L’INCONTRO DI BUENOS AIRES

(maggio 1998)

 INTRODUZIONE

 

Le organizzazioni firmatarie dell’appello di Genova lanciano l’iniziativa di una conferenza internazionale che potrebbe tenersi in una città europea nella primavera del 1999

A sessant’anni dalla sua proclamazione nel ’38, la Quarta Internazionale vive globalmente in una situazione di divisione e confusione politica. Le cause storiche di questa negativa situazione sono esaminate brevemente nell’articolo che commenta il 60° anniversario della fondazione pubblicato in questo stesso numero della rivista. Oggi, quindi, l’Internazionale esiste come referenza pro­gram­matica e come realtà di azione di decine di migliaia di militanti, variamente organizzati sul piano nazionale ed internazionale, che ad essa si richiamano. Ma come direzione centralizzata per l’azione dei marxisti rivoluzionari, come direzione alternativa rispetto a quelle rifor­miste e nazionaliste, come nucleo del Partito mondiale della rivoluzione socialista, la Quarta Internazionale ha da tempo cessato di esistere.

L’esigenza dell’Internazionale

E’ questo fatto che pone all’ordine del giorno il problema della sua rifondazione. Come problema storico, questa è una necessità non di un piccolo settore di militanti d’avanguardia ma del proletariato internazionale.

Di fronte alla presente crisi economica e sociale del capitalismo mondiale, l’unica soluzione positiva per le masse è costituita dalla prospettiva, difficile ma necessaria, della rivoluzione socialista internazionale — cioè del rovesciamento da parte delle stesse masse lavoratrici del potere delle classi dominanti e dell’avvio della trasformazione dei rapporti capitalistici di produzione — come condizione per liberare finalmente l’umanità dal dominio del profitto e aprire un’era di benessere generale sulla base di una economia pianificata su scala globale secondo una nuova razionalità sociale ed ecologica.

Per questa prospettiva, come la storia dimostra, è indispensabile che l’avanguardia del proletariato si organizzi in partito internazionale, sulla base della teoria e della strategia del marxismo rivoluzionario. Questo e niente altro è la prospettiva della rifondazione della Quarta Internazionale.

E’ questo il terrreno su cui si sono dati i primi iniziali passi da parte di un raggruppamento di organizzazioni, tra cui in primo piano il Partito operaio di Argentina, il Partito operaio rivoluzionario di Grecia, il Partito della causa operaia del Brasile e, per quanto ci concerne, l’Opposizione trotskista internazionale, la piccola corrente di cui fa parte la nostra Associazione marxista rivoluzionaria “Proposta”. Di questa battaglia fondamentale — senza la quale la nostra azione in Italia e in particolare nel dibattito del Prc perderebbe largamente di significato — abbiamo già riferito più volte nei numeri precedenti di questa rivista. Oggi le organizzazioni impegnate per questo obiettivo cercano di realizzare un salto in avanti. Un passo in questa direzione è stato compiuto alla fine del maggio scorso a Buenos Aires, in Argentina. Le nove organizzazioni dell’incontro di Buenos Aires hanno lanciato un appello “per una Conferenza internazionale operaia e della sinistra classista”. Un appello indirizzato all’insieme dell’avanguardia proletaria mondiale che ritiene necessario lavorare per una prospettiva rivoluzionaria internazionale.

Nella stessa occasione si è tenuto a Buenos Aires anche un grande meeting pubblico, convocato dal Partido Obrero, al quale hanno partecipato oltre 1.500 persone, militanti e attivisti di un’avanguardia proletaria e giovanile che ha ascoltato con attenzione e vero entusiasmo i rappresentanti delle organizzazioni convenute.

E’ proprio all’avanguardia rivoluzionaria del movimento operaio internazionale che le organizzazioni firmatarie propongono il terreno della rifondazione della Quarta internazionale come soluzione (come inizio della soluzione) del problema della costruzione di una direzione rivoluzionaria internazionale del proletariato.

Primi risultati in America latina

Questa sfida vede già qualche apprezzabile risultato. In America latina, in particolare, si sono poste le basi per cercare di coinvolgere altre forze politiche, non solo già richiamantesi al trotskismo, ma anche di altra tradizione politica oppure espressione di reali movimenti di massa — come la parte più conseguente della sinistra del Partito dei lavoratori (PT) del Brasile o, sempre del Brasile, un settore dell’importantissimo Movimento dei senza terra (che sta organizzando grandi occupazioni del latifondo); e in Bolivia un settore sindacale originariamente del Partito comunista. In seguito a ciò, già nel prossimo dicembre avrà luogo una “preconfe­renza” latino­americana, mentre la conferenza internazionale (o una sua prima sessione) dovrebbe aver luogo entro la prima metà del ’99 in Europa.

Pubblichiamo qui il documento-appello per la conferenza approvato a Buenos Aires. Pubblichiamo inoltre una dichiarazione di accompagnamento a tale appello firmata dalla Opposizione trotskista internazionale e dalle sue due componenti nazionali più importanti: la Lega trotskista degli Stati uniti e la nostra Amr Proposta. Infatti, come i nostri lettori potranno vedere, abbiamo giudicato che alcuni passaggi di quel testo non fossero pienamente condivisibili in quanto presentano alcune concezioni che, pur a partire da una analisi in generale non falsa dello sviluppo della crisi economica, sociale e politica internazionale, tendono tuttavia a precipitare i suoi ritmi di sviluppo e ad amplificarne il significato generale. Come è indicato nel nostro testo, non si tratta per i marxisti rivoluzionari di questioni secondarie. Così, pur nel quadro di un accordo complessivo sui compiti e le basi programmatiche per la lotta per la rifondazione della Quarta Internazionale, abbiamo ritenuto necessario evidenziare pubblicamente le nostre differenze di valutazione.

Noi pensiamo che questo modo di agire — cioè rendere pubbliche all’avanguardia (non solo in Italia, ma in tutti i paesi in cui sono presenti le organizzazioni collegate nella battaglia comune per l’Internazionale, attraverso i loro organi di stampa) accordi e differenze, convergen­ze e divergenze — sia una questione importantissima sia di merito che di metodo politico. I leninisti non conoscono “diplomazia segreta”, “sintesi” o altri metodi tipici della discussione tra riformisti o pseudorivoluzionari. Naturalmente possono (anzi, a certe condizioni, devono) realizzare tra loro dei compromessi, in particolare sul terreno operativo, ma sempre nella chiarezza politica. Così, per fare un solo esempio storico, l’anno 1916 vide Lenin sviluppare una vivace discussione polemica a proposito della teoria dell’imperialismo, della questione nazionale e delle forme di organizzazione dell’avanguardia rivoluzionaria, con Bucha­rin, Radek e Rosa Luxemburg, cioè proprio con compagni con cui stava ponendo le basi della Terza Internazionale. Perchè non è da accordi fittizzi realizzati nascondendo le differenze (e le divergenze) sotto il tappeto, ma appunto dalla chiarezza politica tra compagni accomunati dalla stessa prospettiva, che può venire lo sviluppo migliore dell’azione comune. In questo senso riteniamo che, al di là delle differenze di valutazione emerse, la riunione di Buenos Aires rappresenti un passo in avanti nella battaglia per la rifondazione della Quarta Internazionale.

Una battaglia alla quale invitiamo ad unirsi tutte le forze e i/le militanti che, quali che siano le loro provenienze politiche o la loro attuale collocazione, condividono la necessità di lavorare per costruire un progetto rivoluzionario e in questa prospettiva intendono far propria la prospettiva della conferenza internazionale da noi lanciata e collegarsi così alla lotta per la risoluzione della pluridecennale crisi di direzione del proletariato; compito oggi tanto più urgente a fronte degli sviluppi della situazione mondiale, così come segnalato dai documenti che qui riproduciamo.           


L’APPELLO DI BUENOS AIRES

 

Per una conferenza internazionale operaia e della sinistra classista  

Gli avvenimenti delle ultime settimane, con la generalizzazione della crisi finanziaria internazionale, il crollo economico di una serie di paesi e l’intervento delle masse, che ha provocato la caduta del dittatore Suharto in Indonesia, segnano l’inizio di una nuova fase della crisi mondiale. La propagazione della crisi economica, la sua tendenza a trasformarsi in crisi politica e addirittura in crisi rivoluzionaria (Corea, Indonesia), evidenzia l’inversione del ciclo apertosi nel 1989-91 quando gli ideologi del capitalismo proclamarono la sua vittoria per un periodo storico indefinito.

La crisi asiatica

Fin dal suo inizio la crisi asiatica non ha cessato d’aggrava­rsi, coinvolgendo sempre nuovi paesi e di maggior importanza nell’economia mondiale. Ogni volta che è stata data per finita, la crisi è riesplosa con maggior forza e con maggior capacità distruttiva. Quando si disse che la crisi era stata scongiurata in Tailandia, si manifestò in Corea. Subito dopo si trasferì in Indonesia e in Malesia. Quando si annunciò che era stata superata in Corea — grazie all’accordo di rifinanziamento del debito estero di quel paese — cominciò a manifestarsi in modo significativo in Giappone e in Cina, due paesi chiave nell’economia mondiale.

Giappone e Cina sono i paesi che subiscono le maggiori pressioni deflazionistiche come conseguenza della loro elevata capacità produttiva e della caduta della domanda. La diminuzione dei prezzi riduce i profitti e provoca la svalutazione dei capitali investiti in questi paesi.

Il Giappone è la seconda potenza imperialistica mondiale. Il suo sistema bancario è sull’orlo del fallimento e accumula montagne di milioni di prestiti inesigibili. L’economia giapponese è in recessione, nonostante i ripetuti, e ogni volta maggiori, “programmi di rilancio”. In conseguenza di ciò, il Giappone sta accumulando un enorme debito pubblico (il debito pubblico consolidato è pari al doppio del prodotto interno lordo), senza peraltro riuscire a far uscire l’economia dalla stagnazione. Quando tutte le possibilità di rilancio dell’economia giapponese si erano esaurite, la crisi dell’Indonesia è stata un colpo demolitore per il Giappone: le sue banche sono i principali creditori del debito estero dell’Indonesia che si stima insolvibile al 70%.

L’importanza della Cina nell’economia mondiale e negli sviluppi della crisi è evidenziata dal fatto che l’unica volta negli ultimi mesi in cui la Borsa di Wall Street crollò drasticamente fu in occasione della caduta della Borsa di Hong Kong (ottobre 1997), la quale rappresenta la “cerniera” fra la Cina e il mercato mondiale.  Anche in Cina il sistema bancario è in gravi difficoltà. Il commercio estero cinese si scontra con la caduta degli altri paesi asiatici dove collocava la sua produzione. Hong Kong è sottoposto a una forte pressione perché svaluti. Hong Kong non si sostiene da solo: ha potuto, finora, evitare la svalutazione della sua moneta per il sostegno ricevuto dalla Cina, cosa che costituisce una espropriazione delle masse cinesi a vantaggio della speculazione mondiale. Una svalutazione della moneta di Hong Kong — oppure, che è la stessa cosa, l’impossibilità per la Cina di continuare a sostenerla — porterebbe un colpo demolitore all’economia mondiale per il ruolo giocato in essa dalla Cina. Provocherebbe un aggravamento violento della sovrapproduzione mondiale e di conseguenza una acutizzazione senza precedenti della concorrenza sui mercati mondiali e una prospettiva di fallimenti generalizzati a livello mondiale.

Crisi mondiale

Un’altra prova del fallimento ideologico della borghesia è il fatto che si indichi ciò che è entrato in crisi nel “modello asiatico”. Vale a dire, la pretesa di dare una spiegazione parziale, particolare, regionale, circoscritta. dopo quindici anni di bombardamento della tesi secondo cui la “globalizzazione” avrebbe spazzato via le economie nazionali e creato un’unica e indivisibile “economia globale”.

Ciò che si definisce come “peculiarità asiatiche” — l’estrema fusione fra il capitale bancario e industriale; l’intreccio profondo tra capitale privato e lo stato — è la tendenza generale del capitalismo mondiale attraverso le fusioni, le acquisizioni e le ristrutturazioni. Proprio per questo la crisi asiatica si può caratterizzare come un’espressione concentrata della crisi del sistema capitalistico mondiale.

La contraddizione fra lo sviluppo internazionale raggiunto dalle forze produttive e il carattere ancora nazionale dei capitali, delle monete e de­gli stati sta alla base della crisi attuale, che rivela così il suo carattere mon­diale; non di questo o quel “modello” o di questa o di quella “politica”, ma del regime sociale capitalistico in quanto tale. Contraddizione insupera­bile nel capitalismo perché ogni tentativo di creare una moneta mondiale significa dare un carattere internazionale a una determinata moneta nazionale, ossia elevare questa contraddizione al massimo grado.

La crisi rende evidente la relazione fondamentale fra l’imperialismo mondiale, in particolare statunitense, e le borghesie asiatiche. Nel corso della crisi il Fondo monetario internazionale e il Tesoro statunitense non sono intervenuti per salvare nessun gruppo capitalistico e nessun paese sull’orlo del fallimento.  Al contrario, hanno spinto la crisi a fondo, l’hanno acutizzata per appropriarsi delle ricchezze dei concorrenti in fallimento. Da questo punto di vista, si può affermare che il Fmi è stato il fattore più rivoluzionario della crisi asiatica, come è provato dal fatto che esso ha forzato il governo indonesiano a decretare l’aumento dei prezzi dei combustibili che ha scatenato la ribellione popolare fino a farlo cadere.

Quello che si pensava dovesse operare come “prestatore di ultima istanza”, si è presentato nei fatti come un creditore. L’imperialismo nordame­ricano sta agendo in Asia in modo simile a come l’imperialismo tedesco ha agito in occasione dell’assorbimento della Rdt: aggravando la crisi, anche in modo artificioso, per poter spezzare i suoi concorrenti, impadronirsi dei loro mercati, monopolizzare le loro fonti di materie prime e appropriarsi delle loro ricchezze. E’ obbligato a farlo — anche a rischio di provocare come in Indonesia rivoluzioni o reazioni nazionalistiche — perché la crisi capitalistica gli indica che sul mercato mondiale non c’è posto abbastanza per tutti i concorrenti.

Gli Stati Uniti nel cuore della crisi

La crisi economica nordamericana è nascosta dalla crisi mondiale. Con il crollo dei mercati asiatici, della Russia, dell’Est europeo, dell’America latina, i capitali si “rifugiano” negli Stati Uniti. Gli Usa appaiono così come il maggior fattore di stabilità del capitale mondiale mentre sono, nello stesso tempo, in maggior fattore di destabilizzazione dell’economia mondiale: la Borsa di Wall Street sale perché le altre scendono; i capitali nordamericani si rivalutano perché le altre si svalutano.

In conseguenza della fenomenale rivalutazione della Borsa di Wall Street, gli Stati Uniti sono il paese che patisce il maggiore eccesso di capitali di tutto il mondo. Lo rivela il fatto che le quotazioni di Borsa non hanno nessuna relazione con i rendimenti che ottengono le imprese statuniten­si: in proporzione al valore delle azioni, i profitti delle imprese statunitensi sono irrisori, il che significa che il capitale nordamericano è il più sopravvalutato di tutto il pianeta.

La Riserva federale è obbligata ad alimentare la speculazione con una politica di emissione espansiva. Agisce cioè come l’automobilista che ha già superato ogni limite di velocità ma è costretto a premere ancora sull’ac­celeratore per due ragioni. La prima, perché se cade la speculazione borsistica, i fallimenti asiatici si estendono a tutto il mondo e in partico­lare agli Stati Uniti. La seconda ragione è che gli Stati Uniti fanno conto su un’eccedenza fiscale derivante dalle imposte che gravano sui benefici dall’arbitrato azionario; un crollo della Borsa aprirebbe immediatamente anche una crisi fiscale di grande ampiezza.

L’ingresso di capitali in cerca di “rifugio” sta rivalutando il dollaro di fronte alle altre monete, ciò che porta gli Stati Uniti a subire il medesimo processo che ha condotto poco tempo fa alla crisi dei paesi asiatici: sale in modo inarrestabile il deficit commerciale, ciò che desta le proteste dei capitalisti legati al mercato nazionale e alle esportazioni. Ciò spiega il fatto apparentemente inspiegabile che i repubblicani e parte dei democratici criticano il Fmi e il Nafta e negano a Clinton i poteri speciali necessari per negoziare un accordo di “libero scambio” con i paesi latinoamericani.

Come conseguenza della crisi, il potenziale di fallimento del capitale finanziario nordamericano non ha paragoni.

Il mondo dei cosiddetti “derivati” — che servono per “assicurare” i capitalisti contro le fluttuazioni delle monete e dei tassi di interesse e che per venticinque anni hanno creato l’illusione di un sistema monetario perfetto — che tiene legate fra loro le banche nordamericane, supera il totale del commercio e degli investimenti mondiali. Una parte di questi contratti sottoscritti dalle banche nordamericane ha assicurato i capitalisti asiatici contro le svalutazioni delle monete, l’ascesa dei tassi di interesse e la caduta delle Borse dei loro paesi; di conseguenza, le 25 maggiori banche nordamericano hanno accumulato un rischio creditizio potenzialmente insolvibile molto superiore all’ammontare dei capitali propri. In altre parole, sono virtualmente sull’orlo del fallimento.

Lo Stato nordamericano non potrebbe far conto si mezzi finanziari per intraprendere un salvataggio di tali dimensioni. Una crisi di tale grandezza — che provocherebbe il fallimento di colossi come la banca Morgan o la City Bank — non si risolve con mezzi economici ma politici, ricorrendo all’espediente del fascismo per far pagare alle masse e alle borghesie rivali il costo di un tale salvataggio.

L’Indonesia

La caduta di Suharto e la creazione di una situazione rivoluzionaria in Indonesia portano ad una crisi generale della politica imperialista. E ciò non solo per il peso economico e demografico di questo paese (di oltre 200 milioni di abitanti), ma anche per il suo ruolo storico di gendarme della regione, sia in relazione al Sud-est asiatico sia in relazione alla Cina e al Giappone. L’imperialismo e la Cia stavano dietro il colpo di stato che nel 1965 mise al potere Suharto, con il massacro di 500.000 persone.

Nel maggio 1998 le proteste hanno raggiunto un punto rivoluzionario, quando decine di migliaia di giovani operai e disoccupati di sono ribellati a Giacarta e in altre città. La polizia si è dissolta e le truppe hanno frater­nizzato con i manifestanti. Con la situazione fuori controllo, i militari e gli imperialisti hanno fatto capire a Suharto che era arrivata l’ora di andarsene.

L’inizio della rivoluzione indonesiana ha luogo nel quadro di una crisi economica e sociale senza precedenti: l’industria è al fallimento, il sistema bancario e la moneta sono scamparsi, lo stesso vale per gli approvvigionamenti; la miseria delle masse è paurosa. L’intero continente è scosso dalla crisi; la lotta interimperialistica per appropriarsi delle spoglie dell’economia asiatica è mortale. Si tratta, in ogni caso, di una situazione di enorme fluidità.

Il processo politico che comincia a svilupparsi presenta un andamento comune con altri paesi. Comincia a svilupparsi una direzione politica — o meglio, un progetto di direzione politica — di carattere piccolo borghese e di centrosinistra, che proviene dai resti del vecchio nazionalismo indonesiano. Si tratta di una direzione che non esisteva in precedenza, debole e dispersa, che si sta costruendo nel fuoco degli avvenimenti. La borghesia non ha fiducia in essa (per questo ha preferito mettere al governo il vicepresidente di Suharto, spalleggiato dall’esercito). D’altronde lo stesso centrosinistra indonesiano non ha fiducia in se stesso, come si evince dai suoi propositi estremamente moderati e dall’appoggio che sta dando al presente governo.

Che solidità ha questo “ritorno” di una direzione di centrosinistra? Gli avvenimenti la metteranno rapidamente alla prova. Che cosa farà dell’industria in fallimento? Sarà nazionalizzata? Che “prezzo” pretenderanno gli yankee per “salvare” la situazione? La borghesia coreana è disposta a pagare questo prezzo? Come reagiranno i concorrenti imperialisti degli Stati Uniti di fronte all’accaparramento statunitense dell’Indonesia? L’enorme fluidità della situazione politica potrà mettere in scacco il centrosinistra, ma non solo esso: l’esercito, per il ruolo che sta giocando, sarà obbligatoriamente influenzato dallo sviluppo della crisi politica.

La Corea del Sud può esser un “anticipo” degli sviluppi della situazione in­donesiana. Nel dicembre del 1997 ha vinto le elezioni una direzione di centrosinistra che ha formato un governo che comprende dai rappresentanti diretti dell’impe­ria­lismo ai burocrati sindacali.

Questo governo di centrosinistra, che sta portando avanti la politica det­tata dall’imperialismo nordamericano, ha imposto ai sindacati il “pacchetto” che il precedente governo di destra non era stato in grado di imporre: licenziamenti e attacco alle condizioni di lavoro. Ma l’aggravamento della crisi — come conseguenza del fallimento dell’accordo di rifinanziamento del debito estero — ha fatto saltare l’accordo stabilito fra il governo di centrosinistra e i burocrati sindacali di centro­sinistra. Il governo si è visto obbligato ad andare molto al di là di quello che prevede­va l’accordo nell’attacco alle condizioni di vita dei lavoratori e i sindacati si sono visti obbligati a proclamare lo sciopero generale. Dunque, nel momento in cui il centrosinistra comincia ad affermarsi in Indonesia come conseguenza della crisi, in Corea comincia a frantumarsi la politica di centrosinistra… come conseguenza dell’aggravarsi della crisi.

L’evoluzione della crisi mondiale, pertanto, avrà un ruolo decisivo nello sviluppo della crisi in Indonesia e sulle possibilità del centrosinistra. Se il Giappone sprofonda sempre più, se la Cina svaluta; o se la lotta interimperialistica per le spoglie dell’Indonesia accelera il ritmo della crisi e della guerra commerciale, si andrà a un rapido fallimento dell’esperimento del centrosinistra. Se questo non accadrà, se la crisi mondiale si sviluppa a un ritmo più lento, aumentano le possibilità di un “esperimento” parziale e temporaneo del centrosinistra in Indonesia, o come “appoggio civile” a un governo militare oppure, ma più difficilmente, direttamente come governo.

La Russia nella crisi mondiale

Il monumentale deficit fiscale dello stato russo — che è stato il pretesto per la speculazione selvaggia contro il rublo e la fantastica fuga di capitali che si è verificata nelle ultime settimane — sintetizza l’impasse in cui trova il processo di restaurazione capitalistica in Russia.

I burocrati russi si sono appropriati delle fabbriche e dei giacimenti minerari e hanno accumulato ricchezze che hanno preso sistematicamente la strada dell’estero, ma non sono stati capaci di creare un’economia monetaria: in Russia le operazioni economiche hanno luogo tramite il baratto, che è un’espressione acuta della sua decomposizione economica. Però lo stato — che non può finanziarsi tramite il baratto — è obbligato per far fronte ai pagamenti a ricorrere a un indebitamento che cresce in modo esponenziale.

Il volume raggiunto dal debito pubblico mette in evidenza che le possibilità di sostenere la circolazione economica tramite il baratto sono esaurite. La crisi mondiale — che ha provocato la caduta internazionale del prezzo del petrolio — ha reso tuttavia più evidente questo esaurimento.

Come si propone l’imperialismo di risolvere l’impasse della restaurazione e di creare un’economia mercantile e monetaria? Con gli stessi mezzi utilizzati in Indonesia e in Corea: acuendo crisi a fondo e approfondendo la decomposizione provocata dal processo della restaurazione per appropriarsi delle spoglie dell’industria russa. Questa è la politica che esigono la Banca mondiale e il FMI e che viene applicata dal governo da poco costituito da Kiryenko: licenziamenti di massa degli impiegati pubblici, riforma del lavoro, eliminazione dei sussidi alle imprese e agli affitti, legge sui fallimenti, riforma fiscale per scaricare il peso del debito sulle repubbliche e le regioni della Russia, rispetto dei diritti degli azionisti stranieri (in modo tale che il debito pubblico russo possa essere pagato con azioni delle imprese).

La prospettiva che questo programma delinea è quella di una decomposizione sociale senza precedenti e di un aggravamento, del pari senza precedenti, della lotta di classe. Vale come “precedente” di questa previsione l’attuale ondata di scioperi che è la conseguenza diretta del “programma di austerità” che è stato applicato nell’ultimo anno dal governo di Eltsin in base al rinvio per mesi del pagamento di salari e pensioni.

Al ritmo della crisi e dell’impantanamento della restaurazione, la classe operaia russa dovrà sviluppare e acquisire la propria esperienza politica nella lotta contro le forze restaurazio­niste. Gli scioperi dei minatori che hanno reclamato le dimissioni di Eltsin — protagonisti quei minatori che con lo sciopero del 1989 giocarono un ruolo fondamentale nell’ascesa di Eltsin al potere — sembra indicare che la classe operaia sta percorrendo questa strada. Non è l’unico segnale: il manifesto dei lavoratori della fabbrica Zil di Samara — in sciopero a tempo indeterminato contro la chiusura — pone l’esigenza di lottare «contro i comunisti e i democratici» (vale a dire contro i burocrati vecchi e quelli “riconvertiti”, tutti ugualmente restaurazionisti) e per l’espropriazione delle fabbriche, per il rovesciamento di Eltsin e per il trapasso del governo a un congresso dei comitati di sciopero.

La latinoamericanizzazione dell’Europa

L’“unità europea”, annunciata come il suo ingresso nella “moderniz­­zazione globale” e come consolidamento di fronte al capitalismo statunitense e giapponese, è stata rinviata molte volte a causa della propria crisi e sembra più l’ingresso in un incubo che in un sogno. Con 20 milioni di disoccupati, più di 50 milioni di persone sono precipitate sotto la soglia della povertà negli ultimi anni.

Se la “modernità” europea è sempre più simile a quella del “terzo mondo”, anche la lotta di classe tende a raggiungere livelli latinoamericani. I camionisti e gli impiegati pubblici in Francia, i disoccupati in Europa (che arrivano ad occupare edifici pubblici) riprendono il cammino che ha seguito la Danimarca, con il suo primo sciopero generale dopo un decennio.

L’Euro, i trattati di Maastricht e di Amsterdam, sono una questione di vita o di morte per le borghesie europee di fronte alla competizione degli imperialismi rivali. Ma comportano tal “aggiustamenti” (eliminazione dei deficit fiscali, taglia delle prestazioni sociali, fallimenti), che significa un attacco selvaggio alle masse, in condizioni di una esplicita disposizione di queste alla lotta.

Indonesia Corea e Russia sono i punti più avanzati di una crisi mondiale nella quale, indipendentemente dal ritmo diseguale del suo sviluppo, si assiste alla tendenza delle masse a opporre un “basta” definitivo all’offensiva del capitale tramite l’azione diretta e la mobilitazione di classe.   

Il carattere storico della crisi

La catastrofe asiatica del 1997, che continua a far traballare non solo quest’area ma il mondo intero — non può essere ridotta a una turbolenza regionale o a un episodio congiunturale. E questo non solo perché essa coinvolge in modo progressivamente maggiore una parte del mondo in cui abita la metà dell’umanità. Non solo perché essa riguarda una regione del mondo che ha svolto un ruolo propulsivo dello sviluppo del capitalismo mondiale negli ultimi dieci anni e che comprende, fra gli altri, la Cina, la Corea del Sud e il Giappone, cioè la seconda potenza economica mondiale. Ma soprattutto, perché costituisce un’esplosione della totalità delle contraddizioni del capitalismo mondiale.

I risultali non possono essere separati dai processi storici che li hanno prodotti: la crescita e il crollo delle “tigri” asiatiche va messo in relazione al rapporto fra Stati Uniti e Giappone (e fra il dollaro statunitense e lo yen giapponese), dopo l’accordo del Plaza (1985) che ha creato un equilibrio temporaneo che alla fine è crollato con lo sviluppo della crisi. Soprattutto, l’ascesa e la caduta delle “tigri” asiatiche va messo in relazione con l’espansione esplosiva e con i processi di liberalizzazione e di deregulation dei mercati finanziari ecc., conosciuti anche sotto il nome di “globalizzazione”, a partire dal 1979, del capitale finanziario.

Quest’ultimo processo è il risultato della sovrapproduzione senza precedenti di capitale in cui è sfociata negli anni settanta  la lunga espansione del dopoguerra, di durata venticinquennale, fondata sugli accordi di Bretton Woods. La crisi di sovrapproduzione, come ha scritto Marx, è il punto in cui il capitale incontra il suo limite in se stesso. Per il tramite dell’“economia del debito” costruita dopo il crollo del sistema di Bretton Woods, la crisi del debito, la crisi fiscale degli Stati capitalisti, ecc. hanno portato alla liberalizzazione e alla globalizzazione dei mercati finanziari come soluzione obbligata.

Ma il “limite” incontrato negli anni settanta, la crisi di sovrapproduzione, non è stato superato. Il “limite” è stato spostato in avanti e come nascosto nel cielo della speculazione finanziaria, ossia la crisi di sovrapproduzione di capitale produttivo venne a combinarsi a una gigantesca sovraccumulazione di capitale fittizio. Ma tanto il capitale produttivo che il capitale fittizio reclamano [la loro parte di] plusvalore estratto mediante lo sfruttamento degli operai in produzione che ha luogo nell’“economia reale”. La sovrapproduzione di strumenti finanziari, mentre offre un’uscita provvisoria al capitale in condizioni di stagnazione e recessione, nello stesso tempo intensifica la tendenza alla caduta del tasso di profitto.

La fragilità della struttura finanziaria ipertrofica su scala mondiale è stata dimostrata da tutta una serie di shock, dal crollo a livello mondiale dell’ottobre del 1987, passando per la crisi del debito messicano del 1994, fino al crollo asiatico del 1997. Quest’ultimo ha demolito in effetti il cosiddetto “miracolo asiatico” che era stato il successo maggiore della “globalizza­zione” del capitale finanziario. In realtà, tanto la crescita quanto la caduta delle “tigri” sono il risultato dell’interazione fra l’esplosione mondiale del capitale finanziario e i problemi irrisolti dello sviluppo storico della regione. Il mito secondo il quale un paese dipendente “sottosviluppato”, nell’epoca dell’imperialismo, può trasformarsi in paese “metropolitano”, si è dissolto. Come pure si è dissolto il mito della “globaliz­zazione” come meta finale della storia.

La globalizzazione del capitale finanziario durante gli ultimi due decenni e gli attacchi neoliberisti alle masse si sono dimostrati incapaci di risolvere la crisi permanente di sovrapproduzione di capitale. Non solo non sono stati in grado di stimolare gli investimenti produttivi, come i capitalisti pretendevano inizialmente, ma anzi hanno approfondito la stagnazione e prodotto milioni e milioni di disoccupati permanenti e sviluppato le forme più estreme di parassitismo.

La distanza insormontabile tra i mercati finanziari globalizzati e l’economia “reale” può creare enormi illusioni, inclusa l’illusione che la finanza si sia “emancipata” dall’“economia reale”, dalla sfera della produzione e dalle leggi di movimento del capitale. Ma alla fine queste leggi si prendono la loro vendetta.

Ogni crisi capitalistica è sempre la manifestazione non di questa o di quest’altra contraddizione, ma dell’esplosione della totalità delle contraddizioni capitalistiche, tanto nel processo di accumulazione che nel processo di realizzazione.

La validità della Rivoluzione d’Ottobre

Dopo il crollo asiatico, la crisi mondiale ha avuto un effetto devastante in Russia, dando un colpo fatale alla “stabilizzazione” del rublo, esacerbando la caotica situazione sociale e l’instabilità politica. Sette anni dopo l’implosione dell’Unione Sovietica, il processo di restaurazione capitalistica è allo sbando e i conti, le tasse e i salari non vengono pagati. Le ricchezze del paese vengono rubate e portate nelle banche svizzere e degli altri paesi occidentali.

Si è costituita in modo del tutto artificioso una sfera speculativa ipertrofica su una base produttiva in costante disintegra­zione, nella quale il pluslavoro non giunge a convertirsi nella forma del plusvalore. La forza lavoro ancora non si trasforma in merce, cioè non esiste ancora un mercato del lavoro. Una trasformazione di questo tipo richiederebbe il funzionamento dell’esercito di riserva di disoccupati più grande della storia, con decine e centinaia di milioni di persone private dell’impiego. Il timore di esplosioni sociali incontrollabili causate da una disoccupazione massiccia è la ragione principale della crisi dei pagamenti. L’élite burocratica dominante preferisce mantenere gli operai senza stipendio per mesi provvedendo loro solo qualche servizio all’alternativa dei licenziamenti di massa.

Gli stessi imperialisti riconoscono che il loro sogno di riconquistare e ricolonizzare tutte le vaste aree nella quali i capitalisti erano stati espropriati ancora non si è realizzato e sta diventando un incubo. L’espansione della NATO a Est fino alle frontiere della Russia e la sua riorganizzazione amministrativa sono parte dei preparativi imperialisti per la situazione incontrollabile che si avvicina.

Il ciclo aperto con la Rivoluzione d’Ottobre del 1917 ancora non è chiuso. La sua vitalità deriva dal carattere dell’epoca attuale della decadenza imperialistica del capitalismo, di guerre e rivoluzioni.

Il crollo irrevocabile dello stalinismo e dei suoi propositi reazioni ed utopici del “socialismo in un solo paese” ha aperto un periodo di scontri violenti tra rivoluzione e controrivo­luzione su scala mondiale. In questo contesto si deciderà l’esito finale della Rivoluzione d’Ottobre e la sua estensione internazionale.

L’imperialismo di fronte alla crisi

L’imperialismo è impegnato in tutto il mondo a fermare l’azione diretta indipendente delle masse tramite la via democratica, cercando di trovare delle soluzioni alle crisi politiche causate dalla crisi capitalistica mondiale nel quadro “giuridico” esistente. Il proposito dei propagandisti borghesi della democrazia non è difendere qualche ideale, bensì paralizzare la classe operaia e smobilitare la resistenza popolare di fronte all’offensiva rabbiosa del capitalismo. Per l’imperialismo il regime democratico è lo strumento politico più adatto e utilizzabile nella funzione di incatenare politicamente le masse. Con esso si pretende di unificare in tutti i paesi tutte le classi sociali e tutti i partiti politici, da quelli della borghesia a quelli del proletariato, da quelli di destra a quelli di sinistra, essendosi esso rivelato lo strumento politico meno costoso per salvare la dominazione borghese.

La caduta del Muro di Berlino non ha aperto una nuova epoca storica di democrazia, ma un periodo di acutizzazione dello scontro fra rivoluzione e controrivoluzione. Poiché questa è la caratteristica dell’attuale fase, è ricomparso nei più diversi paesi il vecchio strumento politico del fronte popolare. Che questo conservi l’antico nome o sia ribattezzato come alleanze di centrosinistra, il suo contenuto politico è lo stesso: utilizzare le organizzazioni dei lavoratori come stampella della stabilità del dominio politico della borghesia, della politica antioperaia e dello sfruttamento imperialista delle nazioni oppresse.

A differenza del passato, queste espressioni di fronte popolare non si presentano come strumenti limitati di pressione della burocrazia sovietica sull’imperialismo e non possono i propri tradimenti in nome della Rivoluzione d’Ottobre o della “difesa del campo socialista”, ma come strumenti aperti dell’imperialismo. Per le eccezionali e profonde condizioni di crisi capitalistica, una volta al governo si spingono tanto lontani quanto vuole il capitale nell’attacco alle conquiste sociali, appoggiandosi ai compromessi che si stabiliscono con le direzioni operaie e eventualmente le direzioni nazionaliste.

Sono, come in passato, strumenti politici dell’imperialismo contro la rivoluzione proletaria.

La tendenza mondiale verso governi di fronte popolare, eventualmente ribattezzati ”governi di centrosinistra” è una indiretta espressione delle implicazioni rivoluzionarie dell’attuale crisi mondiale. Per questa ragione, la costituzione di tali governi è indipendente dall’esistenza immediata di una situazione rivoluzionaria. E’ un processo che rivela la tendenza internazionale verso crisi rivoluzionarie.

La “democrazia” entra in campo al posto dello scomparso “socialismo” per offrire un asse ideologico e politico a questi fronti popolari — ciò che riflette la validità e l’attualità della riflessione di Engels: «nel giorno della crisi, e nel giorno seguente, la pura democrazia diventa il grido di guerra di tutta la controrivoluzione».

La “difesa della democrazia” è il punto di unità fra questi fronti popolari e l’imperialismo, che ha rielaborato la sua politica in questi termini per uscire dall’arretramento a cui lo aveva costretto la sconfitta del Vietnam, far fronte alla crisi dei regimi militari a cui aveva dato sostegno in tutto il pianeta e, non meno importante, erodere le basi degli Stati operai burocratizzati. Dalla vittoria elettorale contro il sandinismo in Nicaragua, fino all’assorbimento della Germania orientale da parte di quella occidentale, la “difesa della democrazia” ha reso enormi servigi all’impe­rialismo. E’ su questa base politica che la sinistra democratizzante sorta negli anni settanta, inclusi alcuni settori originariamente trotskisti, oggi collabora con, o dà il suo appoggio ai governi di centrosinistra.

I governi Jospin, Blair o Prodi compiono pienamente la funzione controrivoluzionaria di scaricare sulle masse operaie europee la crisi capitalistica, al pari delle coalizioni politiche che governano l’Europa orientale e diversi paesi dell’ex Unione Sovietica. Sono della medesima natura e svolgono la medesima funzione l’Autorità nazionale palestinese o il governo di Nelson Mandela in Sudafrica. Il centrosinistra all’opposizione — il Fronte ampio in Uruguay, L’Alleanza argentina, il Fronte Lula-Brizola in Brasile, il Fronte democratico in Paraguay — svolgono lo stesso ruolo nel boicottare le mobilitazioni popolari e avallare le politiche antioperaie. Non c’è da stupirsi che questi fronti si contrappongano alle grandi lotte di massa, come lo sciopero generale in Paraguay o le occupazioni delle terre in Brasile.

Il compito dei lavoratori è opporsi a questi governi e smascherare il regime democratico. I governi di “sinistra” di Prodi, Jospin, Blair devono essere caratterizzati sistematicamente per quello che sono, governi imperialisti. E’ questo l’unico modo di agire in termini rivoluzionari in un paese oppressore.

Per la loro debolezza congenita, derivata dalla decomposizione mondiale dello stalinismo e della socialdemocrazia, i fronti popolari di “centrosinistra” sono condannati al fallimento e a un rapido crollo nella considerazione politica delle masse.

In ultima analisi, la questione cruciale è se saranno sconfitti dalla rivoluzione socialista o saranno, come in passato, l’anticamera del fascismo.

Le masse di fronte alla crisi

La crisi capitalista sta dando luogo a manifestazioni rivoluzionarie. La tendenza verso l’organizzazione indipendente di classe è presente nei principali processi. In Indonesia, con straordinaria rapidità, gli attivisti sindaca]i si sono lanciati nella costruzione di un partito dei lavoratori. In una situazione inedita, i lavoratori coreani hanno destituito la direzione sindacale per aver appoggiato la legge sui licenziamenti del governo, e ne hanno costituito una nuova, nel corso di uno sciopero generale.

La Russia affronta la crisi peggiore dalla caduta di Gorbaciov. L’ondata di scioperi, la più importante dal 1991, fa il paio con una tremenda crisi finanziaria e con una crisi politica. La classe operaia russa dovrà sviluppare e acquisire un’esperienza politica di scontro con i restauratori [del capitalismo]. Gli scioperi dei minatori indicano che si sta percorrendo questa strada.

Russia, Indonesia Corea e tutto il mondo camminano sotto l’influenza della crisi mondiale. L’esperienza dei governi di centrosinistra farà progredire gli elementi per la costruzione del partito rivoluzionario. Attraverso la lotta, i lavoratori tenderanno a distruggere gli ostacoli politici verso il proprio potere. Come in Indonesia, le rivoluzioni tendono a svilupparsi perché non c’è chi le possa contenere e il grande capitale deve darsi una politica di contenimento per ingabbiarla. Il problema dei rivoluzionari è quello di fare in modo che le direzioni, gli attivisti, l’avanguardia, comprendano la natura della fase, la velocità della crisi e l’impossibilità di un accordo con la borghesia che non significhi la rovina delle masse. Il problema per i rivoluzionari è spiegare la funzione dei governi di centrosinistra e di fronte popolare perché si pone di nuovo il problema del partito come sola via d’uscita per i lavoratori.

Il ruolo della sinistra e del centrosinistra

il crollo dello stalinismo non conduce a una rinascita della socialdemocrazia. Al contrario il fallimento della socialdemocrazia, sia al governo sia all’opposizione, di promuovere un progetto riformista alternativo alla politica neoliberiste è ormai evidente. La base materiale tradizionale del consolidamento della socialdemocrazia — l’espansione capitalistica, i profitti coloniali, lo stato del benessere keynesiano — è stata disintegrata. Nelle nuove condizioni non ci sono margini economici per il consenso e per la collaborazione di classe.

Non è stato Tony Blair in Gran Bretagna a trasformare il Partito laburista, ma il vecchio riformismo che si è trasformato in un partito controriformista di tipo liberale.

La tendenza verso governi di centrosinistra si combina con la bancarotta storica dello stalinismo e della socialdemocrazia. Il capitalismo in crisi ha bisogno di nuove forme di controllo delle masse, con l’attiva partecipazione dei rappresentanti tradizionali della sinistra. Quando i governi neoliberisti di destra non hanno successo, è la sinistra, in nuove combinazioni di collaborazione di classe, chiamate centrosinistra, che la sostituisce.

Stante l’acutizzazione  della crisi e della lotta di classe, il centrosinistra ha bisogno di coprirsi sul lato sinistro. Le forze che provengono dalla cosiddetta estrema sinistra si trasformano nella indispensabile copertura radicale del centrosi­nistra. Entrambi coltivano la confusione circa il crollo dei regimi stalinisti nel 1989-91.

Uno degli aspetti ideologici più importanti in questo senso è l’identificazione dello stalinismo col marxismo, per respingere il secondo in nome del fallimento del primo. In nome del collasso del “socialismo reale” e della dottrina stalinista della “inevitabilità storica”, i teorici della sinistra ufficiale e dell’“estrema sinistra” respingono l’esistenza della necessità e della causalità nella storia e le leggi di movimento del capitale. Equiparando il determinismo meccanico con la comprensione dialettica della logica delle sue contraddizioni, separano e contrappongono la possibilità e l’attualità e la necessità. In questo modo, la possibilità si trasforma in astratta e formale e il socialismo si riduce a una espressione di desideri, a un’utopia astratta. La possibilità astratta si trasforma nella base dell’agnosticismo storico, del relativismo politico e del possibilismo, che è la forma ideale in cui si travestono le pratiche terrene del centrosinistra.

Per la rifondazione immediata della IV Internazionale

L’estensione e la profondità della crisi mondiale del capitalismo provano che si tratta di un regime sociale che sopravvive a se stesso, essendo da tempo maturate le premesse obiettive della sua sostituzione rivoluzionaria con il socialismo. Come dice il programma della Quarta Internazionale, queste premesse, in realtà, hanno addirittura cominciato a imputridirsi: il fallimento del proletariato nella lotta col capitalismo quando si è ormai compiuto il suo tempo storico, ha determinato che si siano avuto e si continuino ad avere sofferenze umane su una scala inaudita.

La crisi del capitalismo mette in gioco il destino dell’umanità, il quale dipende, in ultima istanza, dalla capacità del proletariato di organizzarsi politicamente per mettere fine alla schiavitù del lavoro salariato distruggendo lo Stato borghese. Gli sforzi della classe operaia per costruire il partito rivoluzionario, senza dubbio, sono costantemente rimessi in discussione dalla concorrenza tra gli stessi lavoratori per la sopravvivenza quotidiana. La burocratizzazione delle organizzazioni operaie è un’espressione di questo processo, il fatto che difendendo i privilegi acquisiti il ceto dirigente del movimento operaio si trasforma in agente del capitale nelle file del movimento operaio.

L’organizzazione politica dell’avanguardia operaia, su scala internazionale, è dunque la condizione della continuità della lotta del proletariato contro il capitale e della sua vittoria finale. Le basi politiche di questa organizzazione sono state poste 150 anni fa, quando Il manifesto del partito comunista diede forma al programma cosciente della classe operaia, e si estendono in questo secolo col il bolscevismo, la tendenza dirigente della Rivoluzione d’Ottobre, la cui continuità in contrappo­sizione alla degenerazione stalinista è stata garantita dalla Quarta Internazionale, fondata 60 anni fa da Lev Trotsky, e dal suo Programma di transizione.

Lanciando, nel 1997, un appello per la rifondazione della Quarta Internazionale, un insieme di organizzazioni e partiti trotskisti si sono fatti carico non solo di questa continuità storica, ma anche dell’urgenza dei compiti politici che si pongono all’avanguardia operaia su scala mondiale. Sulla base delle solida fondamenta del Programma di transizione, è stato fatta un’analisi della crisi mondiale e sono state poste le premesse di questo compito nell’attuale momento: la lotta per la dittatura del proletariato, il carattere mondiale della rivoluzione, la necessità della rivoluzione sociale e politica negli ex stati operai burocratizzati, la validità dell’Internazionale operaia, l’indipendenza di classe di fronte alle manovre di centrosinistra e di fronte popolare della borghesia e della burocrazia, la costruzione del partito sulla base del metodo e del programma delle rivendicazioni transitorie.

Per una conferenza internazionale

La crisi mondiale avanza con straordinaria rapidità, determinando il passaggio dalla crisi finanziaria alla crisi economica e politica, e da questa alla vera e propria rivoluzione, nel punti del pianeta dove essa ha raggiunto un punto culminante (Asia). Nelle organizzazioni operaie e della sinistra tradizionale, comprese nelle correnti che si richiamano al trotskismo, si producono nuovi sviluppi e differenziazioni, in cui sono in gioco, in modo più o meno chiaro, più o meno cosciente, le questioni centrali del programma e dell’organizzazione rivoluzionaria, a livello nazionale e internazionale.

Il sorgere di tendenze di sinistra nei partiti comunisti, specialmente in Europa, fa parte di questo processo. Nell’Europa dell’Est, nell’ex Urss e nei Balcani, la decomposizione sociale, la guerra e la reazione operaia acutizzano il dibattito in seno alle organizzazioni operaie e di sinistra. In Asia, l’imminenza della rivoluzione pone questioni ineludibili a tutte le direzioni politiche. Negli Stati Uniti i recenti scioperi (alla Ups, dei grafici) segnano una svolta nella lotta operaia che si ripercuote nei sindacati e nel nascente Partito laburista. In America latina, la rottura con la borghesia torna ad essere una questione di vita o di morte per le organizzazioni operaie e di sinistra. In Brasile una parte della sinistra del Partido do traballadores (Pt) ha dichiarato che non sosterrà Lula e un’altra parte che non accetterà di sostenere un candidato nazionale imposto da Brizola, aprendo una crisi importante.

Nelle correnti trotskiste, come la Lega internazionalista dei lavoratori (Lit), si sono prodotte rotture sul problema della validità della Quarta Internazionale. Lutte Ouvriére ha preso posizione contro il liquidazio­ni­smo della Lcr francese, rappresentante del Segretariato unificato della Quarta Internazionale, giudicando che «moralmente e politicamente non sono più un’organizzazione che si richiama al comunismo». Questa crisi estende la base politica del dibattito sulla Quarta Internazionale.

Di fronte a tutta l’avanguardia mondiale in lotta sta la questione di come la classe operaia possa e debba affrontare la crisi mondiale. Noi facciamo appello a organizzare una Conferenza internazionale operaia e della sinistra classista, per discutere il programma e l’organizzazione politica dei lavoratori di fronte alle sfide poste dalla crisi. Partiamo dalla necessità per il movimento operaio di un programma che affronti la tendenza verso crisi rivoluzionarie e la necessità di unire politicamente l’avanguardia per dare impulso a partiti operai in tutto il mondo, offrire un orientamento alle lotte e andare oltre le politiche di centrosinistra e di fronte popolare, per costruire un’Internazionale operaia, per lottare per governi dei lavoratori. Chiamiamo a organizzare un’assemblea internazionale di lavoratori di lavoratori per aprire un nuovo corso a quelli che l’esperienza sta spingendo a porsi la questione dell’organizzazione rivoluzionaria indipendente.

A centocinquat’anni dal Manifesto comunista, si pone più che mai con forza la sua parola d’ordine storica: «Proletari di tutto il mondo, unitevi!».

Buenos Aires, 30 maggio 1998

Firmatari: Partido Obrero (Argentina) • Partito rivoluzionario dei lavoratori (Grecia) • Opposizione trotskista internazionale • Associazione marxista rivoluzionaria “Proposta” • Partido da Causa Operária (Brasile) • Oposición Trotskista del Por (Bolivia) • Trotskyst League (Usa) • Colectivo “En Defensa del Marxismo” (Spagna).

DICHIARAZIONE SUL DOCUMENTO FINALE DELL’INCONTRO DI BUENOS AIRES PER LA RIFONDAZIONE DELLA QUARTA INTERNAZIONALE

(31 maggio 1998)

L’Associazione marxista rivoluzionaria Proposta d’Italia, la Lega trotskista degli Stati Uniti e l’Opposizione trotskista internazionale si uniscono al Partido Obrero di Argentina, al Partido da causa operaria del Brasile, all’Opposiciòn trotskista di Bolivia, al Collettivo En Defensa del Marxismo di Spagna, al Partido do los Trabajadores di Uruguay e al Partito operaio rivoluzionario di Grecia nell’appello per una Conferenza internazionale operaia e della sinistra classista, come parte della campagna comune per la rifondazione della Quarta Internazionale.

Non possiamo, tuttavia, semplicemente sottoscrivere il documento “Per una Conferenza internazionale operaia e della sinistra classista”. Siamo d’accordo con l’analisi generale e le conclusioni programmatiche e organizzative del documento che sono state inizialmente indicate dalle nove organizzazioni nella Dichiarazione di Genova del marzo 1997. Ma abbiamo le seguenti riserve sul nuovo documento.

Siamo d’accordo che il capitalismo mondiale si trova in crisi a partire dall’inizio degli anni settanta e che i capitalisti non hanno soluzioni alla crisi. La loro politica attualmente preferita di neoliberismo rivestito di democrazia borghese non dà la soluzione. Né la dà la caduta dell’Unione sovietica. Al contrario questa rimuove un elemento di stabilità nella situazione precedente: la burocrazia stalinista controrivoluzionaria.

Siamo d’accordo che la crisi si sta approfondendo su scala mondiale e che continuerà a rendere peggiori le condizioni dei lavoratori ovunque, anche nei paesi imperialisti, che possono proteggersi per una fase spostando il peso della crisi sulle semi-colonie e sugli ex stati operai.

Siamo d’accordo che le tensioni sociali stanno aumentando in tutto il mondo e che i lavoratori e gli oppressi lotteranno contro la crisi. Esplosioni come quelle in Francia, in Albania, in Sud Corea e in Indonesia non solo continueranno ma diverranno più frequenti. Esse offriranno preziose esperienze per l’avanguardia e per le masse e forniranno nuove opportunità per la costruzione dei partiti rivoluzionari.

Tuttavia pensiamo che sia essenziale per i trotskisti considerare accuratamente il ritmo di sviluppo della crisi. E qui troviamo il documento carente.

Sul terreno economico pensiamo che il documento esageri l’importanza delle borse e della speculazione finanziaria rispetto alla economia reale di produzione e di distribuzione. Il crollo borsistico dell’ottobre 1987 fu proporzionalmente maggiore del crollo del 1929, tuttavia ha influenzato appena la produzione.

Il capitalismo mondiale soffre di sovraccumulazione di capitale e di un eccesso di capacità produttiva. A un certo punto, nel prossimo futuro, ciò porterà a una nuova recessione, e successivamente a una depressione. Ma per ora le economie dei paesi capitalisti avanzati continuano ad espandersi. Benché le condizioni siano terribili nella maggior parte delle semi-colonie e degli ex stati operai, per il momento, molte di queste economie stanno nei fatti crescendo.

Sul terreno politico pensiamo che il documento sia in qualche modo troppo meccanico nel legare le crisi economiche e lo sviluppo della lotta rivoluzionaria. In molte delle semi-colonie e degli ex stati operai le condizioni sono sufficientemente gravi da provocare rivoluzioni. Tuttavia, nella maggior parte di essi, non vediamo rivoluzioni. Per il momento le esplosioni sono contenute.

Pensiamo che il documento generalizzi troppo sulla questione dello sviluppo della coscienza politica delle masse e sovrastimi la prospettiva di scontri rivoluzionari nel prossimo periodo. In particolare pensiamo sia prematuro parlare di “latinamericanizzazione” della lotta nell’Europa occidentale o che l’Europa occidentale sia “alla vigilia di scontri rivoluzionari”.

In questo quadro, pensiamo che le formulazioni del documento che riguardano il fronte popolare confondano la questione.

Siamo d’accordo che l’imperialismo preferisca in questo momento utilizzare la democrazia borghese, piuttosto che dittature militari o di altro tipo, per bloccare la radicalizzazione del movimento di massa. Al momento ciò include il sostegno a coalizioni di centrosinistra e di fronte popolare. Siamo d’accordo che le coalizioni di centrosinistra e i fronti popolari di oggi hanno una politica più apertamente filo-capitalista e filo-imperialista che i fronti popolari degli anni trenta.

Siamo anche d’accordo che i trotskisti devono smascherare queste e ogni altra forma di collaborazione di classe, polemizzando quando necessario contro i loro apologeti di “estrema sinistra”, inclusi coloro che si dichiarano trotskisti. Ma pensiamo che il documento tenda scorrettamente a identificare le dinamiche politiche delle coalizioni di centrosinistra e dei fronti popolari di oggi con le dinamiche dei fronti popolari del passato.

In nome della “democrazia” e della “lotta contro il fascismo” — e non del “socialismo”, come afferma il documento — i fronti popolari degli anni trenta tentarono di bloccare le ascese rivoluzionarie in Francia, Spagna e altrove. I partiti comunisti razionalizzarono ciò alla loro base con la formula “prima democrazia e antifascismo, poi il socialismo”.

La dinamica di bloccare ascese rivoluzionarie differenziava i fronti popolari degli anni trenta da precedenti forme di collaborazione di classe, come il “blocco delle sinistre” tra socialisti e radicali nella Francia degli anni venti, i “governi lib-lab” di Ramsay MacDonald in Gran Bretagna e vari governi socialdemocratici.

Alcuni degli attuali governi di centrosinistra hanno un ruolo similare a quello dei fronti popolari degli anni trenta. Per esempio il governo Mandela-Anc in Sudafrica e, in una certa misura, il governo Jospin in Francia. Essi cercano di fermare reali lotte di massa in corso.

Ma altri governi di centrosinistra sono semplicemente pallide versioni dei governi di collaborazione di classe del passato. I governi Prodi, Blair e, in una certa misura anche quello Jospin, sono stati preferiti dal grande capitale allo scopo di implementare le politiche neoliberali, non per scongiurare ascese rivoluzionarie.

Questi governi non sono i fronti popolari descritti nel ben noto passaggio del Programma di transizione: «I “fronti popolari” da un lato, il fascismo dall’altro: queste sono le ultime risorse politiche dell’imperialismo nella lotta contro la rivoluzione proletaria». Forse vedremo i capitalisti indirizzarsi verso il fronte popolare e altri governi di “sinistra” nei paesi capitalisti avanzati per bloccare sviluppi rivoluzionari. Ma per il momento non hanno bisogno di farlo.

Ripetiamolo: siamo d’accordo che un compito centrale dei trotskisti deve essere lo smascheramento di ogni governo o coalizione di collaborazione di classe, inclusi i governi di centrosinistra e di fronte popolare odierni. Il nostro disaccordo su questo punto è legato al nostro disaccordo sulla valutazione del ritmo di sviluppo della rivoluzione mondiale, particolarmente nei paesi capitalistici avanzati.

Sottolineiamo questi punti perché pensiamo che i trotskisti devono lottare contro le analisi eccessivamente semplificate, impressionistiche, della situazione mondiale. La storia della IV Internazionale mostra gli effetti negativi del “catastrofismo”. Qualche esempio: “l’imminenza della terza guerra mondiale” di Pablo nel 1951, il catastrofismo economico e politico di Healy negli anni sessanta e settanta, “l’imminenza della rivoluzione e della controrivoluzione” di Lambert negli anni settanta, “gli scontri imminenti” e le “nuove avanguardie di massa” del Segretariato unificato della Quarta Internazionale negli anni settanta, la “situazione rivoluzionaria imminente” dei morenisti negli anni ottanta.

Questi metodi hanno portato a confusione, fallimento, demoralizzazione e deviazioni politiche. Queste deviazioni includono la revisione dei compiti che concernono la costruzione dei partiti rivoluzionari, e il parlare continuamente di rivoluzione ma fallire nel riconoscere le reali situazioni rivoluzionarie quando queste si sviluppano.

Le altre sei organizzazioni coinvolte nel nostro comune progetto per la rifondazione della Quarta Internazionale non soffrono di queste deviazioni e il documento non include queste deviazioni. Il documento però tende a semplificare eccessivamente la situazione economica e politica in termini che sono potenzialmente pericolosi.

Il tempo ci dirà se siamo corretti o sbagliamo nella nostra valutazione della situazione mondiale. Nei prossimi due o tre anni l’economia capitalista potrà subire o no un collasso, e scontri rivoluzionari potranno aver luogo oppure no in Europa occidentali e in altri paesi imperialisti. Le nostre rispettive valutazioni saranno messe alla prova dagli eventi.

Nel frattempo, riconfermiamo il nostro impegno per la nostra comune campagna per la rifondazione della Quarta Internazionale, per le basi politiche per la rifondazione delimitate nella Dichiarazione di Genova e per il progetto di una Conferenza internazionale operaia e della sinistra classista.

Buenos Aires, 31 maggio 1998

 

     Associazione marxista rivoluzionaria Proposta (Italia)

     Trotskyst League (Usa)

     Opposizione trotskista internazionale