L’INCONTRO DI BUENOS AIRES
(maggio
1998)
INTRODUZIONE
Le
organizzazioni firmatarie dell’appello di Genova lanciano l’iniziativa di
una conferenza internazionale che potrebbe tenersi in una città europea nella
primavera del 1999
A
sessant’anni dalla sua proclamazione nel ’38, la Quarta Internazionale vive
globalmente in una situazione di divisione e confusione politica. Le cause
storiche di questa negativa situazione sono esaminate brevemente nell’articolo
che commenta il 60° anniversario della fondazione pubblicato in questo stesso
numero della rivista. Oggi, quindi, l’Internazionale esiste come referenza programmatica
e come realtà di azione di decine di migliaia di militanti, variamente
organizzati sul piano nazionale ed internazionale, che ad essa si richiamano. Ma
come direzione centralizzata per l’azione dei marxisti rivoluzionari, come
direzione alternativa rispetto a quelle riformiste e nazionaliste, come nucleo
del Partito mondiale della rivoluzione socialista, la Quarta Internazionale ha
da tempo cessato di esistere.
L’esigenza
dell’Internazionale
E’
questo fatto che pone all’ordine del giorno il problema della sua
rifondazione. Come problema storico, questa è una necessità non di un piccolo
settore di militanti d’avanguardia ma del proletariato internazionale.
Di
fronte alla presente crisi economica e sociale del capitalismo mondiale,
l’unica soluzione positiva per le masse è costituita dalla prospettiva,
difficile ma necessaria, della rivoluzione socialista internazionale — cioè
del rovesciamento da parte delle stesse masse lavoratrici del potere delle
classi dominanti e dell’avvio della trasformazione dei rapporti capitalistici
di produzione — come condizione per liberare finalmente l’umanità dal
dominio del profitto e aprire un’era di benessere generale sulla base di una
economia pianificata su scala globale secondo una nuova razionalità sociale ed
ecologica.
Per
questa prospettiva, come la storia dimostra, è indispensabile che
l’avanguardia del proletariato si organizzi in partito internazionale, sulla
base della teoria e della strategia del marxismo rivoluzionario. Questo e niente
altro è la prospettiva della rifondazione della Quarta Internazionale.
E’
questo il terrreno su cui si sono dati i primi iniziali passi da parte di un
raggruppamento di organizzazioni, tra cui in primo piano il Partito operaio di
Argentina, il Partito operaio rivoluzionario di Grecia, il Partito della causa
operaia del Brasile e, per quanto ci concerne, l’Opposizione trotskista
internazionale, la piccola corrente di cui fa parte la nostra Associazione
marxista rivoluzionaria “Proposta”. Di questa battaglia fondamentale —
senza la quale la nostra azione in Italia e in particolare nel dibattito del Prc
perderebbe largamente di significato — abbiamo già riferito più volte nei
numeri precedenti di questa rivista. Oggi le organizzazioni impegnate per questo
obiettivo cercano di realizzare un salto in avanti. Un passo in questa direzione
è stato compiuto alla fine del maggio scorso a Buenos Aires, in Argentina. Le
nove organizzazioni dell’incontro di Buenos Aires hanno lanciato un appello
“per una Conferenza internazionale operaia e della sinistra classista”. Un
appello indirizzato all’insieme dell’avanguardia proletaria mondiale che
ritiene necessario lavorare per una prospettiva rivoluzionaria internazionale.
Nella
stessa occasione si è tenuto a Buenos Aires anche un grande meeting pubblico,
convocato dal Partido Obrero, al quale hanno partecipato oltre 1.500 persone,
militanti e attivisti di un’avanguardia proletaria e giovanile che ha
ascoltato con attenzione e vero entusiasmo i rappresentanti delle organizzazioni
convenute.
E’
proprio all’avanguardia rivoluzionaria del movimento operaio internazionale
che le organizzazioni firmatarie propongono il terreno della rifondazione della
Quarta internazionale come soluzione (come inizio della soluzione) del problema
della costruzione di una direzione rivoluzionaria internazionale del
proletariato.
Primi
risultati in America latina
Questa
sfida vede già qualche apprezzabile risultato. In America latina, in
particolare, si sono poste le basi per cercare di coinvolgere altre forze
politiche, non solo già richiamantesi al trotskismo, ma anche di altra
tradizione politica oppure espressione di reali movimenti di massa — come la
parte più conseguente della sinistra del Partito dei lavoratori (PT) del
Brasile o, sempre del Brasile, un settore dell’importantissimo Movimento dei
senza terra (che sta organizzando grandi occupazioni del latifondo); e in
Bolivia un settore sindacale originariamente del Partito comunista. In seguito a
ciò, già nel prossimo dicembre avrà luogo una “preconferenza” latinoamericana,
mentre la conferenza internazionale (o una sua prima sessione) dovrebbe aver
luogo entro la prima metà del ’99 in Europa.
Pubblichiamo
qui il documento-appello per la conferenza approvato a Buenos Aires.
Pubblichiamo inoltre una dichiarazione di accompagnamento a tale appello firmata
dalla Opposizione trotskista internazionale e dalle sue due componenti nazionali
più importanti: la Lega trotskista degli Stati uniti e la nostra Amr Proposta.
Infatti, come i nostri lettori potranno vedere, abbiamo giudicato che alcuni
passaggi di quel testo non fossero pienamente condivisibili in quanto presentano
alcune concezioni che, pur a partire da una analisi in generale non falsa dello
sviluppo della crisi economica, sociale e politica internazionale, tendono
tuttavia a precipitare i suoi ritmi di sviluppo e ad amplificarne il significato
generale. Come è indicato nel nostro testo, non si tratta per i marxisti
rivoluzionari di questioni secondarie. Così, pur nel quadro di un accordo
complessivo sui compiti e le basi programmatiche per la lotta per la
rifondazione della Quarta Internazionale, abbiamo ritenuto necessario
evidenziare pubblicamente le nostre differenze di valutazione.
Noi
pensiamo che questo modo di agire — cioè rendere pubbliche all’avanguardia
(non solo in Italia, ma in tutti i paesi in cui sono presenti le organizzazioni
collegate nella battaglia comune per l’Internazionale, attraverso i loro
organi di stampa) accordi e differenze, convergenze e divergenze — sia una
questione importantissima sia di merito che di metodo politico. I leninisti non
conoscono “diplomazia segreta”, “sintesi” o altri metodi tipici della
discussione tra riformisti o pseudorivoluzionari. Naturalmente possono (anzi, a
certe condizioni, devono) realizzare tra loro dei compromessi, in particolare
sul terreno operativo, ma sempre nella chiarezza politica. Così, per fare un
solo esempio storico, l’anno 1916 vide Lenin sviluppare una vivace discussione
polemica a proposito della teoria dell’imperialismo, della questione nazionale
e delle forme di organizzazione dell’avanguardia rivoluzionaria, con Bucharin,
Radek e Rosa Luxemburg, cioè proprio con compagni con cui stava ponendo le basi
della Terza Internazionale. Perchè non è da accordi fittizzi realizzati
nascondendo le differenze (e le divergenze) sotto il tappeto, ma appunto dalla
chiarezza politica tra compagni accomunati dalla stessa prospettiva, che può
venire lo sviluppo migliore dell’azione comune. In questo senso riteniamo che,
al di là delle differenze di valutazione emerse, la riunione di Buenos Aires
rappresenti un passo in avanti nella battaglia per la rifondazione della Quarta
Internazionale.
Una
battaglia alla quale invitiamo ad unirsi tutte le forze e i/le militanti che,
quali che siano le loro provenienze politiche o la loro attuale collocazione,
condividono la necessità di lavorare per costruire un progetto rivoluzionario e
in questa prospettiva intendono far propria la prospettiva della conferenza
internazionale da noi lanciata e collegarsi così alla lotta per la risoluzione
della pluridecennale crisi di direzione del proletariato; compito oggi tanto più
urgente a fronte degli sviluppi della situazione mondiale, così come segnalato
dai documenti che qui riproduciamo.
L’APPELLO
DI
BUENOS AIRES
Per
una conferenza internazionale operaia e della sinistra classista
Gli
avvenimenti delle ultime settimane, con la generalizzazione della crisi
finanziaria internazionale, il crollo economico di una serie di paesi e
l’intervento delle masse, che ha provocato la caduta del dittatore Suharto in
Indonesia, segnano l’inizio di una nuova fase della crisi mondiale. La
propagazione della crisi economica, la sua tendenza a trasformarsi in crisi
politica e addirittura in crisi rivoluzionaria (Corea, Indonesia), evidenzia
l’inversione del ciclo apertosi nel 1989-91 quando gli ideologi del
capitalismo proclamarono la sua vittoria per un periodo storico indefinito.
La
crisi asiatica
Fin
dal suo inizio la crisi asiatica non ha cessato d’aggravarsi, coinvolgendo
sempre nuovi paesi e di maggior importanza nell’economia mondiale. Ogni volta
che è stata data per finita, la crisi è riesplosa con maggior forza e con
maggior capacità distruttiva. Quando si disse che la crisi era stata
scongiurata in Tailandia, si manifestò in Corea. Subito dopo si trasferì in
Indonesia e in Malesia. Quando si annunciò che era stata superata in Corea —
grazie all’accordo di rifinanziamento del debito estero di quel paese —
cominciò a manifestarsi in modo significativo in Giappone e in Cina, due paesi
chiave nell’economia mondiale.
Giappone
e Cina sono i paesi che subiscono le maggiori pressioni deflazionistiche come
conseguenza della loro elevata capacità produttiva e della caduta della
domanda. La diminuzione dei prezzi riduce i profitti e provoca la svalutazione
dei capitali investiti in questi paesi.
Il
Giappone è la seconda potenza imperialistica mondiale. Il suo sistema bancario
è sull’orlo del fallimento e accumula montagne di milioni di prestiti
inesigibili. L’economia giapponese è in recessione, nonostante i ripetuti, e
ogni volta maggiori, “programmi di rilancio”. In conseguenza di ciò, il
Giappone sta accumulando un enorme debito pubblico (il debito pubblico
consolidato è pari al doppio del prodotto interno lordo), senza peraltro
riuscire a far uscire l’economia dalla stagnazione. Quando tutte le possibilità
di rilancio dell’economia giapponese si erano esaurite, la crisi
dell’Indonesia è stata un colpo demolitore per il Giappone: le sue banche
sono i principali creditori del debito estero dell’Indonesia che si stima
insolvibile al 70%.
L’importanza
della Cina nell’economia mondiale e negli sviluppi della crisi è evidenziata
dal fatto che l’unica volta negli ultimi mesi in cui la Borsa di Wall Street
crollò drasticamente fu in occasione della caduta della Borsa di Hong Kong
(ottobre 1997), la quale rappresenta la “cerniera” fra la Cina e il mercato
mondiale. Anche in Cina il sistema
bancario è in gravi difficoltà. Il commercio estero cinese si scontra con la
caduta degli altri paesi asiatici dove collocava la sua produzione. Hong Kong è
sottoposto a una forte pressione perché svaluti. Hong Kong non si sostiene da
solo: ha potuto, finora, evitare la svalutazione della sua moneta per il
sostegno ricevuto dalla Cina, cosa che costituisce una espropriazione delle
masse cinesi a vantaggio della speculazione mondiale. Una svalutazione della
moneta di Hong Kong — oppure, che è la stessa cosa, l’impossibilità per la
Cina di continuare a sostenerla — porterebbe un colpo demolitore
all’economia mondiale per il ruolo giocato in essa dalla Cina. Provocherebbe
un aggravamento violento della sovrapproduzione mondiale e di conseguenza una
acutizzazione senza precedenti della concorrenza sui mercati mondiali e una
prospettiva di fallimenti generalizzati a livello mondiale.
Crisi mondiale
Un’altra
prova del fallimento ideologico della borghesia è il fatto che si indichi ciò
che è entrato in crisi nel “modello asiatico”. Vale a dire, la pretesa di
dare una spiegazione parziale, particolare, regionale, circoscritta. dopo
quindici anni di bombardamento della tesi secondo cui la “globalizzazione”
avrebbe spazzato via le economie nazionali e creato un’unica e indivisibile
“economia globale”.
Ciò
che si definisce come “peculiarità asiatiche” — l’estrema fusione fra
il capitale bancario e industriale; l’intreccio profondo tra capitale privato
e lo stato — è la tendenza generale del capitalismo mondiale attraverso le
fusioni, le acquisizioni e le ristrutturazioni. Proprio per questo la crisi
asiatica si può caratterizzare come un’espressione concentrata della crisi
del sistema capitalistico mondiale.
La
contraddizione fra lo sviluppo internazionale raggiunto dalle forze produttive e
il carattere ancora nazionale dei capitali, delle monete e degli stati sta
alla base della crisi attuale, che rivela così il suo carattere mondiale; non
di questo o quel “modello” o di questa o di quella “politica”, ma del
regime sociale capitalistico in quanto tale. Contraddizione insuperabile nel
capitalismo perché ogni tentativo di creare una moneta mondiale significa dare
un carattere internazionale a una determinata moneta nazionale, ossia elevare
questa contraddizione al massimo grado.
La
crisi rende evidente la relazione fondamentale fra l’imperialismo mondiale, in
particolare statunitense, e le borghesie asiatiche. Nel corso della crisi il
Fondo monetario internazionale e il Tesoro statunitense non sono intervenuti per
salvare nessun gruppo capitalistico e nessun paese sull’orlo del fallimento.
Al contrario, hanno spinto la crisi a fondo, l’hanno acutizzata per
appropriarsi delle ricchezze dei concorrenti in fallimento. Da questo punto di
vista, si può affermare che il Fmi è stato il fattore più rivoluzionario
della crisi asiatica, come è provato dal fatto che esso ha forzato il governo
indonesiano a decretare l’aumento dei prezzi dei combustibili che ha scatenato
la ribellione popolare fino a farlo cadere.
Quello
che si pensava dovesse operare come “prestatore di ultima istanza”, si è
presentato nei fatti come un creditore. L’imperialismo nordamericano sta
agendo in Asia in modo simile a come l’imperialismo tedesco ha agito in
occasione dell’assorbimento della Rdt: aggravando la crisi, anche in modo
artificioso, per poter spezzare i suoi concorrenti, impadronirsi dei loro
mercati, monopolizzare le loro fonti di materie prime e appropriarsi delle loro
ricchezze. E’ obbligato a farlo — anche a rischio di provocare come in
Indonesia rivoluzioni o reazioni nazionalistiche — perché la crisi
capitalistica gli indica che sul mercato mondiale non c’è posto abbastanza
per tutti i concorrenti.
Gli
Stati Uniti nel cuore della crisi
La
crisi economica nordamericana è nascosta dalla crisi mondiale. Con il crollo
dei mercati asiatici, della Russia, dell’Est europeo, dell’America latina, i
capitali si “rifugiano” negli Stati Uniti. Gli Usa appaiono così come il
maggior fattore di stabilità del capitale mondiale mentre sono, nello stesso
tempo, in maggior fattore di destabilizzazione dell’economia mondiale: la
Borsa di Wall Street sale perché le altre scendono; i capitali nordamericani si
rivalutano perché le altre si svalutano.
In
conseguenza della fenomenale rivalutazione della Borsa di Wall Street, gli Stati
Uniti sono il paese che patisce il maggiore eccesso di capitali di tutto il
mondo. Lo rivela il fatto che le quotazioni di Borsa non hanno nessuna relazione
con i rendimenti che ottengono le imprese statunitensi: in proporzione al
valore delle azioni, i profitti delle imprese statunitensi sono irrisori, il che
significa che il capitale nordamericano è il più sopravvalutato di tutto il
pianeta.
La
Riserva federale è obbligata ad alimentare la speculazione con una politica di
emissione espansiva. Agisce cioè come l’automobilista che ha già superato
ogni limite di velocità ma è costretto a premere ancora sull’acceleratore
per due ragioni. La prima, perché se cade la speculazione borsistica, i
fallimenti asiatici si estendono a tutto il mondo e in particolare agli Stati
Uniti. La seconda ragione è che gli Stati Uniti fanno conto su un’eccedenza
fiscale derivante dalle imposte che gravano sui benefici dall’arbitrato
azionario; un crollo della Borsa aprirebbe immediatamente anche una crisi
fiscale di grande ampiezza.
L’ingresso
di capitali in cerca di “rifugio” sta rivalutando il dollaro di fronte alle
altre monete, ciò che porta gli Stati Uniti a subire il medesimo processo che
ha condotto poco tempo fa alla crisi dei paesi asiatici: sale in modo
inarrestabile il deficit commerciale, ciò che desta le proteste dei capitalisti
legati al mercato nazionale e alle esportazioni. Ciò spiega il fatto
apparentemente inspiegabile che i repubblicani e parte dei democratici criticano
il Fmi e il Nafta e negano a Clinton i poteri speciali necessari per negoziare
un accordo di “libero scambio” con i paesi latinoamericani.
Come
conseguenza della crisi, il potenziale di fallimento del capitale finanziario
nordamericano non ha paragoni.
Il
mondo dei cosiddetti “derivati” — che servono per “assicurare” i
capitalisti contro le fluttuazioni delle monete e dei tassi di interesse e che
per venticinque anni hanno creato l’illusione di un sistema monetario perfetto
— che tiene legate fra loro le banche nordamericane, supera il totale del
commercio e degli investimenti mondiali. Una parte di questi contratti
sottoscritti dalle banche nordamericane ha assicurato i capitalisti asiatici
contro le svalutazioni delle monete, l’ascesa dei tassi di interesse e la
caduta delle Borse dei loro paesi; di conseguenza, le 25 maggiori banche
nordamericano hanno accumulato un rischio creditizio potenzialmente insolvibile
molto superiore all’ammontare dei capitali propri. In altre parole, sono
virtualmente sull’orlo del fallimento.
Lo
Stato nordamericano non potrebbe far conto si mezzi finanziari per intraprendere
un salvataggio di tali dimensioni. Una crisi di tale grandezza — che
provocherebbe il fallimento di colossi come la banca Morgan o la City Bank —
non si risolve con mezzi economici ma politici, ricorrendo all’espediente del
fascismo per far pagare alle masse e alle borghesie rivali il costo di un tale
salvataggio.
L’Indonesia
La
caduta di Suharto e la creazione di una situazione rivoluzionaria in Indonesia
portano ad una crisi generale della politica imperialista. E ciò non solo per
il peso economico e demografico di questo paese (di oltre 200 milioni di
abitanti), ma anche per il suo ruolo storico di gendarme della regione, sia in
relazione al Sud-est asiatico sia in relazione alla Cina e al Giappone.
L’imperialismo e la Cia stavano dietro il colpo di stato che nel 1965 mise al
potere Suharto, con il massacro di 500.000 persone.
Nel
maggio 1998 le proteste hanno raggiunto un punto rivoluzionario, quando decine
di migliaia di giovani operai e disoccupati di sono ribellati a Giacarta e in
altre città. La polizia si è dissolta e le truppe hanno fraternizzato con i
manifestanti. Con la situazione fuori controllo, i militari e gli imperialisti
hanno fatto capire a Suharto che era arrivata l’ora di andarsene.
L’inizio
della rivoluzione indonesiana ha luogo nel quadro di una crisi economica e
sociale senza precedenti: l’industria è al fallimento, il sistema bancario e
la moneta sono scamparsi, lo stesso vale per gli approvvigionamenti; la miseria
delle masse è paurosa. L’intero continente è scosso dalla crisi; la lotta
interimperialistica per appropriarsi delle spoglie dell’economia asiatica è
mortale. Si tratta, in ogni caso, di una situazione di enorme fluidità.
Il
processo politico che comincia a svilupparsi presenta un andamento comune con
altri paesi. Comincia a svilupparsi una direzione politica — o meglio, un
progetto di direzione politica — di carattere piccolo borghese e di
centrosinistra, che proviene dai resti del vecchio nazionalismo indonesiano. Si
tratta di una direzione che non esisteva in precedenza, debole e dispersa, che
si sta costruendo nel fuoco degli avvenimenti. La borghesia non ha fiducia in
essa (per questo ha preferito mettere al governo il vicepresidente di Suharto,
spalleggiato dall’esercito). D’altronde lo stesso centrosinistra indonesiano
non ha fiducia in se stesso, come si evince dai suoi propositi estremamente
moderati e dall’appoggio che sta dando al presente governo.
Che
solidità ha questo “ritorno” di una direzione di centrosinistra? Gli
avvenimenti la metteranno rapidamente alla prova. Che cosa farà
dell’industria in fallimento? Sarà nazionalizzata? Che “prezzo”
pretenderanno gli yankee per “salvare” la situazione? La borghesia coreana
è disposta a pagare questo prezzo? Come reagiranno i concorrenti imperialisti
degli Stati Uniti di fronte all’accaparramento statunitense dell’Indonesia?
L’enorme fluidità della situazione politica potrà mettere in scacco il
centrosinistra, ma non solo esso: l’esercito, per il ruolo che sta giocando,
sarà obbligatoriamente influenzato dallo sviluppo della crisi politica.
La
Corea del Sud può esser un “anticipo” degli sviluppi della situazione indonesiana.
Nel dicembre del 1997 ha vinto le elezioni una direzione di centrosinistra che
ha formato un governo che comprende dai rappresentanti diretti dell’imperialismo
ai burocrati sindacali.
Questo
governo di centrosinistra, che sta portando avanti la politica dettata
dall’imperialismo nordamericano, ha imposto ai sindacati il “pacchetto”
che il precedente governo di destra non era stato in grado di imporre:
licenziamenti e attacco alle condizioni di lavoro. Ma l’aggravamento della
crisi — come conseguenza del fallimento dell’accordo di rifinanziamento del
debito estero — ha fatto saltare l’accordo stabilito fra il governo di
centrosinistra e i burocrati sindacali di centrosinistra. Il governo si è
visto obbligato ad andare molto al di là di quello che prevedeva l’accordo
nell’attacco alle condizioni di vita dei lavoratori e i sindacati si sono
visti obbligati a proclamare lo sciopero generale. Dunque, nel momento in cui il
centrosinistra comincia ad affermarsi in Indonesia come conseguenza della crisi,
in Corea comincia a frantumarsi la politica di centrosinistra… come
conseguenza dell’aggravarsi della crisi.
L’evoluzione
della crisi mondiale, pertanto, avrà un ruolo decisivo nello sviluppo della
crisi in Indonesia e sulle possibilità del centrosinistra. Se il Giappone
sprofonda sempre più, se la Cina svaluta; o se la lotta interimperialistica per
le spoglie dell’Indonesia accelera il ritmo della crisi e della guerra
commerciale, si andrà a un rapido fallimento dell’esperimento del
centrosinistra. Se questo non accadrà, se la crisi mondiale si sviluppa a un
ritmo più lento, aumentano le possibilità di un “esperimento” parziale e
temporaneo del centrosinistra in Indonesia, o come “appoggio civile” a un
governo militare oppure, ma più difficilmente, direttamente come governo.
La
Russia nella crisi mondiale
Il
monumentale deficit fiscale dello stato russo — che è stato il pretesto per
la speculazione selvaggia contro il rublo e la fantastica fuga di capitali che
si è verificata nelle ultime settimane — sintetizza l’impasse in cui trova
il processo di restaurazione capitalistica in Russia.
I
burocrati russi si sono appropriati delle fabbriche e dei giacimenti minerari e
hanno accumulato ricchezze che hanno preso sistematicamente la strada
dell’estero, ma non sono stati capaci di creare un’economia monetaria: in
Russia le operazioni economiche hanno luogo tramite il baratto, che è
un’espressione acuta della sua decomposizione economica. Però lo stato —
che non può finanziarsi tramite il baratto — è obbligato per far fronte ai
pagamenti a ricorrere a un indebitamento che cresce in modo esponenziale.
Il
volume raggiunto dal debito pubblico mette in evidenza che le possibilità di
sostenere la circolazione economica tramite il baratto sono esaurite. La crisi
mondiale — che ha provocato la caduta internazionale del prezzo del petrolio
— ha reso tuttavia più evidente questo esaurimento.
Come
si propone l’imperialismo di risolvere l’impasse della restaurazione e di
creare un’economia mercantile e monetaria? Con gli stessi mezzi utilizzati in
Indonesia e in Corea: acuendo crisi a fondo e approfondendo la decomposizione
provocata dal processo della restaurazione per appropriarsi delle spoglie
dell’industria russa. Questa è la politica che esigono la Banca mondiale e il
FMI e che viene applicata dal governo da poco costituito da Kiryenko:
licenziamenti di massa degli impiegati pubblici, riforma del lavoro,
eliminazione dei sussidi alle imprese e agli affitti, legge sui fallimenti,
riforma fiscale per scaricare il peso del debito sulle repubbliche e le regioni
della Russia, rispetto dei diritti degli azionisti stranieri (in modo tale che
il debito pubblico russo possa essere pagato con azioni delle imprese).
La
prospettiva che questo programma delinea è quella di una decomposizione sociale
senza precedenti e di un aggravamento, del pari senza precedenti, della lotta di
classe. Vale come “precedente” di questa previsione l’attuale ondata di
scioperi che è la conseguenza diretta del “programma di austerità” che è
stato applicato nell’ultimo anno dal governo di Eltsin in base al rinvio per
mesi del pagamento di salari e pensioni.
Al
ritmo della crisi e dell’impantanamento della restaurazione, la classe operaia
russa dovrà sviluppare e acquisire la propria esperienza politica nella lotta
contro le forze restaurazioniste. Gli scioperi dei minatori che hanno
reclamato le dimissioni di Eltsin — protagonisti quei minatori che con lo
sciopero del 1989 giocarono un ruolo fondamentale nell’ascesa di Eltsin al
potere — sembra indicare che la classe operaia sta percorrendo questa strada.
Non è l’unico segnale: il manifesto dei lavoratori della fabbrica Zil di
Samara — in sciopero a tempo indeterminato contro la chiusura — pone
l’esigenza di lottare «contro i comunisti e i democratici» (vale a dire
contro i burocrati vecchi e quelli “riconvertiti”, tutti ugualmente
restaurazionisti) e per l’espropriazione delle fabbriche, per il rovesciamento
di Eltsin e per il trapasso del governo a un congresso dei comitati di sciopero.
La
latinoamericanizzazione dell’Europa
L’“unità
europea”, annunciata come il suo ingresso nella “modernizzazione
globale” e come consolidamento di fronte al capitalismo statunitense e
giapponese, è stata rinviata molte volte a causa della propria crisi e sembra
più l’ingresso in un incubo che in un sogno. Con 20 milioni di disoccupati,
più di 50 milioni di persone sono precipitate sotto la soglia della povertà
negli ultimi anni.
Se
la “modernità” europea è sempre più simile a quella del “terzo
mondo”, anche la lotta di classe tende a raggiungere livelli latinoamericani.
I camionisti e gli impiegati pubblici in Francia, i disoccupati in Europa (che
arrivano ad occupare edifici pubblici) riprendono il cammino che ha seguito la
Danimarca, con il suo primo sciopero generale dopo un decennio.
L’Euro,
i trattati di Maastricht e di Amsterdam, sono una questione di vita o di morte
per le borghesie europee di fronte alla competizione degli imperialismi rivali.
Ma comportano tal “aggiustamenti” (eliminazione dei deficit fiscali, taglia
delle prestazioni sociali, fallimenti), che significa un attacco selvaggio alle
masse, in condizioni di una esplicita disposizione di queste alla lotta.
Indonesia
Corea e Russia sono i punti più avanzati di una crisi mondiale nella quale,
indipendentemente dal ritmo diseguale del suo sviluppo, si assiste alla tendenza
delle masse a opporre un “basta” definitivo all’offensiva del capitale
tramite l’azione diretta e la mobilitazione di classe.
Il
carattere storico della crisi
La
catastrofe asiatica del 1997, che continua a far traballare non solo
quest’area ma il mondo intero — non può essere ridotta a una turbolenza
regionale o a un episodio congiunturale. E questo non solo perché essa
coinvolge in modo progressivamente maggiore una parte del mondo in cui abita la
metà dell’umanità. Non solo perché essa riguarda una regione del mondo che
ha svolto un ruolo propulsivo dello sviluppo del capitalismo mondiale negli
ultimi dieci anni e che comprende, fra gli altri, la Cina, la Corea del Sud e il
Giappone, cioè la seconda potenza economica mondiale. Ma soprattutto, perché
costituisce un’esplosione della totalità delle contraddizioni del capitalismo
mondiale.
I
risultali non possono essere separati dai processi storici che li hanno
prodotti: la crescita e il crollo delle “tigri” asiatiche va messo in
relazione al rapporto fra Stati Uniti e Giappone (e fra il dollaro statunitense
e lo yen giapponese), dopo l’accordo del Plaza (1985) che ha creato un
equilibrio temporaneo che alla fine è crollato con lo sviluppo della crisi.
Soprattutto, l’ascesa e la caduta delle “tigri” asiatiche va messo in
relazione con l’espansione esplosiva e con i processi di liberalizzazione e di
deregulation dei mercati finanziari ecc., conosciuti anche sotto il nome di “globalizzazione”,
a partire dal 1979, del capitale finanziario.
Quest’ultimo
processo è il risultato della sovrapproduzione senza precedenti di capitale in
cui è sfociata negli anni settanta la
lunga espansione del dopoguerra, di durata venticinquennale, fondata sugli
accordi di Bretton Woods. La crisi di sovrapproduzione, come ha scritto Marx, è
il punto in cui il capitale incontra il suo limite in se stesso. Per il tramite
dell’“economia del debito” costruita dopo il crollo del sistema di Bretton
Woods, la crisi del debito, la crisi fiscale degli Stati capitalisti, ecc. hanno
portato alla liberalizzazione e alla globalizzazione dei mercati finanziari come
soluzione obbligata.
Ma
il “limite” incontrato negli anni settanta, la crisi di sovrapproduzione,
non è stato superato. Il “limite” è stato spostato in avanti e come
nascosto nel cielo della speculazione finanziaria, ossia la crisi di
sovrapproduzione di capitale produttivo venne a combinarsi a una gigantesca
sovraccumulazione di capitale fittizio. Ma tanto il capitale produttivo che il
capitale fittizio reclamano [la loro parte di] plusvalore estratto mediante lo
sfruttamento degli operai in produzione che ha luogo nell’“economia
reale”. La sovrapproduzione di strumenti finanziari, mentre offre un’uscita
provvisoria al capitale in condizioni di stagnazione e recessione, nello stesso
tempo intensifica la tendenza alla caduta del tasso di profitto.
La
fragilità della struttura finanziaria ipertrofica su scala mondiale è stata
dimostrata da tutta una serie di shock, dal crollo a livello mondiale
dell’ottobre del 1987, passando per la crisi del debito messicano del 1994,
fino al crollo asiatico del 1997. Quest’ultimo ha demolito in effetti il
cosiddetto “miracolo asiatico” che era stato il successo maggiore della
“globalizzazione” del capitale finanziario. In realtà, tanto la crescita
quanto la caduta delle “tigri” sono il risultato dell’interazione fra
l’esplosione mondiale del capitale finanziario e i problemi irrisolti dello
sviluppo storico della regione. Il mito secondo il quale un paese dipendente
“sottosviluppato”, nell’epoca dell’imperialismo, può trasformarsi in
paese “metropolitano”, si è dissolto. Come pure si è dissolto il mito
della “globalizzazione” come meta finale della storia.
La
globalizzazione del capitale finanziario durante gli ultimi due decenni e gli
attacchi neoliberisti alle masse si sono dimostrati incapaci di risolvere la
crisi permanente di sovrapproduzione di capitale. Non solo non sono stati in
grado di stimolare gli investimenti produttivi, come i capitalisti pretendevano
inizialmente, ma anzi hanno approfondito la stagnazione e prodotto milioni e
milioni di disoccupati permanenti e sviluppato le forme più estreme di
parassitismo.
La
distanza insormontabile tra i mercati finanziari globalizzati e l’economia
“reale” può creare enormi illusioni, inclusa l’illusione che la finanza
si sia “emancipata” dall’“economia reale”, dalla sfera della
produzione e dalle leggi di movimento del capitale. Ma alla fine queste leggi si
prendono la loro vendetta.
Ogni
crisi capitalistica è sempre la manifestazione non di questa o di quest’altra
contraddizione, ma dell’esplosione della totalità delle contraddizioni
capitalistiche, tanto nel processo di accumulazione che nel processo di
realizzazione.
La
validità della Rivoluzione d’Ottobre
Dopo
il crollo asiatico, la crisi mondiale ha avuto un effetto devastante in Russia,
dando un colpo fatale alla “stabilizzazione” del rublo, esacerbando la
caotica situazione sociale e l’instabilità politica. Sette anni dopo
l’implosione dell’Unione Sovietica, il processo di restaurazione
capitalistica è allo sbando e i conti, le tasse e i salari non vengono pagati.
Le ricchezze del paese vengono rubate e portate nelle banche svizzere e degli
altri paesi occidentali.
Si
è costituita in modo del tutto artificioso una sfera speculativa ipertrofica su
una base produttiva in costante disintegrazione, nella quale il pluslavoro non
giunge a convertirsi nella forma del plusvalore. La forza lavoro ancora non si
trasforma in merce, cioè non esiste ancora un mercato del lavoro. Una
trasformazione di questo tipo richiederebbe il funzionamento dell’esercito di
riserva di disoccupati più grande della storia, con decine e centinaia di
milioni di persone private dell’impiego. Il timore di esplosioni sociali
incontrollabili causate da una disoccupazione massiccia è la ragione principale
della crisi dei pagamenti. L’élite burocratica dominante preferisce mantenere
gli operai senza stipendio per mesi provvedendo loro solo qualche servizio
all’alternativa dei licenziamenti di massa.
Gli
stessi imperialisti riconoscono che il loro sogno di riconquistare e
ricolonizzare tutte le vaste aree nella quali i capitalisti erano stati
espropriati ancora non si è realizzato e sta diventando un incubo.
L’espansione della NATO a Est fino alle frontiere della Russia e la sua
riorganizzazione amministrativa sono parte dei preparativi imperialisti per la
situazione incontrollabile che si avvicina.
Il
ciclo aperto con la Rivoluzione d’Ottobre del 1917 ancora non è chiuso. La
sua vitalità deriva dal carattere dell’epoca attuale della decadenza
imperialistica del capitalismo, di guerre e rivoluzioni.
Il
crollo irrevocabile dello stalinismo e dei suoi propositi reazioni ed utopici
del “socialismo in un solo paese” ha aperto un periodo di scontri violenti
tra rivoluzione e controrivoluzione su scala mondiale. In questo contesto si
deciderà l’esito finale della Rivoluzione d’Ottobre e la sua estensione
internazionale.
L’imperialismo
di fronte alla crisi
L’imperialismo
è impegnato in tutto il mondo a fermare l’azione diretta indipendente delle
masse tramite la via democratica, cercando di trovare delle soluzioni alle crisi
politiche causate dalla crisi capitalistica mondiale nel quadro “giuridico”
esistente. Il proposito dei propagandisti borghesi della democrazia non è
difendere qualche ideale, bensì paralizzare la classe operaia e smobilitare la
resistenza popolare di fronte all’offensiva rabbiosa del capitalismo. Per
l’imperialismo il regime democratico è lo strumento politico più adatto e
utilizzabile nella funzione di incatenare politicamente le masse. Con esso si
pretende di unificare in tutti i paesi tutte le classi sociali e tutti i partiti
politici, da quelli della borghesia a quelli del proletariato, da quelli di
destra a quelli di sinistra, essendosi esso rivelato lo strumento politico meno
costoso per salvare la dominazione borghese.
La
caduta del Muro di Berlino non ha aperto una nuova epoca storica di democrazia,
ma un periodo di acutizzazione dello scontro fra rivoluzione e
controrivoluzione. Poiché questa è la caratteristica dell’attuale fase, è
ricomparso nei più diversi paesi il vecchio strumento politico del fronte
popolare. Che questo conservi l’antico nome o sia ribattezzato come alleanze
di centrosinistra, il suo contenuto politico è lo stesso: utilizzare le
organizzazioni dei lavoratori come stampella della stabilità del dominio
politico della borghesia, della politica antioperaia e dello sfruttamento
imperialista delle nazioni oppresse.
A
differenza del passato, queste espressioni di fronte popolare non si presentano
come strumenti limitati di pressione della burocrazia sovietica
sull’imperialismo e non possono i propri tradimenti in nome della Rivoluzione
d’Ottobre o della “difesa del campo socialista”, ma come strumenti aperti
dell’imperialismo. Per le eccezionali e profonde condizioni di crisi
capitalistica, una volta al governo si spingono tanto lontani quanto vuole il
capitale nell’attacco alle conquiste sociali, appoggiandosi ai compromessi che
si stabiliscono con le direzioni operaie e eventualmente le direzioni
nazionaliste.
Sono,
come in passato, strumenti politici dell’imperialismo contro la rivoluzione
proletaria.
La
tendenza mondiale verso governi di fronte popolare, eventualmente ribattezzati
”governi di centrosinistra” è una indiretta espressione delle implicazioni
rivoluzionarie dell’attuale crisi mondiale. Per questa ragione, la
costituzione di tali governi è indipendente dall’esistenza immediata di una
situazione rivoluzionaria. E’ un processo che rivela la tendenza
internazionale verso crisi rivoluzionarie.
La
“democrazia” entra in campo al posto dello scomparso “socialismo” per
offrire un asse ideologico e politico a questi fronti popolari — ciò che
riflette la validità e l’attualità della riflessione di Engels: «nel giorno
della crisi, e nel giorno seguente, la pura democrazia diventa il grido di
guerra di tutta la controrivoluzione».
La
“difesa della democrazia” è il punto di unità fra questi fronti popolari e
l’imperialismo, che ha rielaborato la sua politica in questi termini per
uscire dall’arretramento a cui lo aveva costretto la sconfitta del Vietnam,
far fronte alla crisi dei regimi militari a cui aveva dato sostegno in tutto il
pianeta e, non meno importante, erodere le basi degli Stati operai
burocratizzati. Dalla vittoria elettorale contro il sandinismo in Nicaragua,
fino all’assorbimento della Germania orientale da parte di quella occidentale,
la “difesa della democrazia” ha reso enormi servigi all’imperialismo.
E’ su questa base politica che la sinistra democratizzante sorta negli anni
settanta, inclusi alcuni settori originariamente trotskisti, oggi collabora con,
o dà il suo appoggio ai governi di centrosinistra.
I
governi Jospin, Blair o Prodi compiono pienamente la funzione
controrivoluzionaria di scaricare sulle masse operaie europee la crisi
capitalistica, al pari delle coalizioni politiche che governano l’Europa
orientale e diversi paesi dell’ex Unione Sovietica. Sono della medesima natura
e svolgono la medesima funzione l’Autorità nazionale palestinese o il governo
di Nelson Mandela in Sudafrica. Il centrosinistra all’opposizione — il
Fronte ampio in Uruguay, L’Alleanza argentina, il Fronte Lula-Brizola in
Brasile, il Fronte democratico in Paraguay — svolgono lo stesso ruolo nel
boicottare le mobilitazioni popolari e avallare le politiche antioperaie. Non
c’è da stupirsi che questi fronti si contrappongano alle grandi lotte di
massa, come lo sciopero generale in Paraguay o le occupazioni delle terre in
Brasile.
Il
compito dei lavoratori è opporsi a questi governi e smascherare il regime
democratico. I governi di “sinistra” di Prodi, Jospin, Blair devono essere
caratterizzati sistematicamente per quello che sono, governi imperialisti. E’
questo l’unico modo di agire in termini rivoluzionari in un paese oppressore.
Per
la loro debolezza congenita, derivata dalla decomposizione mondiale dello
stalinismo e della socialdemocrazia, i fronti popolari di “centrosinistra”
sono condannati al fallimento e a un rapido crollo nella considerazione politica
delle masse.
In
ultima analisi, la questione cruciale è se saranno sconfitti dalla rivoluzione
socialista o saranno, come in passato, l’anticamera del fascismo.
Le
masse di fronte alla crisi
La
crisi capitalista sta dando luogo a manifestazioni rivoluzionarie. La tendenza
verso l’organizzazione indipendente di classe è presente nei principali
processi. In Indonesia, con straordinaria rapidità, gli attivisti sindaca]i si
sono lanciati nella costruzione di un partito dei lavoratori. In una situazione
inedita, i lavoratori coreani hanno destituito la direzione sindacale per aver
appoggiato la legge sui licenziamenti del governo, e ne hanno costituito una
nuova, nel corso di uno sciopero generale.
La
Russia affronta la crisi peggiore dalla caduta di Gorbaciov. L’ondata di
scioperi, la più importante dal 1991, fa il paio con una tremenda crisi
finanziaria e con una crisi politica. La classe operaia russa dovrà sviluppare
e acquisire un’esperienza politica di scontro con i restauratori [del
capitalismo]. Gli scioperi dei minatori indicano che si sta percorrendo questa
strada.
Russia,
Indonesia Corea e tutto il mondo camminano sotto l’influenza della crisi
mondiale. L’esperienza dei governi di centrosinistra farà progredire gli
elementi per la costruzione del partito rivoluzionario. Attraverso la lotta, i
lavoratori tenderanno a distruggere gli ostacoli politici verso il proprio
potere. Come in Indonesia, le rivoluzioni tendono a svilupparsi perché non c’è
chi le possa contenere e il grande capitale deve darsi una politica di
contenimento per ingabbiarla. Il problema dei rivoluzionari è quello di fare in
modo che le direzioni, gli attivisti, l’avanguardia, comprendano la natura
della fase, la velocità della crisi e l’impossibilità di un accordo con la
borghesia che non significhi la rovina delle masse. Il problema per i
rivoluzionari è spiegare la funzione dei governi di centrosinistra e di fronte
popolare perché si pone di nuovo il problema del partito come sola via
d’uscita per i lavoratori.
Il
ruolo della sinistra e del centrosinistra
il
crollo dello stalinismo non conduce a una rinascita della socialdemocrazia. Al
contrario il fallimento della socialdemocrazia, sia al governo sia
all’opposizione, di promuovere un progetto riformista alternativo alla
politica neoliberiste è ormai evidente. La base materiale tradizionale del
consolidamento della socialdemocrazia — l’espansione capitalistica, i
profitti coloniali, lo stato del benessere keynesiano — è stata disintegrata.
Nelle nuove condizioni non ci sono margini economici per il consenso e per la
collaborazione di classe.
Non
è stato Tony Blair in Gran Bretagna a trasformare il Partito laburista, ma il
vecchio riformismo che si è trasformato in un partito controriformista di tipo
liberale.
La
tendenza verso governi di centrosinistra si combina con la bancarotta storica
dello stalinismo e della socialdemocrazia. Il capitalismo in crisi ha bisogno di
nuove forme di controllo delle masse, con l’attiva partecipazione dei
rappresentanti tradizionali della sinistra. Quando i governi neoliberisti di
destra non hanno successo, è la sinistra, in nuove combinazioni di
collaborazione di classe, chiamate centrosinistra, che la sostituisce.
Stante
l’acutizzazione della crisi e della lotta di classe, il centrosinistra ha
bisogno di coprirsi sul lato sinistro. Le forze che provengono dalla cosiddetta
estrema sinistra si trasformano nella indispensabile copertura radicale del
centrosinistra. Entrambi coltivano la confusione circa il crollo dei regimi
stalinisti nel 1989-91.
Uno
degli aspetti ideologici più importanti in questo senso è l’identificazione
dello stalinismo col marxismo, per respingere il secondo in nome del fallimento
del primo. In nome del collasso del “socialismo reale” e della dottrina
stalinista della “inevitabilità storica”, i teorici della sinistra
ufficiale e dell’“estrema sinistra” respingono l’esistenza della
necessità e della causalità nella storia e le leggi di movimento del capitale.
Equiparando il determinismo meccanico con la comprensione dialettica della
logica delle sue contraddizioni, separano e contrappongono la possibilità e
l’attualità e la necessità. In questo modo, la possibilità si trasforma in
astratta e formale e il socialismo si riduce a una espressione di desideri, a
un’utopia astratta. La possibilità astratta si trasforma nella base
dell’agnosticismo storico, del relativismo politico e del possibilismo, che è
la forma ideale in cui si travestono le pratiche terrene del centrosinistra.
Per
la rifondazione immediata della IV Internazionale
L’estensione
e la profondità della crisi mondiale del capitalismo provano che si tratta di
un regime sociale che sopravvive a se stesso, essendo da tempo maturate le
premesse obiettive della sua sostituzione rivoluzionaria con il socialismo. Come
dice il programma della Quarta Internazionale, queste premesse, in realtà,
hanno addirittura cominciato a imputridirsi: il fallimento del proletariato
nella lotta col capitalismo quando si è ormai compiuto il suo tempo storico, ha
determinato che si siano avuto e si continuino ad avere sofferenze umane su una
scala inaudita.
La
crisi del capitalismo mette in gioco il destino dell’umanità, il quale
dipende, in ultima istanza, dalla capacità del proletariato di organizzarsi
politicamente per mettere fine alla schiavitù del lavoro salariato distruggendo
lo Stato borghese. Gli sforzi della classe operaia per costruire il partito
rivoluzionario, senza dubbio, sono costantemente rimessi in discussione dalla
concorrenza tra gli stessi lavoratori per la sopravvivenza quotidiana. La
burocratizzazione delle organizzazioni operaie è un’espressione di questo
processo, il fatto che difendendo i privilegi acquisiti il ceto dirigente del
movimento operaio si trasforma in agente del capitale nelle file del movimento
operaio.
L’organizzazione
politica dell’avanguardia operaia, su scala internazionale, è dunque la
condizione della continuità della lotta del proletariato contro il capitale e
della sua vittoria finale. Le basi politiche di questa organizzazione sono state
poste 150 anni fa, quando Il manifesto del
partito comunista diede forma al programma cosciente della classe operaia, e
si estendono in questo secolo col il bolscevismo, la tendenza dirigente della
Rivoluzione d’Ottobre, la cui continuità in contrapposizione alla
degenerazione stalinista è stata garantita dalla Quarta Internazionale, fondata
60 anni fa da Lev Trotsky, e dal suo Programma
di transizione.
Lanciando,
nel 1997, un appello per la rifondazione della Quarta Internazionale, un insieme
di organizzazioni e partiti trotskisti si sono fatti carico non solo di questa
continuità storica, ma anche dell’urgenza dei compiti politici che si pongono
all’avanguardia operaia su scala mondiale. Sulla base delle solida fondamenta
del Programma di transizione, è stato fatta un’analisi della crisi
mondiale e sono state poste le premesse di questo compito nell’attuale
momento: la lotta per la dittatura del proletariato, il carattere mondiale della
rivoluzione, la necessità della rivoluzione sociale e politica negli ex stati
operai burocratizzati, la validità dell’Internazionale operaia,
l’indipendenza di classe di fronte alle manovre di centrosinistra e di fronte
popolare della borghesia e della burocrazia, la costruzione del partito sulla
base del metodo e del programma delle rivendicazioni transitorie.
Per
una conferenza internazionale
La
crisi mondiale avanza con straordinaria rapidità, determinando il passaggio
dalla crisi finanziaria alla crisi economica e politica, e da questa alla vera e
propria rivoluzione, nel punti del pianeta dove essa ha raggiunto un punto
culminante (Asia). Nelle organizzazioni operaie e della sinistra tradizionale,
comprese nelle correnti che si richiamano al trotskismo, si producono nuovi
sviluppi e differenziazioni, in cui sono in gioco, in modo più o meno chiaro,
più o meno cosciente, le questioni centrali del programma e
dell’organizzazione rivoluzionaria, a livello nazionale e internazionale.
Il
sorgere di tendenze di sinistra nei partiti comunisti, specialmente in Europa,
fa parte di questo processo. Nell’Europa dell’Est, nell’ex Urss e nei
Balcani, la decomposizione sociale, la guerra e la reazione operaia acutizzano
il dibattito in seno alle organizzazioni operaie e di sinistra. In Asia,
l’imminenza della rivoluzione pone questioni ineludibili a tutte le direzioni
politiche. Negli Stati Uniti i recenti scioperi (alla Ups, dei grafici) segnano
una svolta nella lotta operaia che si ripercuote nei sindacati e nel nascente
Partito laburista. In America latina, la rottura con la borghesia torna ad
essere una questione di vita o di morte per le organizzazioni operaie e di
sinistra. In Brasile una parte della sinistra del Partido do traballadores (Pt)
ha dichiarato che non sosterrà Lula e un’altra parte che non accetterà di
sostenere un candidato nazionale imposto da Brizola, aprendo una crisi
importante.
Nelle
correnti trotskiste, come la Lega internazionalista dei lavoratori (Lit), si
sono prodotte rotture sul problema della validità della Quarta Internazionale.
Lutte Ouvriére ha preso posizione contro il liquidazionismo della Lcr
francese, rappresentante del Segretariato unificato della Quarta Internazionale,
giudicando che «moralmente e politicamente non sono più un’organizzazione
che si richiama al comunismo». Questa crisi estende la base politica del
dibattito sulla Quarta Internazionale.
Di
fronte a tutta l’avanguardia mondiale in lotta sta la questione di come la
classe operaia possa e debba affrontare la crisi mondiale. Noi facciamo appello
a organizzare una Conferenza internazionale operaia e della sinistra classista,
per discutere il programma e l’organizzazione politica dei lavoratori di
fronte alle sfide poste dalla crisi. Partiamo dalla necessità per il movimento
operaio di un programma che affronti la tendenza verso crisi rivoluzionarie e la
necessità di unire politicamente l’avanguardia per dare impulso a partiti
operai in tutto il mondo, offrire un orientamento alle lotte e andare oltre le
politiche di centrosinistra e di fronte popolare, per costruire
un’Internazionale operaia, per lottare per governi dei lavoratori. Chiamiamo a
organizzare un’assemblea internazionale di lavoratori di lavoratori per aprire
un nuovo corso a quelli che l’esperienza sta spingendo a porsi la questione
dell’organizzazione rivoluzionaria indipendente.
A
centocinquat’anni dal Manifesto comunista, si pone più che mai con forza la sua parola
d’ordine storica: «Proletari di tutto il mondo, unitevi!».
Buenos Aires, 30 maggio 1998
DICHIARAZIONE SUL DOCUMENTO FINALE DELL’INCONTRO DI
BUENOS AIRES PER LA RIFONDAZIONE DELLA QUARTA INTERNAZIONALE
(31
maggio 1998)
L’Associazione marxista rivoluzionaria
Proposta d’Italia, la Lega trotskista degli Stati Uniti e l’Opposizione
trotskista internazionale si uniscono al Partido Obrero di Argentina, al Partido
da causa operaria del Brasile, all’Opposiciòn trotskista di Bolivia, al
Collettivo En Defensa del Marxismo di Spagna, al Partido do los Trabajadores di
Uruguay e al Partito operaio rivoluzionario di Grecia nell’appello per una
Conferenza internazionale operaia e della sinistra classista, come parte della
campagna comune per la rifondazione della Quarta Internazionale.
Non possiamo, tuttavia, semplicemente
sottoscrivere il documento “Per una Conferenza internazionale operaia e della
sinistra classista”. Siamo d’accordo con l’analisi generale e le
conclusioni programmatiche e organizzative del documento che sono state
inizialmente indicate dalle nove organizzazioni nella Dichiarazione di Genova
del marzo 1997. Ma abbiamo le seguenti riserve sul nuovo documento.
Siamo d’accordo che il capitalismo mondiale
si trova in crisi a partire dall’inizio degli anni settanta e che i
capitalisti non hanno soluzioni alla crisi. La loro politica attualmente
preferita di neoliberismo rivestito di democrazia borghese non dà la soluzione.
Né la dà la caduta dell’Unione sovietica. Al contrario questa rimuove un
elemento di stabilità nella situazione precedente: la burocrazia stalinista
controrivoluzionaria.
Siamo d’accordo che la crisi si sta
approfondendo su scala mondiale e che continuerà a rendere peggiori le
condizioni dei lavoratori ovunque, anche nei paesi imperialisti, che possono
proteggersi per una fase spostando il peso della crisi sulle semi-colonie e
sugli ex stati operai.
Siamo d’accordo che le tensioni sociali
stanno aumentando in tutto il mondo e che i lavoratori e gli oppressi lotteranno
contro la crisi. Esplosioni come quelle in Francia, in Albania, in Sud Corea e
in Indonesia non solo continueranno ma diverranno più frequenti. Esse
offriranno preziose esperienze per l’avanguardia e per le masse e forniranno
nuove opportunità per la costruzione dei partiti rivoluzionari.
Tuttavia pensiamo che sia essenziale per i
trotskisti considerare accuratamente il ritmo di sviluppo della crisi. E qui
troviamo il documento carente.
Sul terreno economico pensiamo che il
documento esageri l’importanza delle borse e della speculazione finanziaria
rispetto alla economia reale di produzione e di distribuzione. Il crollo
borsistico dell’ottobre 1987 fu proporzionalmente maggiore del crollo del
1929, tuttavia ha influenzato appena la produzione.
Il capitalismo mondiale soffre di
sovraccumulazione di capitale e di un eccesso di capacità produttiva. A un
certo punto, nel prossimo futuro, ciò porterà a una nuova recessione, e
successivamente a una depressione. Ma per ora le economie dei paesi capitalisti
avanzati continuano ad espandersi. Benché le condizioni siano terribili nella
maggior parte delle semi-colonie e degli ex stati operai, per il momento, molte
di queste economie stanno nei fatti crescendo.
Sul terreno politico pensiamo che il
documento sia in qualche modo troppo meccanico nel legare le crisi economiche e
lo sviluppo della lotta rivoluzionaria. In molte delle semi-colonie e degli ex
stati operai le condizioni sono sufficientemente gravi da provocare rivoluzioni.
Tuttavia, nella maggior parte di essi, non vediamo rivoluzioni. Per il momento
le esplosioni sono contenute.
Pensiamo che il documento generalizzi troppo
sulla questione dello sviluppo della coscienza politica delle masse e sovrastimi
la prospettiva di scontri rivoluzionari nel prossimo periodo. In particolare
pensiamo sia prematuro parlare di “latinamericanizzazione” della lotta
nell’Europa occidentale o che l’Europa occidentale sia “alla vigilia di
scontri rivoluzionari”.
In questo quadro, pensiamo che le
formulazioni del documento che riguardano il fronte popolare confondano la
questione.
Siamo d’accordo che l’imperialismo
preferisca in questo momento utilizzare la democrazia borghese, piuttosto che
dittature militari o di altro tipo, per bloccare la radicalizzazione del
movimento di massa. Al momento ciò include il sostegno a coalizioni di
centrosinistra e di fronte popolare. Siamo d’accordo che le coalizioni di
centrosinistra e i fronti popolari di oggi hanno una politica più apertamente
filo-capitalista e filo-imperialista che i fronti popolari degli anni trenta.
Siamo anche d’accordo che i trotskisti
devono smascherare queste e ogni altra forma di collaborazione di classe,
polemizzando quando necessario contro i loro apologeti di “estrema
sinistra”, inclusi coloro che si dichiarano trotskisti. Ma pensiamo che il
documento tenda scorrettamente a identificare le dinamiche politiche delle
coalizioni di centrosinistra e dei fronti popolari di oggi con le dinamiche dei
fronti popolari del passato.
In nome della “democrazia” e della
“lotta contro il fascismo” — e non del “socialismo”, come afferma il
documento — i fronti popolari degli anni trenta tentarono di bloccare le
ascese rivoluzionarie in Francia, Spagna e altrove. I partiti comunisti
razionalizzarono ciò alla loro base con la formula “prima democrazia e
antifascismo, poi il socialismo”.
La dinamica di bloccare ascese rivoluzionarie
differenziava i fronti popolari degli anni trenta da precedenti forme di
collaborazione di classe, come il “blocco delle sinistre” tra socialisti e
radicali nella Francia degli anni venti, i “governi lib-lab” di Ramsay
MacDonald in Gran Bretagna e vari governi socialdemocratici.
Alcuni degli attuali governi di
centrosinistra hanno un ruolo similare a quello dei fronti popolari degli anni
trenta. Per esempio il governo Mandela-Anc in Sudafrica e, in una certa misura,
il governo Jospin in Francia. Essi cercano di fermare reali lotte di massa in
corso.
Ma altri governi di centrosinistra sono
semplicemente pallide versioni dei governi di collaborazione di classe del
passato. I governi Prodi, Blair e, in una certa misura anche quello Jospin, sono
stati preferiti dal grande capitale allo scopo di implementare le politiche
neoliberali, non per scongiurare ascese rivoluzionarie.
Questi governi non sono i fronti popolari
descritti nel ben noto passaggio del Programma
di transizione: «I “fronti popolari” da un lato, il fascismo
dall’altro: queste sono le ultime risorse politiche dell’imperialismo nella
lotta contro la rivoluzione proletaria». Forse vedremo i capitalisti
indirizzarsi verso il fronte popolare e altri governi di “sinistra” nei
paesi capitalisti avanzati per bloccare sviluppi rivoluzionari. Ma per il
momento non hanno bisogno di farlo.
Ripetiamolo: siamo d’accordo che un compito
centrale dei trotskisti deve essere lo smascheramento di ogni governo o
coalizione di collaborazione di classe, inclusi i governi di centrosinistra e di
fronte popolare odierni. Il nostro disaccordo su questo punto è legato al
nostro disaccordo sulla valutazione del ritmo di sviluppo della rivoluzione
mondiale, particolarmente nei paesi capitalistici avanzati.
Sottolineiamo questi punti perché pensiamo
che i trotskisti devono lottare contro le analisi eccessivamente semplificate,
impressionistiche, della situazione mondiale. La storia della IV Internazionale
mostra gli effetti negativi del “catastrofismo”. Qualche esempio:
“l’imminenza della terza guerra mondiale” di Pablo nel 1951, il
catastrofismo economico e politico di Healy negli anni sessanta e settanta,
“l’imminenza della rivoluzione e della controrivoluzione” di Lambert negli
anni settanta, “gli scontri imminenti” e le “nuove avanguardie di massa”
del Segretariato unificato della Quarta Internazionale negli anni settanta, la
“situazione rivoluzionaria imminente” dei morenisti negli anni ottanta.
Questi metodi hanno portato a confusione,
fallimento, demoralizzazione e deviazioni politiche. Queste deviazioni includono
la revisione dei compiti che concernono la costruzione dei partiti
rivoluzionari, e il parlare continuamente di rivoluzione ma fallire nel
riconoscere le reali situazioni rivoluzionarie quando queste si sviluppano.
Le altre sei organizzazioni coinvolte nel
nostro comune progetto per la rifondazione della Quarta Internazionale non
soffrono di queste deviazioni e il documento non include queste deviazioni. Il
documento però tende a semplificare eccessivamente la situazione economica e
politica in termini che sono potenzialmente pericolosi.
Il tempo ci dirà se siamo corretti o
sbagliamo nella nostra valutazione della situazione mondiale. Nei prossimi due o
tre anni l’economia capitalista potrà subire o no un collasso, e scontri
rivoluzionari potranno aver luogo oppure no in Europa occidentali e in altri
paesi imperialisti. Le nostre rispettive valutazioni saranno messe alla prova
dagli eventi.
Nel frattempo, riconfermiamo il nostro
impegno per la nostra comune campagna per la rifondazione della Quarta
Internazionale, per le basi politiche per la rifondazione delimitate nella Dichiarazione
di Genova e per il progetto di una Conferenza internazionale operaia e della
sinistra classista.
Buenos Aires, 31 maggio 1998
Associazione marxista rivoluzionaria Proposta
(Italia)
Trotskyst League (Usa)
Opposizione trotskista internazionale