L'INCONTRO DI ATENE
(marzo 1999)
INTRODUZIONE
Si
è svolto ad Atene dal 6 al 10 marzo scorsi un nuovo incontro internazionale
convocato dalle organizzazioni che si battono per la rifondazione della Quarta
Internazionale. Come i lettori di “Proposta” sanno si tratta di una
battaglia iniziata nel 1997 e di cui abbiamo riferito i precedenti momenti di
dibattito sulla nostra rivista (si veda, da ultimo, “Proposta” n. 22 del
novembre ’98).
Nella
precedente riunione del maggio ’98 a Buenos Aires le organizzazioni
promotrici avevano deciso di prospettare una riunione a carattere più ampio,
nella forma di una “Conferenza operaia e della sinistra di classe”. Il
senso di questa scelta è da intendere nella volontà di portare la battaglia
per la rifondazione della Quarta Internazionale sul terreno più ampio
possibile dell’avanguardia del proletariato.
Come
già abbiamo affermato è questo il concetto che ispira l’azione del nostro
raggruppamento internazionale: la rifondazione della Quarta Internazionale
non è una questione “particolare” di una serie di organizzazioni trotskiste,
conseguenti nella loro azione politica, ma la risposta organizzativa e politica
all’attuale assenza di direzione rivoluzionaria del movimento proletario. Per
cui è necessario ed utile chiamare al confronto e cercare di convincere della
necessità di tale prospettiva tutte le forze che realmente si pongono sul
terreno di un’alternativa di classe al capitalismo, combinando il rifiuto di
ogni settarismo di parrocchia con la fermezza sui principi generali. Metodo del
resto che riteniamo sia quello che ha espresso “Proposta” nella sua azione
in Italia.
Su
queste basi si è svolta nel dicembre del ’98 una preconferenza
latinoamericana che ha visto la partecipazione oltre che delle organizzazioni
promotrici, del principale dirigente della importante sinistra del Partito dei
lavoratori (Pt) del Brasile (nota 1), Valter Pomar, e di due dei tre principali
dirigenti del Movimento dei lavoratori rurali senza terra (Mst, Movimiento dos
sem terra), il conosciuto movimento di massa di occupazione dei latifondi
brasiliani. Inoltre erano presenti settori sindacali di classe brasiliani, in
particolare di provenienza dalle file del Partito comunista.
La
partecipazione
La
conferenza vera e propria si è svolta, come abbiamo indicato, dal 6 al 10 marzo
ad Atene. Ad essa hanno partecipato le seguenti organizzazioni promotrici:
Partito operaio (Po, Argentina), Partito della causa operaia (Pco, Brasile),
Partito operaio rivoluzionario (Eek, Grecia), Opposizione trotskista (Ot,
Bolivia), Collettivo “En defensa del marxismo” (Cedm, Spagna), e infine la
corrente cui appartiene l’Associazione marxista rivoluzionaria “Proposta”
e cioè l’Opposizione trotskista internazionale (Oti) che ha gruppi e
militanti in Italia, Usa, Gran Bretagna, India, Germania e Danimarca (l’Oti
era presente in quanto tale, come tendenza internazionale, sia con tre delle sue
sezioni: italiana, Amr Proposta; Usa, Lega trotskista; e Britannica).
Il
Partito dei lavoratori (Pt) di Uruguay che è partecipe del raggruppamento
internazionale per la rifondazione della Quarta non ha potuto presenziare alla
riunione per motivi finanziari ma ne ha successivamente condiviso e firmato le
risoluzioni. Fra le organizzazioni e le personalità osservatrici vi erano:
Valter Pomar, vice-presidente del Partito dei lavoratori del Brasile e leader
della sua sinistra; l’organizzazione francese Voix des travailleurs (Vdt, voce
dei lavoratori), una corrente proveniente da Lutte ouvrière; la Lega operaia
marxista di Turchia; la sezione greca del Comitato per un’Internazionale dei
lavoratori (Cwi, tendenza trotskista di cui la principale sezione è il
Socialist party, ex Militant, in Gran Bretagna) in rappresentanza della tendenza
internazionale; il Movimento della nuova sinistra (Nar) di Grecia, nato dalla
rottura del gruppo dirigente della gioventù comunista greca con il partito
quando alcuni anni fa esso si alleò alla destra in funzione anti Papandreu;
infine, sempre dalla Grecia, il piccolo gruppo trotskista Potere operaio.
L’organizzazione
francese Lutte ouvrière ha inviato le sue scuse per non poter essere presente
nei giorni della riunione in funzione anche della preparazione della campagna
elettorale per le europee. Una compagna del suo Ufficio politico ha tuttavia
effettuato alcuni giorni prima della riunione una visita in Grecia allo scopo
specifico di realizzare un incontro con i nostri compagni dell’Eek. E’
giunto alla conferenza anche il messaggio di saluto inviato dal Comitato per la
costruzione di un partito operaio, gruppo cileno che si è recentemente
costituito sulle basi politiche del movimento per la rifondazione della Quarta
Internazionale. Da segnalare infine che alcuni settori critici del cosiddetto
Segretariato unificato della Quarta Internazionale e il gruppo trotskista russo
Democrazia operaia non hanno potuto partecipare per importanti scadenze
nazionali, motivi finanziari, ecc.
La
discussione si è sviluppata con toni fraterni ma franchi, in particolare su
alcuni punti d’analisi della situazione internazionale. Alla fine sono stati
approvati all’unanimità un documento generale sulla situazione internazionale
dal titolo “Per costruire l’Internazionale operaia: rifondare la Quarta
Internazionale”, e alcune altre dichiarazioni: tra esse una per la libertà di
Ocalan e in sostegno alla lotta del popolo kurdo e una, riguardante l’Italia,
di critica alla scelta del Prc di sviluppare un fronte unico con la Lega Nord
per il referendum di aprile e al voto di Livio Maitan (dirigente storico del
Secretariato unificato rappresentante di Bandiera rossa nella Direzione
nazionale di Rifondazione comunista) a favore di questa scelta, scelta giudicata
contraria ad ogni considerazione di classe e perfino di democratica reale.
Riproduciamo
in questo numero della rivista il documento principale. Su di esso si è
sviluppato ad Atene un ampio confronto. Nel precedente incontro di Buenos Aires
(come riferito in “Proposta” n. 22) l’Oti e l’Amr Proposta avevano
sottoscritto il documento finale accompagnandolo però con una lunga
dichiarazione di puntualizzazione. Il nostro dissenso si focalizzava sul fatto
che il documento enfatizzava eccessivamente il carattere “catastrofico”
della crisi capitalistica (che pur riconosciamo esistere, come ben sanno i
nostri lettori) e il suo provocare risposte rivoluzionarie di massa (pur
esistenti: Indonesia, Albania, Corea, ecc.). Certamente il testo indicava che
senza la costruzione di una direzione rivoluzionaria le potenzialità della
situazione non potevano evolversi positivamente (senza questo elemento politico
essenziale non avrebbe potuto esserci il nostro sostegno neppure critico).
Tuttavia abbiamo ritenuto essenziale riaffermare chiaramente i nostri punti di
dissenso rispetto ad analisi troppo semplificate e, in astratto, foriere di
errate valutazioni politiche (cosa già accaduta, purtroppo, anche nella storia
del movimento marxista rivoluzionario).
Il
punto centrale
Ad
Atene abbiamo ritenuto invece di poter firmare il testo conclusivo senza
dichiarazioni particolari. Questo non perché anche in esso non si riscontrino
elementi di quella semplificazione da noi criticata in passato; ma perché
certamente riteniamo che – anche grazie all’accettazione della maggioranza
degli emendamenti da noi proposti – vi sia un’enfatizzazione minore.
L’indicazione che “di fronte alla mancanza d’indipendenza politica del
proletariato la crescente polarizzazione sociale non si traduce in una polarizzazione
politica su assi classisti” rappresenta il concetto centrale del documento ed
il problema a cui bisogna dare assolutamente soluzione, a partire dalla
battaglia per una politica conseguentemente rivoluzionaria nell’avanguardia
proletaria.
Questo
spiega anche la forte critica contenuta nel testo alla piattaforma elettorale di
Lutte ouvrière-Ligue communiste révolutionnaire (Lo-Lcr) in Francia. Il
risultato della lista trotskista in Francia (sostenuta oltre che dalle due
organizzazioni coalizzate anche dai compagni di Voix des Travailleurs e
naturalmente dalle due minoranze di sinistra presenti sia nella Lcr che in Lo,
tutte forze con cui noi siamo in fraterna discussione) è un dato importante.
Oltre il 5% degli/lle elettori/trici hanno espresso il loro sostegno ad una
opzione che appariva chiaramente di opposizione di classe al governo Jospin. Ciò
non toglie che il programma elettorale contenesse ambiguità rispetto alla
prospettiva complessiva, derivate in larga misura dalle concessioni fatte da Lo
– la forza largamente dominante della coalizione – alla maggioranza della
Lcr. Questa rivendica l’utopia dell’“Europa sociale” (in maniera
analoga a quanto fa in Italia l’area raccolta intorno alla rivista “Bandiera
rossa”). Naturalmente non è per questo che gli elettori di sinistra francesi
si sono indirizzati verso la lista trotskista. E tuttavia non cogliere
l’occasione delle elezioni per avanzare con chiarezza una proposta che
cercasse di elevare la coscienza di massa fino alla comprensione della necessità
– come unica soluzione realistica alla crisi sociale – della
rivoluzione socialista è stato un elemento che ha limitato il significato del
successo.
E’
necessaria invece l’assoluta chiarezza su questo terreno (e quello della
Francia è solo un esempio che ha un valore emblematico generale). Solo su tali
basi sarà infatti possibile superare lo iato esistente tra le potenzialità
presenti e i limiti della coscienza delle masse e della stessa avanguardia.
E’
questa la battaglia per la costruzione di una nuova direzione rivoluzionaria,
per l’Internazionale operaia. Ma appunto, come dimostra la storia ormai
ultrasecolare del movimento operaio, “senza teoria rivoluzionaria non c’è
movimento rivoluzionario” (Lenin). E’ per questo che il compito di
costruzione dell’Internazionale operaia si confonde e si identifica – anche
alla luce delle drammatiche vicende del movimento comunista dei questo secolo
– con la rifondazione della Quarta Internazionale. Ed è questo il terreno che
sempre più chiaramente questa rivista e l’Associazione marxista
rivoluzionaria proporranno ai militanti comunisti anche nel nostro paese, come
sviluppo conseguente della loro lotta contro il capitalismo e contro il riformismo
illusorio e fallimentare.
Nota
1. Il Pt è il noto partito di massa della sinistra brasiliana, il cui principale dirigente è Ignazio Luis Da Silva detto “Lula”. Il Pt esprime un programma e un progetto di tipo riformistico. Al suo interno esiste una consistente opposizione di sinistra che raggruppa varie correnti: la sua forza congressuale varia da oltre un terzo alla metà dell’insieme del partito. Questo non solo in relazione ai vari congressi ma anche al fatto che si consideri parte della sinistra la corrente Democrazia socialista, equivalente brasiliano del gruppo italiano di “Bandiera rossa” (Maitan-Turigliatto) che, come i suoi omologhi nostrani, oscilla da congresso a congresso tra lo schierarsi con la sinistra o appoggiare i riformisti verso cui, nella realtà del suo opportunismo, tende.
Il
documento finale dell’incontro di Atene
PER COSTRUIRE
L’INTERNAZIONALE OPERAIA:
Gli avvenimenti dell’ultimo anno
hanno confermato, oltre ogni dubbio, il carattere storico, ossia non
congiunturale né ciclico, dell’attuale crisi capitalistica mondiale.
Superando tutte le barriere geografiche – dal sudest asiatico al Giappone,
dalla Russia al Brasile e tutto il cono sud latinoamericano – la realtà della
crisi s’impone come un dato immediato a tutti i paesi e a tutte le classi
sociali. Tutte le teorie relative al carattere “locale” delle diverse crisi
sono state spazzate via dagli avvenimenti. Lo sono state anche quelle che vedono
la crisi come un prodotto degli errori dei maghi della politica economica, e non
come una manifestazione dell’insieme delle contraddizioni del capitale e delle
sua tendenza storica verso l’autodistruzione. Il fatto che ci sia una crisi di
sovrapproduzione e di sovrainvestimento quando i livelli di miseria e di
pauperizzazione, anteriori alla crisi, si sono estesi nel mondo, dimostra che
siamo di fronte a una grande crisi di società, e cioè universale. In un
periodo storico in cui crescono i bisogni sociali il capitale mondiale entra in
una fase di bancarotta acuta. Mentre le masse mondiali vivono la siccità, il
capitale mondiale vive l’inondazione.
Conferma
di una prospettiva
Riunite
nove mesi or sono a Buenos Aires, le organizzazioni e i partiti che hanno
convocato da questa conferenza, già avvertivano: “Quelle che si definiscono
peculiarità asiatiche – l’estrema fusione tra il capitale bancario e
industriale; l’intreccio profondo tra il capitale privato e lo stato – è la
tendenza generale del capitalismo mondiale attraverso le fusioni, le
acquisizioni e le ristrutturazioni. Proprio per questo la crisi asiatica si può
caratterizzare come un’espressione concentrata della crisi del sistema
capitalistico mondiale.
“La
contraddizione fra lo sviluppo internazionale raggiunto dalle forze produttive e
il carattere ancora nazionale dei capitali, delle monete e degli stati sta alla
base della crisi attuale, che rivela così il suo carattere mondiale; non di
questo o quel “modello” o di questa o quella “politica”, ma del regime
sociale capitalistico in quanto tale”. Questa prospettiva è stata confermata
dai fatti.
Fallimento
della “globalizzazione” capitalistica
La
cosiddetta “globalizzazione” che aspirava, mediante la completa
liberalizzazione dei movimenti di capitale, nientemeno che all’armonizzazione
mondiale delle condizioni di sfruttamento capitalista, ha finito per generare
squilibri economici mostruosi e una fragilità economica senza precedenti, al
punto che alcuni dei suoi beneficiari (Soros!) chiedono un ritorno alle
regolamentazioni e a politiche di stampo keynesiano, in tempi in cui la stessa
crisi ha eroso la base per questa via d’uscita.
La
globalizzazione si propose di superare un regime caratterizzato dalla
subordinazione di tutte le monete nazionali al dollaro a un livello mai visto
prima, e cioè dalla sottomissione dei regimi monetari di ogni paese alla
politica monetaria della Federal Reserve. Questo regime ha fomentato il periodo
della speculazione internazionale, permettendo, dal punto di vista della
politica monetaria, la crescita delle borse, i debiti esteri, la gigantesca
ondata di investimenti finanziati per mezzo dei crediti. La subordinazione al
dollaro fornì una relativa garanzia internazionale alla speculazione nelle
diverse monete nazionali. Perché questo funzioni adeguatamente la moneta che
opera come garanzia di valore nella circolazione internazionale deve essere una
moneta realmente internazionale. Tuttavia il dollaro è anzitutto la moneta
degli Usa, è un’arma della borghesia nordamericana nella lotta e nella
concorrenza coi capitali degli altri paesi. Non è una moneta universale. Questa
contraddizione ha spezzato il processo asiatico, poiché le monete di questi
paesi erano legate finanziariamente al dollaro, ma il loro commercio era legato
al Giappone. Le svalutazioni asiatiche furono la prima manifestazione di una
rottura internazionale delle monete nazionali con il dollaro, di una minaccia
del cedimento del dollaro come moneta finanziaria internazionale a causa della
concorrenza dei paesi che svalutano le loro monete. La speculazione, invece di
valorizzare i capitali, abbatte le borse, produce una fuga dei capitali
speculativi, un ritiro del denaro dalla circolazione mondiale e, in conseguenza
di ciò, sviluppa una crisi mondiale. Il capitalismo non può darsi questa
universalità a cui fittiziamente aspira. Il capitale continua a essere una
forma nazionale e particolare di appropriazione della ricchezza. Non è una
forma né collettiva né internazionale. Le più serie conseguenze di questo
fenomeno si manifesteranno negli Usa, che hanno fatto leva sul fatto che il
dollaro è una moneta internazionale per sussidiare tutte le loro industrie e
pagare il deficit di conto corrente con l’emissione di denaro e la creazione
di un gigantesco debito internazionale in dollari.
Assistiamo
ad una crisi con conseguenze internazionali perché non è stata fabbricata in
Asia, ma è la conseguenza di un lungo sviluppo che risale alla seconda guerra
mondiale.
Il
mito della “fine del comunismo”
Questo
crollo comprende il tentativo di uscire dalla crisi attraverso la
ricolonizzazione imperialista degli antichi stati operai burocratizzati. Nel
1990, come conseguenza della caduta del muro di Berlino, la Germania occidentale
assorbì la Germania orientale e il capitalismo mondiale risolse la più grave
crisi politica del dopoguerra a suo beneficio. Ebbene: questa soluzione è stata
la base economica dell’espansione speculativa dell’ultimo decennio.
Al
capitalismo si presentò l’opportunità della colonizzazione della Russia,
della Cina e dell’Europa dell’Est, paesi che si erano sottratti al controllo
dell’economia mondiale capitalista a seguito dei processi rivoluzionari. Il
mercato russo, in principio, avrebbe dovuto risolvere la crisi capitalistica di
eccesso di investimento. A fronte delle dimensioni del mercato da rifornire si
sarebbe potuto dare un’occasione di sopravvivenza al capitalismo, e lo stesso
si può dire, su scala molto maggiore, per il mercato cinese.
La
cosiddetta “globalizzazione” è stato proprio un tentativo di fermare per
molto tempo la tendenza alla svalorizzazione dei capitali, al cui fine fu
lanciata un’intensa campagna di apertura dei mercati mediante le
privatizzazioni e l’abbattimento delle barriere protezionistiche nei “paesi
emergenti”. Però il centro di questa politica era la penetrazione su larga
scala in Cina e nell’ex-Urss. La prospettiva di raggiungere questi obiettivi
alimentò la valorizzazione in borsa dei capitali, soprattutto a New York. A chi
ritiene che il capitalismo abbia una via d’uscita bisogna ricordare che la
“globalizzazione” è stato precisamente un tentativo di via d’uscita; ma
nel mentre la crisi mondiale non ha progredito in forma lineare, ma a salti, cioè
aggirando i diversi tentativi del capitalismo di superarla e dischiudere un
periodo di espansione sostenuta del capitale. La debacle russa e la crisi
generalizzata che inizia a coinvolgere la Cina hanno fatto crollare questa
prospettiva.
Come
un boomerang, da via d’uscita per il capitalismo, Russia e Cina si sono
trasformate in un fattore supplementare e decisivo della sua crisi. Questo perché
il loro reinserimento nel mercato mondiale e la completa reintroduzione delle
categorie mercantili si possono realizzare solo con metodi capitalistici, che
implicano la distruzione delle forze produttive, la pauperizzazione di massa e
la riproduzione su scala allargata di tutte le sue contraddizioni. Questa
analisi teorica è stata confermata dalla crisi russa di agosto, che diede il
via a un periodo di recessione in numerosi paesi che erano stati meno colpiti
dalla crisi asiatica, specialmente in Europa dell’Est e in America del Sud.
La
stessa crisi russa provocò, per la prima volta dal 1987, la possibilità di una
bancarotta delle grandi banche del mondo, colpite dal fallimento del fondo
speculativo Ltcm, compromesso da contratti derivati di quasi un miliardo e mezzo
di dollari. I prezzi delle materie prime precipitarono, fatto che contribuì per
la prima volta nel dopoguerra, a far ridurre nel 1998 il commercio
internazionale del 2% in termini di valore. La metà delle nazioni sono in
recessione. Prima ad agosto, come conseguenza della crisi russa, poi a ottobre a
causa del fallimento del Ltcm, più tardi in dicembre e in gennaio, la crisi
mondiale ha incominciato a manifestarsi appieno in Brasile, dal cui mercato
dipendono ingenti capitali nordamericani. La svalutazione del Real ha avuto
origine nonostante un pacchetto “preventivo” di 41.000 milioni di dollari
del Fmi. Mentre la crisi russa ha messo a rischio di svalorizzazione e
fallimento capitali prestati e contratti di assicurazione o derivati
dell’ordine di 300.000 milioni di dollari, la crisi brasiliana minaccia valori
di circa un miliardo e mezzo di dollari, solo considerando il Mercosur. Oltre a
ciò si ipotizza a breve scadenza la prospettiva di un crollo della Cina e
l’accentuarsi della crisi in Giappone, che sta attraversando una depressione
economica più importante, in termini di durata, di quella degli anni Trenta. Le
ex nazioni sovietiche e la Cina, invece che attenuare la crisi capitalista
mediante l’assorbimento di merci e di capitali, come successe dopo la caduta
delle borse nel 1987, la stanno accentuando.
Crisi
finanziaria e crisi capitalistica
I
blocchi economici costruiti dal capitalismo per arrestare la crisi non resistono
allo svilupparsi di quest’ultima. La crisi brasiliana ha provocato la
spettacolare svalutazione del Real, di fronte a una fuga di capitali superiore a
60.000 milioni di dollari, e simultaneamente la dollarizzazione completa
dell’economia argentina, facendo esplodere il Mercosur e la sua prospettiva di
una “moneta unica” sudamericana, sull’esempio del celebrato Euro. Tutti i
progetti capitalistici non resistono allo sviluppo impetuoso delle loro tendenze
parassitarie e contraddittorie.
Lo
sviluppo del cosiddetto settore finanziario sottosta alla necessità del
capitalismo di superare la propria contraddizione di base che si riproduce
incessantemente. Si oppone al capitale produttivo come un fratello siamese
all’altro… Lo sviluppo del sistema creditizio e delle banche, delle società
per azioni e dei mercati valutari, lo sdoppiamento del capitale in produttivo e
finanziario, la centralizzazione dei capitali e il sistema del debito pubblico,
l’apparizione del capitale fittizio: tutto ciò obbedisce alla necessità del
capitale nel suo insieme di superare i limiti che si oppongono alla sua
riproduzione infinita. Questi limiti sono da un lato il consumo personale
relativamente limitato delle masse di fronte a una capacità produttiva
crescente, dall’altro la strettoia rappresentata dalla produzione per il
profitto privato di fronte al costante rivoluzionamento della tecnica e dei
metodi di produzione (tendenza alla caduta del saggio di profitto e
all’estensione della legge del valore). In sintesi “il limite del capitale
è il capitale stesso”. Lo sviluppo finanziario facilita il passaggio del
capitale da un ramo produttivo sovrasviluppato o non profittevole a un altro in
via di sviluppo che offre maggiori profitti, mobilita con maggiore rapidità
questi capitali, aiuta a superare all’interno dei propri limiti la
contraddizione tra la creazione e la distruzione di capitali (assorbimenti),
estende i limiti del consumo al di là dei salari che paga ai lavoratori,
sviluppa un’accumulazione del capitale stesso (fittizia) che agisce come un
credito sui generis sia per la produzione, sia per il consumo. Questo sviluppo
(parassitario perché non crea valore) agisce come fattore di freno per la crisi
capitalistica fino a quando non si trasforma nel principale fattore della sua
esplosione. Questo succede quando la sovraccumulazione di capitale che non
assume una forma produttiva diretta, e che si è sovraccumulato per frenare i
limiti imposti dalla sovraccumulazione di capitale produttivo, raggiunge
proporzioni incompatibili col plusvalore totale che quest’ultimo può
estorcere alla forza lavoro.
Sviluppo
ineguale
Lo
sviluppo ineguale della crisi, per il quale molti le hanno attribuito un
carattere “locale”, e nel quale altri videro la possibilità di un
“controllo”, è in realtà un fattore di approfondimento della crisi stessa
e di acutizzazione dell’espropriazione dei paesi arretrati e della lotta
interimperialista. Il gigantesco processo di espropriazione della borghesia
giapponese da parte degli Usa in Asia (e nello stesso Giappone!), che permette
all’imperialismo yankee di posticipare la crisi all’interno delle proprie
frontiere, non fa nient’altro che ampliare le basi della crisi nel cuore del
capitalismo mondiale: l’inevitabile caduta del colosso capitalista assumerà
dimensioni tali da far sembrare gli attuali crolli di borsa delle piccole crisi
commerciali. L’apparente salute del capitalismo americano corrisponde a quella
di un malato terminale con ingenti dosi di morfina.
La
crisi si sviluppa in modo disuguale e combinato. E’ più intensa in Africa,
Asia, Europa orientale e America Latina che nei paesi imperialisti, nei quali ha
un’intensità variabile. Questo porta alcuni a considerare la crisi come
locale e altri a pensare che sia neutralizzabile. In realtà lo sviluppo
ineguale della crisi l’approfondisce. I tentativi imperialistici per liberarsi
dalla crisi aggravano le condizioni nelle semicolonie, negli stati operai e
negli ex stati operai e intensificano la competizione interimperialista: la
crisi che esternalizzano gli si rivolge contro.
Il
carattere combinato della crisi si esprime anche nel crollo economico del
Giappone e nell’inizio di un crollo in Europa occidentale. Questa
caratteristica si manifesterà tra breve in un crollo negli Usa. Il centro del
sistema imperialista è anche il centro della crisi. Per ora gli Usa manifestano
un’apparente immunità. Però, con l’intensificarsi della tormenta, in parte
come risultato del tentativo di evitarla, verranno coinvolti anche gli Usa. Allo
stato attuale la crisi è principalmente economica e sociale, ma le insurrezioni
rivoluzionarie in Albania e Indonesia mostrano, entro certi limiti, il loro
potenziale positivo per il futuro, così come le guerre in Bosnia e Kosovo
mostrano il loro potenziale negativo.
Carattere
della crisi
L’eccesso
di investimento è una tendenza economica del capitale, non una categoria
contabile dei conti nazionali. Può essere finanziato dall’esterno e creare un
debito estero o essere finanziata internamente e creare un indebitamento
interno. L’economia finanziaria ha avuto un’espansione non comune, come
dimostrato dalle quotazioni stratosferiche raggiunte dalle principali borse, dal
colossale aumento del debito pubblico dalla nascita dei fondi d’investimento,
specialmente di quelli pensionistici, dal mercato dei crediti derivati, i cui
contratti sono stimati in 40.000 miliardi di dollari a livello mondiale.
Il
crescente sviluppo della contraddizione tra la più rapida accumulazione del
capitale finanziario rispetto a quello produttivo, tra questo e il minore tasso
della produzione corrente, tra quest’ultima e il minore consumo delle masse,
tra la progressione geometrica della rendita finanziaria e il beneficio
produttivo ritardato, tra tutto questo e la profittabilità capitalistica
complessiva (non solo la profittabilità media, ma anche quella dei monopoli),
l’acutizzazione sempre più intensa dell’insieme di queste contraddizioni,
tutto ciò caratterizza la crisi attuale e la fase storica della decomposizione
capitalistica.
La
tendenza a una pauperizzazione assoluta delle masse, che era sconosciuta dalla
crisi degli anni Trenta e dalla guerra, è una fondamentale manifestazione delle
difficoltà straordinarie che patisce il processo di riproduzione del
capitalismo e costituisce per la generazione attuale delle masse un’esperienza
concreta sul destino storico del capitalismo. L’attuale capacità inutilizzata
dell’industria mondiale è la maggiore dal 1930, il che rappresenta un indice
evidente del blocco delle forze produttive e della maturità della
contraddizione tra queste e i rapporti capitalistici di produzione. La massiccia
distruzione delle industrie che ha accompagnato la restaurazione capitalistica
nell’ex-Urss, nella maggior parte dell’Europa dell’Est, e ora in Cina non
è nient’altro che una brutale manifestazione dell’enormità
dell’eccedenza di capitale accumulato rispetto alle sue possibilità di
benefici e di realizzazione; la centralizzazione “pacifica” dei capitali che
si verifica nel mercato mondiale assume forme violente e dispotiche quando
avviene nei territori degli ex-stati operai. Il fatto è che non ci troviamo di
fronte all’espropriazione di un capitalista da parte di un altro nella cornice
delle relazioni mercantili e della legge del valore, ma della confisca della
proprietà confiscata dalla rivoluzione ai capitalisti nella cornice di quella
che fu un’economia pianificata.
La
meccanica della crisi attuale mette a nudo il regime sociale antagonista di
quelli che furono gli ex-stati operai rispetto al regime capitalista mondiale.
Il saccheggio prodotto dalla restaurazione del capitalismo assume quindi la
forma di una contraddizione storica e mostra l’estensione e la profondità
della crisi mondiale.
Crisi
economica e crisi politica
La
politica è economia concentrata, però la relazione tra l’una e l’altra non
è certamente meccanica. La strategia democratizzatrice ha reso enormi benefici
all’imperialismo nordamericano. Gli ha permesso di far fronte alle crisi
rivoluzionarie prospettate dalla caduta dei regimi burocratici dell’Europa
orientale e della Russia. E’ il veicolo di una vasta penetrazione imperialista
negli stati ex-operai, in particolare in quelli dell’Europa orientale e in
Cina. La politica democratizzatrice è l’ariete con la quale l’imperialismo
cerca di abbattere il regime cubano, quella che ha permesso di seppellire le
situazioni rivoluzionarie in America centrale, in Sudafrica e nel Medio oriente.
Perfino nella stessa Europa la politica democratizzatrice ha avuto il suo ruolo,
come è dimostrato dagli “accordi di pace” che hanno affondato la lotta
nazionale irlandese. In America latina il ciclo democratizzatore è quello della
penetrazione finanziaria, economica e politica dell’imperialismo – e della
liquidazione delle conquiste sociali delle masse – più profonda di cui si
abbia memoria. La monopolizzazione economica del continente e la subordinazione
politica dei suoi regimi all’imperialismo nordamericano non ha precedenti.
Gli
Usa adottarono la politica democratizzatrice anche a causa delle loro
contraddizioni interne. La borghesia nordamericana portò avanti una riduzione
selvaggia del salario operaio e delle conquiste sociali dei lavoratori nel
quadro del reaganismo. Esauritosi il ciclo reaganiano, la borghesia ha ancora
dinanzi la cosiddetta “seconda generazione di riforme”: la privatizzazione
dei sistemi sanitari, pensionistici ed educativi e la distruzione della
sicurezza sociale. Di fronte a questi obiettivi gli attacchi clintoniani – con
una fraseologia “egualitarista” e con l’appoggio della burocrazia
sindacale – sono assai più efficaci per la borghesia della destra
repubblicana e religiosa. La politica democratizzatrice, l’inganno
democratico, è ancora praticabile perché le direzioni delle organizzazioni di
massa – la burocrazia sindacale, la socialdemocrazia, gli ex-stalinisti
convertiti, la sinistra democratizzatrice, e persino delle correnti che si
richiamano al trotskismo – sono integrate nella politica dell’imperialismo
“democratico”. Di fronte alla mancanza d’indipendenza politica del
proletariato la crescente polarizzazione sociale non si traduce in una
polarizzazione politica su assi classisti. In questo quadro la crescita delle
lotte operaie che si manifesta in Asia e, in forma meno marcata, in America
latina, Europa e Usa è un’ulteriore ragione perché la borghesia cerchi vie
d’uscita estreme. La burocrazia sindacale e i partiti della sinistra
democratizzatrice si sono rivelati infinitamente più efficaci della destra nel
far retrocedere e portare alla sconfitta le lotte degli sfruttati. E’
indubitabile, d’altra parte, che la crisi asiatica ha provocato la caduta
della dittatura di Suharto e un inizio di rivoluzione in Indonesia, è pure un
fatto che la crisi dell’Europa orientale (le “piramidi finanziarie”) ha
causato la crisi rivoluzionaria albanese, è anche vero che la crisi economica
ha ingrossato le fila di decine di migliaia gli scioperi operai e i sollevamenti
contadini in Cina, è parimenti certo che il cosiddetto “effetto samba”
provocò l’occupazione di fabbriche automobilistiche in Brasile, mutamenti di
rotta e la temporanea marcia indietro delle associazioni imperialiste nel
mantenimento dei licenziamenti di massa che già avevano messo in atto. In
Argentina, dal principio del declino del Piano Caballo vi sono stati il “santiaguenazo”,
il “cutralcazo” e il “jujenazo”, il governo di Menem e il perdonismo
sono fortemente divisi, c’è una costante, per quanto non uniforme,
radicalizzazione politica: chi può negare il non comune sciopero dei minatori
in Romania, che si sviluppò in risposta agli accordi col Fmi, senza
dimenticarsi l’importanza del movimento di massa in Francia dal 1995, né lo
sviluppo straordinario del movimento guerrigliero colombiano, molto vicino agli
Usa, da una parte, e di Cuba dall’altra, il cui progresso è andato di pari
passo con la crisi economica; in Russia si sviluppano lotte di resistenza della
classe operaia, anche negli Usa il riflusso sindacale è una cosa del passato,
come dimostrato dalle lotte dell’Ups, della General Motors, la difesa dei
licenziati della Caterpillar, lo sciopero dei piloti dell’aviazione. Gli
“esperti” attribuiscono la rinascita sindacale al basso livello di
disoccupazione statunitense, ma ciò che mobilita i lavoratori è la caduta dei
salari, la non comune flessibilità del lavoro, la precarietà degli impieghi,
insomma l’attacco cui i capitalisti si vedono obbligati a ricorrere per
superare la crisi economica. Esiste un’inversione di tendenza delle lotte
popolari internazionali in rapporto al decennio 1985-94.
Crisi
e centrosinistra
La
combinazione del rovescio economico con l’ascesa delle masse conduce la
borghesia a importanti cambiamenti politici, per cui con la formula del
“centrosinistra” si rinnovano, in forma destrorsa, le formule della
collaborazione di classe tipiche dei fronti popolari. I governi di
centrosinistra di collaborazione di classe accedono al potere nel complesso
quando da circoli capitalistici, ogni volta più vasti, si reclama
“regolamentazione” dei capitali per salvare se stessi, provvedimenti
pubblici contro la disoccupazione, bande di cambio organizzate tra le monete
principali: formazione di banche regionali per fare da contrappeso al Fmi.
Queste richieste non hanno a che vedere con la crisi solo nel suo aspetto
economico, ma soprattutto in quello “sociale”, cioè con la tendenza delle
masse a rispondere nuovamente con le lotte, siano operaie, contadine o
studentesche. Per quanto i
movimenti di maggior portata siano stati le mobilitazioni dei minatori della
Ruhr, all’inizio del 1997 e gli scioperi dei lavoratori statali, dei
camionisti e degli autisti in Francia, in diverse occasioni, ci sono pure stati
movimenti complessivi su scala europea e, nel caso del Belgio, una gigantesca
mobilitazione di massa, che ancora continua in forma organizzata, contro la
corruzione e la pedofilia ufficiali.
I
governi neoliberali o conservatori sono stati rimossi perché erano divenuti un
elemento di instabilità della situazione politica. I governi di centrosinistra
sono letteralmente obbligati a cercare di modificare le condizioni e la politica
che trasformò i suoi predecessori da fattori di stabilità in fattori
perturbativi, pena il rischio di finire nello stesso modo, con l’aggravante di
aver esaurito le soluzioni “moderate”. Ciò che ha trasformato i governi
conservatori in fattori di “disordine” è stato l’esaurimento della loro
politica neoliberale, l’approfondimento della crisi mondiale e la loro
incapacità di contenere le masse che reagiscono alla crisi.
Crisi
politica mondiale
La
crisi comprende il crollo irreversibile dello stalinismo nel 1989-91, l’ovvia
caduta del neoliberismo della destra e l’impossibilità, a causa della crisi
di sovraccumulazione di capitale, di tornare alle riforme di tipo
socialdemocratico tradizionale diretto dall’emergente nuovo del
“centrosinistra”. I governi capitalistici cercano di gestire la crisi
volgendola contro i lavatori, a beneficio del grande capitale.
In
Europa la maggior parte dei paesi è guidata da questa classe di governo, che
non solo non introduce riforme e concessioni, ma si rende anche responsabile di
attacchi contro le precedenti conquiste sociali della classe operaia e delle
controriforme. Il conflitto tra i bisogni sociali delle masse e le politiche dei
governi di centrosinistra diviene una fonte di tensioni politiche e di
instabilità in Italia, Francia, Germania o Grecia. L’Unione imperialista
europea, per far fronte alla crisi mondiale e alla concorrenza degli Usa, in
particolare con l’introduzione dell’Euro e la transizione verso l’Unione
monetaria, deve distruggere le cosiddette “rigidità e resistenze nel mercato
del lavoro” per introdurre la “deregolamentazione”, percorrendo la via
preventivamente percorsa nei paesi anglosassoni e cercare di superare le
disuguaglianze e i conflitti tra i differenti livelli e interessi nazionali. La
trasformazione dell’euforia iniziale per l’Euro nella sua crisi si deve non
solo ai fattori ciclici, ma anche quelli strutturali. Nonostante tutti i suoi
proclami, l’Europa rimane profondamente divisa secondo le linee nazionali. La
Banca centrale europea non può funzionare come la Federal Reserve degli Usa,
inoltre le divisioni tra i banchieri centrali, i governi nazionali e i circoli
dirigenti di ogni singolo paese impediscono all’Europa di minacciare
economicamente, così come militarmente e politicamente, l’egemonia americana.
Il fiasco europeo nei Balcani, da Dayton a Rambouillet, lo mostra chiaramente.
Per
gli Stati uniti socialisti d’Europa
Di
fronte all’impatto della crisi mondiale successiva al 1997, l’Europa
imperialista deve accelerare la sua ristrutturazione sociale distruggendo le
forme precedenti di regolazione degli antagonismi tra capitale e lavoro. Si
promuovono le coalizioni di centrosinistra per fare il lavoro sporco che i
partiti di destra borghese tradizionale sono incapaci di realizzare senza
suscitare una reazione di massa della classe operaia.
Tuttavia
queste formazioni politiche nate recentemente come prodotto della crisi entrano
a loro volta in crisi. In questa condizione in Francia l’accordo elettorale
Lo-Lcr per una lista comune alle elezioni europee del giugno 1999 avrebbe potuto
e dovuto rappresentare un appello alla lotta contro la borghesia europea, contro
le sue direzioni politiche e i provvedimenti sociali controrivoluzionari,
mostrando una via d’uscita socialista alla crisi basata su un programma di
transizione. Ciò che in realtà è successo è che hanno fallito nella
realizzazione. Da nessuna parte compare la prospettiva del socialismo, neppure
il termine, non si prospetta la parola d’ordine più vitale che mai degli
Stati uniti socialisti d’Europa, dell’Est e dell’Ovest.
Le
questioni: dobbiamo lottare per un’“Europa democratica” o piuttosto per
gli Stati uniti socialisti d’Europa? Dobbiamo lottare per l’espropriazione
del capitale o solo per “restringere” il libero movimento dei capitali e i
loro benefici “speculativi”? Tra queste due alternative non ci può essere
alcun compromesso. Il destino dei prossimi scontri sociali in Europa è legato a
questo. Un vero intervento rivoluzionario nelle elezioni europee dovrebbe
partire, indipendentemente dall’eventuale indicazione di voto per partiti
centristi o riformisti, dall’elaborazione e dalla proposta di una vera
piattaforma rivoluzionaria, senza nessuna concessione alla “festa” europea
della borghesia, e proponendo in primo luogo lotta contro gli stati e i governi
nazionali reazionari ai quali la “costruzione europea” vorrebbe servire da
schermo contro le masse. Questo dovrebbe essere il punto di partenza per un
programma di rivendicazioni transitorie che sfoci in misure di espropriazione
del capitale e nel governo indipendente dei lavoratori.
Per
l’unità mondiale degli sfruttati: per la Quarta Internazionale
In
America latina la tendenza a rispondere al gigantesco processo di espropriazione
economica e di alienazione politica mediante l’unità politica antimperialista
del continente, il risorgere della lotta per la terra, in particolare in
Brasile, Bolivia, Messico, Equador, la lotta dei disoccupati, le occupazioni
delle fabbriche in diversi paesi, mostrano il modo in cui questa unità può
concretizzarsi nel contesto della crisi attuale. La lotta per una conferenza
operaia e contadina del Mercosur, già proposta in riunioni promosse nel quadro
di una Conferenza operaia e della sinistra dev’essere sviluppata come punto
d’appoggio decisivo per promuovere l’autonomia di classe e l’alleanza
operaia e contadina, condizioni di una lotta antimperialista profonda e di largo
respiro. Il risorgere delle tendenze nazionaliste, come Chàvez in Venezuela o
simili in Brasile, non significa che ci troviamo di fronte alla prospettiva di
un ciclo nazionalista come quello passato: a causa del completo intreccio della
borghesia con l’imperialismo le tendenze (comprese quelle “di sinistra”)
debuttano già capitolando apertamente di fronte all’imperialismo. La
prospettiva degli Stati uniti socialisti dell’America latina si alza
nuovamente come arma strategica per rompere la base storica dell’imperialismo
nordamericano, costituendo un aspetto essenziale della lotta anticapitalista su
scala mondiale.
Il
flagello della disoccupazione ha una portata mondiale e unifica tutte le
tendenze della decomposizione nella fase attuale. La lotta per l’occupazione
ha, per questo motivo, un carattere mondiale oggettivo e immediato, essendo la
leva decisiva per unificare la classe operaia di ogni paese a livello
internazionale. Le politiche della settimana lavorativa di 35 ore, sostenute
soprattutto dal centrosinistra europeo, ogni giorno di più si rivelano essere
uno specchietto per allodole per sviare le lotte e introdurre la contrazione
salariale, il lavoro a tempo determinato, il mancato pagamento degli
straordinari e la flessibilità del lavoro. Contro questa politica, contro i
licenziamenti e contro la complicità delle burocrazie sindacali dev’essere
avanzata la parola d’ordine del “lavoro per tutti”, distribuendo le
ore di lavoro esistenti tra tutti i lavoratori, senza nessuna riduzione
salariale. Questo solleva oggettivamente il problema del controllo operaio della
produzione e dell’unità internazionale dei lavoratori: una conferenza
internazionale contro la disoccupazione e in difesa dei lavoratori dovrebbe
essere l’obiettivo di tutte le direzioni operaie conseguenti, e deve essere
avanzato come l’obiettivo specifico di una campagna mondiale.
Nel
quadro di questa e di altre lotte la questione dell’unità politica
internazionale dei lavoratori si pone all’ordine del giorno di tutte le
organizzazioni che lottano. L’obiettivo dell’Internazionale operaia deve
essere cosciente e difeso coscientemente mediante l’elaborazione di un
programma di transizione e la costruzione di un’organizzazione. Non si tratta
di costituire una nuova tendenza internazionale di illuminati che difenda le sue
peculiari verità e si dedichi a un interminabile regolamento di conti coi suoi
avversari reali o immaginari, ma della costruzione di uno strumento necessario
per la vittoria mondiale della classe operaia e di tutti gli sfruttati.
Questa
internazionale può essere costruita solo in continuità con la lotta secolare
dei lavoratori e dell’assimilazione di tutte le loro conquiste teoriche e
programmatiche concretizzatesi nell’opera dei loro migliori pensatori e
militanti (cominciando da Marx) e nei programmi delle loro internazionali, fino
ad arrivare all’espressione più recente e attuale nel programma e nel metodo
della Quarta Internazionale. La battaglia conseguente per tutti gli obiettivi
immediati degli sfruttati, pertanto, può avere delle prospettive se assume una
forma cosciente e politicamente organizzata attraverso la rifondazione immediata
della Quarta Internazionale.
Atene,
10 marzo 1999.
Firmatari: Partido
obrero (Argentina) • Oposición trotskista (Bolivia) • Partido
de los trabajadores (Uruguay) • Partido da causa operária
(Brasile) • Trotskyist league (Usa) • Associazione marxista rivoluzionaria
“Proposta” (Italia) • Partito rivoluzionario dei lavoratori (Grecia)
• British Ito (Gran Bretagna) • Colectivo “En defensa del
marxismo” (Spagna).