Le reazioni che si sono prodotte nella "sinistra critica' di fronte
ai fatti argentini (Per lo più limitate alla denuncia del liberismo
e agli appelli antirepressivi) paiono segnate da un punto comune: la rimozione
della crisi rivoluzionaria che ha attraversato e attraversa quel Paese.
Ma si può cercare un’altro “mondo possibile” senza indagare quei
movimenti reali delle masse oppresse che ne sono l'unica possibile leva?
Nelle strade di Buenos Aires, di Cordova, di Mendoza si è affacciato
il reale "movimento dei movimenti”: non una contestazione simbolica, per
quanto vasta e preziosa, delle ingiustizie del mondo, ma un'esplosione
di lotta di classe; un'esplosione sociale concentrata, sul terreno dell'azione,
di tutte le domande delle classi subalterne: dei lavoratori delle aziende
in crisi, dei dipendenti pubblici dal salario falcidiato, dei giovani disoccupati
senza salario, degli studenti universitari senza futuro, di vasti settori
di classe media impoveriti dalla criminalità del capitale finanziario.
Un blocco sociale certo segnato da inevitabili contraddizioni, e tuttavia
caratterizzato da un segno di classe e inequivoco: sono stati i grandi
scioperi generali di novembre e dicembre ad avergli aperto la strada; è
stato il movimento dei piqueteros a costituirne, per un versante, il detonatore;
sono state spesso le parole d'ordine dell'avanguardia di classe a esercitare
egemonia nella sollevazione.
E di sollevazione si è trattato. Milioni di argentini hanno
scelto di rispondere alla violenza della legge, ossia della fame, con la
forza gigantesca della propria azione diretta. L'occupazione delle piazze
e la loro attiva autodifesa, i picchetti di strada permanenti, lo stesso
svuotamento dei supermercati, il ripetuto assedio del parlamento, hanno
espresso un unico impulso di fondo: la volontà di risolvere direttamente
con le proprie mani la drammatica crisi argentina, di fronte al fallimento
delle vecchie classi dirigenti. Il coraggio delle masse, come tante volte
nella storia, ha pagato il suo tragico prezzo di sangue. Ma la repressione
assassina non ha piegato la rivolta. AI contrario sono i militari ad esser
stati costretti a cedere il passo; ed è il governo che li ha impiegati
e coperti che ha dovuto togliere il disturbo. Una sollevazione popolare
ha dunque fronteggiato con la propria forza la forza dello stato e ha cacciato
in pochi giorni tre governi. E' un fatto.
La borghesia argentina per cercare di rimanere in sella, ricorrerà
nuovamente alla consumata carta peronista: ma dovrà fronteggiare,
in condizioni di maggiore debolezza, un movimento di massa incoraggiato
dal suo stesso successo. Non è la riprova che solo un'esplosione
sociale concentrata, basata sulla forza indipendente delle masse, può
scompaginare gli scenari politici e aprire il varco a nuovi sviluppi?
La profondità della crisi pone sempre più in evidenza
la necessità obiettiva di soluzioni radicali. Di fronte a un debito
pubblico di 160 milioni di dollari; a fronte soprattutto della profonda
domanda di svolta posta sul campo dalle classi subalterne, nessuna mezza
misura potrebbe indicare una soluzione reale della crisi: né una
operazione di pura ingegneria monetaria, né un'ipotesi neo keynesiana
affidata alla concertazione con la "borghesia produttiva", né una
vaga ricetta antispeculativa magari basata sul ripescaggio di una Tobin
tax. L'alternativa vera è drastica: o una nuova sudditanza all'imperialismo
(americano ed europeo) e agli interessi dorati del 20% della società
argentina, ciò che significa un'ulteriore compressione delle condizioni
di vita delle masse (e quindi, tanto più oggi, una loro sconfitta
frontale); oppure l'annullamento del debito estero, la nazionalizzazione
delle banche e delle grandi imprese, il controllo dei lavoratori sulla
produzione e la distribuzione: ciò che significa la rottura radicale
con l'imperialismo e con i due poli borghesi d'alternanza (Radicali e Peronisti).
Con buona pace di ogni ricerca di capitalismo equo e di banche etiche,
la crisi argentina ripropone dunque nella sua concretezza il nodo di fondo:
o il capitalismo reale o il reale socialismo; o il potere dei capitalisti,
che è inseparabile dai suoi crimini sociali, o il potere delle masse
lavoratrici, imposto dalla loro forza e basato sulla loro organizzazione.
La questione del potere, la grande rimossa dalla cultura egemone del
movimento antiglobal, si ripresenta dunque in tutta la sua portata strategica
nel vivo di una crisi acutissima. Non in termini ideologici, né
in termini di "bilanci partecipativi" (Porto Alegre): ma sul terreno dell'alternativa
di classe. Nel corso dell'intero 2001, l’ascesa delle masse argentine,
pur disomogenea, ha moltiplicato le esperienze di autorganizzazione popolare.
L'esperienza dei piqueteros ha costituito spesso un'espressione importantissima
di autorganizzazione di massa carica di capacità di contagio. Così
il precipitare delle crisi, sullo sfondo della rivolta di dicembre, ha
moltiplicato, a partire dalle città, le esperienze di comitati di
lotta, commissioni popolari, organismi di massa. Si tratta delle prime
espressioni, appena embrionali, di un possibile potere alternativo. La
loro estensione, il loro possibile incontro col necessario sviluppo dell'autorganizzazione
operaia, la loro ricomposizione in assemblee popolari democraticamente
organizzate e progressivamente unificate su base cittadina, distrettuale,
nazionale, segnerebbe l'emersione di un autentico contropotere.
E' questa oggi la parola d'ordine centrale del Partido Obrero argentino:
certo un piccolo partito, ma che svolge un ruolo di primo piano nel movimento
di massa dei piqueteros e che negli epicentri sociali dello scontro (10%
dei voti a General Mosconi, 7% a Salta...). Avversario irriducibile di
ogni blocco progressista con la borghesia argentina, il Po ha radunato
diecimila lavoratori e disoccupati nella sola Plaza de Mayo durante la
rivolta del 20 dicembre, attorno alla rivendicazione rivoluzionaria di
"governo obrero". Non a caso la stampa borghese argentina ha pubblicamente
denunciato le responsabilità dell' “estrema sinistra trotskysta”
nell'immancabile “complotto sovversivo”. Non è forse una buona ragione
per approfondire la conoscenza di questa esperienza politica e aprire con
essa un aperto confronto.
La crisi rivoluzionaria in Argentina è appena ai suoi inizi.
La sproporzione tra la maturità delle condizioni oggettive di una
rottura anticapitalistica e la debolezza soggettiva delle forze politiche
rivoluzionarie resta ampia e non autorizza ottimismi faciloni. Ma resta
il fatto che questa vicenda ripropone la categoria della rivoluzione non
in cielo ma in terra; ne descrive concretamente dinamiche e potenzialità;
ne disvela grandi generosità e drammatiche difficoltà; mette
alla prova una sinistra rivoluzionaria socialmente radicata che fa del
richiamo aperto a Lenin e a Trotsky il criterio ispiratore della propria
politica di massa e della stessa costruzione (decisiva) del partito. Il
prossimo incontro di Porto Alegre e soprattutto la Rifondazione Comunista
hanno dunque un nuovo materiale di riflessione e confronto. Che sarebbe
difficile ignorare.