico.
5. DALLA VITTORIA ELETTORALE DEL CENTRODESTRA ALLO SCIOPERO GENERALE
DEL 16 APRILE. UNA PIATTAFORMA DI CLASSE PER LA CACCIATA DEL GOVERNO BERLUSCONI
La vittoria elettorale, il 13 maggio 2001, del Polo berlusconiano è
stata anche il frutto delle politiche ultraliberiste dei governi di centrosinistra
che si sono succeduti nell’intera legislatura precedente. Dietro una sempre
più sbiadita fraseologia “di sinistra” i governi Prodi, D’Alema
e Amato hanno condotto per anni la più dura politica d’attacco ai
diritti e alle conquiste dei lavoratori del secondo dopoguerra, ad esclusivo
vantaggio delle grandi famiglie del capitalismo italiano. Nessun campo
è stato risparmiato: dalla politica restrittiva sui redditi, alla
controriforma delle pensioni, dallo smantellamento della Sanità
pubblica alla privatizzazione dell’Istruzione, per finire con il rilancio
di una politica di riarmo funzionale a un pieno inserimento dell’Italia
nella competizione interimperialista su scala mondiale. Grazie al ruolo
svolto dai DS e dalle burocrazie sindacali (la Cgil specialmente) questa
politica di attacco alle classi subalterne è stata condotta in una
condizione di sostanziale pace sociale: i primi anni dei governi ulivisti
sono stati significativamente caratterizzati da un crollo delle ore di
sciopero.
In questo ambito un ruolo particolarmente negativo è stato giocato
anche dal nostro partito. L’appoggio accordato al governo Prodi nei primi
due anni di quell’Esecutivo (i più duri per il movimento operaio,
segnati dalle finanziarie per Maastricht e dalla controriforma del mondo
del lavoro con il “pacchetto Treu” che apriva a nuove forme di flessibilità)
ha nei fatti privato il movimento operaio di ogni possibile sponda di opposizione
di sinistra alle politiche borghesi gestite dall’Ulivo.
La stessa tardiva rottura con l’Ulivo è stata segnata da forti
contraddizioni e dal mantenimento e sviluppo di accordi di governo in decine
di giunte (anche in grandi città come Roma e Napoli) e caratterizzata
da una mancata razionalizzazione della rottura, funzionale a futuri riavvicinamenti
con il centrosinistra (secondo la nota formula utilizzata nei giorni della
crisi del governo Prodi: “fare un passo indietro per farne due in avanti”,
con riferimento non alle sorti del movimento operaio ma ai rapporti col
centrosinistra).
Il governo Berlusconi ha cercato, per tutta una prima fase, di muoversi
con cautela, preservando il metodo della concertazione sindacale e tentando
al contempo di guadagnare un più ampio sostegno da parte di quei
poteri forti dell’economia (gli Agnelli, i Tronchetti Provera, ecc.) che
avevano inizialmente guardato con scarso entusiasmo alla nuova maggioranza
di governo (dubitando del suo personale politico e soprattutto del “conflitto
d’interessi” tra gli affari personali del premier e quelli più generali
della borghesia italiana). Ma questo disegno di “tranquilla navigazione”,
che evitasse gli scogli dello scontro sociale che provocarono nel ’94 l’affondamento
del primo governo Berlusconi, ha funzionato solo per poche settimane. Berlusconi
non è riuscito a far quadrare il cerchio cioè a soddisfare
contemporaneamente le esigenze della grande borghesia e a onorare le promesse
elettorali rivolte ai diversi strati sociali: perché il quadro economico,
nazionale e internazionale, ha reso inattuabile qualsiasi ipotesi anche
solo parzialmente redistributiva. Davanti a uno scenario economico internazionale
delimitato da una fase probabilmente lunga di recessione, il capitalismo
italiano nel suo insieme ha chiesto al governo l’accelerazione della sua
politica economico-sociale per condurre a termine l’opera di smantellamento
dello Stato sociale avviata dall’Ulivo. Pur differenziandosi sugli strumenti
da usare per perseguire questo fine (la via dell’attacco frontale –propugnata
dai settori di Confindustria rappresentati da D’Amato- preoccupa settori
consistenti di grande borghesia, intimorita da una riaccensione dello scontro
sociale), la borghesia ha difficoltà oggi ad ottenere quello spirito
“bipartizan” che aveva fortemente incoraggiato negli scorsi mesi, funzionale
a preservare nel clima di pace sociale i propri affari.
Ma il nuovo attacco gestito dal governo di centrodestra ha incontrato
negli ultimi mesi una crescente resistenza delle classi subalterne. Il
movimento no global ha avuto in questo processo di “disgelo sociale” un
importante ruolo propulsore. Le straordinarie giornate di Genova e le mobilitazioni
delle settimane successive in tutta Italia, contro la brutale repressione
attuata dagli apparati dello Stato borghese, sono state un vero e proprio
detonatore in un processo che già aveva visto (con lo sciopero dei
metalmeccanici del maggio 2001) una ripresa di conflittualità in
generale e l’affacciarsi di una nuova generazione, operaia e studentesca,
alla lotta. Il trauma repressivo di Genova ha introdotto un primo elemento
di svolta. La lotta degli studenti e docenti contro la riforma Moratti,
la mobilitazione contro la legge anti-immigrati hanno ulteriormente alimentato
l’opposizione al governo.
Anche l'aggressione imperialista all’Afghanistan, nonostante un iniziale
ondeggiamento del movimento (favorito anche dalle proposte di “ritirata”
avanzate dai suoi settori più moderati e vicini all’Ulivo), ha provocato
indirettamente –con le mobilitazioni contro la guerra e l’ampio dibattito
su modi e contenuti della lotta- la sua crescita e maturazione. Ma il principale
alimento all’intrecciarsi dei movimenti e alla loro radicalizzazione è
venuto dall’attacco del governo all’articolo 18, giustamente vissuto come
il segnale di un attacco più generale al movimento operaio e alle
classi subalterne che comprende: tagli salariali; limitazione del diritto
di sciopero; un nuovo affondo sul terreno della Scuola, della Sanità;
l’annuncio di una nuova manomissione delle Pensioni; la legge Bossi-Fini
sull’immigrazione (funzionale all’intensificazione dello sfruttamento padronale
degli immigrati); nuovi sgravi fiscali alle imprese, ecc.
La rottura tra CGIL e Berlusconi sull’art. 18 –che pure non configura
affatto una svolta strategica della Confederazione dacché risponde
all’esigenza della burocrazia sindacale di difendere e rilanciare il proprio
ruolo concertativo contro il rischio reale di un suo ridimensionamento-
tuttavia ha aperto un nuovo varco allo sviluppo della lotta di classe e
libera nuove imponenti energie ed aspettative.
E’ in questo scenario profondamente mutato e avanzato che si trovano
ad operare il nostro partito e i Giovani Comunisti: e nuove e diverse sono
le responsabilità e i compiti che abbiamo di fronte nei prossimi
mesi.
a) Nel movimento no global come Giovani Comunisti, per una battaglia
di egemonia
Se è indubbio che il movimento no global non è mai stato
(a differenza di quanto sostenuto da alcuni, anche nel nostro partito)
un elemento separato o separabile dal movimento più generale dei
lavoratori (tra i 300 mila di Genova c’erano, a fianco di giovani studenti
e disoccupati, migliaia di lavoratori), è però vero che molto
resta ancora da fare per unificare i diversi movimenti in un nuovo blocco
sociale alternativo attorno alla classe operaia. E’ a questo fine che deve
mirare la nostra presenza, come GC, nelle stesse strutture del movimento
no global. In primo luogo avanzando nei social forum come nelle mobilitazioni
più in generale un programma di rivendicazioni unificanti. Perché
una battaglia egemonica su un programma d’alternativa al capitalismo (e
non genericamente al “modello neoliberista”) possa trovare canali di espressione
e di crescita nel movimento no global è necessario coniugarla con
una proposta di differente strutturazione dei social forum. E’ nostro compito
avanzare una proposta di strutturazione democratica del movimento che superi
l’attuale gestione verticistica per intergruppi. E’ lo sviluppo stesso
del movimento, le sue potenzialità di terreno unificante e ulteriormente
propulsore dello sviluppo dei movimenti a richiederlo. Va proposta allora
una diversa organizzazione: ogni attivista del movimento deve poter partecipare
realmente non solo alla discussione ma alla definizione delle scelte e
dei portavoce. Va recuperato il vecchio criterio (tipico del movimento
operaio dai suoi primi passi) del controllo e della revocabilità
dei portavoce. In altre parole possiamo e dobbiamo, come GC, proporre una
strutturazione nazionale e locale del movimento basata sui principi della
democrazia consigliare. Si tratta peraltro dell’unica strutturazione che
può consentirci di sviluppare una battaglia di egemonia all’interno
del movimento sulla base del nostro progetto politico generale.
A ciò va unito una revisione profonda delle scelte più
recenti operate dal gruppo dirigente di maggioranza dei GC con la costituzione
del blocco politico-organizzativo dei cosiddetti “disobbedienti”, in cui
un autonomo progetto comunista rischia di essere diluito in una prospettiva
“antagonista” subalterna alle illusorie logiche riformiste delle Tute bianche
dei Casarini o della Rete No Global diretta da Caruso. Scelte sbagliate
che trovano talvolta un’applicazione locale che accentua –al di là
delle intenzioni reali- l’abbandono di una visibilità della nostra
struttura organizzata (in questo senso possono essere lette le scelte fatte
in alcune federazioni di non utilizzare la nostra sigla in iniziative e
prese di posizione pubbliche).
L’area dei “disobbedienti” assume come suoi assi portanti il rifiuto
della centralità del conflitto capitale-lavoro, la liquidazione
del concetto di proletariato a favore di indistinte “moltitudini", l’individuazione
del principale terreno di conflitto non più nell’ambito dei rapporti
di produzione bensì nella sfera della distribuzione ("consumo critico").
Se a ciò si aggiunge l’atteggiamento refrattario nei confronti di
qualsiasi ipotesi di strutturazione permanente attorno ad un comune programma
e ad una comune piattaforma di azione (il rifiuto del concetto di partito),
unito ad una pratica autoreferenziale tesa a sostituire le lotte di massa
con azioni finalizzate ad un effimero impatto mediatico, risulterà
evidente come il nostro progetto comunista risulti totalmente incompatibile
con il Laboratorio dei disobbedienti, specialmente nel momento in cui quest'ultimo
aspira ad uscire dai ranghi della semplice area tematica all’interno del
movimento per trasformarsi in un soggetto politico.
Tuttalpiù questa struttura potrà risultare utile a chi,
anche all’interno del movimento no-global intende traghettare forme di
malcontento sociale giovanile diffuso verso i lidi istituzionali del centrosinistra.
I GC hanno viceversa un futuro e un’utilità solo costituendosi
come organizzazione giovanile rivoluzionaria capace di rappresentare una
direzione di classe alternativa per il movimento studentesco e di attrarre
e rendere combattive, sulla base di un programma anticapitalista, le migliaia
di giovani lavoratori, precari e disoccupati oggi estranei a qualsiasi
forma di lotta e proprio per questo spesso serbatoio elettorale della destra
berlusconiana che, soprattutto al Sud, attrae grazie alla sua retorica
populista e demagogica.
b) Nelle mobilitazioni contro il governo, con una piattaforma unificante
dei movimenti
Dopo la gigantesca manifestazione a Roma del 23 marzo, dopo lo sciopero
generale, dopo le grandi manifestazioni del 25 aprile e 1 maggio, quale
prospettiva, quali obiettivi per la continuità della mobilitazione
di classe? Non si tratta di lamentare l’”assenza” di una piattaforma CGIL,
ma di definire e avanzare noi, come partito e come GC, una proposta di
piattaforma di classe, in ogni luogo di lavoro, di organizzazione, di movimento.
E non semplicemente una generica piattaforma “anticoncertativa”, ma
una piattaforma mirata a ricomporre il fronte generale dei movimenti di
lotta e degli interessi in campo in una grande vertenza generale unificante
che chiami all’unità l’insieme del lavoro dipendente, il precariato
sociale, la massa dei disoccupati e studenti. Unire attorno ad una piattaforma
comune ciò che le manifestazioni uniscono nelle piazze: questa è
la necessità del momento. Si tratta in altri termini di avanzare
una proposta di piattaforma che risponda sia all’esigenza della più
vasta ricomposizione del blocco sociale alternativo, sia all’esigenza di
dare prospettiva di continuità allo sciopero generale innescando
una esplosione sociale concentrata e radicale. Tra i punti qualificanti
di una simile piattaforma possono essere indicati i seguenti:
*** ritiro di tutte le deleghe governative, a partire da quella sull’art.
18;
*** estensione a tutti i lavoratori dell’art. 18;
*** soppressione della legge Bossi-Fini sull’immigrazione;
*** ritiro della “riforma Moratti” sulla scuola e abolizione dei ticket
sanitari;
*** aumento salariale per tutti i lavoratori (ad es. di 200 euro);
*** assunzione a tempo indeterminato di tutti i lavoratori precari
e abolizione del “pacchetto Treu” e di tutte le leggi “precarizzanti”;
*** salario minimo intercategoriale e salario garantito ai disoccupati;
*** riduzione a 35 ore dell’orario settimanale, senza contropartite
fiscali o di flessibilità.
c) Per la cacciata del governo Berlusconi-Bossi-Fini, per un’alternativa
di classe
Come abbiamo detto il quadro politico è definito da una parte
dalla volontà del governo Berlusconi di andare allo sfondamento
di ogni residuo argine dei lavoratori; dall’altra da una reazione di massa,
imponente, di quella classe operaia che molti davano prematuramente per
morta, con una crescita esponenziale delle ore di sciopero e una disponibilità
a radicalizzare lo scontro col governo. In mezzo abbiamo i tentativi dell’Ulivo,
delle burocrazie dei DS e della CGIL di incanalare questa generosa disponibilità
di lotta dei lavoratori nella ricerca di un nuovo spazio concertativo o,
nel migliore dei casi, in uno strumento dell’alternanza borghese, come
fu nel 1994, per tornare a governare come hanno fatto nella scorsa legislatura
in nome e per conto della grande borghesia.
Di fronte a tutto ciò può il nostro partito alimentare
nuove illusioni in quelle burocrazie parlando di “accantonare le differenze”?
O viceversa dovremmo aver chiaro che questo movimento può crescere
solo se riesce a riguadagnare una propria indipendenza di classe dal centrosinistra
e dalle stesse burocrazie sindacali (le quali continuano a rivendicare
il recupero della concertazione e ovunque possibile a praticarla come dimostrano
i gravi accordi sindacali di queste settimane su Edili, Chimici, pubblico
impiego)?
Alla stessa domanda di “unità” che cresce nei movimenti va data
una risposta basata sulla piena indipendenza di classe. Va allora rivendicata
l’unità d’azione tra tutte le forze che si basano sul movimento
operaio attorno a una comune piattaforma di lotta ad oltranza che miri
alla cacciata del governo indicando con chiarezza che l’opposizione dei
lavoratori contro il governo non ha niente a che spartire con l’opposizione
borghese dei Rutelli, dei Dini, dei Treu, dei D’Alema, già sostenitori
dell’attacco all’articolo 18 ed oggi preoccupati unicamente di ritessere
i legami con le grandi famiglie del capitalismo italiano per tornare a
governare in loro nome. Solo una piena autonomia del movimento operaio
dal centro borghese dell’Ulivo può consentirgli di battere il governo
e di preparare le condizioni di una vera alternativa di classe.
Questo movimento può e deve crescere oltre lo sciopero generale,
dotandosi di forme di autorganizzazione sui luoghi di lavoro, non affidandosi
in nessun modo a quelle burocrazie che sono responsabili di decenni di
sconfitte e che hanno regalato l’Italia a Berlusconi. E’ questo il compito
che il nostro partito dovrebbe assumere come centrale (prendendo esempio
dalla Francia del 1995): lo sviluppo del movimento, e quindi della sua
piattaforma, e quindi di forme di lotta in grado di bloccare il Paese,
fino alla coerente traduzione della lotta: e cioè fino alla cacciata
del governo Berlusconi!
La parola d’ordine che possiamo assumere è quella di “sciopero
generale prolungato sino al ritiro di tutte le deleghe”. Dando continuità
alla mobilitazione attraverso l’estensione della radicalità della
lotta: blocco delle merci, picchetti, occupazioni... Si tratta insomma
di affermare un concetto di fondo: solo un’esplosione sociale radicale
e concentrata può realmente sconfiggere il governo e difendere lo
stesso Statuto dei lavoratori.
E’ questo il vero obiettivo che è alla portata del movimento
e della gigantesca forza che ha messo in campo in queste settimane. Non
una ripresa della concertazione ma la piena sconfitta del governo. E non
per riaprire la strada al centrosinistra, a nuovi governi d’alternanza
ulivisti o di sinistra plurale. Ma per costruire nelle lotte reali, nelle
lotte presenti, un’alternativa di classe.
d) Per una nuova direzione del movimento operaio
Questo orizzonte richiama non un nuovo abbraccio con l’Ulivo, non “l’accantonamento”
delle differenze con D’Alema e Rutelli nella prospettiva di un governo
comune, ma l’esigenza di una piattaforma di classe e soprattutto l’esigenza
di costruire Rifondazione e i GC come nuova direzione del movimento operaio
per rilanciare nel vivo di queste lotte un’alternativa di classe, una prospettiva
di rovesciamento del dominio borghese e dei suoi governi (siano essi di
centrodestra o di centrosinistra).
6. MUTARE L’ORIENTAMENTO TATTICO E STRATEGICO DEI GC E DEL PRC
Ma le condizioni indicate nei quattro punti precedenti assumono un significato
solo in riferimento a una svolta profonda dell’orientamento del PRC e dei
GC che riveda gli assi centrali dello stesso documento a tesi approvato
dal recente V Congresso del partito.
Dopo aver fatto un dibattito congressuale all’insegna della “svolta
a sinistra”, dopo che in molti dibattiti è stato ripetuto che non
si ipotizzava alcun riavvicinamento al centrosinistra, che la minoranza
congressuale faceva un “processo alle intenzioni”, a quindici giorni dal
congresso nazionale la segreteria ha rilanciato un’apertura all’Ulivo con
quella che qualcuno (ad esempio Parlato sul Manifesto) ha definito una
“svolta” e che è piuttosto l’esplicitazione della proposta politica
mai abbandonata dal gruppo dirigente (e peraltro contenuta anche nella
famosa tesi 37 del documento approvato dal Congresso di Rimini.) Si parla
di “un clima nuovo” tra PRC e centrosinistra. Così, dopo aver ripetuto
per mesi che “l’Ulivo è morto” si propone di farlo resuscitare –subito
dopo la Pasqua- con i tanti accordi elettorali e di governo locale per
le elezioni del 26 maggio. Come sempre si dice –con apparente pragmatismo-
che gli accordi si faranno solo sulla base di reali convergenze programmatiche.
Ma in realtà l’intera esperienza del nostro partito –in decine di
giunte- ha già ampiamente dimostrato che il centrosinistra non è
schizofrenico, non pratica a livello locale politiche diverse da quelle
che ha praticato a livello nazionale.
Anche a livello amministrativo le “svolte” rimangono una vana attesa,
mentre la realtà è fatta di politiche antioperaie e di una
difficoltà nostra di radicarci dovendo talvolta stare contemporaneamente
nelle piazze contro le politiche borghesi dell’Ulivo e nelle giunte che
quelle politiche promuovono.
La proposta politica di maggioranza –del partito e dell’attuale gruppo
dirigente dei GC- che ha come orizzonte la costruzione di una sinistra
plurale di governo coi DS e con l’insieme del centrosinistra per un “governo
riformatore” nel post-Berlusconi è densa di contraddizioni: con
il suo modello ispiratore originale (la sinistra plurale jospiniana in
crisi mortale), come vediamo in altre parti di questo testo; è in
contraddizione con le necessità di sviluppo delle mobilitazioni
di massa in Italia; è in contraddizione con la stessa proclamata
necessità di “rottura col centro”. E’ una proposta che purtroppo
evidenzia come la discussione nel nostro partito, e di riflesso nei GC,
sia ben lungi dall’aver spostato il baricentro politico “dalle istituzioni
al movimento”. Al contrario il movimento è concepito in questa ottica
come leva di pressione per la ricomposizione –graduale e negoziale- di
schieramenti di governo; non la “svolta a sinistra ma la riproposizione
della linea perseguita (e fallita) per dieci anni.
Altra e diversa deve invece essere la prospettiva in cui ci muoviamo.
La stessa ripresa della lotta di classe e dei movimenti nel mondo è
un’occasione straordinaria da cogliere per rilanciare –anche tra i giovani-
la prospettiva socialista, rivoluzionaria, intesa come unica realistica
soluzione alle legittime aspirazioni (democratiche, sociali, ambientali)
di una nuova generazione; l’aspirazione a un “altro mondo” che è
incompatibile con il dominio borghese e con la società divisa in
classi.
Il problema non è allora quello di stare nei movimenti “come
pesci nell’acqua” (cioè muti?), alternando una presenza subalterna
a una domenicale agitazione di una imprecisata prospettiva “rivoluzionaria”.
Il problema è viceversa quello di far crescere tra le masse, di
giovani e lavoratori, attraverso una aperta battaglia di egemonia la comprensione
della necessità, possibilità ed urgenza di affermare un progetto
socialista e rivoluzionario a partire dalle lotte di oggi. Che era e resta
non quello della costruzione di un governo riformatore di sinistra plurale.
Era e resta viceversa quello di guadagnare la maggioranza del proletariato,
nel corso delle sue lotte quotidiane, alla comprensione dell'impossibilità
di riformare il capitalismo attraverso governi riformatori e alla conseguente
necessità di mirare alla costruzione di “un governo dei lavoratori
per i lavoratori” (Marx).
Perché l’unico possibile progetto comunista, l’unico fine a
cui vale la pena di sacrificare i nostri sforzi quotidiani è ancora
oggi quello che Marx così indicava in una celebre lettera scritta
dopo la Comune di Parigi:
“il movimento politico della classe operaia ha, naturalmente,
come fine ultimo la conquista del potere politico per la classe operaia
stessa.”
La Comune sfiorò soltanto quell’obiettivo; il partito di Lenin
e Trotsky lo realizzò nel ’17 ma per pochi anni. Lo stesso compito
si ripone storicamente di fronte a noi: mettere fine alla barbarie del
capitalismo trasformando il proletariato in classe dominante. E’ un’impresa
che può sembrare impossibile ma che, a dispetto della sfiducia degli
scettici e del loro presunto realismo, costituisce il senso stesso della
rifondazione comunista. Una rifondazione che oggi più che mai può
svilupparsi solo su scala internazionale. Ciò che pone ai GC e al
nostro partito la possibilità e l’esigenza di avanzare il progetto
comunista in un’ottica realmente internazionalista. Ciò significa
impegnarsi da subito in un processo di raggruppamento rivoluzionario nel
mondo di tutte le forze d’avanguardia della classe lavoratrice e delle
loro organizzazioni giovanili che siano disponibili a convergere nel recupero
e nella riattualizzazione degli assi programmatici del marxismo rivoluzionario,
fondamenta della rifondazione di una internazionale comunista.
Si tratta di ripartire dal concetto, fondamentale in Marx e nel movimento
comunista fin dalle sue origini, secondo cui il proletariato ha bisogno
in ogni fase di un partito mondiale d’avanguardia, di un’internazionale.
Questa esigenza è tanto più evidente oggi ed è posta
nei fatti dallo sviluppo delle mobilitazioni su scala mondiale contro la
globalizzazione capitalistica e dalla contemporanea bancarotta delle vecchie
direzioni del movimento operaio, che rendono urgente la costruzione di
una nuova direzione internazionale: ciò che significa, noi crediamo,
porsi oggi l’obiettivo della rifondazione della Quarta Internazionale.
Quarta Internazionale perché, dopo il fallimento della Terza, non
si è sviluppata nessun’altra esperienza rivoluzionaria internazionale
di massa e perché la nuova Internazionale rifondata non può
ripartire da zero ma deve recuperare e attualizzare gli assi fondamentali
del programma marxista rivoluzionario, che ha trovato la sua più
alta applicazione nell’esperienza leninista della rivoluzione d’Ottobre:
la concezione della conquista del potere politico e della dittatura del
proletariato come leva decisiva della transizione al socialismo, la necessità
di un programma transitorio che, nell’azione di massa, riconduca gli obiettivi
immediati e il livello di coscienza dei lavoratori alla necessità
della rottura anticapitalistica. Questo programma è stato difeso
dalla fine degli anni Venti, contro lo stalinismo e contro la socialdemocrazia,
dalla lotta dell’Opposizione di Sinistra, in Russia e nel mondo, che, diretta
da Trotsky, ha poi dato vita all’esperienza –rimasta embrionale- della
Quarta Internazionale. Da quel programma è necessario ripartire
oggi per raccogliere tutte le forze e tendenze del movimento operaio che,
indipendentemente dalla loro provenienza o tradizione, vogliono rompere
coerentemente con il riformismo e lo stalinismo. Contro il capitale globale
occorre raggruppare tutte le forze che siano disposte a riprendere e il
cammino dell'Ottobre costruendo il partito globale della classe operaia
e della sua avanguardia, strumento indispensabile per la prospettiva della
rivoluzione socialista internazionale.
7. CONTRORIFORMA SCOLASTICA E MOBILITAZIONI STUDENTESCHE: IL RUOLO
DEI GC
Dieci anni di tagli della spesa pubblica nel settore scolastico e universitario,
accompagnati da processi sempre più evidenti di aziendalizzazione
e di ingresso dei privati nel mondo dell’istruzione, sponsorizzati da Confindustria
e dal Vaticano e portati avanti indistintamente dai governi di centrodestra
e di centrosinistra, sono giunti oggi alla loro fase culminante.
La riforma Moratti chiude definitivamente il cerchio di un percorso
di attacco al diritto allo studio: dietro l’apparente svolta rispetto alla
riforma dei cicli voluta da Berlinguer, si nascondono elementi di sostanziale
continuità rispetto alle riforme dei precedenti esecutivi di centrosinistra.
L’asse centrale resta lo stesso: meno soldi alla scuola pubblica, ingresso
sempre più prepotente degli interessi delle imprese nella scuola
(sia sotto il profilo finanziario che sotto quello, assai più intollerabile,
della didattica), parificazione tra pubbliche e private, agevolazioni per
gli istituti confessionali, gestione manageriale (si propone addirittura
di sostituire i consigli d’istituto con fantomatici consigli d’amministrazione),
accompagnata da forme di autoritarismo crescente (presidi padroni, ridimensionamento
delle rappresentanze studentesche, repressione delle forme di protesta).
In sintesi, la riforma Moratti sostanzia in maniera ancora più
evidente e reazionaria un progetto di destrutturazione del sistema formativo
pubblico ad uso e consumo delle logiche di profitto delle aziende.
A fronte di questo stato di cose, nel corso dell’autunno si sono avvertiti
i segnali di un risveglio delle lotte e delle mobilitazioni studentesche:
cortei, occupazioni, assemblee su tutto il territorio hanno dimostrato
come gli studenti siano ancora capaci di scendere in piazza per difendere
i propri diritti. La passivizzazione degli anni precedenti è stata
il frutto non di un congenito e irreversibile allontanamento dei giovani
dalla politica, bensì della frustrazione e della disillusione di
migliaia di studenti nei confronti degli apparati burocratici e riformisti
maggioritari all’interno del movimento studentesco, i quali all’indomani
del 1994 (vedi UDS) hanno immediatamente abbandonato le piazze per trasformarsi
in agenti del centrosinistra e della concertazione studentesca negli istituti,
assumendo così il ruolo di ammortizzatori del conflitto.
Compito centrale dei GC in questa fase deve essere quello di rilanciare
un percorso di lotta a medio e lungo termine contro ogni logica privatistica
all’interno della scuola; affinché gli studenti rappresentino la
punta di lancia, assieme ai lavoratori, di un’opposizione generalizzata
al governo Berlusconi, ai suoi ministri e alle sue politiche, indicando
come obiettivo imprescindibile la cacciata del governo stesso. Per fare
ciò individuiamo come luogo centrale della costruzione del conflitto
i collettivi studenteschi autorganizzati, all’interno dei quali i GC devono
lavorare in modo assiduo, aperto e leale, per la costruzione di una soggettività
studentesca nazionale capace di rappresentare un riferimento alternativo
alle burocrazie riformiste dell’UDS, al confuso movimentismo di vecchi
surrogati studentisti, nella prospettiva di una egemonia politica capace
di sottrarre le masse studentesche dall’abbraccio mortale del centrosinistra,
il quale è il principale responsabile delle innumerevoli sconfitte
del movimento studentesco ad oggi.
Tale discorso vale a maggior ragione anche nel lavoro dei GC sull’università.
Questo è stato il settore in cui in misura maggiore è calata
una cappa di silenzio totale negli anni del centrosinistra, ciò
a dispetto di un peggioramento sempre più evidente delle condizioni
degli studenti universitari e del diritto allo studio più in generale,
dalla riforma Ruberti ad oggi.
A parte qualche barlume di mobilitazione ai tempi della bozza Martinotti
e a un timido risveglio, lo scorso anno, con le occupazioni a Roma contro
il caro tasse, fin dall’indomani del 1994, i processi di aziendalizzazione
(crediti formativi, stage a costo zero per le imprese, obbligo di frequenza,
stipulazione contratto con l’università, in modalità part
time o full time) portati avanti dall'Ulivo parallelamente alla già
citata aziendalizzazione della scuola, sono entrati in vigore senza la
benché minima opposizione all’interno degli atenei. Ma l’attacco
al diritto allo studio non si è fermato a questo: la privatizzazione
dei servizi, con conseguente aumento dei costi, l’aumento vertiginoso delle
tasse e la carenza cronica delle strutture (mense, case dello studente)
sono la dimostrazione palese di quanto il nuovo modello di università,
voluto dai padroni, sia funzionale alle logiche del mercato e impostato
su una chiara selezione di classe dove la cultura diventa un beneficio
per pochi eletti. Lo stato di desertificazione politica appena descritta
si è, purtroppo, riversato sullo stesso operato dei GC; la nostra
attività ha scontato limiti notevoli, sia sul piano dell’organizzazione
interna che su quello della proiezione esterna dei nostri contenuti.
Occorre innanzitutto rilanciare un dibattito a tutto campo, dentro
e fuori i GC, sulla mercificazione del diritto allo studio e sul quadro
complessivo che la determina, ossia le innumerevoli riforme a “mosaico”
che negli anni hanno, pezzo dopo pezzo, destrutturato l’università
pubblica. In questo senso è fondamentale rafforzare il ruolo delle
commissioni universitarie all’interno dei GC, così come diventa
strategico, soprattutto a fronte dei nuovi attacchi portati avanti dal
governo di destra, il ruolo è di rilancio dei circoli universitari.
Sul piano della mobilitazione diretta negli atenei, è centrale un
forte investimento dei GC nei collettivi universitari, rilanciando in maniera
decisa la costruzione di un coordinamento nazionale dei collettivi studenteschi,
capace di rappresentare un riferimento alternativo all’egemonia di burocrazie
istituzionalizzate filo-padronali quali la Confederazione degli Studenti,
e al tempo stesso di arginare la preoccupante crescita di fazioni apertamente
reazionarie, quali Azione Universitaria. La stessa Udu, analogamente all’Uds,
rappresenta nient’altro che il tentativo da parte di settori burocratici,
in primo luogo Ds, di ritagliarsi spazi di consenso concertativo all’interno
dell’università, con ambizioni di grande sindacato studentesco,
in realtà pronti all’occorrenza a tramutarsi in sponsor del centrosinistra
o, nella migliore delle ipotesi, in opposizione di “sua maestà”
(lo testimonia il “silenzio assenso” tenuto per anni da questa organizzazione
in occasione degli attacchi portati avanti dalla riforma Berlinguer).
Risulta urgente la ridefinizione della nostra politica sull’università:
è ormai da considerarsi conclusa l’esperienza, rivelatasi fallimentare,
di condizionare dall’interno l’operato di organizzazioni come l’Udu, la
quale da tempo ha dimostrato palesemente la sua “irriformabilità”.
Oggi centrale è invece la costruzione dei collettivi universitari
come luoghi orizzontali di dibattito e di mobilitazione.
8. LA LOTTA ALLA PRECARIZZAZIONE NEL MONDO DEL LAVORO
Il processo di “flessibilizzazione” che investe il mondo del lavoro,
di fatto significa precarietà ed introduzione di forme sempre più
brutali di sfruttamento, segnando un feroce arretramento rispetto ai diritti
conquistati con dure lotte dal movimento operaio.
La tendenza manifestata dal capitale ad introdurre un numero sempre
crescente di forme di contratto atipiche, rende necessaria per la borghesia
la cancellazione del contratto nazionale.
A partire dal governo Amato del 1992, lo smantellamento dei diritti
dei lavoratori è stato una costante di tutti i governi che si sono
succeduti, passando dal governo Prodi con il pacchetto Treu alle privatizzazioni
degli esecutivi seguenti e oggi al “libro bianco” di Maroni.
L’abolizione dell’art.18 dello Statuto dei lavoratori, a cui mira il
governo reazionario di Berlusconi, rappresenta, quindi, solo una tappa
del processo più generale che punta allo smantellamento complessivo
dei diritti dei lavoratori, in nome di una totale liberalizzazione spacciata
come soluzione al problema della disoccupazione. Là dove viene meno
ogni limite alla possibilità (del padrone), di licenziare arbitrariamente,
chi da “adulto” viene espulso dal ciclo produttivo non viene più
reintegrato, mentre per i giovani lavoratori l’unica prospettiva (oltre
alla disoccupazione) è un’assunzione con contratti di formazione
o, generalmente, “atipici” (contratti a termine, a chiamata, a progetto,
interinale, collaborazione coordinata e continuativa). In questo modo,
aumenta vertiginosamente la ricattabilità del lavoratore, soprattutto
dei giovani. A fronte di una disoccupazione dilagante, migliaia di giovani
lavoratori, se pure assunti a tempo indeterminato, a causa delle gabbie
salariali (reintrodotte con i contratti d’area), non solo vengono sottoposti
a turnazioni disumane, ma in moltissimi casi vengono poi licenziati per
esubero o costretti a rifiutare il lavoro poiché il salario non
consente neanche la stretta sopravvivenza (vedi l’esempio indicativo della
Fiat Sata di Melfi). Soluzioni di questo tipo dimostrano la falsità
della ricetta "flessibilità uguale a maggiore occupazione", soprattutto
se consideriamo che solitamente ad essa si accompagna lo smantellamento
di quei settori un tempo ritenuti trainanti dell’economia (siderurgia,
cantieristica, chimica) ed oggi invece definiti “sensibili” e destinati
a morire per assenza di finanziamenti. A questa deindustrializzazione,
che si abbatte soprattutto sul Mezzogiorno, ed alla disoccupazione da essa
determinata, si è aggiunta una legge sulla riemersione dal sommerso
che oltre a regalare al padrone piena libertà di licenziare addirittura
lo “premia” con gli incentivi. Dinanzi a questo stato di cose, caratterizzato
a nord e soprattutto a Nord-est da sempre maggiore flessibilità
e concorrenza al ribasso dei salari (tesa a scatenare contrapposizioni
tra lavoratori italiani e immigrati) e al Sud da precarietà e disoccupazione
giovanile sempre più dilagante, è necessario un netto cambiamento
di rotta nella politica dei GC. La scarsa presenza e partecipazione di
giovani precari e disoccupati alla vita dei GC è forse l’elemento
più preoccupante nel complesso delle attività del Partito
tutto, tale da richiedere una severa riflessione. Risulta sempre più
urgente un intervento diretto, non più limitato a simboliche campagne
contro la precarietà, tra quelle nuove generazioni di lavoratori
sfruttati, i quali privi di punti di riferimento d’opposizione a sinistra,
rivolgono le loro speranze in maniera sempre più massiccia agli
slogan e alla demagogia dei partiti di destra e di estrema destra (come
testimoniano i dati preoccupanti di un sondaggio condotto recentemente
dal Corriere della Sera). I GC in questo senso hanno il compito di riportare
al centro dell’attenzione, a partire dalle lotte quotidiane condotte dai
metalmeccanici, dai precari di ogni genere, fino ai disoccupati del Sud,
rivendicazioni da troppo tempo relegate ai margini del nostro lavoro politico,
quali la riduzione dell’orario di lavoro con forti aumenti salariali, senza
annualizzazioni, la trasformazione di tutti i contratti a tempo determinato
in contratti a tempo indeterminato, il salario garantito a tutti i disoccupati
e la reintroduzione per legge della scala mobile dei salari. Solo facendo
vivere queste parole d’ordine nelle lotte di tutti i giorni sul territorio
e lanciando campagne di mobilitazione centrate su una piattaforma generale
unificante del lavoro, del precariato e del non lavoro, potremo riconquistare
la credibilità presso larghe masse di giovani lavoratori.
9. CONTRO LA LEGGE BOSSI-FINI: PER L'UNITA' DI CLASSE CON I LAVORATORI
IMMIGRATI
Ogni anno milioni di proletari migranti sono costretti ad abbandonare
i loro Paesi a causa di guerre, persecuzioni politiche, miseria, disastri
economici ed ambientali, frutto di politiche di rapina e di saccheggio
da parte dei cosiddetti Paesi sviluppati.
Con il Trattato di Schengen si è istituzionalizzato il diritto
per la libera circolazione delle merci e non quello per la libera circolazione
degli esseri umani, e tutti gli Stati dell’U.E. hanno adeguato la propria
legislazione interna a questo principio, in molti casi recenti andando
anche oltre (come in Italia).
Le questioni etniche rappresentano solo una scusa: in realtà,
dietro il tentativo di istigare l’odio razziale si nasconde un capitale
sempre più aggressivo che per la propria sopravvivenza ha bisogno
di dividere il proletariato, scatenando delle vere e proprie guerre fra
poveri.
Il governo Berlusconi, con la legge sull’immigrazione( Bossi-Fini),
sta cercando di riportare a forme di schiavitù i lavoratori, cominciando
dall’anello più debole della catena: gli immigrati, appunto. Con
la Bossi-Fini si va ad un ulteriore restringimento dei diritti e delle
libertà dei proletari migranti non solo in condizione di irregolarità
ma anche regolari, costringendo questi ultimi ad entrare di forza in clandestinità.
La linea di condotta di questo governo è quella di chi
vuole non solo difendere ad ogni costo i profitti del capitale ma, anche,
di chi vuole sedimentare un clima di intolleranza e di paura della diversità.
Riteniamo che i GC debbano sviluppare politicamente la loro battaglia
tra i migranti, a partire dall'interesse che folti gruppi di proletari
migranti organizzati hanno manifestato nei nostri confronti.
Battaglie per l'abolizione della Bossi-Fini e di tutte le leggi precedenti
(come la Turco- Napolitano voluta dall'Ulivo e purtroppo votata anche dal
nostro partito all'epoca del sostegno al governo Prodi), per una sanatoria
generalizzata, per la chiusura di tutti i campi-lager, per il diritto di
voto, per il permesso di soggiorno rilasciato dai comuni e non dalle questure
devono rientrare nella piattaforma generale transitoria contro l’attacco
ai diritti dei lavoratori tutti e contro precarietà e flessibilità,
per il diritto alla casa e i diritti civili.
Ma ciò non può bastare: l’autoemancipazione degli immigrati,
come parte del movimento di emancipazione delle classi sfruttate, è
condizione necessaria ed indispensabile per la costruzione di un fronte
unitario del proletariato internazionale. Questo può avvenire solo
saldando la coscienza di un progetto politico di ribaltamento dei rapporti
economici e sociali attuali con la coscienza di classe di larghi settori
di masse proletarie.
10. LOTTA DELLE DONNE E LOTTA DI CLASSE. CONTRO OGNI FORMA DI DISCRIMINAZIONE
SESSUALE
Le giovani generazioni hanno raccolto dalle battaglie del passato un’eredità
di diritti che già negli ultimi quindici anni sono stati falcidiati
dai governi di centrosinistra: diritti che costituiscono un patrimonio
di tutta la sinistra di classe e che oggi il governo di centrodestra sta
tentando di cancellare definitivamente. (vedi l’attacco reiterato alla
L.194/78 e alla personalità giuridica dell’embrione).
L’oppressione della donna è una questione centrale nella società
borghese. Le donne sono, in questo, costrette a subire doppiamente, sulla
propria pelle, il carico di lavoro di cura nei confronti dei soggetti a
rischio e marginalizzati dalla società. Il principio di "sussidiarietà",
individua come erogatore di prestazione non solo il soggetto privato, defraudando
il soggetto pubblico della sua naturale funzione (vedi la vicenda dei consultori)
e relegandolo ad un ruolo marginale di “regia” del servizi, ma, attraverso
detrazioni fiscali o assegni irrisori, persino lo stesso nucleo familiare
che è incentivato a farsi carico dei compiti di cura prima propri
del welfare state. Il diritto a una sessualità libera deve essere
un dei punti privilegiati di lotta per il Partito e per i GC, dove per
libertà sessuale si deve intendere pure il diritto ad una contraccezione
libera e gratuita
Occorre spezzare la catena dell’oppressione della donna, per questo
liberazione della donna e lotta di classe sono inscindibili, nell’ottica
di una prospettiva rivoluzionaria per la costruzione di una società
socialista.
Allo stesso tempo è indispensabile iniziare una campagna
contro le discriminazioni verso gli omosessuali e i transessuali.
Il governo di centrodestra, in accordo con le gerarchie ecclesiastiche
e il Vaticano, ha iniziato contro queste categorie una durissima politica
discriminatoria. Con la scusa di voler tutelare la "famiglia naturale"
si vogliono reprimere tutte quelle scelte che, anche in campo sessuale,
mettono in discussione decenni di pregiudizi morali e filosofici che sono
il corollario indispensabile del dominio di classe. Rivendicando per questi
soggetti il pieno godimento dei diritti (sociali, civili, economici ecc.)
così come sono riconosciuti per agli eterosessuali, mettiamo in
discussione un sistema di oppressione di classe basato sulla discriminazione
e l'emarginazione. Le battaglie per migliorare le nostre condizioni di
vita e di lavoro, per difenderci dall’attacco allo Stato sociale e dalle
privatizzazioni, per l’autodeterminazione della donna, di gay, lesbiche
e transessuali, senza distinzione di colore della pelle, sono sicuramente
obiettivi che dobbiamo perseguire come GC, ma essi vanno assunti come obiettivi
transitori, proprio per il fatto che non sono separabili dal processo più
generale di emancipazione della classe lavoratrice.
11. RILANCIARE L'ORGANIZZAZIONE DEI GC: PER L'EGEMONIA DEL PROGETTO
COMUNISTA TRA I GIOVANI
La prima conferenza nazionale dei GC, svoltasi a Chianciano nel 1997,
riprendendo la riflessione già avviata nell'assemblea nazionale
di Firenze del 1995, rilevava alcuni difetti organizzativi nella struttura
giovanile del Prc, molti dei quali rimangono ancora oggi irrisolti.
Da un lato è veritiero affermare che la prima conferenza nazionale
ha dissolto alcuni dubbi su come dovesse essere organizzato il lavoro dei
Giovani Comunisti a livello locale: sono nati coordinamenti eletti dopo
approfondito dibattito nelle conferenze provinciali, che, interagendo con
il Coordinamento Nazionale, hanno il compito di sviluppare l’attività
dei Giovani Comunisti. Dall'altro lato, è necessario ammettere che
nella pratica poco di questo si è concretizzato. E in diverse federazioni
i GC sono purtroppo solo una sigla apposta sui manifesti e manca talvolta
un reale lavoro politico organizzativo.
A cinque anni dalla prima conferenza nazionale dei Giovani Comunisti,
si deve osservare che molti dei limiti già allora presenti, col
passare del tempo sono rimasti.
Il rapporto col partito nel suo complesso non ha cessato in alcuni
casi di essere conflittuale, soprattutto per ciò che riguarda il
livello locale: in molte federazioni i giovani hanno dovuto scontrarsi
con i gruppi dirigenti che vedono con sospetto la struttura giovanile del
partito, spesso non comprendendone la necessità, spesso avvertendola
come un intralcio per la normale gestione della routine politica.
A livello nazionale, nonostante gli impegni, anche statutari, assunti
dal Partito nei confronti dell'organizzazione giovanile, i Giovani Comunisti
sono stati spesso intesi come un mero strumento d’immagine, e non come
un potenziale strumento per radicare la presenza del partito tra le giovani
generazioni, a partire dalla notevole capacità d'attrazione che
il Prc esercita sui giovani. Se così non fosse, non si spiegherebbe
lo scarso investimento finanziario riservato dal partito alla sua struttura
giovanile, fatto che impedisce il regolare svolgimento dell'attività
politica dei GC o, in alcuni casi (es. le commissioni nazionali su specifici
settori) lo rende sostanzialmente impossibile; non si spiegherebbe nemmeno
l’inesistente spazio che il dibattito politico giovanile trova sulle pagine
di "Liberazione", fatto che ha contribuito in modo non secondario a trasformare
il Coordinamento Nazionale in un momento di confronto sostanzialmente auto
referenziale.
Non che importanti passi in avanti non siano stati fatti: il campeggio
nazionale, ormai divenuto un appuntamento fisso, durante il quale, pur
con mille limiti, centinaia di giovani militanti possono trovare momenti
di discussione e di approfondimento del dibattito interno; le campagne
politiche su tematiche giovanili; la convocazione e la partecipazione a
manifestazioni nazionali, ecc.. Tutti momenti importanti in cui i giovani
hanno fatto risaltare e valere la loro presenza, ma momenti a sé
stanti, non conseguenti ad un regolare lavoro politico di tutta l'organizzazione.
Lavoro che sarebbe necessario specialmente oggi, in un momento che
vede un nuovo afflusso di iscritti all'organizzazione giovanile, frutto
del lavoro da noi svolto nelle mobilitazioni degli ultimi mesi, da quelle
nel movimento no global, tra i metalmeccanici, fino a quelle riprese nelle
scorse settimane contro il progetto di privatizzazione della scuola, intrapreso
dal Ministro Moratti
E'' vero che i giovani in particolare subiscono, come, e più
del Partito, un fortissimo turn over, ma sarebbe un errore legare le difficoltà
odierne solo ad un’inevitabile questione anagrafica o a fattori esterni.
Il fatalismo non aiuterebbe certo a superare la crisi.
E' necessario che i GC si dotino di strumenti organizzativi più
adeguati ai compiti che la prossima fase chiederà loro di assolvere.
E’ indispensabile rivendicare nei confronti del partito un più
consistente investimento politico ed economico che permetta all’organizzazione
di spiccare l’indispensabile salto di qualità.
E’ necessario che i giovani, dopo tanti anni, possano finalmente disporre
sia di un regolare spazio sulle pagine del quotidiano del partito, in modo
che la loro elaborazione possa raggiungere un pubblico più vasto,
sia di un bollettino di discussione interno, in modo da poter creare quel
collegamento regolare fra le strutture periferiche e il centro politico
e organizzativo dei GC,perché tutti possano essere a conoscenza
e partecipare al dibattito dell’organizzazione.
E' indispensabile poi strutturare in modo più chiaro ed efficiente
i vari livelli organizzativi dei GC.
Commissioni nazionali e coordinamenti locali devono essere delle reali
strutture di lavoro intermedio per i giovani, e contribuire così
a rafforzarne la presenza, sia territorialmente, sia su specifici settori
d’intervento. La stessa partecipazione alla costruzione del movimento richiede
un rafforzamento delle strutture organizzative dei GC: non una loro diluizione.
Dobbiamo in definitiva realizzare una struttura che sappia rispondere
alla esigenza di fondo che abbiamo: quella di creare nuovi quadri politici
in grado di costruire- nel vivo delle lotte e dei movimenti- l’egemonia
dei comunisti tra vasti strati di giovani lavoratori, studenti e disoccupati.
Dobbiamo costruire un’organizzazione di giovani rivoluzionari che sappia
guadagnare larghe masse giovanili al progetto della rifondazione comunista
e, quindi, della trasformazione socialista della società.