Approvato dalla seconda Conferenza Internazionale
dell'Opposizione Trotskysta Inetrnazionale
5 Settembre 1998
Centocinquanta anni fa la Lega dei comunisti
pubblicava il Manifesto del partito
comunista di Karl Marx e Friederich Engels. Il Manifesto
proclamava teoricamente l’esistenza di un movimento operaio internazionale
proprio poche settimana prima che le rivoluzioni europee del 1848 lo
proclamassero in pratica.
Dichiarando che la storia delle società finora
esistite è la storia delle lotte di classe il Manifesto identificava la borghesia come la classe dominante
storicamente emergente e il proletariato come suo successore. La prima
previsione – l’ascesa della borghesia – è stata brillantemente
confermata. La seconda previsione – il proletariato come successore della
borghesia – resta da confermare.
I centocinquant’anni successivi al Manifesto
hanno visto tre grandi ondate di sviluppo economico e di lotta politica. La
prima di queste ondate (espansione 1848-1873, crisi 1873-1896, con varianti
nazionali) portò alla luce l’economia capitalista mondiale che era stata
anticipata nel Manifesto e il contesto
politico storico mondiale di scontro tra la classe operaia e l’imperialismo.
La seconda ondata (espansione 1896-1914, crisi 1914-1949, ancora con varianti
nazionali) condusse la classe operaia al potere in Russia e, prima del suo
completo riflusso, in Europa orientale e in Cina, benché sotto forma di stati
operai burocraticamente deformati.
La terza ondata (espansione 1949-71, crisi dal 1971
in poi, ancora con varianti nazionali) ha avuto esiti più ambigui. I
capitalisti sono stati costretti a fare importanti concessioni alla classe
operaia per poter superare la crisi del 1914-49. Ma l’incapacità del
movimento operaio di rovesciare l’imperialismo a livello mondiale e la
risultante degenerazione della Rivoluzione russa, hanno permesso al capitalismo
di stabilizzarsi e quindi di riprendere l’espansione negli anni Cinquanta e
Sessanta.
Alla fine degli anni Sessanta sono esplose nuove
lotte, poiché gli esclusi dal boom del secondo dopoguerra e coloro che ne
subivano l’alienazione hanno cominciato a reclamare dei cambiamenti. Queste
lotte si sono intensificate quando il boom si è esaurito all’inizio degli
anni Settanta. Il capitalismo mondiale ha dovuto fare dei passi indietro nei
primi anni Settanta, ma ha riaccumulato le forze nella seconda metà degli anni
Settanta e quindi ha lanciato una controffensiva alla fine degli anni Settanta.
Disorientata dalle proprie direzioni orientate alla
collaborazione di classe, la classe operaia si è ritirata durante gli anni
Ottanta e nei primi anni Novanta. Questa ritirata comprende il crollo
dell’Unione sovietica, con tutte le sue implicazioni su scala mondiale. Ci
sono segni che la classe operaia comincia a riprendersi dalle sue sconfitte. Ma
il ventesimo secolo sembra volgere al termine così come è iniziato, con
l’imperialismo che domina su scala mondiale e il movimento operaio forte, ma
incapace di tradurre la sua forza in potere politico.
In queste condizioni, i rivoluzionari devono di nuovo
porsi e rispondere alle seguenti questioni: Quali sono le nostre prospettive?
Quali sono i nostri compiti? Scopo di questo documento è quello di argomentare
la persistente validità della prospettiva rivoluzionaria tracciata nel Manifesto
comunista, malgrado il trascorrere del tempo e i cambiamenti che esso ha
portato.
Questo è un documento di analisi storica. Non
affronta le questioni programmatiche nei dettagli. Per esse si rimanda alla Dichiarazione
di principi dell’Opposizione trotskista internazionale. Non affronta
neppure le questioni specifiche della costruzione dei partiti rivoluzionari e
dell’Internazionale rivoluzionaria. Per esse si rimanda alle Tesi
sulla crisi della Quarta Internazionale e i compiti dei trotskisti conseguenti.
La divisione del lavoro fra questi documenti può
sembrare arbitraria dal momento che storia, programma e partito sono questioni
connesse fra loro, in certi momenti in modo inestricabile. Ma nella presente
fase storica in cui difficilmente il trotskismo può sembrare al suo culmine
storico, sembra particolarmente necessario riaffermare la sua attualità.
Perciò questo documento mette a fuoco le condizioni
obiettive della rivoluzione – le condizioni che non sono la condizione
soggettiva dei trotskisti – che devono essere presenti affinché il marxismo
rivoluzionario possa diventare di nuovo una forza storica.
«Il dominio economico e
politico della classe borghese»
Il Manifesto
del partito comunista descriveva l’ascesa della borghesia con un
linguaggio vivido e possente:
«Vediamo dunque come la borghesia moderna è essa
stessa il prodotto di un lungo processo di sviluppo, d’una serie di
rivolgimenti nei modi di produzione e di traffico (...)
«Durante il suo dominio di classe appena secolare la
borghesia ha creato forze produttive in massa molto maggiore e più colossali
che non avessero mai fatto tutte insieme le altre generazioni del passato. Il
soggiogamento delle forze naturali, le macchine, l’applicazione della chimica
all’industria e all’agricoltura, la navigazione a vapore, le ferrovie, i
telegrafi elettrici, il dissodamento di interi continenti, la navigabilità dei
fiumi, popolazioni intere sorte quasi per incanto dal suolo – quale dei secoli
antecedenti immaginava che nel grembo del lavoro sociale stessero sopite tali
forze produttive?
«Ma abbiamo visto che i mezzi di produzione e di
scambio sulla cui base si era venuta costituendo la borghesia erano stati
prodotti entro la società feudale. A un certo grado dello sviluppo di quei
mezzi di produzione e di scambio, le condizioni nelle quali la società feudale
produceva e scambiava, l’organizzazione feudale dell’agricoltura e della
manifattura, in una parola i rapporti feudali della proprietà, non corrisposero
più alle forze produttive ormai sviluppate. Essi inceppavano la produzione
invece di promuoverla. Si trasformarono in altrettante catene. Dovevano essere
spezzate e furono spezzate.
«Ad esse subentrò la libera concorrenza con la
confacente costituzione sociale e politica, con il dominio economico e politico
della classe dei borghesi.» (K. Marx
e F. Engels, Manifesto del partito
comunista, Mondadori, 1978).
Marx ed Engels hanno in seguito arricchito
sostanzialmente la loro analisi dell’economia politica delle società
capitalistiche. Ma non ebbero ragione di cambiarla nei suoi tratti fondamentali.
E neppure i marxisti dopo di loro.
Lenin ha contribuito con il concetto di imperialismo
a spiegare gli sviluppi economici e politici che hanno portato alla prima guerra
mondiale – i monopoli, il capitale finanziario, l’oligarchia finanziaria,
l’esportazione di capitali, la divisione e la ridivisione del mondo fra le
grandi potenze capitalistiche, le rivalità interimperialistiche, le guerre
interimperialistiche – così come con gli altri suoi contributi sul partito
d’avanguardia, sulla dittatura del proletariato, sui consigli operai, sulla
liberazione nazionale, sull’oppressione coloniale e semicoloniale,
sull’aristocrazia operaia, sulla burocrazia operaia, sul riformismo ecc.
Trotsky ha sviluppato il concetto di equilibrio e di
squilibrio capitalistici per spiegare la curva dello sviluppo capitalistico e
della lotta di classe che si manifestava nei primi anni Venti, e il concetto di
stato operaio burocraticamente degenerato per spiegare l’esito della
rivoluzione russa e il posto dell’Unione sovietica nell’ordine mondiale
imperialistico, così come i suoi contributi sulla rivoluzione permanente, il
fascismo, il fronte unico, il metodo transitorio, lo stalinismo, il centrismo,
ecc.
Altri marxisti – e anche non marxisti – hanno
portato altri contributi su aspetti dell’economia e della politica del sistema
capitalistico mondiale. Ma tutti questi contributi hanno aggiornato, ma non
invalidato, l’analisi di Marx ed Engels nel Manifesto.
Alcuni osservatori contemporanei argomentano che la
«globalizzazione» o il «post-industriale» costituirebbero una smentita
sostanziale della visione marxista della società capitalistica. Ma questo non
è vero.
La «globalizzazione» è un aspetto importante della
realtà capitalistica. Ma Marx ed Engels lo avevano inteso benissimo. Essi
vedevano la globalizzazione come parte della socializzazione della produzione, e
il mercato mondiale come uno dei contributi principali del capitalismo al
progresso umano.
La globalizzazione non era un mistero per Lenin, il
quale ragionava sull’importanza dell’esportazione dei capitali come uno dei
tratti fondamentali della situazione mondiale contro Kautsky e altri che
ritenevano che la globalizzazione avrebbe superato gli stati imperialistici a
base nazionale in una sorta di pacifico «ultra-imperialismo». La
globalizzazione era familiare anche a Trotsky, la cui analisi degli eventi
politici partiva sempre dalla situazione mondiale.
La globalizzazione è oggi costituita in parte da una
maggiore integrazione dell’economia mondiale e in parte da un’estensione
senza precedenti dell’informatica e delle telecomunicazioni fra loro
integrate. Ma tutto questo deve essere valutato nella giusta prospettiva. Solo
alla fine degli anni Novanta l’economia mondiale è tornata ai livelli di
integrazione del 1913 in termini di commercio e di investimenti internazionali.
E le ferrovie, i piroscafi e il telegrafo dei tempi di Marx ed Engels avevano un
impatto economico maggiore di quello che ha oggi Internet.
La globalizzazione è principalmente un’ideologia:
un’apologia dello sfruttamento capitalistico senza limiti dal momento che, per
usare un famigerato slogan di Margareth Thatcher, «non ci sono alternative».
Il «post-industriale» non se la passa meglio come
confutazione del marxismo. La forza lavoro industriale ha cominciato a declinare
in rapporto al totale della forza lavoro nelle economie capitalistiche avanzate
negli ultimi vent’anni. Ma ciò è soprattutto il risultato del rapido
incremento della produttività del lavoro nell’industria e della stagnazione
della produzione e dei livelli di vita che sono un risultato dell’attuale
squilibrio capitalistico.
Se alcune produzioni vengono trasferite dai paesi
capitalistici avanzati a quelli meno sviluppati, ciò corrisponde perfettamente
alla descrizione di Marx degli effetti dello sviluppo capitalistico ineguale e
combinato sull’India a metà del diciannovesimo secolo. I paesi capitalistici
avanzati producono ancora più dei due terzi delle merci mondiali e dei tre
quarti della produzione industriale.
I più importanti cambiamenti nella classe operaia «post-industriale»
sono il suo ampliamento, la sua composizione diversificata – in particolare
l’influenza dell’accresciuta presenza femminile e di immigrati che in Europa
è una novità del dopoguerra – e i suoi più elevati livelli di formazione.
Ma questi cambiamenti in nessun modo smentiscono il Manifesto.
«L’organizzazione dei
proletari»
Il Manifesto
del partito comunista descriveva lo sviluppo politico della classe operaia
con un linguaggio ugualmente potente:
«Sotto i nostri occhi si svolge un moto analogo. I
rapporti borghesi di produzione e di scambio, i rapporti borghesi di proprietà,
la società borghese moderna che ha creato per incanto mezzi di produzione e di
scambio, così potenti, rassomiglia al mago che non riesce più a dominare le
potenze degli inferi da lui evocate. Sono decenni ormai che la storia
dell’industria e del commercio è soltanto la storia della rivolta delle forze
produttive moderne contro i rapporti moderni della produzione, cioè contro i
rapporti di proprietà che costituiscono le condizioni di esistenza della
borghesia e del suo dominio. (...)
«A questo momento le armi che sono servite alla
borghesia per atterrare il feudalesimo si rivolgono contro la borghesia stessa.
«Ma la borghesia non ha soltanto fabbricato le armi
che le porteranno la morte; ha anche generato gli uomini che impugneranno quelle
armi: gli operai moderni, i proletari. (...)
«Ogni tanto vincono gli operai; ma solo
transitoriamente. Il vero e proprio risultato delle loro lotte non è il
successo immediato ma il fatto che l’unione degli operai si estende sempre di
più. Essa è favorita dall’aumento dei mezzi di comunicazione, prodotti dalla
grande industria, che mettono in collegamento gli operai delle differenti
località (...)
«Questa organizzazione dei proletari in classe e
quindi in partito politico torna ad essere spezzata ogni momento dalla
concorrenza fra gli operai stessi. Ma risorge sempre di nuovo, più forte, più
salda, più potente.» (id.)
Una prima obiezione può essere che questa
descrizione è «obiettivista» e presenta lo sviluppo della coscienza e
dell’organizzazione della classe operaia come una conseguenza automatica dello
sviluppo economico capitalistico. Ma l’elemento soggettivo è ben presente: i
lavoratori lottano, vincono, sono sconfitti, lottano di nuovo; si organizzano in
sindacati e partiti operai, vedono le proprie organizzazioni sconfitte e
distrutte e le ricostruiscono.
Un’altra obiezione può essere che centocinquant’anni
sono un tempo d’attesa troppo lungo. L’organizzazione dei lavoratori in
classe e in partito politico è stata sconvolta numerose volte e tuttavia «più
forte, più saldo, più potente» non sono proprio le parole che possono
descrivere lo stato odierno del movimento dei lavoratori.
Marx ed Engels certo non si attendevano che la lotta
dei lavoratori per il potere durasse centocinquant’anni. Ma essi non si
aspettavano neppure che essa fosse breve, agevole o automatica.
Comprendevano che la classe operaia non era
abbastanza forte per conquistare il potere nel 1848 e dunque proposero che i
comunisti si posizionassero all’estrema sinistra di una rivoluzione
necessariamente piccolo borghese. Si resero conto dopo il 1850 che la nuova
espansione economica rendeva la rivoluzione improbabile fino alla successiva
crisi di grandi proporzioni. Salutarono nel 1871 la Comune di Parigi anche se
dubitavano che essa potesse conservare il potere che aveva conquistato.
Il marxismo non è deterministico. Spiega che lo
sviluppo economico capitalistico rafforza numericamente e socialmente la classe
operaia e tende sia ad unificarla mediante la creazione di condizioni comuni sia
a dividerla tramite la concorrenza interna. Ciò si applica anche agli sviluppi
contemporanei, compresa la globalizzazione e la mutata composizione sociale dei
lavoratori salariati. La conclusione del Manifesto
suona ancora valida: «Lavoratori di tutto il mondo, unitevi!»
Il capitalismo spinge i lavoratori a lottare e ad
organizzarsi per poter lottare. Ciò dà ai comunisti l’opportunità di
combattere politicamente la collaborazione di classe, di conquistare
l’avanguardia al loro partito e di guidare la classe operaia all’autoemancipazione.
Lo sviluppo capitalistico crea la possibilità della
rivoluzione sociale, ma non la sua certezza. Il problema non è che Marx ed
Engels si sbagliavano sulle possibilità, sulle difficoltà o sui tempi della
rivoluzione. Durante la crisi capitalistica del 1914-49 i rivoluzionari ebbero
molte possibilità, molte difficoltà, tempi relativamente brevi e subirono
prezzi elevati per i propri fallimenti. La crisi capitalistica in cui viviamo si
presenta in modo simile.
La situazione
complessiva
A prima vista sembra che nel ventesimo secolo il
capitalismo abbia trionfato sul socialismo, come non si stancano di ripetere i
suoi apologeti. Dopo aver perso il controllo di circa un terzo del globo nella
prima metà del secolo, il capitalismo ha conosciuto un recupero di portata
storica, con una nuova espansione negli anni Cinquanta e Sessanta, resistendo
negli anni Settanta e trionfando sui propri contendenti negli anni Ottanta e
Novanta. A prima vista il socialismo non sembra altro che un sogno ormai
screditato.
La condizione di questo apparente trionfo
capitalistico è la ritirata su scala mondiale della classe operaia a partire
dagli anni Settanta. I lavoratori non sono stati in grado di difendere le loro
posizioni sociali, soprattutto a causa dei fallimenti e dei tradimenti delle
loro direzioni. Come conseguenza, i capitalisti sono stati capaci di conservare
i livelli di profitto malgrado un’economia generalmente stagnante. Hanno
aumentato il tasso di sfruttamento e accresciuto su scala mondiale le
disuguaglianze, la povertà e la miseria. Nella maggior parte dei paesi
capitalistici avanzati le borse hanno conosciuto rialzi stellari sulla base
della valutazione che la classe operaia è ormai finita come forza storica
indipendente.
Il punto più alto per i capitalisti – e il punto
più basso per i lavoratori – è stato il crollo dell’Unione sovietica e la
restaurazione del capitalismo nella terra della Rivoluzione d’Ottobre.
L’Unione sovietica ha costituito l’esperimento storico più importante di
uno sviluppo economico non capitalistico e la precondizione per ogni altro
esperimento successivo. Quando l’Unione sovietica è crollata, gli apologeti
borghesi ne hanno parlato come della prova che il capitalismo è il miglior
sistema economico possibile – ossia, in epoca moderna, l’unico possibile.
Con la ritirata del movimento operaio e la caduta
dell’Unione sovietica, anche il nazionalismo borghese e piccolo borghese è
stato sconfitto. I governi nazionalisti borghesi dall’Argentina, al Brasile,
al Messico, fino all’Algeria, all’Egitto, alla Turchia, all’India,
all’Indonesia e alla Corea del Sud, sono stati costretti ad aprire
completamente le loro economie all’imperialismo. I pochi movimenti di
liberazione nazionale che sopravvivono e i governi da essi espressi hanno
abbandonato ogni pretesa di antimperialismo, dal Sudafrica all’Angola, al
Mozambico, alla Palestina, all’Irlanda.
L’assenza di nemici comuni non è ancora sfociata
in un conflitto aperto tra le potenze imperialiste. Si è consolidato il
predominio militare degli Stati uniti con la «vittoria» della Guerra fredda.
Ma essi non hanno cercato di sopraffare gli altri imperialisti dopo la guerra
del Golfo del 1991. La riduzione delle spese militari e la persistente ripresa
dell’economia mondiale hanno significato che gli Stati uniti potevano
conservare la guida dell’economia mondiale senza il ricorso a pressioni extra
economiche. Assorbiti dai propri problemi economici, gli altri paesi
imperialistici non avevano intenzione di sfidare gli Stati uniti o di sfidarsi a
vicenda.
La politica economica preferita dall’imperialismo
al giorno d’oggi è il neoliberismo, che ha imposto praticamente a tutto il
mondo. Gli elementi di questa politica includono la liberalizzazione dei mercati
al commercio e agli investimenti imperialistici, la stabilizzazione monetaria,
una regolamentazione ridotta alla sola protezione dei diritti del capitale, la
privatizzazione delle aziende statali, la riduzione delle spese pubbliche, tagli
ai servizi pubblici, l’eliminazione dei sussidi ai consumatori, meno
favoritismi e corruzione.
La forma politica preferita dell’imperialismo al
giorno d’oggi è la democrazia borghese, nella quale gli oppressi eleggono
periodicamente i rappresentanti dei loro oppressori. Generalmente parlando, la
democrazia costituisce per i capitalisti una forma di governo più economica e
più efficiente della dittatura, poiché il consenso è meno costoso e più
efficace della coercizione e perché i dittatori di solito pretendono troppo per
se stessi. Con la fine della Guerra fredda, i capitalisti pretendono un governo
a buon mercato e relativamente pulito: «il migliore che il denaro può
acquistare».
A un esame più ravvicinato, le contraddizioni del «nuovo
ordine mondiale» saltano facilmente all’occhio. L’economia capitalista
mondiale è ancora stagnante, soffre di una sovraccumulazione di capitale e di
mezzi di produzione. Impossibilitati di fare concessioni ai lavoratori della
portata di quelle degli anni Cinquanta, i capitalisti sono costretti ad
abbassare drasticamente i livelli di vita per conservare i tassi di profitto.
Ma c’è un limite a quello che i lavoratori sono
disposti a subire. E via via che paese dopo paese questo limite viene raggiunto,
si sviluppano lotte difensive e anche rivoluzionarie. Il successo di queste
lotte dipende dai livelli di coscienza e di organizzazione dei lavoratori e
dallo sviluppo di partiti rivoluzionari e da un’Internazionale rivoluzionaria.
I paesi imperialisti
Le classi dominanti nei paesi capitalistici avanzati
hanno perseguito il medesimo obiettivo: aumentare i profitti riprendendosi le
conquiste sindacali, sociali e democratiche che avevano concesso alla classe
operaia dagli anni Quaranta agli anni Sessanta.
Ciò ha comportato la «razionalizzazione» del
lavoro salariato mediante chiusure, licenziamenti, svendite, lavori part-time e
temporanei, straordinari obbligatori, intensificazione dei ritmi lavorativi,
riduzione o eliminazione delle indicizzazioni del salario al costo della vita,
dei sistemi di integrazione salariale e di assistenza sociale e di altre
analoghe misure. Spesso queste misure sono descritte come «necessarie» alla
competizione globale e combinate con misure fittizie di «concertazione» fra
capitale e lavoro per cercare di minimizzare la resistenza.
Ciò ha anche significato l’adozione nelle imprese
statali di criteri privatistici di gestione e in seguito la loro totale
privatizzazione appena esse giungono a produrre profitti; il taglio dei servizi
sanitari, dell’istruzione e degli altri servizi sociali; lo smantellamento
dello stato sociale tramite la riduzione degli assegni di disoccupazione, la
trasformazione del «welfare»
(assistenza sociale) in «workfare»
(assistenza al lavoro) ma senza offerta di lavoro, la riduzione dei sussidi per
gli indigenti, l’innalzamento dell’età pensionabile e il taglio delle
pensioni.
Ciò ha significato la riduzione dei diritti
democratici, necessaria per imporre queste misure. Nella maggior parte dei paesi
i padroni e i governi hanno introdotto restrizioni dei diritti sindacali di
organizzazione e di sciopero e ridotto il potere dei delegati sindacali e dei
consigli di fabbrica. Sono stati «snelliti» i regolamenti in materia di salute
e di sicurezza, e ridotti i poteri dei tribunali del lavoro e di altri organi
amministrativi di intervenire nei rapporti di lavoro. Sono state pure imposte
restrizioni all’attività politica e sindacale e sono state limitate le
normative elettorali proporzionali e in genere quelle favorevoli allo sviluppo
dei partiti di sinistra.
Ciò ha significato attacchi agli immigrati e alle
minoranze razziali. I governi hanno chiuso le frontiere contro i migranti dal
Sud del mondo, hanno limitato il diritto di asilo, hanno deportato i lavoratori
senza documenti, tagliato l’assistenza sociale ai non cittadini, hanno
diminuito le istruzioni nelle lingue degli immigrati. Sono state abolite le «azioni
positive» (a favore dei soggetti sfavoriti) e ridotta l’applicabilità delle
leggi sui diritti civili. Sempre più spesso i minorenni vengono criminalizzati,
arrestati, imprigionati, picchiati e sparati, con l’alibi della lotta al
crimine e alla droga. Le discriminazioni e l’intolleranza hanno ricominciato
ad imperversare. L’estrema destra ha costruito le sue fortune elettorali sulla
demagogia contro gli immigrati e il razzismo. E sono proliferati i gruppi
fascisti.
Ciò ha significato attacchi alla condizione sociale
e ai diritti civili delle donne. Il taglio dei servizi sociali ha colpito
maggiormente le donne, dal momento che sono esse che solitamente devono farsi
carico dei servizi che lo stato non intende più fornire. L’eliminazione dei
programmi di azioni positive hanno spesso rinchiuso delle porte che si erano
appena aperte. In molti paesi le restrizioni al diritto di aborto e al controllo
delle nascite hanno messo in discussione i diritti riproduttivi. I mass media,
le chiese, le scuole e i politici promuovono i «valori della familia»
patriarcale, con lo scopo di rinchiudere di nuovo le donne nei ruoli
tradizionali.
Le classi dominanti hanno usato i governi tanto di
sinistra che di destra per realizzare le proprie politiche. In genere esse
tendevano «a sinistra» negli anni Settanta, rivolgendosi ai partiti liberali e
ai partiti operai-borghesi per contenere le sollevazioni operaie e giovanili.
Hanno fatto poi una svolta «a destra» negli anni Ottanta e Novanta,
rivolgendosi ai partiti conservatori per imporre le misure che i partiti
liberali e socialdemocratici non potevano far ingoiare alla propria base. E ora
virano di nuovo «a sinistra» per imporre quelle misure che i lavoratori non
accetterebbero dai conservatori o per consolidare le misure che sono già state
imposte da questi ultimi.
Ridefinendo se stessi nel nuovo ordine mondiale, i
partiti conservatori hanno virato verso l’estrema destra, i partiti liberali
sono diventati conservatori, i partiti socialdemocratici si sono rifondati come
liberali, i partiti verdi hanno accettato alleanze con gli inquinatori e i
guerrafondai, i partiti stalinisti sono diventati socialdemocratici e i partiti
precedentemente rivoluzionari sono diventati riformisti.
In questo quadro generale, ci sono delle differenze
importanti tra i paesi capitalistici avanzati. Il crollo dell’Unione
sovietica, la guerra del Golfo e altri interventi militari, le relativamente
buone prestazioni dell’economia americana dal 1992 in avanti, hanno rafforzato
l’egemonia degli Stati uniti sulle altre potenze imperialiste. Per la prima
volta in venticinque anni l’imperialismo americano si presenta spudoratamente
come un modello per il mondo intero. Le politiche borghesi negli Stati uniti
sono diventate un vuoto utilizzo di pubblicità e di scandali, dato che la
classe dominante e i suoi partiti non sentono alcuna necessità di cambiare
qualcosa di significativo.
Gli altri paesi imperialisti di lingua inglese hanno
visto una «americanizzazione» della loro politica, con qualche imitazione di
Bill Clinton, come Tony Blair, a fornire una faccia nuova a delle politiche
conservatrici.
E’ più complessa la situazione dell’Europa
continentale. I conservatori hanno avuto qui meno successo, per cui le classi
dominanti si sono rivolte alla «sinistra» per completare il lavoro. In Francia
e in Italia governi di «sinistra» o di «centrosinistra» stanno imponendo
delle politiche neoliberiste con l’alibi della promessa illusoria della
riduzione dell’orario. Anche la Germania potrebbe incamminarsi presto sulla
stessa strada. Le parole in codice di queste politiche sono «Europa» ed «euro».
L’Unione economia e monetaria europea ha abolito
molte frontiere fra i suoi membri ma non può creare uno stato europeo. Le
classi dominanti delle maggiori potenze europee non rinunceranno al controllo
dei rispettivi apparati statali. Nel caso di future crisi economiche e sociali
si rivolgeranno a questi apparati per cercare protezione dalla concorrenza e
dalla lotta di classe e l’Europa si frantumerà lungo le sue linee di frattura
storiche.
Per adesso, tuttavia, l’Unione europea provvede un
ambito di protezione contro gli Stati uniti e il Giappone e l’euro è un alibi
straordinario per attaccare quanto rimane dei sistemi di sicurezza sociale e le
altre conquiste della classe operaia.
Negli anni Settanta e Ottanta sembrava che il
Giappone costituisse un’eccezione tra i paesi imperialisti, crescendo a loro
spese, quali che fossero le condizioni economiche. Ma a partire dagli anni
Novanta le contraddizioni del capitalismo avanzato hanno investito anche il
Giappone. Le sue riserve di manodopera proveniente dalle campagne erano
esaurite, mancava di risorse naturali essenziali, non poteva più fare
affidamento sulla tecnologia d’importazione, il suo mercato interno e i suoi
mercati di esportazione si sono rivelati troppo ristretti per assicurare la
crescita, i costi troppo elevati per sconfiggere i concorrenti. E’ scoppiata
infine la bolla speculativa e la sua economia è entrata in una fase di
ristagno.
Una rivoluzione non sembra probabile in nessuno dei
paesi capitalistici avanzati nel prossimo futuro. Ma negli ultimi anni gli
scioperi militanti in paesi come la Francia, la Grecia, la Germania, il Canada,
gli Stati uniti, l’Australia e la Danimarca hanno mostrato quali sono le
potenzialità di lotta. Come pure le manifestazioni dei giovani contro il
razzismo e per i diritti degli immigrati. Persino l’elezione di governi «di
sinistra» riflette la rabbia operaia contro la «festa» capitalistica.
Ascesa e declino
dell’Unione sovietica
L’evento più straordinario del ventesimo secolo è
stato sicuramente l’ascesa e la caduta dell’Unione sovietica. Sorto dalla
crisi della Russia autocratica e arretrata durante la prima guerra mondiale, lo
stato operaio sovietico contro tutte le previsioni riuscì a sopravvivere alla
devastazione della guerra, alla guerra civile e al blocco imperialistico.
Salvato dalla determinazione della classe operaia russa, dall’intelligenza
politica della direzione bolscevica, dalla simpatia degli operai del mondo
intero e dalla sollevazione rivoluzionaria che pose fine alla guerra, lo stato
operaio si trovò infine isolato a causa del fallimento della rivoluzione
europea.
Dall’isolamento e dall’arretratezza della Russia
trasse vantaggio la burocrazia statale per consolidare il suo monopolio del
potere politico sulla classe operaia, malgrado il rovesciamento del capitalismo.
Passaggi cruciali in questo processo furono la sconfitta dell’Opposizione di
sinistra trotskista nel 1923-24, la vittoria della fazione di Stalin nel
1927-28, l’industrializzazione e la collettivizzazione forzate del 1929-1933 e
le purghe sanguinose del 1935-36, in combinazione con la sconfitta della
rivoluzione tedesca del 1923 e della rivoluzione cinese del 1927 e con la
vittoria di Hitler nel 1933.
La controrivoluzione politica in Unione sovietica era
un fatto compiuto verso la metà degli anni Trenta, ma l’impulso fornito dalla
rivoluzione era stato così forte che per la controrivoluzione economica e
sociale occorsero altre sessant’anni, e esso ancora continua. La superiorità
economica della proprietà statale dei mezzi di produzione e della
pianificazione centralizzata consentì all’Unione sovietica di evitare i
disastri della depressione degli anni Trenta, di realizzare
l’industrializzazione, di armarsi e di sopravvivere all’assalto della
Germania di Hitler.
La seconda guerra mondiale, più della prima,
produsse una crisi rivoluzionaria. Dopo la fine della guerra il capitalismo
venne rovesciato in Europa orientale, in Cina, in gran parte dell’Indocina e
della Corea. Ma la collaborazione delle direzioni staliniste e
socialdemocratiche con l’imperialismo e la debolezza delle forze trotskiste
comportò che il capitalismo riuscisse a conservarsi al potere nella maggior
parte del mondo, compresi i paesi capitalistici avanzati.
Gli anni Cinquanta e Sessanta videro ripetuti
contrapposizioni tra l’Unione sovietica e gli Stati uniti, ma il quadro di
riferimento dei loro rapporti rimase la «coesistenza pacifica», come lo
chiamavano gli stalinisti, o il «contenimento», come la chiamavano gli
imperialisti. Ma nessuno dei due contendenti minacciò mai realmente
l’esistenza dell’altro.
Questo cambiò negli anni Settanta, allorché la
burocrazia sovietica diede il suo appoggio ad alcuni dei fronti della sfida
mondiale all’imperialismo, in modo particolare alla rivoluzione vietnamita, e
gli Stati uniti e le altre potenze imperialiste risposero con una controffensiva
di cui era parte la corsa agli armamenti di Carter e Reagan.
L’Unione sovietica aveva sopportato molto di peggio
nei suoi primi anni, ma negli anni Settanta essa doveva fare i conti con le sue
contraddizioni. Come un paziente la cui costituzione è stata minata da anni di
stravizi e di malattie, l’Unione sovietica mancava delle risorse fisiche e
morali per superare quest’ultima crisi.
Le due contraddizioni fondamentali dell’Unione
sovietica per la maggior parte della sua esistenza sono state la contraddizione
tra il carattere mondiale dell’economia e il suo isolamento in un mondo
dominato dall’imperialismo, e la contraddizione tra la necessità della
democrazia operaia per sviluppare il potenziale dell’economia pianificata e
collettivizzata e il dominio della burocrazia stalinista.
La corsa agli armamenti di Carter e Reagan impose un
peso tremendo sull’Unione sovietica mentre la stagnazione dell’economia
capitalistica mondiale limitava i suoi margini di manovra economici. Ma i
problemi principali erano in casa.
Quella sovietica era ormai un’economia matura che
non poteva più crescere rapidamente con i metodi «estensivi» di impiegare
quantità crescenti di forza lavoro, di terra, di materie prime, di energia, di
macchinari e di altri mezzi di produzione alla vecchia maniera. C’era la
necessità di adottare i metodi «intensivi» per aumentare la produttività del
lavoro e far progredire il livello tecnologico e la qualità dei prodotti. Ma
questo avrebbe richiesto di rimpiazzare il dirigismo burocratico con l’automotivazione
collettiva e la creatività del controllo operaio.
A partire dagli anni Ottanta l’economia sovietica
era ormai in condizioni di stagnazione. Settori della burocrazia e della classe
media cominciavano a invidiare la libertà dei capitalisti occidentali di
sfruttare i lavoratori e di arricchirsi a fronte delle costrizioni del proprio
sistema. Mentre il sistema non riusciva a soddisfare le richieste e la memoria
storica si affievoliva, i lavoratori si preoccupavano sempre meno di ciò che
stava succedendo all’Unione sovietica.
Con Michail Gorbaciov la burocrazia cercò di frenare
questo processo, prendendo a prestito la perestrojka
dall’economia di mercato capitalistica e la glasnost
dalla democrazia borghese. Ma queste politiche semplicemente accelerarono il
collasso indebolendo il centro burocratico senza costruire un’alternativa. La
stagnazione si trasformò in crisi, poiché i burocrati e i dirigenti di ogni
unità politica ed economica del paese si accapigliavano per proteggersi dalla
catastrofe imminente.
Il fallimento del maldestro colpo di stato
dell’agosto 1991 portò Boris Eltsin al potere. Il quale, quattro mesi dopo,
assieme ai burocrati restaurazionisti del capitalismo nelle altre repubbliche,
sciolse l’Unione sovietica.
La restaurazione del
capitalismo negli ex stati operai
La vittoria di Eltsin diede il via alla restaurazione
capitalista ma ci sono voluti vari anni per portarla a compimento. I nuovi
governi delle ex repubbliche sovietiche annullarono la pianificazione
centralizzata e il monopolio statale del commercio estero. Liberalizzarono
progressivamente i prezzi e privatizzarono la maggior parte delle industrie
statali, inizialmente con una larga componente di proprietà nominale dei
dipendenti. Tagliarono i sussidi governativi e i crediti bancari alle imprese in
perdita.
Si sviluppò presto una nuova classe di capitalisti
poiché i burocrati e i dirigenti d’azienda trovarono il modo di volgere la
crisi a proprio vantaggio. Scaltri, spietati, corrotti, violenti e fortunati, i
nuovi capitalisti somigliano ai rapaci magnati dell’epoca dell’ascesa
dell’imperialismo.
Il processo di restaurazione capitalistica ebbe
effetti catastrofici sull’economia e sulla società. La produzione industriale
crollò del 50%. L’inflazione salì alle stelle e i conti, le tasse e i salari
non venivano più pagati. Crollarono i livelli di vita. I servizi sanitari si
deteriorarono rapidamente. Aumentò la mortalità infantile e declinò
l’aspettativa di vita. La miseria di massa forniva lo sfondo
all’ostentazione dei nuovi ricchi.
Solo due forze avrebbero potuto impedire la
restaurazione capitalistica: i settori della ex burocrazia e dell’esercito che
pensavano che la proprietà statale fosse necessaria perché l’Unione
sovietica restasse un grande paese con loro stessi al comando, e la classe
operaia sovietica, che in ultima analisi poteva difendere se stessa soltanto
opponendosi alla restaurazione capitalistica.
Il parlamento russo divenne il centro della
resistenza politica dei burocrati alla restaurazione capitalistica. Ma esitò
troppo a lungo e si trovò senza sostegno militare quando Eltsin si mosse per
scioglierlo. L’ottobre del 1993 fu una ripetizione dell’agosto 1991, tranne
che questa volta Eltsin aveva le armi e le utilizzò.
Il governo Eltsin divenne immensamente impopolare,
specialmente i ministri associati con la «terapia d’urto» economica. Gli
elettori si volsero verso i nazionalisti russi e i vari spezzoni dell’ex
Partito comunista dell’Unione sovietica. Ma né gli uni né gli altri
offrirono un’alternativa reale a Eltsin. Questo fu chiaro a tutti quando il
Partito comunista della Federazione russa nei fatti concesse a Eltsin il secondo
turno alle presidenziali del 1996, trasformandosi in una leale opposizione parlamentare.
I lavoratori della Russia, dell’Ucraina e delle
altre repubbliche ex sovietiche hanno scioperato ripetutamente per difendere il
posto di lavoro e per il salario, e qualche volta per obiettivi politici. Ma
queste lotte sono rimaste troppo episodiche per ottenere la maggior parte dei
loro obiettivi parziali, ancor più per arrestare il processo di restaurazione
capitalistica. La classe operaia è stata troppo confusa e demoralizzata dalla
sua esperienza sotto lo stalinismo per vedere o per lottare per una propria
strada al di là dei dirigenti del Partito comunista e del sindacato.
La legge del valore non opera ancora liberamente in
Russia o negli altri stati ex sovietici. Le loro economie sono troppo caotiche
per questo. E verosimilmente la situazione peggiorerà ancora prima di
migliorare, con la possibilità di passare attraverso un periodo di dittatura
militare o addirittura fascista, prima che la Russia ritrovi la stabilità come
grande potenza capitalistica, sempre che essa sia in grado di farlo.
Ma i governi delle ex repubbliche sovietiche
difendono la proprietà capitalistica dei mezzi di produzione e conservano un
sufficiente controllo del proprio territorio e delle proprie economie da poter
considerare come capitalistici i nuovi stati.
Fra le conseguenze dello smembramento dell’Unione
sovietica e della lotta fra le sue parti per contendersi le sue spoglie ci sono
le guerre civili e nazionali. L’Armenia e l’Azerbaigian si combattevano
ancor prima del crollo dell’Urss. La Russia ha alimentato il separatismo
nazionale in Georgia nel tentativo di tenerla legata a sé. In una guerra
disastrosa per entrambi i contendenti la Russia ha quasi distrutto la Cecenia
per impedirle di lasciare la Federazione russa. Le guerre civili nelle
repubbliche dell’Asia centrale hanno coinvolto non solo ambizioni burocratiche
e capitalistiche ma anche conflitti nazionali ed etnici, fondamentalismo
religioso e intrighi stranieri.
I lavoratori hanno reagito troppo lentamente al
disastro per riuscire a prevenire la restaurazione capitalistica. Ma i loro
livelli di vita e i loro diritti democratici sono tuttora sotto attacco. Il
capitalismo non ha una base di massa. Da nessuna altra parte le condizioni
obiettive della rivoluzione sono più mature.
La restaurazione
capitalistica negli altri stati operai deformati
Il processo di restaurazione capitalistica è andato
più avanti nei paesi più avanzati dell’Europa orientale. La Germania
dell’Est è stata assorbita dalla Germania occidentale. La Polonia,
l’Ungheria e la Repubblica Ceca sono ora membri associati dell’Unione
europea e della Nato. La Slovenia ha essenzialmente lo stesso status, sebbene su
una base informale. Meno attraenti per l’imperialismo, gli stati baltici, la
Romania e la Bulgaria si stanno integrando più lentamente.
La Jugoslavia è stata spazzata via dalle manovre
delle burocrazie staliniste delle sue repubbliche nazionali, ciascuna delle
quali cercava la restaurazione capitalistica nei termini più vantaggiosi, e
dagli intrighi delle potenze imperialiste alla ricerca di influenza nella
regione. La Germania in questa dissoluzione ha giocato un ruolo particolarmente
pernicioso.
I conflitti nelle multinazionali Croazia e Bosnia
hanno causato distruzioni immense e condotto alla spartizione della Bosnia in
tre zone etniche esclusive e alla pulizia etnica dei serbi in Croazia. Ora i
combattimenti sono scoppiati nella provincia serba del Kosovo, la cui
maggioranza albanese era la sola minoranza nazionale realmente oppressa
dell’ex Jugoslavia. Di qui essi possono facilmente estendersi alla Macedonia,
che ha una larga minoranza di albanesi, e all’Albania.
L’Albania, il paese economicamente più arretrato
dell’Europa orientale, è anche l’unico che ha conosciuto una rivoluzione
parzialmente diretta contro le conseguenze disastrose della restaurazione
capitalistica. Le condizioni erano diventate così disperate nel 1997 che gli
operai e i contadini si sono sollevati, armi alla mano, e hanno rovesciato il
governo corrotto di Sali Berisha. L’ex Partito comunista formò allora un
governo fondato su una coalizione di fronte popolare che risolse la situazione a
favore dell’imperialismo.
La Cina, il paese più popoloso del pianeta, rimane
uno stato operaio – deformato e in dissoluzione – ma tuttavia uno stato
operaio. A partire dalla metà degli anni Ottanta la burocrazia cinese ha
perseguito una politica di perestrojka
senza glasnost, mercato senza
democrazia. Finora questa politica ha avuto successo.
Le dimensioni e l’arretratezza della Cina hanno
consentito alla burocrazia di mantenere il controllo delle «cime dominanti»
dell’economia, pur consentendo gli investimenti e lo sfruttamento
capitalistici nell’industria di esportazione ad alta intensità di lavoro.
Tale combinazione ha consentito alla Cina di crescere più rapidamente e senza
interruzione di qualsiasi altra economia prevalentemente capitalistica grosso
modo della sua taglia.
Le dimensioni e l’arretratezza della Cina hanno
anche reso difficile sia all’opposizione filocapitalistica sia a quella
filooperaia di diventare abbastanza forti da sfidare il dominio burocratico. La
sfida capitalistica si presenta essenzialmente come evasione fiscale,
contrabbando, corruzione. La sfida dei lavoratori si presenta essenzialmente
come resistenza individuale al lavoro, sebbene la Cina abbia visto un numero
impressionante di scioperi, nonostante l’alto livello di repressione.
Tuttavia, memori del massacro di Piazza Tien An Men, gli oppositori politici del
regime si muovono ancora con prudenza.
La situazione attuale non può durare all’infinito.
La creazione in Cina di un mercato capitalistico interno e la sua apertura al
mercato capitalistico internazionale significa che le cime dominanti sono
destinate a cadere. La burocrazia può rimanere coesa abbastanza a lungo da
arrivare a fare una scelta deliberata in favore della restaurazione
capitalistica. Oppure potrà dividersi, come è accaduto in Unione sovietica, ed
essere trascinata dalla marea restaurazionista. Ma in un modo o nell’altro il
capitalismo sarà restaurato in Cina, a meno che una rivoluzione operaia non lo
prevenga.
Anche l’Indocina, la Corea del Nord e Cuba sono
attratte nel vortice imperialista. La restaurazione capitalistica è
inevitabile, a meno che una rivoluzione operaia in questi paesi e nei paesi
vicini non lo impedisca.
Sviluppi nelle
semicolonie
La grande maggioranza della popolazione mondiale vive
in paesi semicoloniali dominati dall’imperialismo. La politica oggi preferita
dall’imperialismo in questi paesi, come nelle metropoli, è il neoliberismo
con una mascheratura democratica.
Il neoliberismo non rappresenta niente di nuovo per i
tradizionali regimi compradores che
hanno sempre aperto le loro economie all’imperialismo. Ma oggi questi regimi
si trovano sotto un controllo più stretto di quanto non lo fossero nel periodo
della Guerra fredda. Oggi gli imperialisti criticano le manifestazioni di
inefficienza e di corruzione, le frodi elettorali e le violazioni dei diritti
umani che avrebbero ignorato dieci anni fa. Non vedono più alcuna ragione per
pagare profumatamente degli agenti locali di cui si può fare a meno, o di
essere posti sotto accusa per i loro eccessi, come hanno scoperto con sgomento
il dittatore zairese Mobutu, l’indonesiano Suharto, o anche il messicano
Salinas.
Le dittature militari sono cadute in disgrazia presso
gli imperialisti che le considerano economicamente e politicamente troppo
costose. Nelle attuali condizioni di relativa pace sociale nella maggior parte
dei paesi, gli imperialisti preferiscono che i militari si astengano da un
diretto coinvolgimento in politica e lascino il posto ai governi civili. Allo
stesso tempo continuano a sponsorizzare le forze armate in tutto il globo come
clienti per le proprie industrie militari e come assicurazione contro rivolte
future.
Nell’ultimo decennio i regimi nazionalisti borghesi
hanno messo da parte le loro aspirazioni ad uno sviluppo economico indipendente.
Allo scopo di fare affari con gli imperialisti e di conquistare un posto
nell’economia globale, hanno dovuto aprire completamente i propri mercati
interni, mettere fine alla protezione e ai sussidi a favore dell’industria
nazionale e annullare gli accordi corporativi miranti alla pace sociale.
I regimi nazionalisti piccolo-borghesi che ieri si
professavano «marxisti-leninisti» oggi confessano i loro errori, impongono le
politiche d’austerità dettate dal Fondo monetario internazionale e tengono
elezioni ammettendo i controrivoluzionari armati. I movimenti di liberazione
nazionale che non sono al potere rinunciano alle loro aspirazioni
rivoluzionarie, si trasformano in opposizioni parlamentari e promettono, se
eletti, di continuare le politiche del Fondo monetario internazionale.
I partiti stalinisti che sopravvivono a volte
oppongono resistenza alle politiche neoliberiste, ma sono così profondamente
irretiti in coalizioni di fronte popolare con forze borghesi che la loro
resistenza cede rapidamente.
Il ritiro delle tradizionali direzioni semicoloniali
ha lasciato un vuoto politico che in molti paesi è stato colmato dal
fondamentalismo religioso. I partiti fondamentalisti sono proni alle esigenze
capitalistiche tanto quanto le loro controparti laiche, ma il loro apparente
antagonismo all’imperialismo li rende attraenti per settori della classe media
urbana, per i contadini e per le masse urbane povere che subiscono gli effetti
delle politiche imperialiste.
L’attuale «crisi asiatica» mostra i limiti delle
politiche neoliberiste. Fino all’anno scorso l’Asia orientale era la vetrina
del capitalismo. Anche dopo che il Giappone aveva cominciato a vacillare, le «quattro
tigri» (Corea del Sud, Taiwan, Hong Kong e Singapore) venivano portate a
modello di uno sviluppo economico di successo.
Ora le loro bolle speculative sono scoppiate. Hong
Kong e Singapore hanno rivelato di essere soltanto degli isolati ed alquanto
costosi avamposti imperialistici per il commercio e gli investimenti nella
regione piuttosto che entità economiche indipendenti, come ha dimostrato
chiaramente la cessione di Hong Kong alla Cina da parte della Gran Bretagna. La
Corea del Sud e Taiwan hanno rivelato di essere delle guarnigioni della Guerra
fredda i cui dirigenti locali potevano tenere bassi i salari e sviluppare
un’industria d’esportazione ad alta intensità di lavoro solo perché
protetti dalle armi americane.
Le «tigri» asiatiche sono cadute nella medesima
trappola dei precedenti «miracoli economici» dell’Argentina, del Brasile e
dell’Iran. I loro livelli di vita sono troppo bassi per creare un mercato
interno adeguato ai loro prodotti. La produttività del lavoro è troppo bassa
per competere con i paesi capitalistici avanzati. I loro salari troppo alti per
competere con il secondo gruppo di «tigri». I popoli vogliono la democrazia. I
giovani si ribellano. E la classe operaia è troppo forte per essere
schiacciata.
Negli anni Novanta altri quattro paesi asiatici si
sono aggiunti al club delle «tigri» asiatiche: la Tailandia, la Malesia,
l’Indonesia e le Filippine. Meno direttamente legati all’imperialismo e più
rappresentativi della realtà asiatica, non hanno tuttavia mai avuto la
possibilità di spiccare il volo, prima di cadere. Ma le loro economie si sono
sviluppate quanto basta per creare molte delle contraddizioni sociali e
politiche che hanno mutato la Corea del Sud, come la sollevazione di massa in
Indonesia ha mostrato su scala gigantesca.
Molto più popolosa dell’Indonesia, e presto più
popolosa della stessa Cina, l’India possiede il più ampio spettro di
condizioni economiche e sociali del mondo: dall’analfabetismo di massa alla
matematica più avanzata, dagli esseri umani ridotti a bestie da soma alle armi
nucleari. Lo sviluppo ineguale e combinato dell’India ha creato una enorme
classe operaia urbana che convive con una ancor più numerosa popolazione rurale
di contadini e di salariati agricoli.
Sia il governo precedente del laico nazionalista
Partito del congresso che il governo attuale del fondamentalista hindu Bjp
accettano il quadro neoliberista e imperialista. Entrambi sostengono disastrose
politiche nazionalistiche e militariste, compresa la corsa agli armamenti con il
Pakistan. Il Bjp aggiunge a questo un aperto disprezzo per la democrazia e la
protezione dell’organizzazione paramilitare Rss.
Paragonata all’Asia, l’America Latina sembra un
continente pacifico. Ma mostra le medesime contraddizioni e un livello di
sviluppo economico generalmente più alto. Il modello neoliberista per
l’America latina è stato sviluppato dalla dittatura di Pinochet in Cile ma
ora è stato abbracciato dai governi apparentemente democratici dall’Argentina
al Brasile al Messico.
Nella maggior parte dei paesi i militari sono tornati
nelle caserme, ma la polizia e i gruppi paramilitari continuano a terrorizzare i
contadini, gli indigeni e i poveri delle città. Fujimori guida comunque un
regime che è de facto una dittatura
militare in Perù, mentre il governo della Colombia è impegnato in una guerra
sporca contro i contadini e i ribelli di sinistra simile alla guerra condotta
negli anni Ottanta in Salvador e in Guatemala, con tanto di aiuto militare e di
operazioni segrete degli Stati uniti.
In ogni paese il neoliberismo ha significato drastici
tagli dei redditi e dei livelli di vita della classe operaia e della classe
media. Solo i più ricchi hanno tratto vantaggio dalla modesta ripresa economica
degli ultimi anni. Gli imperialisti e le classi dominanti locali sono riuscite
finora a reggere ogni tempesta ma le tensioni sociali restano elevate.
L’Africa del Nord e il Medio Oriente sono
economicamente stagnanti e politicamente lacerati fra i fallimentari regimi
borghesi nazionalisti e compradores di
ieri e i fondamentalisti islamici che cercano di soppiantarli. La classe operaia
è irrequieta, ma non vede vie d’uscita.
L’Iran è passato attraverso la peggiore delle sue
controrivoluzioni fondamentaliste e sta assistendo a una modesta ripresa delle
lotte politiche e sindacali. L’Algeria è ancora nel vortice di una lotta tra
i nazionalisti corrotti e discreditati e i fondamentalisti. La Turchia sembra
imboccare la stessa strada.
L’Irak è ancora in rovina a causa della guerra del
Golfo e delle sanzioni imperialiste. La lotta di liberazione nazionale del
popolo curdo è compromessa senza speranze nell’Irak settentrionale, ancora
repressa nell’Iran settentrionale e incapace di fare dei passi avanti in
Turchia orientale. L’agonia della Palestina continua, dal momento che le
concessioni dell’Olp non riescono a smuovere Israele e gli Stati uniti,
malgrado l’insoddisfazione dell’amministrazione Clinton secondo cui
Nethanyau dovrebbe fare di più.
L’Africa subsahariana, tranne il Sudafrica, è
nelle condizioni peggiori dall’indipendenza. Durante la Guerra fredda gli
imperialisti e l’Unione sovietica avevano gareggiato per l’influenza nella
regione, finanziando e armando i governi africani amici. Ora sono finiti i
finanziamenti, ma restano le armi. Molti governi si sono disintegrati, essendo
diventati i loro generali signori della guerra e i loro soldati banditi.
Le divisioni etniche, alimentate dai governi
coloniali e postcoloniali, aggravano il caos. Il risultato sono i conflitti
etnici frequenti e talvolta genocidi, dei quali quello del Ruanda è l’esempio
peggiore ma ben lungi dall’essere l’unico. I rifugiati sono decine di
milioni e la malaria, l’Aids e altre malattie devastano le popolazioni.
I movimenti di liberazione nazionale in genere hanno
accettato i diktat
dell’imperialismo. Sudafrica, Mozambico, Angola, Congo, Eritrea, Palestina,
Nicaragua, El Salvador: nomi che evocano ancora ricordi di lotte eroiche, ma il
romanzo è finito da un pezzo.
Anche l’Irlanda segue la stessa strada, in termini
politici se non economici, dal momento che l’Ira sembra voler rinunciare alla
lotta repubblicana in cambio di una promessa non scritta di una riunificazione
che potrebbe forse avvenire nei prossimi cinquant’anni.
Solo le lotte di liberazione più determinate e
spietate rimangono fedeli a se stesse: Sentiero luminoso in Perù, il Pkk in
Kurdistan e le Tigri Tamil in Sri Lanka. (Dopo che questo documento era stato
scritto, il Pkk ha dichiarato l’abbandono della lotta armata e della sua
rivendicazione di un Kurdistan indipendente).
Anche l’abdicazione della maggior parte dei
nazionalisti radicali piccolo-borghesi ha contribuito a lasciare un vuoto
politico.
Equilibrio e squilibrio
capitalistici
Nel 1921-22 l’Internazionale comunista discutesse
le prospettive della rivoluzione dopo la sconfitta delle tre ondate di lotte
rivoluzionarie in Europa del 1918, del 1919 e del 1921. Leone Trotsky,
incorporando le osservazioni empiriche di Nikolai Kondratiev e altri, sviluppò
allora la concezione di equilibrio e squilibrio nello sviluppo capitalistico per
dar conto delle apparenti «onde lunghe» nella curva dello sviluppo
capitalistico. Trotsky espose questa concezione in un rapporto al terzo
congresso dell’Internazionale comunista.
«Con la
guerra imperialista siamo entrati nell’epoca della rivoluzione, nell’epoca
cioè in cui i pilastri stessi dell’equilibrio capitalistico sono scossi e
stanno crollando. L’equilibrio capitalistico è qualcosa di estremamente
complesso. Il capitalismo produce questo equilibrio, lo spezza, lo ristabilisce
per spezzarlo di nuovo, estendendo contemporaneamente l’ambito della sua
dominazione. Nella sfera economica queste continue rotture e questi continui
ristabilimenti dell’equilibrio assumono la forma di crisi e di boom. Nella
sfera dei rapporti tra le classi la rottura dell’equilibrio assume la forma di
scioperi, serrate, lotte rivoluzionarie. Nella sfera dei rapporti tra Stati la
rottura dell’equilibrio significa guerre: in forma più moderata guerre
doganali, guerre economiche e blocchi. Così il capitalismo è caratterizzato da
un equilibro dinamico, un equilibrio che è sempre in fase di rottura o in fase
di ristabilimento. Ma contemporaneamente questo equilibrio possiede una grande
capacità di resistenza: la prova migliore consiste nel fatto che sino ad oggi
il mondo capitalista non è stato rovesciato.» (Lev Trotsky: Relazione
sulla crisi economica mondiale e i nuovi compiti dell’Internazionale comunista,
23 giugno 1921, in Problemi della
rivoluzione in Europa, Mondadori 1979, p. 122).
L’immagine di Trotsky di una nave in mezzo alla
tempesta rende vivacemente la natura conflittuale sia dell’equilibrio sia
dello squilibrio capitalistici. Nulla è calmo; nulla è semplicemente «economico».
La transizione fra una condizione e l’altra è ben lungi dall’essere
qualcosa di «automatico».
Trotsky riconsiderava gli avvenimenti degli anni
precedenti – la prima guerra mondiale, la rivoluzione russa, l’ondata
rivoluzionaria del dopoguerra e la sua sconfitta – e si chiedeva: E’ stato
ripristinato l’equilibrio capitalistico? Egli esaminava questo problema in
termini di equilibrio economico, di equilibrio politico, di equilibrio negli
assetti internazionali, e della loro interazione.
Trotsky giungeva alla conclusione che l’equilibrio
non era stato ristabilito, sebbene non ne escludesse la possibilità in futuro
nel caso che la classe operaia non fosse prima riuscita a rovesciare il
capitalismo.
«Se ammettiamo – e ammettiamolo per un momento –
che la classe operaia non riesca a levarsi in una lotta rivoluzionaria, ma
conceda alla borghesia la possibilità di decidere le sorti del mondo per un
lungo numero dei anni, diciamo per due o tre decenni, allora sicuramente un
nuovo equilibrio sarà in qualche modo ristabilito. L’Europa sarà spinta
violentemente in direzione opposta. Milioni di operai europei moriranno per la
disoccupazione e la denutrizione. Gli Stati uniti saranno costretti a
riorientarsi sul mercato mondiale, a riconvertire la loro industria e
a subire una contrazione per un periodo considerevole. Dopo di che, dopo che
fra conflitti acuti sia stata stabilita una nuova divisione mondiale del lavoro
per quindici, venti o venticinque anni, forse seguirà una nuova epoca di
rilancio capitalistico.
«Ma tutta questa ipotesi è completamente astratta e
unilaterale. Le cose sono presentate come se il proletariato avesse cessato di
lottare. Invece, per il momento, non
possiamo neppure avanzare una simile ipotesi non fosse che per la ragione che
proprio negli ultimi anni le contraddizioni di classe si sono acutizzate all’estremo.»
(id., p. 163-164, sottolineatura
nell’originale).
Come si è dimostrato, gli stalinisti, i
socialdemocratici e i nazionalisti borghesi impedirono alla classe operaia di
rovesciare il capitalismo. Dopo venticinque anni di conflitti terribili, fra cui
le controrivoluzioni in Cina e in Spagna, l’ascesa di Hitler al potere,
l’aggressione giapponese alla Cina, la seconda guerra mondiale, l’Olocausto,
la bomba atomica, la guerra fredda, la guerra di Corea e la bomba
all’idrogeno, il capitalismo raggiunse infine un nuovo equilibrio.
L’equilibrio del
dopoguerra e il suo crollo
L’equilibrio dopo la seconda guerra mondiale
includeva cinque elementi. Il primo era l’equilibrio tra i capitalisti e i
lavoratori nei paesi imperialisti. I lavoratori accettavano il dominio
capitalistico e i capitalisti accettavano la democrazia borghese, i sindacati,
alti livelli di vita e un sistema di sicurezza sociale.
Il secondo elemento era l’equilibrio tra gli
imperialisti. I paesi imperialisti accettavano l’egemonia militare ed
economica degli Stati uniti e questi accettavano che gli altri paesi
imperialisti avessero più elevati tassi di crescita.
Il terzo elemento era l’equilibrio tra gli
imperialisti e le semicolonie. Le élites
semicoloniali accettavano la dominazione imperialista e gli imperialisti,
talvolta dopo lotte acute, accettavano la decolonizzazione – operando tramite
propri agenti locali piuttosto che tramite un dominio diretto – e un limitato
sviluppo economico delle loro ex colonie.
Il quarto elemento era costituito dall’equilibrio
tra gli imperialisti e l’Unione sovietica. I burocrati stalinisti accettavano
la «coesistenza pacifica» col capitalismo in un mondo dominato
dall’imperialismo, e gli imperialisti accettavano il dominio stalinista su un
terzo della popolazione mondiale.
Il quinto elemento, basato sui primi quattro, era
l’equilibrio fra i tassi di profitto sul capitale e la crescita economica. I
capitalisti si erano resi conto che potevano investire con profitto nella
ricostruzione dell’economia mondiale, incorporare trentacinque anni di nuove
tecnologie e realizzare il potenziale economico dell’ordine mondiale uscito
dal secondo conflitto mondiale.
Il diversi elementi di questo equilibrio
interagivano. Ad esempio, il condizionamento reciproco fra l’imperialismo e lo
stalinismo spingeva a fare concessioni alla classe operaia ma forniva anche
degli alibi per la repressione, e ciò contribuiva a mantenere l’equilibrio
fra le classi.
Questo equilibrio si è mantenuto per quasi
vent’anni, dal momento che i suoi diversi elementi si rafforzavano l’un
l’altro in una spirale «virtuosa». Ma a partire dalla fine degli anni
Sessanta l’equilibrio cominciò a deteriorarsi. I capitalisti avevano saturato
lo spazio economico disponibile e avevano sviluppato ingenti capacità
produttive in eccesso in quasi tutte le sfere della produzione: materie prime,
beni di produzione, beni di consumo, e persino nei servizi.
Avrebbero potuto continuare l’espansione economica,
se fossero stati in grado di agire sulla base di una piano di sviluppo economico
mondiale. In quanto capitalisti, tuttavia, non potevano farlo. E il mercato
mondiale inviava loro i segnali sbagliati. La sovraccumulazione di capitale
aveva causato la caduta verticale nei tassi di profitto, la qual cosa che li
induceva a tagliare gli investimenti e a cercare di ridurre i livelli di vita.
Ma questo aggravava lo squilibrio fra l’offerta e la domanda, giacché a
un’offerta invariata corrispondeva una domanda rapidamente calante. Da
ascendente la spirale è diventata discendente.
L’equilibrio sociale nei paesi
capitalistici avanzati ha cominciato a deteriorarsi ancor prima della
fine dell’espansione economica. I settori della popolazione precedentemente
esclusi hanno cominciato a chiedere l’integrazione: le minoranze razziali e
nazionali, gli immigrati, le donne, le lesbiche e i gay, i giovani.
Come i saggi di profitto cominciarono a cadere, i
capitalisti cominciarono a negare le promesse fatte in precedenza alla classe
operaia. Gli scontri precedentemente settoriali cominciavano ad assumere sempre
più un aperto carattere di classe. Scoppiarono acute lotte economiche e
politiche, alla quali fu d’esempio l’esplosione del maggio 1968 in Francia.
Con il declino dell’espansione, gli imperialisti si
trovarono in concorrenza per dividersi il mercato mondiale. Non più egemoni
economicamente, gli Stati uniti cominciarono a ritirarsi dal loro ruolo di
guardiani del mercato mondiale. La Comunità economica europea si consolidava
sia per proteggere il mercato interno europeo sia per costituire una base per la
competizione esterna. Ed emergeva il Giappone come potenza industriale e
temibile esportatore.
Si intensificava le rivalità interimperialistiche.
Il passo più aggressivo fu la cosiddetta «crisi del petrolio». Sfruttando la
propria posizione di principali potenze imperialiste produttrici di petrolio,
gli Stati uniti e l’Inghilterra cospirarono con i propri alleati dell’Opec
per quadruplicare i prezzi del petrolio nel 1973 e triplicarli nel 1979. Ciò
procurò immensi profitti alle loro compagnie petrolifere e alle loro banche,
danneggiò pesantemente gli altri paesi imperialisti e le semicolonie non
produttrici di petrolio, e costruì un capro espiatorio per l’inflazione
galoppante che sul piano interno consentì di abbassamento i salari.
Anche l’equilibrio tra i paesi imperialisti e le
semicolonie cominciò a venir meno, allorché gli imperialisti iniziarono a
trarre dalle semicolonie profitti superiori ai capitali che vi investivano. Si
vennero intensificando le lotte di liberazione nazionale, anche perché gli
stalinisti, i radicali piccolo-borghesi e perfino i nazionalisti borghesi
cominciarono ad opporre resistenza. Dal Vietnam alla Palestina al Mozambico
all’Angola al Cile e al Nicaragua, le lotte anticoloniali si trasformarono o
minacciarono di trasformarsi in lotte anticapitalistiche.
Quando l’Unione sovietica venne coinvolta in questi
conflitti, cosa che accadde spesso, anche la «coesistenza pacifica» dei
burocrati con gli imperialisti cominciò a sfaldarsi. La sconfitta degli Stati
uniti in Vietnam registrò efficacemente questi cambiamenti.
La controffensiva
capitalista
Le forze capitalistiche non hanno semplicemente
ceduto e sono crollate. Si sono ritirate, hanno riaccumulato le forze e hanno
cominciato una controffensiva. Sono state in grado di farlo per i limiti delle
direzioni dei movimenti di massa, nessuna delle quali ha mai cercato veramente
di rovesciare l’ordine del dopoguerra, tanto meno di sostituirlo con il
socialismo su scala mondiale.
La sollevazione della fine degli anni Sessanta e
dell’inizio degli anni Settanta fu, in un certo senso, vittima del suo stesso
successo. Raggiunse in buona misura i suoi obiettivi al punto da indurre a
smobilitare gli operai e i giovani che aveva attivato senza aver posto dei
chiari obiettivi per una nuova mobilitazione di massa. Per esempio, assicurò la
vittoria della rivoluzione vietnamita e delle rivoluzioni in Portogallo e nelle
colonie portoghesi, senza porre adeguatamente la necessità di rovesciare
l’imperialismo e lo stalinismo su scala mondiale.
La maggior parte della «generazione del ’68» non
aveva prospettive per continuare la lotta. Disillusi dai risultati degli anni
Settanta, i giovani del ’68 e i loro figli sono diventati la vecchia e la
giovane generazioni del ritorno al privato negli anni Ottanta. L’avanguardia e
le masse si sono relativamente spoliticizzate.
Non sempre e non dovunque. Ma le rivoluzioni in Iran
e in Nicaragua nel 1979 e la quasi rivoluzione polacca nel 1981 sono state le
ultime propaggini della sollevazione degli anni Settanta. E la quasi rivoluzione
sudafricana del 1985-86 e le rivoluzioni molto limitate di Haiti e delle
Filippine nel 1986 sono state le eccezioni che confermavano la regola.
Nei paesi capitalistici avanzati le classi dominanti
hanno usato i partiti liberali e socialdemocratici per contenere le lotte
operaie negli anni Settanta e poi in genere li hanno scaricati negli anni
Ottanta, volgendosi verso i partiti borghesi conservatori.
La vittoria di Margareth Thatcher nel 1979, dopo
cinque anni di svendite laburiste, ha indicato la strada. Il governo Thatcher ha
sistematicamente smantellato uno dei più forti sindacati d’Europa e uno dei
sistemi sociali più solidi. La sola resistenza reale è stato lo sciopero dei
minatori del 1984-85. Se fosse diventato uno sciopero generale, avrebbe potuto
invertire la rotta. Ma venne isolato e sconfitto per la mancata volontà della
burocrazia sindacale, inclusa la burocrazia della Num, di generalizzare la lotta
fino a farne uno scontro di classe per il potere.
Negli altri paesi capitalistici avanzati la musica è
stata la stessa. La sinistra riformista giunta al governo sull’onda del
movimento degli anni Settanta ha fallito l’occasione. I capitalisti sono
passati al contrattacco. I lavoratori si sono ritirati. E il risultato sono
stati sia governi conservatori (Reagan, Kohl) sia governi socialdemocratici che
hanno praticato politiche conservatrici (Mitterrand).
La controffensiva imperialista contro le semicolonie
è stata sia economica che militare. Negli anni Settanta gli imperialisti hanno
prestato enormi somme ai governi, alle banche e alle industrie delle
semicolonie, in parte allo scopo di stabilizzare questi paesi, in parte allo
scopo di trovare sbocchi redditizi per i propri capitali in eccesso. Negli anni
Ottanta gli imperialisti hanno cominciato a chiedere il rimborso dei debiti,
invertendo la direzione dei flussi di capitale da entrate in uscite per molti
paesi, in particolare in America Latina e in Africa.
Un eccesso di offerta fece cadere i prezzi delle
materie prime e dei prodotti ad alta intensità di lavoro esportati dai paesi
dipendenti, mentre la necessità imperativa di ripagare il debito li costringeva
a svendere le loro produzioni, nonostante le sfavorevoli ragioni di scambio.
Quando non fu più possibile far fronte ai pagamenti, i paesi imperialisti
tramite il Fmi cominciarono a pretendere misure d’austerità e l’apertura
delle economie.
I paesi che non accettarono le imposizioni
imperialistiche furono marchiati come «stati criminali» e sottoposti a
sanzioni economiche e a pressioni militari. Gli Stati uniti imposero sanzioni
contro Cuba, il Nicaragua, la Corea del Nord, il Vietnam, la Cambogia, l’Afganistan,
l’Iran, l’Irak, la Libia, la Siria, l’Etiopia, il Sudan e altri paesi
accusati di «appoggiare il terrorismo». Gli altri paesi imperialistici in
genere li seguirono, a meno che avessero non trascurabili interessi economici
nei paesi sanzionati.
Gli Stati uniti provocarono inoltre la guerra tra
Iran e Irak, sostennero l’invasione israeliana del Libano, invasero Grenada e
Panama, bombardarono la Libia, spedirono l’Unita contro l’Angola e il Mnr
contro il Mozambico, i contras contro
il Nicaragua, i mujaheddin contro l’Afganistan
e intrapresero la guerra contro l’Irak. L’Inghilterra appoggiò gli Usa
nella maggior parte di queste azioni e mosso guerra all’Argentina. La Francia
di solito sostenne gli Usa e spesso inviò le sue truppe a far da «polizia»
nelle sue ex colonie africane.
Il bersaglio esterno principale della controffensiva
imperialista fu l’Unione sovietica, la cui esistenza rendeva possibile la
resistenza dei movimenti di liberazione nazionale.
Con una combinazione di misure economiche e militari,
gli imperialisti fecero il possibile per indebolire il blocco sovietico.
Attirarono l’Europa dell’Est in una ragnatela di scambi e di debiti e la
minacciarono con nuovi dispiegamenti di armi nucleari. Fecero di tutto per
corrompere i movimenti antiburocratici, in modo particolare Solidarnosc.
Gli Stati uniti, inoltre, misero in atto pressioni
dirette sull’Unione sovietica. Utilizzando come alibi l’invasione sovietica
dell’Afganistan nel 1979, l’amministrazione Carter impresse una brusca
accelerazione alla corsa agli armamenti. Reagan proseguì questa politica,
aggiungendo alle enormi spese militari degli Usa il folle progetto di «guerre
stellari». La necessità di far fronte a questa rincorsa contribuì al crollo
dell’Unione sovietica, peraltro già minata dalle contraddizioni del regime
burocratico.
Il crollo dell’Unione sovietica aprì la strada
all’instaurazione del «nuovo ordine mondiale» proclamato dal presidente
americano George Bush dopo la guerra del Golfo e allo scenario contemporaneo
descritto sopra.
Uno sguardo al futuro
Dopo aver dato uno sguardo al passato e al presente,
dobbiamo ora rivolgerci al futuro. Dobbiamo farlo con una certa umiltà,
riconoscendo che i migliori cervelli del marxismo hanno già sbagliato in simili
previsioni.
Per esempio, Marx ed Engels, nel 1850, pensavano che
le rivoluzioni del 1848 avrebbero presto conosciuto una ripresa, ma la lunga
espansione economica già in corso pospose la nuova ondata rivoluzionaria fino
al 1871. Nel 1916 Lenin pensava che non sarebbe vissuto abbastanza da vedere la
rivoluzione. E la maggior parte dei trotskisti, sulla scia della previsione
fatta da Trotsky alla vigilia della seconda guerra mondiale, si attendevano che
la guerra provocasse una crisi rivoluzionaria che sarebbe continuata fino al
crollo del capitalismo.
In tutti questi casi le previsioni erano ragionevoli,
basate sui fatti, e furono corrette quando si dimostrarono sbagliate. Ma esse ci
fanno tornare alla mente la saggezza di Lenin che si correggeva nelle Lettere
sulla tattica dell’aprile del 1917, pubblicate insieme con le Tesi di aprile.
«Il marxismo esige da noi un’analisi esatta,
controllabile obiettivamente, dei rapporti reciproci tra le classi e delle
particolarità concrete di ogni momento storico. Noi bolscevichi ci siamo sempre
sforzati di conformarci a questa esigenza la quale è assolutamente obbligatoria
dal punto di vista di ogni fondamento scientifico della politica.
«La nostra dottrina non è un dogma, ma una guida
per l’azione», dissero sempre Marx ed Engels burlandosi a ragione delle
‘formule’ imparate e ripetute meccanicamente le quali, nel migliore dei
casi, servono soltanto a indicare compiti generali
che la situazione economica e politica concreta
di ogni fase speciale del processo
storico modifica necessariamente.
«Quali sono dunque i fatti oggettivi, concretamente
stabiliti, sulla base dei quali il partito del proletariato rivoluzionario deve
guidarsi oggi nella determinazione dei suoi compiti e delle forme della sua
azione?» (Lettere sulla tattica,
Newton Compton, 1975, p. 67)
La lettera include la famosa citazione delle parole
di Mefistofele dal Faust di Goethe.
«La teoria, amico mio, è grigia, ma verde è
l’albero eterno della vita.» (id., p. 69)
Come i nostri predecessori rivoluzionari, la cosa
migliore che possiamo fare è applicare la nostra analisi marxista ai fatti,
intervenire su questa base e aggiustare la nostra analisi nella misura in cui i
fatti nuovi, inclusi i risultati del nostro intervento, lo richiedono.
Due concezioni sbagliate
Per cominciare, dobbiamo mettere da parte due
concezioni che chiaramente non sono sostenute dai fatti: l’idea che il
capitalismo mondiale sia già entrato in un nuovo periodo di equilibrio e di
espansione, e l’idea che esso sia in procinto di subire un crollo
catastrofico. Entrambe queste concezioni rappresentano una combinazione di
impressionismo e di «wishful thinking»
[convinzione dettata dal desiderio].
L’idea che il capitalismo sia entrato in un nuovo
periodo di equilibrio parte dall’impressione suscitata dalla relativa
prosperità e dalla stabilità dei paesi capitalistici avanzati, in primo luogo
gli Usa. Con il ciclo economico al suo punto più alto, il tasso di crescita
dell’economia statunitense è relativamente alto, i tassi di disoccupazione e
di inflazione relativamente bassi, i salari reali stanno aumentando, i profitti
sono sufficientemente elevati da motivare e da finanziare gli investimenti, i
governi vanno incontro a bilanci in attivo e il mercato azionario è a livelli
record.
Le economie europee stanno cominciando a rianimarsi e
potrebbero presto raggiungere i livelli di espansione degli Usa, il che potrebbe
prolungare la ripresa americana. L’anello debole della catena imperialistica
è il Giappone, la recessione del quale si aggrava. Ma questo sembra solo
controbilanciare gli anni in cui il Giappone cresceva al contrario degli altri
paesi capitalistici sviluppati. Per il momento la crisi del Giappone sembra
governabile.
Certo, la maggior parte del mondo ristagna nella
depressione economica e la crisi asiatica ha minato i paesi capitalistici che
avevano conosciuto lo sviluppo più rapido. Ma il peso degli Usa e dell’Europa
nell’economia mondiale è tale che sembra più plausibile che saranno essi a
trainare il resto piuttosto che gli altri a trascinarli a fondo, almeno per i
prossimi anni.
Osservatori con propensioni teoriche aggiungono
ulteriori considerazioni. La minaccia della competizione globale sembra
deprimere la lotta di classe tanto negli Stati uniti quanto negli altri paesi
capitalistici avanzati, così che gli aumenti salariali restano relativamente
modesti, anche di fronte a tassi di disoccupazione bassi o declinanti. La
restaurazione capitalista nell’ex blocco sovietico e il neoliberismo nelle
semicolonie hanno aperto nuove opportunità di sfruttamento capitalistico
potenzialmente immense. E venticinque anni di sviluppi tecnologici sono maturi
per nuovi investimenti redditizi.
Francamente, i marxisti devono riconoscere che la
controffensiva capitalistica ha avuto abbastanza successo su tutti i fronti
tanto che, col passare del tempo, ciò potrebbe costituire la base per un nuovo
periodo di espansione. Manca tuttavia un elemento chiave: concessioni massicce
da parte dei capitalisti allo scopo di garantire la pace sociale, come negli
anni Cinquanta e Sessanta.
La natura di questo elemento rende chiaro perché la
prospettiva di un «nuovo equilibrio» sia falsa. Alla base del «nuovo ordine
mondiale» e dell’attuale prosperità imperialista sta operando un massiccio
trasferimento di reddito e di ricchezza dai lavoratori e dai poveri ai grandi
capitalisti e ai loro lacchè. Rovesciare questa tendenza potrebbe corrispondere
all’astratto interesse a lungo termine dei capitalisti stessi, ma essi sono
incapaci di agire su una simile base.
I capitalisti continueranno a fare ciò che hanno
sempre fatto: tentare di abbassare il livello di vita degli operai e degli
oppressi. Se le masse continueranno a subire passivamente, i capitalisti
conserveranno la democrazia borghese. Se invece cominceranno a lottare, i
capitalisti cercheranno di sopprimere la democrazia e si rivolgeranno alla
reazione aperta.
A osservarlo con attenzione, il mondo attuale è un
posto troppo instabile per parlare di un nuovo equilibrio. Anche nei paesi
capitalistici avanzati l’espansione in atto è basata principalmente
sull’acutizzazione dello sfruttamento e dell’ineguaglianza, non sulla
crescita della produttività del lavoro. Non può durare. Con la prossima
recessione l’illusione si dissolverà.
L’altra concezione erronea che occorre respingere
è quella secondo cui il capitalismo mondiale si troverebbe sull’orlo di
un crollo catastrofico.
Varie situazioni nel mondo alimentano questa
impressione. Ad esempio, sembra quasi inconcepibile che la produzione e i
livelli di vita possano cadere così tanto come nell’ex Unione sovietica senza
provocare una rivoluzione. O che la caduta di due dittatori che hanno avuto un
ruolo chiave nell’ordine della guerra fredda, come lo zairese Mobutu e
l’indonesiano Suharto, possa portare così scarsi vantaggi alle masse. O che
31 milioni di persone – di cui 21 milioni nell’Africa subsahariana –
possano essere affette da Hiv senza conseguenze per i capitalisti la cui avidità
nega alla maggior parte di essi le cure necessarie e ha condannato lo scorso
anno 2 milioni di persone a una morte prematura a causa dell’Aids.
Si potrebbe essere tentati di affermare che il boom
delle borse, così enfatizzato dai capitalisti, costituirà presto la loro fine.
I mercati, gonfiati dagli eccessi della speculazione, preludono certamente a un
crollo. In effetti, i crolli sono prima o poi inevitabili, innescati da una
ripresa della lotta di classe all’interno del Paese, da una crisi da qualche
parte nel mondo, o semplicemente dal panico derivante dalla comprensione che i
valori di borsa sono sopravvalutati. Ma il crollo dell’ottobre del 1987 ha
mostrato che le borse possono cadere più di quanto fecero nel 1929 senza con
questo trascinare a fondo l’economia reale della produzione e del commercio.
Si potrebbe essere tentati di affermare che la
democrazia con cui i capitalisti mascherano il loro sfruttamento è una risposta
alle pressioni di massa e che i nuovi governi di «sinistra» e di «centrosinistra»
costituiscono un tentativo disperato di prevenire la rivoluzione. Ma in realtà
essi sono, al momento, il modo più economico e conveniente di cui dispongono i
capitalisti per imporre le loro politiche neoliberiste.
Molti paesi potrebbero vedere delle esplosioni nei
prossimi mesi, soprattutto alcuni degli ex stati operai e delle semicolonie in
cui le tensioni sociali sono più acute. Ma queste esplosioni non metteranno in
discussione il sistema capitalistico mondiale fino a quando non riusciranno a
suscitare ben di più di una crisi nelle metropoli imperialistiche. E questo non
accadrà fino a quando l’economia mondiale non si deteriorerà
considerevolmente e gli Stati uniti e gli altri paesi imperialistici non saranno
trascinati in guerre e rivoluzioni senza avere le risorse economiche, politiche
e militari per contenerle.
Le prospettive della
rivoluzione
Le rivoluzioni proletarie hanno luogo quando la
classe capitalistica è incapace di governare come prima, le masse lavoratrici
non tollerano più di essere governate come prima e un partito operaio
rivoluzionario ha conquistato una forza sufficiente nell’avanguardia e nella
classe operaia per dirigere la rivoluzione. La rivoluzione mondiale si realizza
quando tutte queste condizioni sono abbastanza diffuse, compreso nei paesi
capitalistici avanzati, da travolgere il sistema imperialista.
L’approfondirsi della crisi del capitalismo
mondiale sta creando le prime due condizioni. La crisi è in qualche modo
oscurata dall’attuale momento favorevole del ciclo economico, dalle politiche
dei capitalisti che scaricano l’onere della crisi sulle spalle dei lavoratori
e degli oppressi e dalla loro persistente capacità di controllare le esplosioni
quando si verificano. Ma il mondo è profondamente instabile. Nei prossimi mesi
e nei prossimi anni tutti gli elementi di squilibrio tenderanno ad aggravarsi.
I capitalisti si trovano ancora di fronte a un
problema economico senza soluzione. Hanno realizzato la previsione di Marx e di
Engels di un’economia mondiale altamente socializzata che non sono in grado di
controllare. Hanno accumulato troppo e possono produrre troppo. La proprietà
privata dei mezzi di produzione e i confini nazionali costituiscono un
impedimento alla pianificazione di cui avrebbero bisogno per consentire lo
sviluppo dell’economia mondiale. E nessun sistema di pianificazione abbastanza
razionale potrebbe tollerare l’irrazionalità della proprietà privata dei
mezzi di produzione e dei confini nazionali. Lo squilibrio economico di lungo
periodo continua.
Lo squilibrio economico crea problemi politici per i
capitalisti. Essi non possono continuare ad aumentare i tassi di sfruttamento e
ad abbassare i livelli di vita dei lavoratori nei paesi capitalistici avanzati
senza provocare una reazione. Inoltre la produttività del lavoro sta crescendo
troppo lentamente per consentire loro di conservare gli alti tassi di profitto
senza aumentare lo sfruttamento e senza abbassare i livelli di vita.
Gli scontri di classe sono inevitabili. Come pure i
tentativi dei capitalisti di soffocarli con svolte a destra e a sinistra. Il
periodo che ci sta di fronte dovrebbe vedere un alternarsi di governi
conservatori e liberali o operai-borghesi che perseguiranno in genere politiche
neoliberiste, con uno sfondo di razzismo e di xenofobia. Ma con
l’approfondirsi della crisi sociale le oscillazioni politiche diventeranno più
ampie fino a comprendere il bonapartismo stile anni Trenta e i fronti popolari.
Queste oscillazioni non risolveranno le crisi
politiche. Esse continueranno fino a quando i lavoratori non sconfiggeranno in
modo decisivo i capitalisti con una rivoluzione socialista, o i capitalisti non
sconfiggeranno in modo decisivo i lavoratori con le dittature militari o con il
fascismo.
Anche gli scontri fra gli imperialisti sono
inevitabili. Con l’approfondirsi della crisi di sovraccumulazione e di
sovrapproduzione, gli imperialisti si troveranno in scontri sempre più aspri
fra di loro, in concorrenza per i mercati e per le quote di capitale. Quasi
certamente queste collisioni condanneranno la Comunità europea e gli altri
tentativi di superare le rivalità interimperialistiche sulla base di una
relativa uguaglianza e di accordi di compromesso.
Fino ad ora le collisioni fra gli imperialisti sono
state relativamente pacifiche. Ma quando la posta in gioco diventa alta, gli
imperialisti meglio armati saranno tentati di ottenere con la forza ciò che non
possono avere con mezzi economici. In particolare gli Stati uniti saranno
tentati di utilizzare la loro schiacciante supremazia militare per compensare la
loro relativa debolezza economica. La guerra del Golfo, che ha ricordato
bruscamente ai tedeschi e ai giapponesi chi controlla le loro riserve di
petrolio, è stata solo una bazzecola paragonata a ciò che gli Stati uniti
potrebbero fare se si sentissero senza via d’uscita.
Gli attuali governi della Germania e del Giappone non
potrebbero resistere alle mosse aggressive degli Stati uniti. Ma
l’approfondirsi della crisi sociale potrebbe portare al potere governi
militaristi o fascisti che potrebbero rispondere con la medesima aggressività.
Il risultato potrebbe essere una corsa agli armamenti nucleari molto più
pericolosa di quella indo-pakistana, dal momento che questi paesi avrebbero la
tecnologia e la ricchezza per produrre migliaia di testate nucleari.
La Russia potrebbe benissimo venir attratta nei
conflitti interimperialistici. L’oligarchia militare e la nuova oligarchia
finanziaria aspira a riunire il territorio dell’ex Unione sovietica in un
nuovo impero russo. Questo fattore, combinato con una svolta corporativa
finalizzata allo sviluppo economico sul modello della Germania o del Giappone,
potrebbe rendere la Russia una potenza imperialista in tempi abbastanza brevi.
Oppure la Russia potrebbe costituire un formidabile alleato della Germania o del
Giappone, fornendo ad essi le risorse e la capacità militare per affrontare gli
Stati uniti.
Gli imperialisti continueranno a spremere le
semicolonie e le classi dirigenti nelle semicolonie continueranno a spremere i
loro operai e i loro contadini. Le condizioni delle masse continueranno ad
essere molto peggiori che nei paesi imperialistici, dato che la produttività
del lavoro è più bassa e i padroni nazionali ed esteri si contendono il
plusvalore.
Le attuali politiche neoliberiste «democratiche»
costituiscono un lusso e gli imperialisti e le classi dominanti nazionali vi
faranno ricorso solo fino a quando le masse semicoloniali subiranno in silenzio.
Con lo sviluppo della resistenza, torneranno le dittature e gli squadroni della
morte. Qualora la rivoluzione si facesse minacciosa, in vari paesi i capitalisti
potrebbero rivolgersi di nuovo ai fronti popolari nel tentativo di contenere le
lotte. Ma se avranno successo nel contenere le lotte, i fronti popolari
potrebbero rivelarsi soltanto il preludio a una repressione selvaggia.
Queste oscillazioni tra estremi sempre più ampi
continuerà fino a che gli operai e i contadini non sconfiggeranno in modo
decisivo gli imperialisti e i capitalisti nazionali o fino a quando gli
imperialisti e i capitalisti nazionali non sconfiggeranno in modo decisivo gli
operai e i contadini.
Le classi dominanti in formazione in Russia e negli
ex stati operai continueranno a spremere le rispettive classi lavoratrici anche
più duramente di quanto non facciano gli imperialisti con le proprie. Coloro
che nutrono aspirazioni imperialistiche devono superare lo svantaggio di partire
in ritardo rispetto ai loro concorrenti in termini di produttività del lavoro e
di accumulazione di capitale. Mentre coloro che stanno scivolando nella
dipendenza si ritrovano nella stessa morsa delle attuali semicolonie.
I lavoratori opporranno resistenza ai tentativi dei
capitalisti di scaricare su di essi questi fardelli. L’attuale calma relativa
non può durare. Il processo con il quale gli operai scenderanno in lotta nelle
diverse parti del mondo sarà diseguale e combinato. Diseguale poiché
differenti settori di lavoratori entreranno in lotta a diverse riprese.
Combinato perché le lotte dei differenti settori si influenzeranno a vicenda,
poiché i lavoratori prenderanno esempio e impareranno dalle vittorie e dalle
sconfitte gli uni degli altri.
In molte delle semicolonie e degli ex stati operai le
condizioni sono già talmente pesanti da suscitare delle rivoluzioni.
L’intensificazione della sofferenza fornisce il combustibile. Gli avvenimenti
forniranno la scintilla. L’Albania, lo Zaire e l’Indonesia non sono che
schermaglie iniziali. Via via che le rivolte diventeranno più radicali e più
frequenti, gli imperialisti non saranno in grado di contenerle.
Il processo rivoluzionario si svilupperà più
lentamente nei paesi capitalistici
avanzati. Le condizioni peggioreranno con il peggiorare dell’economia. Questo
provocherà delle lotte sindacali e politiche per obiettivi parziali. E’
inverosimile che possano svilupparsi in lotte rivoluzionarie a partire solo
dalle condizioni economiche. Ma la crisi economica sarà aggravata dalla crisi
politica, dato che gli imperialisti saranno colpiti dalle bufere di guerre e
rivoluzioni. E la combinazione, nel tempo, provocherà crisi rivoluzionarie
anche nelle metropoli imperialiste.
Centocinquant’anni di storia della classe operaia
ci dicono che i lavoratori continueranno a lottare. Ci dicono anche che la
condizione indispensabile della vittoria è un partito rivoluzionario dei
lavoratori. In ultima analisi, le prospettive della rivoluzione si riducono alle
prospettive della costruzione di partiti rivoluzionari e di un’Internazionale
rivoluzionaria.
Compiti dei
rivoluzionari
Il compito generale dei rivoluzionari è dirigere le
rivoluzioni, ovvero guidare la classe operaia all’instaurazione della propria
dittatura sul capitale e ad organizzare il proprio potere sulla base della
democrazia operaia e di una economia collettivizzata e centralmente
pianificata: i fondamenti politici ed economici della transizione dal
capitalismo al socialismo. Ma oggi il compito particolare dei rivoluzionari
consiste nel prepararsi a ciò attraverso la costruzione di partiti
rivoluzionari e di un’Internazionale rivoluzionaria.
Nessun partito al mondo oggi è in grado di dirigere
una rivoluzione. Coloro che hanno la forza per poterlo fare non sono abbastanza
rivoluzionari per farlo. Quelli che sono abbastanza rivoluzionari e hanno la
sufficiente chiarezza politica non sono abbastanza forti per riuscirci.
La situazione è anche peggiore a livello
internazionale. La ritirata della classe operaia, la caduta dell’Unione
sovietica e l’apparente trionfo del capitalismo complicano il compito della
costruzione di partiti rivoluzionari.
Molti lavoratori non credono più nella possibilità
di una soluzione socialista ai problemi che si trovano di fronte. Molti
identificano il fallimento dello stalinismo con il fallimento del socialismo.
Molti sono convinti che non c’è nulla di meglio di un’economia di mercato
con la democrazia borghese.
Allo stesso tempo, però, il fallimento delle
direzioni tradizionali della classe operaia ha reso gli operai politicamente
avanzati e la gioventù più sensibili al marxismo rivoluzionario. Vogliono una
spiegazione degli avvenimenti, un programma per il quale lottare e una strategia
per vincere. E sanno che gli stalinisti, i socialdemocratici e i nazionalisti
borghesi e piccolo-borghesi non hanno risposte.
Si potranno costruire partiti rivoluzionari e
un’Internazionale rivoluzionaria attraverso l’incontro tra il movimento
rivoluzionario e il movimento dei lavoratori, la loro fusione, con la
trasformazione delle organizzazioni rivoluzionarie da circoli isolati in
organizzazioni di massa che raggruppano l’avanguardia dei lavoratori.
Il movimento operaio ha già cominciato a riprendersi
dagli effetti della controffensiva capitalista e del crollo dell’Unione
sovietica. Il livello delle lotte sta crescendo in ogni parte del mondo. I
lavoratori e gli oppressi sempre più si difendono e sempre più efficacemente.
Si è potuto osservarlo nelle semicolonie con il
rovesciamento di Mobutu e di Suharto, nello sciopero generale in Corea del Sud,
nelle insurrezioni in Messico e in Colombia, nel movimento dei senza terra in
Brasile e nella resistenza popolare in Palestina. Si è potuto osservarlo negli
ex stati operai nel rovesciamento di Berisha in Albania, nella ribellione in
Kosovo e nello sciopero dei minatori russi. Si è potuto osservarlo nei paesi
capitalistici avanzati negli scioperi del settore pubblico in Francia, nello
sciopero generale in Danimarca e negli scioperi nell’Ups e nella General
Motors negli Stati uniti.
Il movimento operaio ha ancora molta strada da fare
per ricostruire la forza che possedeva venti o venticinque anni fa. Ma gli
attacchi capitalistici stanno provocando una reazione. Non semplicemente una
reazione sindacale, ma una reazione di tutti i settori della classe operaia,
inclusi i disoccupati, gli immigrati, le minoranze nazionali e razziali, le
donne, le lesbiche e gli omosessuali, la gioventù. E non solo degli operai, ma
anche dei contadini con e senza terra, degli artigiani e dei piccoli
commercianti, degli emarginati, degli studenti e anche di settori di tecnici e
di studiosi.
Il movimento rivoluzionario è ancora in ritardo.
E’ in qualche modo paradossale, dato che oggi nel mondo ci sono parecchi
rivoluzionari. Lavorano insieme in gran numero nel movimento dei lavoratori, ma
non ancora nel movimento rivoluzionario.
Molti dirigenti del movimento operaio si sono
politicizzati nei movimenti degli anni Sessanta e Settanta. Molti conservano le
loro convinzioni rivoluzionarie, così come anche molti lavoratori di base
radicalizzati nello stesso periodo, anche se non militano più da anni nel
movimento rivoluzionario. Molti di coloro che oggi lottano più attivamente sono
giovani che si considerano in qualche modo dei rivoluzionari. Anch’essi stanno
diventando dei dirigenti operai.
Come ebbe a dire Lenin del movimento russo nei primi
anni di questo secolo, c’è molta gente ma non c’è ancora un popolo. La
maggior parte dei rivoluzionari sia delle generazioni più anziane sia di quelle
più giovani non militano in organizzazioni rivoluzionarie.
Il marxismo rivoluzionario – il trotskismo –
fornisce una strategia, un programma e una teoria corrette. Ma la teoria deve
svilupparsi in modo da tenere in considerazione gli sviluppi su scala mondiale e
la comprensione umana del mondo. Il programma deve concretizzarsi in obiettivi
transitori che hanno un senso agli occhi dell’avanguardia e, cosa ancora più
importante, delle masse. E la strategia deve concretizzarsi in tattiche
appropriate alla situazione.
Le organizzazioni rivoluzionarie devono intervenire
nelle lotte reali degli operai e degli oppressi, proporre una linea d’azione,
fornire una direzione pratica e, su questa base, conquistare l’adesione di
singoli e di gruppi di lavoratori.
Il compito è reso complicato dalla molteplicità
delle organizzazioni rivoluzionarie. Nella maggior parte dei paesi ci sono
alcune o molte organizzazioni che si considerano rivoluzionarie, tante con
deviazioni centriste di un tipo o dell’altro. Finora la lotta di classe non ha
messo alla prova dell’azione le loro prospettive così da poter operare la
selezione delle loro differenze politiche, produrre nuove convergenze e far
emergere un partito operaio rivoluzionario egemone.
La situazione è anche peggiore a livello
internazionale. Ci sono varie correnti trotskiste internazionali e correnti
nazionali con gruppi in altri paesi. Ma sono tutte minuscole in relazione ai
compiti, e molte di loro soffrono di deviazioni centriste in vario grado.
L’interazione fra gli sviluppi della lotta di
classe, il movimento dei lavoratori e il movimento rivoluzionario è troppo
complicata per essere determinata in anticipo. Sarà determinata dagli
avvenimenti e dall’intervento dei rivoluzionari.
Non c’è dubbio, tuttavia, che la costruzione di
partiti rivoluzionari e di un’Internazionale rivoluzionaria necessiterà sia
del superamento della confusione politica e della frammentazione organizzativa
del movimento rivoluzionario sia dell’incontro fra il movimento rivoluzionario
e il movimento dei lavoratori.
Un compito strategicamente importante è la
rigenerazione politica e la ricostruzione organizzativa della Quarta
Internazionale come nucleo del futuro Partito mondiale della rivoluzione
socialista: la rifondazione della Quarta Internazionale.
Il movimento trotskista conserva un’importanza
particolare. Le organizzazioni trotskiste si richiamano al marxismo
rivoluzionario. Ciò significa che esse attraggono e continueranno ad attrarre
dei rivoluzionari che rompono da sinistra con lo stalinismo, la socialdemocrazia
e il nazionalismo. Il nostro compito di costruire il partito sarebbe molto più
facile se ci fosse un unico centro, egemone, per il raggruppamento
rivoluzionario. Ma questo deve tuttora essere creato.
L’approfondirsi della crisi capitalistica fornirà ai rivoluzionari molte opportunità di intervento nelle lotte di massa. Riaffermando il programma e il metodo del marxismo rivoluzionario, i trotskisti devono conquistare a questo programma e a questo metodo tutti i rivoluzionari pronti ad abbandonare le oscillazioni centriste e l’irrilevanza settaria.