CONTRIBUTO CRITICO AL DIBATTITO CONGRESSUALE DELLA CGIL DELL'AREA SINDACALE DI SINISTRA "LAVORO E SOCIETA’-CAMBIARE ROTTA"

Il movimento operaio italiano si trova oggi in una difficile situazione di fronte all’affermazione del centrodestra alle scorse elezioni  e alla costituzione del governo Berlusconi. E’ necessario ricordare che la Cgil ha avuto una forte responsabilità nel determinare le condizioni politiche e sociali che hanno portato al successo del centro destra.
Da molto tempo la nostra confederazione ha accettato pienamente non solo le compatibilità, ma anche le esigenze generali  del capitalismo italiano. Tale politica sindacale è sempre stata determinata, per la Cgil, dalla subordinazione alla politica delle forze dominanti della sinistra riformista e segnatamente il pci, poi pds-ds. Così si spiega, ad esempio, la cosiddetta “svolta dell'Eur” della fine degli anni settanta, quando la Cgil, in alleanza con Cisl e Uil, fece propria una politica di “sacrifici” per i/le lavoratori/trici in funzione del nuovo quadro politico di “unità nazionale – compromesso storico”. La pretesa autonomia della Cgil non è stata altro che un comodo paravento, un’illusione creata per mascherare le motivazioni fondamentali alla base delle scelte più importanti. Ciò si è espresso in maniera evidente nell’ultimo decennio, quando i governi di centrosinistra, con la partecipazione o, precedentemente, l’appoggio del pds-ds, hanno sviluppato in funzione della loro rappresentanza diretta degli interessi padronali, una forte offensiva contro le condizioni di vita delle masse, il salario diretto, indiretto (“stato sociale”) e differito, i diritti e l’organizzazione del  lavoro. Lo stesso accordo del ’93 sulla concertazione non è comprensibile fuori dal quadro politico generale in cui si inseriva. Anzi, il controllo della struttura della Cgil da parte del pds-ds è stato elemento centrale del sostegno che ai governi di centrosinistra ha dato la grande borghesia imprenditoriale. La frase di Agnelli, per spiegare il suo sostegno al governo Prodi,  <A volte solo un governo di sinistra può realizzare una politica di destra>, è emblematica e evidenzia una situazione reale, che ha visto nella politica filocapitalistica delle organizzazioni sindacali e in specifico della Cgil un elemento centrale.
Da questo punto di vista il bilancio dall’ultimo congresso a oggi è illuminante. Si è iniziato, all’epoca del governo Prodi, con l’accettazione, dopo un tentativo subito rientrato di <distinguo>, delle Finanziarie “lacrime e sangue” e il sostegno alla flessibilità e alla destrutturazione della normativa contrattuale sia quella dei contratti d’area /patti territoriali, sia quella, in forma generalizzata, prevista dal pacchetto Treu (con l’assoluto rifiuto di esprimere una voce autonoma dei lavoratori nel momento in cui tutta la sinistra, inclusa Rifondazione Comunista, sosteneva questo duro attacco di tipo neoliberale alla classe operaia e alle masse popolari). Si è proseguito poi, all’epoca del governo D’Alema , con la proposta del passaggio generalizzato al sistema contributivo e con l’appoggio (in nome della “contingente necessità”) alla guerra imperialista contro la Jugoslavia.
La politica filocapitalista della nostra confederazione – nata quindi come un prodotto del suo rapporto di matrice staliniana con il pci – si è nel tempo progressivamente consolidata anche come espressione di un ceto politico-sociale con progressiva natura e interessi propri nel suo ruolo di “mediatore” sociale nel quadro della struttura dello stato e della società borghese. I due aspetti, subordinazione al quadro politico e costituzione di un ceto politico-sociale con interessi specifici, si sono sempre più intrecciati nel tempo.
In sintesi, oggi nello scontro in Cgil  noi abbiamo di fronte una burocrazia che rappresenta non gli interessi dei lavoratori, ma, in definitiva, gli interessi generali (se non quelli contingenti) della borghesia e del suo stato in seno al movimento operaio; pur dovendo, per il suo ruolo, moderare e conciliare tali interessi generali borghesi con la permanenza delle istituzioni sindacali, e quindi ponendo, in alcuni casi, limiti alle richieste padronali o sostenendo (in passato) – pur limitandole – rivendicazioni operaie. Le evoluzioni tattiche, come quelle attuali, sono determinate non dalla “riscoperta” di un ruolo di rappresentanza effettiva dei lavoratori e delle lavoratrici ma dalle necessità di autodifesa di burocrazia del movimento operaio, di fronte al nuovo quadro politico (governo di centro destra) e sociale (“nuova” Confindustria di D’Amato con la sua linea di scontro e divisione del fronte sindacale); quando non sono legate a più banali e contingenti esigenze, relative ai conflitti interni al mondo politico (congresso ds).
E’ evidente che il ceto burocratico dirigente della Cgil è (al di là di questioni individuali) in quanto tale irriformabile e che tra un’opposizione che voglia difendere coerentemente gli interessi dei lavoratori e la burocrazia della Cgil passa una discriminante di classe.
L’azione antioperaia della burocrazia è stata particolarmente negativa e pesante perché si è inserita nel quadro di una perdurante crisi sociale del capitalismo internazionale. Al di là dell’immagine, da un quarto di secolo, infatti, il capitalismo mondiale è entrato in una crisi che comporta per esso la necessità di un attacco frontale alle conquiste e alle condizioni di vita delle masse in tutto il mondo. Come affermava Marx una legge fondamentale del capitalismo è la caduta tendenziale del saggio di profitto. Nella fase seguita alla seconda guerra mondiale e protrattasi per trent’anni, l’espansione economica (il “boom” post bellico) aveva permesso di contenere il fenomeno e di stabilizzare il quadro economico in termini vantaggiosi per lo sviluppo e per i profitti. In questa situazione la lotta di classe sul piano rivendicativo, in un quadro socio-politico internazionale diverso, prodotto della “spinta propulsiva” della rivoluzione russa (al di là delle degenerazioni del regime), aveva portato all’ottenimento progressivo di importanti conquiste per il proletariato. Da un quarto di secolo questa fase si è chiusa. Anzi, il padronato, per recuperare i margini di profitto ha dovuto lanciare una pesante offensiva su scala mondiale contro le conquiste passate delle masse con quello che è stato definito il “neoliberalismo”. Esso quindi non nasce nel mondo delle idee o del confronto politico, vincendo tra le classi dominanti o i governi l’opzione “keynesiana”, ma come esigenza oggettiva del capitale di fronte alla sua crisi.
Ne è prova il fatto che oggi l’intervento statale nell’economia (mai cessato, alla faccia della demagogia neoliberale) o sviluppa l’industria bellica e le sue conseguenze (il “keynesismo” odierno l’abbiamo visto all’opera nei Balcani); o finanzia – in un quadro di sovracapacità produttiva – processi di razionalizzazione e di ristrutturazione che si traducono in riduzione, e non aumento, dell’occupazione.
Nella sua azione il capitale ha trovato l’appoggio sostanziale delle burocrazia dirigenti del movimento operaio e popolare di origine sia staliniana, che socialdemocratica o (nei paesi dipendenti) nazionalista. Tutta la demagogia sui “sacrifici necessari”, che dovevano essere “equi”, sugli “interessi nazionali da difendere” ecc., non sono stati che la copertura ideologica e mistificante della partecipazione alla “guerra mondiale per il recupero dei margini di profitto” contro la classe operaia. E’ indubbio che la borghesia capitalista ha, in larga misura, avuto successo in questa “guerra” e che ha intaccato pesantemente le conquiste della classe. Ma ciò è lungi dall’aver stabilizzato la situazione. La crisi sociale del capitalismo permane, come à particolarmente evidente in questo momento, con la recessione Usa e la stagnazione generalizzata. La restaurazione del capitalismo nei paesi dell’est non ha creato una situazione stabile, tale da permettere una nuova fase di espansione mondiale. La “globalizzazione” ha una dimensione essenzialmente finanziaria, quindi di capitali fittizi e improduttivi, ed è per di più sconvolta da crisi ricorrenti. Per la difesa dei suoi margini di profitto il capitalismo mondiale ha necessità di mantenere ed approfondire la sua offensiva contro il proletariato e tutti i settori oppressi e sfruttati su scala globale. Da questo punto di vista ogni ipotesi di invertire la rotta dell’azione del capitale con il ritorno ad una sorta di “compromesso keynesiano” è (al di là della sua validità o meno per una prospettiva di liberazione dallo sfruttamento capitalistico) puramente illusoria.
Per questi motivi ciò che sarebbe necessario per il movimento sindacale è, a nostro avviso, una svolta strategica che parta dall’elaborazione – come quadro di riferimento generale, come “programma fondamentale” – di un progetto e un programma anticapitalistico che sappia combinare l’azione in difesa delle condizioni di vita e dei diritti delle masse con la prospettiva della trasformazione sociale, legando inscindibilmente i due momenti. Infatti solo una prospettiva che metta in questione il dominio del capitale in nome di un’alternativa di classe è oggi la riposta realistica alla crisi globale. Naturalmente tale progetto non potrebbe avere una sua logica senza legarsi a mutamenti di strategia complessiva da parte del movimento operaio sul terreno politico, in un intreccio tra questione politica e questione sindacale che del resto è sempre esistito (sia pure, come abbiamo prima indicato, nell’ultima fase storica a negativo) e, come si vede nelle attuali vicende della nostra confederazione, continua a sussistere. Ma ciò non toglie che, pur nel suo specifico ruolo, una confederazione sindacale possa determinarsi su un progetto generale di trasformazione della società ed elaborare a partire da esso un programma d’azione anticapitalistico. Del resto “scopriamo l’acqua calda”: la Cgl storica è nata su tali basi programmatica, che allora apparivano del tutto logiche all’insieme del movimento operaio.
Ciò vuol forse dire rinunciare alle conquiste parziali, alle lotte difensive, alla contrattazione? Tutt’altro. Contrariamente all’ideologia che si insinua anche nell’avanguardia della classe, non esiste alcun elemento di contraddizione tra un progetto e un programma anticapitalistico e la lotta per gli obbiettivi immediati. Facendo solo un esempio, la rivendicazione generale della riduzione dell’orario di lavoro fino al riassorbimento della disoccupazione (“scala mobile delle ore di lavoro”) non nega la possibilità particolare di lotte per riduzioni parziali nei vari contratti o compromessi a positivo, sulla base dei rapporti di forza dati, in una vertenza generale. Avere un progetto e un programma anticapitalistico significa però avere un quadro di riferimento complessivo in cui inserire ogni lotta parziale, creare i rapporti di forza migliori per lo scontro con il padronato, unificare al massimo ogni iniziativa di lotta, vedere le conquiste difensive o offensive realizzate come tasselli della costruzione di un progetto di trasformazione sociale che solo può essere garanzia degli interessi del proletariato.
Insomma, è necessario comprendere che mai come in una situazione di crisi globale quale è l’attuale è valido il vecchio detto del movimento operaio <le riforme progressive non sono che il sottoprodotto della lotta di classe rivoluzionaria>. Sul terreno sindacale questo significa che non la pressione, le richieste di “redistribuzione equa della produttività” (o “della ricchezza”), ma solo la costruzione dei rapporti di forza più favorevoli nello scontro più unitario e radicale possibile – nelle forme ma anche nelle rivendicazioni – possono permettere alla classe da un lato di creare progressivamente le condizioni di coscienza e di forza per la vittoria decisiva sul capitalismo, e dall’altro lato, nell’immediato, per ottenere il massimo possibile di risultati anche sul terreno della difesa delle conquiste passate e nell’ottenimento di obbiettivi parziali.
Del resto è solo sulla base di un generale progetto anticapitalistico che è possibile, a nostro avviso, rapportarsi positivamente ad altri settori sociali oppressi o a movimenti più complessivi come, oggi, quello “antiglobal”. Noi vogliamo sottolineare nel contempo l’importanza che assume questo movimento, la necessità per una sinistra sindacale di parteciparvi pienamente, e quella di portarvi una prospettiva classista. Ciò che non può essere confuso con un semplice approccio “tradeunionistico”, che sottolinei il fondamentale rapporto con la classe operaia, ma implica la necessità di indicare come anche in questo movimento, l’elemento unificante di lotte e settori diversi può essere solo un progetto ed un programma anticapitalistico. Con questo approccio è necessario lottare per sconfiggere le posizioni piccolo-borghesi attualmente predominanti nel movimento, che vedono staccata la lotta “antiliberista” da quella contro il capitalismo e possibile un mondo “equo e solidale” senza il suo abbattimento.
Per tradurre in realtà, rispetto alla situazione attuale, l’approcciio generale da noi proposto crediamo che il compiti immediato di Lavoro e Società, partendo anche dal nuovo clima creato dalla lotta dei metalmeccanici e dal movimento “antiglobal”,  dovrebbe essere quello di sviluppare una campagna  di propaganda e agitazione per una vertenza generale del mondo del lavoro che unifichi i lavoratori, giovani, disoccupati.
Pensiamo che gli obiettivi della vertenza debbano essere:
- la riduzione generalizzata a parità di salario a 35 ore settimanali massime e subito, senza flessibilità e annualizzazioni, senza finanziamenti ai padroni, a spese dei profitti, con una drastica limitazione del lavoro straordinario,
- un salario minimo intercategoriale di almeno 2.000.000 mensili netti
- un salario sociale garantito ai /lle disoccupati/e, a partire dai 18 anni di almeno 1.400.000 lire mensili;
- un recupero salariale attraverso un aumento uguale per tutti di almeno 400.000 lire mensili;
-la trasformazione di tutti i contratti atipici o particolari (compresi quelli parasubordinati) in contratti a tempo pieno indeterminati.
Naturalmente la lotta per una vertenza generale del mondo del lavoro non esaurisce la necessaria elaborazione di un programma  e di una prospettiva di lotta sulle grandi tematiche relative a questioni come “stato sociale”, pensioni, lotta alla ristrutturazione capitalistica, diritti sindacali e democratici, risposta alla crisi sociale. Ma costituisce l’asse intorno a cui costruire la prospettiva generale di risposta del proletariato all’azione del capitale.
Sul piano politico-organizzativo il ruolo svolto dalla burocrazia dirigente di ausilio all’offensiva capitalistica dimostra come debba essere abbandonata ogni illusione di poter “spostare a sinistra” l’asse politico-programmatico della Cgil con una politica di pressione, fosse pure radicale, sul gruppo dirigente burocratico. E’ necessario quindi porsi nell’ottica di una battaglia di opposizione antiburocratica, candidandoci, come area classista del sindacato, a direzione alternativa  del movimento sindacale.
In questo quadro l’area programmatica deve lanciare la prospettiva della “costituente per la costruzione di un sindacato di classe”. Ciò non come ipotesi di ricomposizione in una mini confederazione tra noi e le modeste forze del sindacalismo extra-confederale, ma come proposta avanzata all’insieme delle lavoratrici e dei lavoratori. Una proposta per ricostruire un movimento sindacale dal basso, dai luoghi di lavoro, con un libero e democratico confronto tra le diverse proposte complessive e con l’azzeramento degli attuali apparati burocratici. Una proposta che deve diventare un nostro asse di battaglia tra i lavoratori, con la costruzione ovunque possibile nelle aziende di comitati unitari per la costituente. Come parte di tale prospettiva Lavoro e società deve impegnarsi  anche a mantenere e sviluppare il suo appoggio alle forme di coordinamento e azione autonoma delle Rsu.
Il documento congressuale di Lavoro e Società – cambiare rotta raccoglie solo molto parzialmente le esigenze che noi poniamo. Il suo quadro di riferimento generale è quello di un “riformismo radicale” con le sue illusioni su una soluzione “sociale” distinta dal superamento del sistema capitalistico. A partire da questo impianto generale non viene avanzata la problematica di un programma anticapitalistico o anche solo le questioni di una vertenza generale o della rifondazione di un sindacato di classe. Ancora una volta si ripropone quindi una prospettiva di “spostamento a sinistra dell’asse della Cgil” senza intendere la necessità di prospettare invece una “rivoluzione copernicana” che modifichi totalmente sul piano programmatico e organizzativo la realtà sindacale oggi esistente. Le divergenze con le posizioni di noi espresse sono quindi certamente ampie.
Non si tratta di divergenze nuove. Sono posizioni differenti che si sono storicamente espresse nella sinistra sindacale. Rispetto alla storia comune che è propria alla quasi totalità di noi sono quelle che portarono, ad esempio, nel congresso del ’91 una parte, piccola ma non insignificante, della componente di Essere Sindacato – tra cui i firmatari del presente testo – a votare contro il “programma fondamentale della Cgil”, presentato dalla maggioranza confederale e accettato dalla maggioranza di ES. Tuttavia noi siamo stati anche allora pienamente partecipi della battaglia di Essere Sindacato. Allo stesso modo oggi noi esprimiamo il nostro sostegno, critico ma pieno, alla battaglia di Lavoro e Società. Attorno al suo documento si concentrano tutti quei settori di iscritti e di iscritte, anche con posizioni differenti, che intendono cambiare la linea della confederazione verso una politica in difesa degli interessi del mondo del lavoro. Il testo del documento alternativo si contrappone nettamente al “patto concertativo” che costituisce un aspetto centrale dell’accettazione da parte della burocrazia dirigente della Cgil dell’offensiva padronale e governativa. Esso individua tutta una serie di obbiettivi rivendicativi corretti. Al di là dei suoi limiti politici, sopra ricordati, affronta alcune tematiche centrali aprendo la via a un confronto di posizioni, in cui quelle che noi avanziamo hanno il loro spazio.
Queste le ragioni del nostro sostegno. Nel contempo vogliamo indicare con chiarezza che esprimeremo nel dibattito congressuale e, più ampiamente, in quello futuro dell’area le nostre posizioni e proposte, come del resto già evidenziato dalla dichiarazione di voto critica a favore del testo di Lavoro e Società espressa da uno dei firmatari del presente contributo, il compagno Bruno Manganaro, nel direttivo nazionale. Lo faremo come estensori di questo documento – che vuole appunto rappresentare un elemento della nostra battaglia politica interna all’area – insieme con tutti quei compagni e quelle compagne di Lavoro e Società che condividono queste nostre posizioni e queste nostre intenzioni. Convinti che la democrazia interna, il libero confronto delle posizioni e la possibilità di modificare una linea politica che si ritiene sbagliata o insufficiente, convincendo la maggioranza dei compagni e delle compagne della giustezza delle proprie proposte, sia un’esigenza di tutte le strutture del movimento operaio. Un’esigenza quindi che non può non trovare, pensiamo con l’accordo di tutti e tutte, il suo pieno posto all’interno di Lavoro e Società – cambiare rotta.

Bruno Manganaro ( direttivo naz CGIL/ segr reg CGIL Liguria)
Franco Grisolia (CGIL naz)
Piero Acquilino (Comitato centrale FIOM)
Claudio Cornelli (co-garante naz Lavoro e Società in FISAC)

 
Dichiarazione di voto di Bruno Manganaro al Direttivo Nazionale CGIL
La CGIL ha avuto una forte responsabilità nella determinazione delle condizioni politiche e sociali che ha portato alla vittoria del centrodestra in Italia. Si è infatti subordinata ad una politica della sinistra ufficiale che -non da oggi, ma almeno dall'epoca dell'unità nazionale"- ha accettato pienamente di farsi carico non solo delle compatibilità, ma anche delle esigenze generali e immediate del padronato. Questo di fronte allo svilupparsi di una crisi sociale di cui si è fatto pagare i costi ai lavoratori/trici e alle masse popolari.
Di fronte a ciò è necessario, a mio avviso, una svolta di linea strategica che parta dalla comprensione dell'attualità di un progetto generale anticapitalistico come quadro di riferimento anche per la difesa delle conquiste passate e per l'ottenimento di risultati parziali. Sul terreno concreto questo dovrebbe trovare uno sbocco centrale in una vertenza generale unificante del mondo del lavoro e dei giovani intorno agli obiettivi di un forte recupero salariale, della riduzione dell'orario di lavoro a parità di salario e senza flessibilità, del salario garantito ai disoccupati e dell'abolizione di tutti i contratti "atipici".
Sul piano politico-organizzativo la crisi nel rapporto tra struttura sindacale e lavoratori/trici potrebbe essere risolto solo da un processo di rifondazione sindacale dal basso attorno ad una costituente del sindacato unitario, democratico e classista.
Il documento di "Lavoro e Società" raccoglie solo in parte queste esigenze. Tuttavia, esprimendosi contro la concertazione e su un programma rivendicativo alternativo e di difesa dei lavoratori rappresenta, ad oggi, il punto di riferimento per tutti coloro che vogliono cambiare l'attuale linea fallimentare della nostra Confederazione.
Pertanto esprimo un voto favorevole a tale documento, riservandomi di portare avanti queste specifiche posizioni nell'ambito del dibattito congressuale e all'interno dell' area programmatica di Lavoro e Società.