L'INCONTRO DI ATENE

(marzo 1999)

 

INTRODUZIONE 

Si è svolto ad Atene dal 6 al 10 marzo scorsi un nuovo incontro internazionale convocato dalle organizzazioni che si battono per la rifon­dazione della Quarta Internazionale. Come i lettori di “Proposta” sanno si tratta di una battaglia iniziata nel 1997 e di cui abbiamo riferito i precedenti momenti di dibattito sulla nostra rivista (si veda, da ultimo, “Proposta” n. 22 del novembre ’98).

Nella precedente riunione del maggio ’98 a Bue­nos Aires le organizzazioni promotrici aveva­no deciso di prospettare una riunione a carattere più ampio, nella forma di una “Confe­renza operaia e della sinistra di classe”. Il senso di questa scelta è da intendere nella volontà di portare la battaglia per la rifondazio­ne della Quarta Internazionale sul terreno più ampio possibile dell’avanguardia del proletariato.

Come già abbiamo affermato è questo il concet­to che ispira l’azione del nostro rag­grup­pamen­to internazionale: la rifondazione della Quarta Internazionale non è una questione “particolare” di una serie di organizzazioni trotskiste, conseguenti nella loro azione politica, ma la risposta organizzativa e politica all’attuale assenza di direzione rivoluzionaria del movimento proletario. Per cui è necessario ed utile chiamare al confronto e cercare di convincere della necessità di tale prospettiva tutte le forze che realmente si pongono sul terreno di un’alternativa di classe al capitalismo, combinando il rifiuto di ogni settarismo di parrocchia con la fermezza sui principi generali. Metodo del resto che riteniamo sia quello che ha espresso “Proposta” nella sua azione in Italia.

Su queste basi si è svolta nel dicembre del ’98 una preconferenza latinoamericana che ha visto la partecipazione oltre che delle organizzazioni promotrici, del principale dirigente della importante sinistra del Partito dei lavoratori (Pt) del Brasile (nota 1), Valter Pomar, e di due dei tre principali dirigenti del Movimento dei lavoratori rurali senza terra (Mst, Movimiento dos sem terra), il conosciuto movimento di massa di occupazione dei latifondi brasiliani. Inoltre erano presenti settori sindacali di classe brasiliani, in particolare di provenienza dalle file del Partito comunista.

La partecipazione

La conferenza vera e propria si è svolta, come abbiamo indicato, dal 6 al 10 marzo ad Atene. Ad essa hanno partecipato le seguenti organizzazioni promotrici: Partito operaio (Po, Argentina), Partito della causa operaia (Pco, Brasile), Partito operaio rivoluzionario (Eek, Grecia), Opposizione trotskista (Ot, Bolivia), Collettivo “En defensa del marxismo” (Cedm, Spagna), e infine la corrente cui appartiene l’Associazione marxista rivoluzionaria “Proposta” e cioè l’Opposizione trotskista internazionale (Oti) che ha gruppi e militanti in Italia, Usa, Gran Bretagna, India, Germania e Danimarca (l’Oti era presente in quanto tale, come tendenza internazionale, sia con tre delle sue sezioni: italiana, Amr Proposta; Usa, Lega trotskista; e Britannica).

Il Partito dei lavoratori (Pt) di Uruguay che è partecipe del raggruppamento internazionale per la rifondazione della Quarta non ha potuto presenziare alla riunione per motivi finanziari ma ne ha successivamente condiviso e firmato le risoluzioni. Fra le organizzazioni e le personalità osservatrici vi erano: Valter Pomar, vice-presidente del Partito dei lavoratori del Brasile e leader della sua sinistra; l’organizzazione francese Voix des travailleurs (Vdt, voce dei lavoratori), una corrente proveniente da Lutte ouvrière; la Lega operaia marxista di Turchia; la sezione greca del Comitato per un’Internazionale dei lavoratori (Cwi, tendenza trotskista di cui la principale sezione è il Socialist party, ex Militant, in Gran Bretagna) in rappresentanza della tendenza internazionale; il Movimento della nuova sinistra (Nar) di Grecia, nato dalla rottura del gruppo dirigente della gioventù comunista greca con il partito quando alcuni anni fa esso si alleò alla destra in funzione anti Papandreu; infine, sempre dalla Grecia, il piccolo gruppo trotskista Potere operaio.

L’organizzazione francese Lutte ouvrière ha inviato le sue scuse per non poter essere presente nei giorni della riunione in funzione anche della preparazione della campagna elettorale per le europee. Una compagna del suo Ufficio politico ha tuttavia effettuato alcuni giorni prima della riunione una visita in Grecia allo scopo specifico di realizzare un incontro con i nostri compagni dell’Eek. E’ giunto alla conferenza anche il messaggio di saluto inviato dal Comitato per la costruzione di un partito operaio, gruppo cileno che si è recentemente costituito sulle basi politiche del movimento per la rifondazione della Quarta Internazionale. Da segnalare infine che alcuni settori critici del cosiddetto Segretariato unificato della Quarta Internazionale e il gruppo trotskista russo Democrazia operaia non hanno potuto partecipare per importanti scadenze nazionali, motivi finanziari, ecc.

La discussione si è sviluppata con toni fraterni ma franchi, in particolare su alcuni punti d’analisi della situazione internazionale. Alla fine sono stati approvati all’unanimità un documento generale sulla situazione internazionale dal titolo “Per costruire l’Internazionale operaia: rifondare la Quarta Internazionale”, e alcune altre dichiarazioni: tra esse una per la libertà di Ocalan e in sostegno alla lotta del popolo kurdo e una, riguardante l’Italia, di critica alla scelta del Prc di sviluppare un fronte unico con la Lega Nord per il referendum di aprile e al voto di Livio Maitan (dirigente storico del Secretariato unificato rappresentante di Bandiera rossa nella Direzione nazionale di Rifondazione comunista) a favore di questa scelta, scelta giudicata contraria ad ogni considerazione di classe e perfino di democratica reale.

Riproduciamo in questo numero della rivista il documento principale. Su di esso si è sviluppato ad Atene un ampio confronto. Nel precedente incontro di Buenos Aires (come riferito in “Proposta” n. 22) l’Oti e l’Amr Proposta avevano sottoscritto il documento finale accompagnandolo però con una lunga dichiarazione di puntualizzazione. Il nostro dissenso si focalizzava sul fatto che il documento enfatizzava eccessivamente il carattere “catastrofico” della crisi capitalistica (che pur riconosciamo esistere, come ben sanno i nostri lettori) e il suo provocare risposte rivoluzionarie di massa (pur esistenti: Indonesia, Albania, Corea, ecc.). Certamente il testo indicava che senza la costruzione di una direzione rivoluzionaria le potenzialità della situazione non potevano evolversi positivamente (senza questo elemento politico essenziale non avrebbe potuto esserci il nostro sostegno neppure critico). Tuttavia abbiamo ritenuto essenziale riaffermare chiaramente i nostri punti di dissenso rispetto ad analisi troppo semplificate e, in astratto, foriere di errate valutazioni politiche (cosa già accaduta, purtroppo, anche nella storia del movimento marxista rivoluzionario).

Il punto centrale

Ad Atene abbiamo ritenuto invece di poter firmare il testo conclusivo senza dichiarazioni particolari. Questo non perché anche in esso non si riscontrino elementi di quella semplificazione da noi criticata in passato; ma perché certamente riteniamo che – anche grazie all’accettazione della maggioranza degli emendamenti da noi proposti – vi sia un’enfatizzazione minore. L’indicazione che “di fronte alla mancanza d’indipendenza politica del proletariato la crescente polariz­za­zione sociale non si traduce in una pola­rizza­zione politica su assi classisti” rappresenta il concetto centrale del documento ed il problema a cui bisogna dare assolutamente soluzione, a partire dalla battaglia per una politica conseguentemente rivoluzionaria nell’avanguardia proletaria.

Questo spiega anche la forte critica contenuta nel testo alla piattaforma elettorale di Lutte ouvrière-Ligue communiste révolutionnaire (Lo-Lcr) in Francia. Il risultato della lista trotskista in Francia (sostenuta oltre che dalle due organizzazioni coalizzate anche dai compagni di Voix des Travailleurs e naturalmente dalle due minoranze di sinistra presenti sia nella Lcr che in Lo, tutte forze con cui noi siamo in fraterna discussione) è un dato importante. Oltre il 5% degli/lle elettori/trici hanno espresso il loro sostegno ad una opzione che appariva chiaramente di opposizione di classe al governo Jospin. Ciò non toglie che il programma elettorale contenesse ambiguità rispetto alla prospettiva complessiva, derivate in larga misura dalle concessioni fatte da Lo – la forza largamente dominante della coalizione – alla maggioranza della Lcr. Questa rivendica l’utopia dell’“Eu­ropa sociale” (in maniera analoga a quanto fa in Italia l’area raccolta intorno alla rivista “Bandiera rossa”). Naturalmente non è per questo che gli elettori di sinistra francesi si sono indirizzati verso la lista trotskista. E tuttavia non cogliere l’occasione delle elezioni per avanzare con chiarezza una proposta che cercasse di elevare la coscienza di massa fino alla comprensione della necessità – come unica soluzione realistica alla crisi sociale – della rivoluzione socialista è stato un elemento che ha limitato il significato del successo.

E’ necessaria invece l’assoluta chiarezza su questo terreno (e quello della Francia è solo un esempio che ha un valore emblematico generale). Solo su tali basi sarà infatti possibile superare lo iato esistente tra le potenzialità presenti e i limiti della coscienza delle masse e della stessa avanguardia.

E’ questa la battaglia per la costruzione di una nuova direzione rivoluzionaria, per l’Internazionale operaia. Ma appunto, come dimostra la storia ormai ultrasecolare del movimento operaio, “senza teoria rivoluzionaria non c’è movimento rivoluzionario” (Lenin). E’ per questo che il compito di costruzione dell’Internazionale operaia si confonde e si identifica – anche alla luce delle drammatiche vicende del movimento comunista dei questo secolo – con la rifondazione della Quarta Internazionale. Ed è questo il terreno che sempre più chiaramente questa rivista e l’Associazione marxista rivoluzionaria proporranno ai militanti comunisti anche nel nostro paese, come sviluppo conseguente della loro lotta contro il capitalismo e contro il rifor­mi­smo illusorio e fallimentare.

Nota

1. Il Pt è il noto partito di massa della sinistra brasiliana, il cui principale dirigente è Ignazio Luis Da Silva detto “Lula”. Il Pt esprime un programma e un progetto di tipo riformistico. Al suo interno esiste una consistente opposizione di sinistra che raggruppa varie correnti: la sua forza congressuale varia da oltre un terzo alla metà dell’insieme del partito. Questo non solo in relazione ai vari congressi ma anche al fatto che si consideri parte della sinistra la corrente Democrazia socialista, equivalente brasiliano del gruppo italiano di “Bandiera rossa” (Maitan-Turigliatto) che, come i suoi omologhi nostrani, oscilla da congresso a congresso tra lo schierarsi con la sinistra o appoggiare i riformisti verso cui, nella realtà del suo opportunismo, tende.


Il documento finale dell’incontro di Atene

PER  COSTRUIRE  L’INTERNAZIONALE  OPERAIA: RIFONDARE  LA  QUARTA  INTERNAZIONALE

Gli avvenimenti dell’ultimo anno hanno confermato, oltre ogni dubbio, il carattere storico, ossia non congiunturale né ciclico, dell’attuale crisi capitalistica mondiale. Superando tutte le barriere geografiche – dal sudest asiatico al Giappone, dalla Russia al Brasile e tutto il cono sud latinoamericano – la realtà della crisi s’impone come un dato immediato a tutti i paesi e a tutte le classi sociali. Tutte le teorie relative al carattere “locale” delle diverse crisi sono state spazzate via dagli avvenimenti. Lo sono state anche quelle che vedono la crisi come un prodotto degli errori dei maghi della politica economica, e non come una manifestazione dell’insieme delle contraddizioni del capitale e delle sua tendenza storica verso l’autodistruzione. Il fatto che ci sia una crisi di sovrap­produzione e di sovrainvestimento quando i livelli di miseria e di pauperizzazione, anteriori alla crisi, si sono estesi nel mondo, dimostra che siamo di fronte a una grande crisi di società, e cioè universale. In un periodo storico in cui crescono i bisogni sociali il capitale mondiale entra in una fase di bancarotta acuta. Mentre le masse mondiali vivono la siccità, il capitale mondiale vive l’inondazione.  

Conferma di una prospettiva

Riunite nove mesi or sono a Buenos Aires, le organizzazioni e i partiti che hanno convocato da questa conferenza, già avvertivano: “Quelle che si definiscono peculiarità asiatiche – l’estrema fusione tra il capitale bancario e industriale; l’intreccio profondo tra il capitale privato e lo stato – è la tendenza generale del capitalismo mondiale attraverso le fusioni, le acquisizioni e le ristrutturazioni. Proprio per questo la crisi asiatica si può caratterizzare come un’espressione concentrata della crisi del sistema capitalistico mondiale.

“La contraddizione fra lo sviluppo internazionale raggiunto dalle forze produttive e il carattere ancora nazionale dei capitali, delle monete e degli stati sta alla base della crisi attuale, che rivela così il suo carattere mondiale; non di questo o quel “modello” o di questa o quella “politica”, ma del regime sociale capitalistico in quanto tale”. Questa prospettiva è stata confermata dai fatti.

Fallimento della “globalizzazione” capitalistica

La cosiddetta “globalizzazione” che aspirava, mediante la completa liberalizzazione dei movimenti di capitale, nientemeno che all’armonizzazione mondiale delle condizioni di sfruttamento capitalista, ha finito per generare squilibri economici mostruosi e una fragilità economica senza precedenti, al punto che alcuni dei suoi beneficiari (Soros!) chiedono un ritorno alle regolamentazioni e a politiche di stampo keynesiano, in tempi in cui la stessa crisi ha eroso la base per questa via d’uscita.

La globalizzazione si propose di superare un regime caratterizzato dalla subordinazione di tutte le monete nazionali al dollaro a un livello mai visto prima, e cioè dalla sottomissione dei regimi monetari di ogni paese alla politica monetaria della Federal Reserve. Questo regime ha fomentato il periodo della speculazione internazionale, permettendo, dal punto di vista della politica monetaria, la crescita delle borse, i debiti esteri, la gigantesca ondata di investimenti finanziati per mezzo dei crediti. La subordinazione al dollaro fornì una relativa garanzia internazionale alla speculazione nelle diverse monete nazionali. Perché questo funzioni adeguatamente la moneta che opera come garanzia di valore nella circolazione internazionale deve essere una moneta realmente internazionale. Tuttavia il dollaro è anzitutto la moneta degli Usa, è un’arma della borghesia nordamericana nella lotta e nella concorrenza coi capitali degli altri paesi. Non è una moneta universale. Questa contraddizione ha spezzato il processo asiatico, poiché le monete di questi paesi erano legate finanziariamente al dollaro, ma il loro commercio era legato al Giappone. Le svalutazioni asiatiche furono la prima manifestazione di una rottura internazionale delle monete nazionali con il dollaro, di una minaccia del cedimento del dollaro come moneta finanziaria internazionale a causa della concorrenza dei paesi che svalutano le loro monete. La speculazione, invece di valorizzare i capitali, abbatte le borse, produce una fuga dei capitali speculativi, un ritiro del denaro dalla circolazione mondiale e, in conseguenza di ciò, sviluppa una crisi mondiale. Il capitalismo non può darsi questa universalità a cui fittiziamente aspira. Il capitale continua a essere una forma nazionale e particolare di appropriazione della ricchezza. Non è una forma né collettiva né internazionale. Le più serie conseguenze di questo fenomeno si manifesteranno negli Usa, che hanno fatto leva sul fatto che il dollaro è una moneta internazionale per sussidiare tutte le loro industrie e pagare il deficit di conto corrente con l’emissione di denaro e la creazione di un gigantesco debito internazionale in dollari.

Assistiamo ad una crisi con conseguenze internazionali perché non è stata fabbricata in Asia, ma è la conseguenza di un lungo sviluppo che risale alla seconda guerra mondiale.

Il mito della “fine del comunismo”

Questo crollo comprende il tentativo di uscire dalla crisi attraverso la ricolonizzazione imperialista degli antichi stati operai burocratizzati. Nel 1990, come conseguenza della caduta del muro di Berlino, la Germania occidentale assorbì la Germania orientale e il capitalismo mondiale risolse la più grave crisi politica del dopoguerra a suo beneficio. Ebbene: questa soluzione è stata la base economica dell’espansione speculativa dell’ultimo decennio.

Al capitalismo si presentò l’opportunità della colonizzazione della Russia, della Cina e dell’Europa dell’Est, paesi che si erano sottratti al controllo dell’economia mondiale capitalista a seguito dei processi rivoluzionari. Il mercato russo, in principio, avrebbe dovuto risolvere la crisi capitalistica di eccesso di investimento. A fronte delle dimensioni del mercato da rifornire si sarebbe potuto dare un’occasione di sopravvivenza al capitalismo, e lo stesso si può dire, su scala molto maggiore, per il mercato cinese.

La cosiddetta “globalizzazione” è stato proprio un tentativo di fermare per molto tempo la tendenza alla svalorizzazione dei capitali, al cui fine fu lanciata un’intensa campagna di apertura dei mercati mediante le privatizzazioni e l’abbattimento delle barriere protezionistiche nei “paesi emergenti”. Però il centro di questa politica era la penetrazione su larga scala in Cina e nell’ex-Urss. La prospettiva di raggiungere questi obiettivi alimentò la valorizzazione in borsa dei capitali, soprattutto a New York. A chi ritiene che il capitalismo abbia una via d’uscita bisogna ricordare che la “globalizzazione” è stato precisamente un tentativo di via d’uscita; ma nel mentre la crisi mondiale non ha progredito in forma lineare, ma a salti, cioè aggirando i diversi tentativi del capitalismo di superarla e dischiudere un periodo di espansione sostenuta del capitale. La debacle russa e la crisi generalizzata che inizia a coinvolgere la Cina hanno fatto crollare questa prospettiva.

Come un boomerang, da via d’uscita per il capitalismo, Russia e Cina si sono trasformate in un fattore supplementare e decisivo della sua crisi. Questo perché il loro reinserimento nel mercato mondiale e la completa reintroduzione delle categorie mercantili si possono realizzare solo con metodi capitalistici, che implicano la distruzione delle forze produttive, la pauperizzazione di massa e la riproduzione su scala allargata di tutte le sue contraddizioni. Questa analisi teorica è stata confermata dalla crisi russa di agosto, che diede il via a un periodo di recessione in numerosi paesi che erano stati meno colpiti dalla crisi asiatica, specialmente in Europa dell’Est e in America del Sud.

La stessa crisi russa provocò, per la prima volta dal 1987, la possibilità di una bancarotta delle grandi banche del mondo, colpite dal fallimento del fondo speculativo Ltcm, compromesso da contratti derivati di quasi un miliardo e mezzo di dollari. I prezzi delle materie prime precipitarono, fatto che contribuì per la prima volta nel dopoguerra, a far ridurre nel 1998 il commercio internazionale del 2% in termini di valore. La metà delle nazioni sono in recessione. Prima ad agosto, come conseguenza della crisi russa, poi a ottobre a causa del fallimento del Ltcm, più tardi in dicembre e in gennaio, la crisi mondiale ha incominciato a manifestarsi appieno in Brasile, dal cui mercato dipendono ingenti capitali nordamericani. La svalutazione del Real ha avuto origine nonostante un pacchetto “preventivo” di 41.000 milioni di dollari del Fmi. Mentre la crisi russa ha messo a rischio di svalorizzazione e fallimento capitali prestati e contratti di assicurazione o derivati dell’ordine di 300.000 milioni di dollari, la crisi brasiliana minaccia valori di circa un miliardo e mezzo di dollari, solo considerando il Mercosur. Oltre a ciò si ipotizza a breve scadenza la prospettiva di un crollo della Cina e l’accentuarsi della crisi in Giappone, che sta attraversando una depressione economica più importante, in termini di durata, di quella degli anni Trenta. Le ex nazioni sovietiche e la Cina, invece che attenuare la crisi capitalista mediante l’assorbimento di merci e di capitali, come successe dopo la caduta delle borse nel 1987, la stanno accentuando.

Crisi finanziaria e crisi capitalistica

I blocchi economici costruiti dal capitalismo per arrestare la crisi non resistono allo svilupparsi di quest’ultima. La crisi brasiliana ha provocato la spettacolare svalutazione del Real, di fronte a una fuga di capitali superiore a 60.000 milioni di dollari, e simultaneamente la dollarizzazione completa dell’economia argentina, facendo esplodere il Mercosur e la sua prospettiva di una “moneta unica” sudamericana, sull’esempio del celebrato Euro. Tutti i progetti capitalistici non resistono allo sviluppo impetuoso delle loro tendenze parassitarie e contraddittorie.

Lo sviluppo del cosiddetto settore finanziario sottosta alla necessità del capitalismo di superare la propria contraddizione di base che si riproduce incessantemente. Si oppone al capitale produttivo come un fratello siamese all’altro… Lo sviluppo del sistema creditizio e delle banche, delle società per azioni e dei mercati valutari, lo sdoppiamento del capitale in produttivo e finanziario, la centralizzazione dei capitali e il sistema del debito pubblico, l’apparizione del capitale fittizio: tutto ciò obbedisce alla necessità del capitale nel suo insieme di superare i limiti che si oppongono alla sua riproduzione infinita. Questi limiti sono da un lato il consumo personale relativamente limitato delle masse di fronte a una capacità produttiva crescente, dall’altro la strettoia rappresentata dalla produzione per il profitto privato di fronte al costante rivoluzionamento della tecnica e dei metodi di produzione (tendenza alla caduta del saggio di profitto e all’estensione della legge del valore). In sintesi “il limite del capitale è il capitale stesso”. Lo sviluppo finanziario facilita il passaggio del capitale da un ramo produttivo sovrasviluppato o non profittevole a un altro in via di sviluppo che offre maggiori profitti, mobilita con maggiore rapidità questi capitali, aiuta a superare all’interno dei propri limiti la contraddizione tra la creazione e la distruzione di capitali (assorbimenti), estende i limiti del consumo al di là dei salari che paga ai lavoratori, sviluppa un’accumulazione del capitale stesso (fittizia) che agisce come un credito sui generis sia per la produzione, sia per il consumo. Questo sviluppo (parassitario perché non crea valore) agisce come fattore di freno per la crisi capitalistica fino a quando non si trasforma nel principale fattore della sua esplosione. Questo succede quando la sovraccumulazione di capitale che non assume una forma produttiva diretta, e che si è sovraccumulato per frenare i limiti imposti dalla sovraccumulazione di capitale produttivo, raggiunge proporzioni incompatibili col plusvalore totale che quest’ultimo può estorcere alla forza lavoro.

Sviluppo ineguale

Lo sviluppo ineguale della crisi, per il quale molti le hanno attribuito un carattere “locale”, e nel quale altri videro la possibilità di un “controllo”, è in realtà un fattore di approfondimento della crisi stessa e di acutizzazione dell’espropriazione dei paesi arretrati e della lotta interimperialista. Il gigantesco processo di espropriazione della borghesia giapponese da parte degli Usa in Asia (e nello stesso Giappone!), che permette all’imperialismo yankee di posticipare la crisi all’interno delle proprie frontiere, non fa nient’altro che ampliare le basi della crisi nel cuore del capitalismo mondiale: l’inevitabile caduta del colosso capitalista assumerà dimensioni tali da far sembrare gli attuali crolli di borsa delle piccole crisi commerciali. L’apparente salute del capitalismo americano corrisponde a quella di un malato terminale con ingenti dosi di morfina.

La crisi si sviluppa in modo disuguale e combinato. E’ più intensa in Africa, Asia, Europa orientale e America Latina che nei paesi imperialisti, nei quali ha un’intensità variabile. Questo porta alcuni a considerare la crisi come locale e altri a pensare che sia neutralizzabile. In realtà lo sviluppo ineguale della crisi l’approfondisce. I tentativi imperialistici per liberarsi dalla crisi aggravano le condizioni nelle semicolonie, negli stati operai e negli ex stati operai e intensificano la competizione interimperialista: la crisi che esternalizzano gli si rivolge contro.

Il carattere combinato della crisi si esprime anche nel crollo economico del Giappone e nell’inizio di un crollo in Europa occidentale. Questa caratteristica si manifesterà tra breve in un crollo negli Usa. Il centro del sistema imperialista è anche il centro della crisi. Per ora gli Usa manifestano un’apparente immunità. Però, con l’intensificarsi della tormenta, in parte come risultato del tentativo di evitarla, verranno coinvolti anche gli Usa. Allo stato attuale la crisi è principalmente economica e sociale, ma le insurrezioni rivoluzionarie in Albania e Indonesia mostrano, entro certi limiti, il loro potenziale positivo per il futuro, così come le guerre in Bosnia e Kosovo mostrano il loro potenziale negativo.

Carattere della crisi

L’eccesso di investimento è una tendenza economica del capitale, non una categoria contabile dei conti nazionali. Può essere finanziato dall’esterno e creare un debito estero o essere finanziata internamente e creare un indebitamento interno. L’economia finanziaria ha avuto un’espansione non comune, come dimostrato dalle quotazioni stratosferiche raggiunte dalle principali borse, dal colossale aumento del debito pubblico dalla nascita dei fondi d’investimento, specialmente di quelli pensionistici, dal mercato dei crediti derivati, i cui contratti sono stimati in 40.000 miliardi di dollari a livello mondiale.

Il crescente sviluppo della contraddizione tra la più rapida accumulazione del capitale finanziario rispetto a quello produttivo, tra questo e il minore tasso della produzione corrente, tra quest’ultima e il minore consumo delle masse, tra la progressione geometrica della rendita finanziaria e il beneficio produttivo ritardato, tra tutto questo e la profittabilità capitalistica complessiva (non solo la profittabilità media, ma anche quella dei monopoli), l’acutizzazione sempre più intensa dell’insieme di queste contraddizioni, tutto ciò caratterizza la crisi attuale e la fase storica della decomposizione capitalistica.

La tendenza a una pauperizzazione assoluta delle masse, che era sconosciuta dalla crisi degli anni Trenta e dalla guerra, è una fondamentale manifestazione delle difficoltà straordinarie che patisce il processo di riproduzione del capitalismo e costituisce per la generazione attuale delle masse un’esperienza concreta sul destino storico del capitalismo. L’attuale capacità inutilizzata dell’industria mondiale è la maggiore dal 1930, il che rappresenta un indice evidente del blocco delle forze produttive e della maturità della contraddizione tra queste e i rapporti capitalistici di produzione. La massiccia distruzione delle industrie che ha accompagnato la restaurazione capitalistica nell’ex-Urss, nella maggior parte dell’Europa dell’Est, e ora in Cina non è nient’altro che una brutale manifestazione dell’enormità dell’eccedenza di capitale accumulato rispetto alle sue possibilità di benefici e di realizzazione; la centralizzazione “pacifica” dei capitali che si verifica nel mercato mondiale assume forme violente e dispotiche quando avviene nei territori degli ex-stati operai. Il fatto è che non ci troviamo di fronte all’espropriazione di un capitalista da parte di un altro nella cornice delle relazioni mercantili e della legge del valore, ma della confisca della proprietà confiscata dalla rivoluzione ai capitalisti nella cornice di quella che fu un’economia pianificata.

La meccanica della crisi attuale mette a nudo il regime sociale antagonista di quelli che furono gli ex-stati operai rispetto al regime capitalista mondiale. Il saccheggio prodotto dalla restaurazione del capitalismo assume quindi la forma di una contraddizione storica e mostra l’estensione e la profondità della crisi mondiale.

Crisi economica e crisi politica

La politica è economia concentrata, però la relazione tra l’una e l’altra non è certamente meccanica. La strategia democratizzatrice ha reso enormi benefici all’imperialismo nordamericano. Gli ha permesso di far fronte alle crisi rivoluzionarie prospettate dalla caduta dei regimi burocratici dell’Europa orientale e della Russia. E’ il veicolo di una vasta penetrazione imperialista negli stati ex-operai, in particolare in quelli dell’Europa orientale e in Cina. La politica democratizzatrice è l’ariete con la quale l’imperialismo cerca di abbattere il regime cubano, quella che ha permesso di seppellire le situazioni rivoluzionarie in America centrale, in Sudafrica e nel Medio oriente. Perfino nella stessa Europa la politica democratizzatrice ha avuto il suo ruolo, come è dimostrato dagli “accordi di pace” che hanno affondato la lotta nazionale irlandese. In America latina il ciclo democratizzatore è quello della penetrazione finanziaria, economica e politica dell’imperialismo – e della liquidazione delle conquiste sociali delle masse – più profonda di cui si abbia memoria. La monopolizzazione economica del continente e la subordinazione politica dei suoi regimi all’imperialismo nordamericano non ha precedenti.

Gli Usa adottarono la politica democratizzatrice anche a causa delle loro contraddizioni interne. La borghesia nordamericana portò avanti una riduzione selvaggia del salario operaio e delle conquiste sociali dei lavoratori nel quadro del reaganismo. Esauritosi il ciclo reaganiano, la borghesia ha ancora dinanzi la cosiddetta “seconda generazione di riforme”: la privatizzazione dei sistemi sanitari, pensionistici ed educativi e la distruzione della sicurezza sociale. Di fronte a questi obiettivi gli attacchi clintoniani – con una fraseologia “egualitarista” e con l’appoggio della burocrazia sindacale – sono assai più efficaci per la borghesia della destra repubblicana e religiosa. La politica democratizzatrice, l’inganno democratico, è ancora praticabile perché le direzioni delle organizzazioni di massa – la burocrazia sindacale, la socialdemocrazia, gli ex-stalinisti convertiti, la sinistra democratizzatrice, e persino delle correnti che si richiamano al trotskismo – sono integrate nella politica dell’imperialismo “democratico”. Di fronte alla mancanza d’indipendenza politica del proletariato la crescente polarizzazione sociale non si traduce in una polarizzazione politica su assi classisti. In questo quadro la crescita delle lotte operaie che si manifesta in Asia e, in forma meno marcata, in America latina, Europa e Usa è un’ulteriore ragione perché la borghesia cerchi vie d’uscita estreme. La burocrazia sindacale e i partiti della sinistra democratizzatrice si sono rivelati infinitamente più efficaci della destra nel far retrocedere e portare alla sconfitta le lotte degli sfruttati. E’ indubitabile, d’altra parte, che la crisi asiatica ha provocato la caduta della dittatura di Suharto e un inizio di rivoluzione in Indonesia, è pure un fatto che la crisi dell’Europa orientale (le “piramidi finanziarie”) ha causato la crisi rivoluzionaria albanese, è anche vero che la crisi economica ha ingrossato le fila di decine di migliaia gli scioperi operai e i sollevamenti contadini in Cina, è parimenti certo che il cosiddetto “effetto samba” provocò l’occupazione di fabbriche automobilistiche in Brasile, mutamenti di rotta e la temporanea marcia indietro delle associazioni imperialiste nel mantenimento dei licenziamenti di massa che già avevano messo in atto. In Argentina, dal principio del declino del Piano Caballo vi sono stati il “santiaguenazo”, il “cutralcazo” e il “jujenazo”, il governo di Menem e il perdonismo sono fortemente divisi, c’è una costante, per quanto non uniforme, radicalizzazione politica: chi può negare il non comune sciopero dei minatori in Romania, che si sviluppò in risposta agli accordi col Fmi, senza dimenticarsi l’importanza del movimento di massa in Francia dal 1995, né lo sviluppo straordinario del movimento guerrigliero colombiano, molto vicino agli Usa, da una parte, e di Cuba dall’altra, il cui progresso è andato di pari passo con la crisi economica; in Russia si sviluppano lotte di resistenza della classe operaia, anche negli Usa il riflusso sindacale è una cosa del passato, come dimostrato dalle lotte dell’Ups, della General Motors, la difesa dei licenziati della Caterpillar, lo sciopero dei piloti dell’aviazione. Gli “esperti” attribuiscono la rinascita sindacale al basso livello di disoccupazione statunitense, ma ciò che mobilita i lavoratori è la caduta dei salari, la non comune flessibilità del lavoro, la precarietà degli impieghi, insomma l’attacco cui i capitalisti si vedono obbligati a ricorrere per superare la crisi economica. Esiste un’inversione di tendenza delle lotte popolari internazionali in rapporto al decennio 1985-94.

Crisi e centrosinistra

La combinazione del rovescio economico con l’ascesa delle masse conduce la borghesia a importanti cambiamenti politici, per cui con la formula del “centrosinistra” si rinnovano, in forma destrorsa, le formule della collaborazione di classe tipiche dei fronti popolari. I governi di centrosinistra di collaborazione di classe accedono al potere nel complesso quando da circoli capitalistici, ogni volta più vasti, si reclama “regolamentazione” dei capitali per salvare se stessi, provvedimenti pubblici contro la disoccupazione, bande di cambio organizzate tra le monete principali: formazione di banche regionali per fare da contrappeso al Fmi. Queste richieste non hanno a che vedere con la crisi solo nel suo aspetto economico, ma soprattutto in quello “sociale”, cioè con la tendenza delle masse a rispondere nuovamente con le lotte, siano operaie, contadine o studentesche.  Per quanto i movimenti di maggior portata siano stati le mobilitazioni dei minatori della Ruhr, all’inizio del 1997 e gli scioperi dei lavoratori statali, dei camionisti e degli autisti in Francia, in diverse occasioni, ci sono pure stati movimenti complessivi su scala europea e, nel caso del Belgio, una gigantesca mobilitazione di massa, che ancora continua in forma organizzata, contro la corruzione e la pedofilia ufficiali.

I governi neoliberali o conservatori sono stati rimossi perché erano divenuti un elemento di instabilità della situazione politica. I governi di centrosinistra sono letteralmente obbligati a cercare di modificare le condizioni e la politica che trasformò i suoi predecessori da fattori di stabilità in fattori perturbativi, pena il rischio di finire nello stesso modo, con l’aggravante di aver esaurito le soluzioni “moderate”. Ciò che ha trasformato i governi conservatori in fattori di “disordine” è stato l’esaurimento della loro politica neoliberale, l’approfondimento della crisi mondiale e la loro incapacità di contenere le masse che reagiscono alla crisi.

Crisi politica mondiale

La crisi comprende il crollo irreversibile dello stalinismo nel 1989-91, l’ovvia caduta del neoliberismo della destra e l’impossibilità, a causa della crisi di sovraccumulazione di capitale, di tornare alle riforme di tipo socialdemocratico tradizionale diretto dall’emergente nuovo del “centrosinistra”. I governi capitalistici cercano di gestire la crisi volgendola contro i lavatori, a beneficio del grande capitale.

In Europa la maggior parte dei paesi è guidata da questa classe di governo, che non solo non introduce riforme e concessioni, ma si rende anche responsabile di attacchi contro le precedenti conquiste sociali della classe operaia e delle controriforme. Il conflitto tra i bisogni sociali delle masse e le politiche dei governi di centrosinistra diviene una fonte di tensioni politiche e di instabilità in Italia, Francia, Germania o Grecia. L’Unione imperialista europea, per far fronte alla crisi mondiale e alla concorrenza degli Usa, in particolare con l’introduzione dell’Euro e la transizione verso l’Unione monetaria, deve distruggere le cosiddette “rigidità e resistenze nel mercato del lavoro” per introdurre la “deregolamentazione”, percorrendo la via preventivamente percorsa nei paesi anglosassoni e cercare di superare le disuguaglianze e i conflitti tra i differenti livelli e interessi nazionali. La trasformazione dell’euforia iniziale per l’Euro nella sua crisi si deve non solo ai fattori ciclici, ma anche quelli strutturali. Nonostante tutti i suoi proclami, l’Europa rimane profondamente divisa secondo le linee nazionali. La Banca centrale europea non può funzionare come la Federal Reserve degli Usa, inoltre le divisioni tra i banchieri centrali, i governi nazionali e i circoli dirigenti di ogni singolo paese impediscono all’Europa di minacciare economicamente, così come militarmente e politicamente, l’egemonia americana. Il fiasco europeo nei Balcani, da Dayton a Rambouillet, lo mostra chiaramente.

Per gli Stati uniti socialisti d’Europa

Di fronte all’impatto della crisi mondiale successiva al 1997, l’Europa imperialista deve accelerare la sua ristrutturazione sociale distruggendo le forme precedenti di regolazione degli antagonismi tra capitale e lavoro. Si promuovono le coalizioni di centrosinistra per fare il lavoro sporco che i partiti di destra borghese tradizionale sono incapaci di realizzare senza suscitare una reazione di massa della classe operaia.

Tuttavia queste formazioni politiche nate recentemente come prodotto della crisi entrano a loro volta in crisi. In questa condizione in Francia l’accordo elettorale Lo-Lcr per una lista comune alle elezioni europee del giugno 1999 avrebbe potuto e dovuto rappresentare un appello alla lotta contro la borghesia europea, contro le sue direzioni politiche e i provvedimenti sociali controrivoluzionari, mostrando una via d’uscita socialista alla crisi basata su un programma di transizione. Ciò che in realtà è successo è che hanno fallito nella realizzazione. Da nessuna parte compare la prospettiva del socialismo, neppure il termine, non si prospetta la parola d’ordine più vitale che mai degli Stati uniti socialisti d’Europa, dell’Est e dell’Ovest.

Le questioni: dobbiamo lottare per un’“Europa democratica” o piuttosto per gli Stati uniti socialisti d’Europa? Dobbiamo lottare per l’espropriazione del capitale o solo per “restringere” il libero movimento dei capitali e i loro benefici “speculativi”? Tra queste due alternative non ci può essere alcun compromesso. Il destino dei prossimi scontri sociali in Europa è legato a questo. Un vero intervento rivoluzionario nelle elezioni europee dovrebbe partire, indipendentemente dall’eventuale indicazione di voto per partiti centristi o riformisti, dall’elaborazione e dalla proposta di una vera piattaforma rivoluzionaria, senza nessuna concessione alla “festa” europea della borghesia, e proponendo in primo luogo lotta contro gli stati e i governi nazionali reazionari ai quali la “costruzione europea” vorrebbe servire da schermo contro le masse. Questo dovrebbe essere il punto di partenza per un programma di rivendicazioni transitorie che sfoci in misure di espropriazione del capitale e nel governo indipendente dei lavoratori.

Per l’unità mondiale degli sfruttati: per la Quarta Internazionale

 

In America latina la tendenza a rispondere al gigantesco processo di espropriazione economica e di alienazione politica mediante l’unità politica antimperialista del continente, il risorgere della lotta per la terra, in particolare in Brasile, Bolivia, Messico, Equador, la lotta dei disoccupati, le occupazioni delle fabbriche in diversi paesi, mostrano il modo in cui questa unità può concretizzarsi nel contesto della crisi attuale. La lotta per una conferenza operaia e contadina del Mercosur, già proposta in riunioni promosse nel quadro di una Conferenza operaia e della sinistra dev’essere sviluppata come punto d’appoggio decisivo per promuovere l’autonomia di classe e l’alleanza operaia e contadina, condizioni di una lotta antimperialista profonda e di largo respiro. Il risorgere delle tendenze nazionaliste, come Chàvez in Venezuela o simili in Brasile, non significa che ci troviamo di fronte alla prospettiva di un ciclo nazionalista come quello passato: a causa del completo intreccio della borghesia con l’imperialismo le tendenze (comprese quelle “di sinistra”) debuttano già capitolando apertamente di fronte all’imperialismo. La prospettiva degli Stati uniti socialisti dell’America latina si alza nuovamente come arma strategica per rompere la base storica dell’imperialismo nordamericano, costituendo un aspetto essenziale della lotta anticapitalista su scala mondiale.

Il flagello della disoccupazione ha una portata mondiale e unifica tutte le tendenze della decomposizione nella fase attuale. La lotta per l’occupazione ha, per questo motivo, un carattere mondiale oggettivo e immediato, essendo la leva decisiva per unificare la classe operaia di ogni paese a livello internazionale. Le politiche della settimana lavorativa di 35 ore, sostenute soprattutto dal centrosinistra europeo, ogni giorno di più si rivelano essere uno specchietto per allodole per sviare le lotte e introdurre la contrazione salariale, il lavoro a tempo determinato, il mancato pagamento degli straordinari e la flessibilità del lavoro. Contro questa politica, contro i licenziamenti e contro la complicità delle burocrazie sindacali dev’essere avanzata la parola d’ordine del “lavoro per tutti”, distribuendo le ore di lavoro esistenti tra tutti i lavoratori, senza nessuna riduzione salariale. Questo solleva oggettivamente il problema del controllo operaio della produzione e dell’unità internazionale dei lavoratori: una conferenza internazionale contro la disoccupazione e in difesa dei lavoratori dovrebbe essere l’obiettivo di tutte le direzioni operaie conseguenti, e deve essere avanzato come l’obiettivo specifico di una campagna mondiale.

Nel quadro di questa e di altre lotte la questione dell’unità politica internazionale dei lavoratori si pone all’ordine del giorno di tutte le organizzazioni che lottano. L’obiettivo dell’Internazionale operaia deve essere cosciente e difeso coscientemente mediante l’elaborazione di un programma di transizione e la costruzione di un’organizzazione. Non si tratta di costituire una nuova tendenza internazionale di illuminati che difenda le sue peculiari verità e si dedichi a un interminabile regolamento di conti coi suoi avversari reali o immaginari, ma della costruzione di uno strumento necessario per la vittoria mondiale della classe operaia e di tutti gli sfruttati.

Questa internazionale può essere costruita solo in continuità con la lotta secolare dei lavoratori e dell’assimilazione di tutte le loro conquiste teoriche e programmatiche concretizzatesi nell’opera dei loro migliori pensatori e militanti (cominciando da Marx) e nei programmi delle loro internazionali, fino ad arrivare all’espressione più recente e attuale nel programma e nel metodo della Quarta Internazionale. La battaglia conseguente per tutti gli obiettivi immediati degli sfruttati, pertanto, può avere delle prospettive se assume una forma cosciente e politicamente organizzata attraverso la rifondazione immediata della Quarta Internazionale.

Atene, 10 marzo 1999.

 

 

Firmatari: Partido obrero (Argentina) • Oposición trotskista (Bolivia) • Partido de los trabajadores (Uruguay) • Partido da causa operária (Brasile) • Trotskyist league (Usa) • Associazione marxista rivo­­­luziona­ria “Proposta” (Italia) • Partito rivoluzionario dei lavoratori (Gre­cia) • British Ito (Gran Bretagna) • Colectivo “En defensa del marxismo” (Spagna).