PROSPETTIVE RIVOLUZIONARIE ALLA FINE DEL VENTESIMO SECOLO

Approvato dalla seconda Conferenza Internazionale

dell'Opposizione Trotskysta Inetrnazionale

 5 Settembre 1998

 

 

Centocinquanta anni fa la Lega dei comunisti pubblicava il Manifesto del partito comunista di Karl Marx e Friederich Engels. Il Manifesto proclamava teoricamente l’esistenza di un movimento operaio internazionale proprio poche settimana prima che le rivoluzioni europee del 1848 lo proclamassero in pratica.

Dichiarando che la storia delle società finora esistite è la storia delle lotte di classe il Manifesto identificava la borghesia come la classe dominante storicamente emergente e il proletariato come suo successore. La prima previsione – l’ascesa della borghesia – è stata brillantemente confermata. La seconda previsione – il proletariato come successore della borghesia – resta da confermare.

I centocinquant’anni successivi al Manifesto hanno visto tre grandi ondate di sviluppo economico e di lotta politica. La prima di queste ondate (espansione 1848-1873, crisi 1873-1896, con varianti nazionali) portò alla luce l’economia capitalista mondiale che era stata anticipata nel Manifesto e il contesto politico storico mondiale di scontro tra la classe operaia e l’imperialismo. La seconda ondata (espansione 1896-1914, crisi 1914-1949, ancora con varianti nazionali) condusse la classe operaia al potere in Russia e, prima del suo completo riflusso, in Europa orientale e in Cina, benché sotto forma di stati operai burocraticamente deformati.

La terza ondata (espansione 1949-71, crisi dal 1971 in poi, ancora con varianti nazionali) ha avuto esiti più ambigui. I capitalisti sono stati costretti a fare importanti concessioni alla classe operaia per poter superare la crisi del 1914-49. Ma l’incapacità del movimento operaio di rovesciare l’imperialismo a livello mondiale e la risultante degenerazione della Rivoluzione russa, hanno permesso al capitalismo di stabilizzarsi e quindi di riprendere l’espansione negli anni Cinquanta e Sessanta.

Alla fine degli anni Sessanta sono esplose nuove lotte, poiché gli esclusi dal boom del secondo dopoguerra e coloro che ne subivano l’alienazione hanno cominciato a reclamare dei cambiamenti. Queste lotte si sono intensificate quando il boom si è esaurito all’inizio degli anni Settanta. Il capitalismo mondiale ha dovuto fare dei passi indietro nei primi anni Settanta, ma ha riaccumulato le forze nella seconda metà degli anni Settanta e quindi ha lanciato una controffensiva alla fine degli anni Settanta.

Disorientata dalle proprie direzioni orientate alla collaborazione di classe, la classe operaia si è ritirata durante gli anni Ottanta e nei primi anni Novanta. Questa ritirata comprende il crollo dell’Unione sovietica, con tutte le sue implicazioni su scala mondiale. Ci sono segni che la classe operaia comincia a riprendersi dalle sue sconfitte. Ma il ventesimo secolo sembra volgere al termine così come è iniziato, con l’imperialismo che domina su scala mondiale e il movimento operaio forte, ma incapace di tradurre la sua forza in potere politico.

In queste condizioni, i rivoluzionari devono di nuovo porsi e rispondere alle seguenti questioni: Quali sono le nostre prospettive? Quali sono i nostri compiti? Scopo di questo documento è quello di argomentare la persistente validità della prospettiva rivoluzionaria tracciata nel Manifesto comunista, malgrado il trascorrere del tempo e i cambiamenti che esso ha portato.

Questo è un documento di analisi storica. Non affronta le questioni programmatiche nei dettagli. Per esse si rimanda alla Dichiarazione di principi dell’Opposizione trotskista internazionale. Non affronta neppure le questioni specifiche della costruzione dei partiti rivoluzionari e dell’Internazionale rivoluzionaria. Per esse si rimanda alle Tesi sulla crisi della Quarta Internazionale e i compiti dei trotskisti conseguenti.

La divisione del lavoro fra questi documenti può sembrare arbitraria dal momento che storia, programma e partito sono questioni connesse fra loro, in certi momenti in modo inestricabile. Ma nella presente fase storica in cui difficilmente il trotskismo può sembrare al suo culmine storico, sembra particolarmente necessario riaffermare la sua attualità.

Perciò questo documento mette a fuoco le condizioni obiettive della rivoluzione – le condizioni che non sono la condizione soggettiva dei trotskisti – che devono essere presenti affinché il marxismo rivoluzionario possa diventare di nuovo una forza storica.

 

 

«Il dominio economico e politico della classe borghese»

 

Il Manifesto del partito comunista descriveva l’ascesa della borghesia con un linguaggio vivido e possente:

 

«Vediamo dunque come la borghesia moderna è essa stessa il prodotto di un lungo processo di sviluppo, d’una serie di rivolgimenti nei modi di produzione e di traffico (...)

«Durante il suo dominio di classe appena secolare la borghesia ha creato forze produttive in massa molto maggiore e più colossali che non avessero mai fatto tutte insieme le altre generazioni del passato. Il soggiogamento delle forze naturali, le macchine, l’applicazione della chimica all’industria e all’agricoltura, la navigazione a vapore, le ferrovie, i telegrafi elettrici, il dissodamento di interi continenti, la navigabilità dei fiumi, popolazioni intere sorte quasi per incanto dal suolo – quale dei secoli antecedenti immaginava che nel grembo del lavoro sociale stessero sopite tali forze produttive?

«Ma abbiamo visto che i mezzi di produzione e di scambio sulla cui base si era venuta costituendo la borghesia erano stati prodotti entro la società feudale. A un certo grado dello sviluppo di quei mezzi di produzione e di scambio, le condizioni nelle quali la società feudale produceva e scambiava, l’organizzazione feudale dell’agricoltura e della manifattura, in una parola i rapporti feudali della proprietà, non corrisposero più alle forze produttive ormai sviluppate. Essi inceppavano la produzione invece di promuoverla. Si trasformarono in altrettante catene. Dovevano essere spezzate e furono spezzate.

«Ad esse subentrò la libera concorrenza con la confacente costituzione sociale e politica, con il dominio economico e politico della classe dei borghesi.» (K. Marx e F. Engels, Manifesto del partito comunista, Mondadori, 1978).

 

Marx ed Engels hanno in seguito arricchito sostanzialmente la loro analisi dell’economia politica delle società capitalistiche. Ma non ebbero ragione di cambiarla nei suoi tratti fondamentali. E neppure i marxisti dopo di loro.

Lenin ha contribuito con il concetto di imperialismo a spiegare gli sviluppi economici e politici che hanno portato alla prima guerra mondiale – i monopoli, il capitale finanziario, l’oligarchia finanziaria, l’esportazione di capitali, la divisione e la ridivisione del mondo fra le grandi potenze capitalistiche, le rivalità interimperialistiche, le guerre interimperialistiche – così come con gli altri suoi contributi sul partito d’avanguardia, sulla dittatura del proletariato, sui consigli operai, sulla liberazione nazionale, sull’oppressione coloniale e semicoloniale, sull’aristocrazia operaia, sulla burocrazia operaia, sul riformismo ecc.

Trotsky ha sviluppato il concetto di equilibrio e di squilibrio capitalistici per spiegare la curva dello sviluppo capitalistico e della lotta di classe che si manifestava nei primi anni Venti, e il concetto di stato operaio burocraticamente degenerato per spiegare l’esito della rivoluzione russa e il posto dell’Unione sovietica nell’ordine mondiale imperialistico, così come i suoi contributi sulla rivoluzione permanente, il fascismo, il fronte unico, il metodo transitorio, lo stalinismo, il centrismo, ecc.

Altri marxisti – e anche non marxisti – hanno portato altri contributi su aspetti dell’economia e della politica del sistema capitalistico mondiale. Ma tutti questi contributi hanno aggiornato, ma non invalidato, l’analisi di Marx ed Engels nel Manifesto.

Alcuni osservatori contemporanei argomentano che la «globalizzazione» o il «post-industriale» costituirebbero una smentita sostanziale della visione marxista della società capitalistica. Ma questo non è vero.

La «globalizzazione» è un aspetto importante della realtà capitalistica. Ma Marx ed Engels lo avevano inteso benissimo. Essi vedevano la globalizzazione come parte della socializzazione della produzione, e il mercato mondiale come uno dei contributi principali del capitalismo al progresso umano.

La globalizzazione non era un mistero per Lenin, il quale ragionava sull’importanza dell’esportazione dei capitali come uno dei tratti fondamentali della situazione mondiale contro Kautsky e altri che ritenevano che la globalizzazione avrebbe superato gli stati imperialistici a base nazionale in una sorta di pacifico «ultra-imperialismo». La globalizzazione era familiare anche a Trotsky, la cui analisi degli eventi politici partiva sempre dalla situazione mondiale.

La globalizzazione è oggi costituita in parte da una maggiore integrazione dell’economia mondiale e in parte da un’estensione senza precedenti dell’informatica e delle telecomunicazioni fra loro integrate. Ma tutto questo deve essere valutato nella giusta prospettiva. Solo alla fine degli anni Novanta l’economia mondiale è tornata ai livelli di integrazione del 1913 in termini di commercio e di investimenti internazionali. E le ferrovie, i piroscafi e il telegrafo dei tempi di Marx ed Engels avevano un impatto economico maggiore di quello che ha oggi Internet.

La globalizzazione è principalmente un’ideologia: un’apologia dello sfruttamento capitalistico senza limiti dal momento che, per usare un famigerato slogan di Margareth Thatcher, «non ci sono alternative».

Il «post-industriale» non se la passa meglio come confutazione del marxismo. La forza lavoro industriale ha cominciato a declinare in rapporto al totale della forza lavoro nelle economie capitalistiche avanzate negli ultimi vent’anni. Ma ciò è soprattutto il risultato del rapido incremento della produttività del lavoro nell’industria e della stagnazione della produzione e dei livelli di vita che sono un risultato dell’attuale squilibrio capitalistico.

Se alcune produzioni vengono trasferite dai paesi capitalistici avanzati a quelli meno sviluppati, ciò corrisponde perfettamente alla descrizione di Marx degli effetti dello sviluppo capitalistico ineguale e combinato sull’India a metà del diciannovesimo secolo. I paesi capitalistici avanzati producono ancora più dei due terzi delle merci mondiali e dei tre quarti della produzione industriale.

I più importanti cambiamenti nella classe operaia «post-industriale» sono il suo ampliamento, la sua composizione diversificata – in particolare l’influenza dell’accresciuta presenza femminile e di immigrati che in Europa è una novità del dopoguerra – e i suoi più elevati livelli di formazione. Ma questi cambiamenti in nessun modo smentiscono il Manifesto.

 

 

«L’organizzazione dei proletari»

 

Il Manifesto del partito comunista descriveva lo sviluppo politico della classe operaia con un linguaggio ugualmente potente:

 

«Sotto i nostri occhi si svolge un moto analogo. I rapporti borghesi di produzione e di scambio, i rapporti borghesi di proprietà, la società borghese moderna che ha creato per incanto mezzi di produzione e di scambio, così potenti, rassomiglia al mago che non riesce più a dominare le potenze degli inferi da lui evocate. Sono decenni ormai che la storia dell’industria e del commercio è soltanto la storia della rivolta delle forze produttive moderne contro i rapporti moderni della produzione, cioè contro i rapporti di proprietà che costituiscono le condizioni di esistenza della borghesia e del suo dominio. (...)

«A questo momento le armi che sono servite alla borghesia per atterrare il feudalesimo si rivolgono contro la borghesia stessa.

«Ma la borghesia non ha soltanto fabbricato le armi che le porteranno la morte; ha anche generato gli uomini che impugneranno quelle armi: gli operai moderni, i proletari. (...)

«Ogni tanto vincono gli operai; ma solo transitoriamente. Il vero e proprio risultato delle loro lotte non è il successo immediato ma il fatto che l’unione degli operai si estende sempre di più. Essa è favorita dall’aumento dei mezzi di comunicazione, prodotti dalla grande industria, che mettono in collegamento gli operai delle differenti località (...)

«Questa organizzazione dei proletari in classe e quindi in partito politico torna ad essere spezzata ogni momento dalla concorrenza fra gli operai stessi. Ma risorge sempre di nuovo, più forte, più salda, più potente.» (id.)

 

Una prima obiezione può essere che questa descrizione è «obiettivista» e presenta lo sviluppo della coscienza e dell’organizzazione della classe operaia come una conseguenza automatica dello sviluppo economico capitalistico. Ma l’elemento soggettivo è ben presente: i lavoratori lottano, vincono, sono sconfitti, lottano di nuovo; si organizzano in sindacati e partiti operai, vedono le proprie organizzazioni sconfitte e distrutte e le ricostruiscono.

Un’altra obiezione può essere che centocinquant’anni sono un tempo d’attesa troppo lungo. L’organizzazione dei lavoratori in classe e in partito politico è stata sconvolta numerose volte e tuttavia «più forte, più saldo, più potente» non sono proprio le parole che possono descrivere lo stato odierno del movimento dei lavoratori.

Marx ed Engels certo non si attendevano che la lotta dei lavoratori per il potere durasse centocinquant’anni. Ma essi non si aspettavano neppure che essa fosse breve, agevole o automatica.

Comprendevano che la classe operaia non era abbastanza forte per conquistare il potere nel 1848 e dunque proposero che i comunisti si posizionassero all’estrema sinistra di una rivoluzione necessariamente piccolo borghese. Si resero conto dopo il 1850 che la nuova espansione economica rendeva la rivoluzione improbabile fino alla successiva crisi di grandi proporzioni. Salutarono nel 1871 la Comune di Parigi anche se dubitavano che essa potesse conservare il potere che aveva conquistato.

Il marxismo non è deterministico. Spiega che lo sviluppo economico capitalistico rafforza numericamente e socialmente la classe operaia e tende sia ad unificarla mediante la creazione di condizioni comuni sia a dividerla tramite la concorrenza interna. Ciò si applica anche agli sviluppi contemporanei, compresa la globalizzazione e la mutata composizione sociale dei lavoratori salariati. La conclusione del Manifesto suona ancora valida: «Lavoratori di tutto il mondo, unitevi!»

Il capitalismo spinge i lavoratori a lottare e ad organizzarsi per poter lottare. Ciò dà ai comunisti l’opportunità di combattere politicamente la collaborazione di classe, di conquistare l’avanguardia al loro partito e di guidare la classe operaia all’autoemancipazione.

Lo sviluppo capitalistico crea la possibilità della rivoluzione sociale, ma non la sua certezza. Il problema non è che Marx ed Engels si sbagliavano sulle possibilità, sulle difficoltà o sui tempi della rivoluzione. Durante la crisi capitalistica del 1914-49 i rivoluzionari ebbero molte possibilità, molte difficoltà, tempi relativamente brevi e subirono prezzi elevati per i propri fallimenti. La crisi capitalistica in cui viviamo si presenta in modo simile.

 

 

La situazione complessiva

 

A prima vista sembra che nel ventesimo secolo il capitalismo abbia trionfato sul socialismo, come non si stancano di ripetere i suoi apologeti. Dopo aver perso il controllo di circa un terzo del globo nella prima metà del secolo, il capitalismo ha conosciuto un recupero di portata storica, con una nuova espansione negli anni Cinquanta e Sessanta, resistendo negli anni Settanta e trionfando sui propri contendenti negli anni Ottanta e Novanta. A prima vista il socialismo non sembra altro che un sogno ormai screditato.

La condizione di questo apparente trionfo capitalistico è la ritirata su scala mondiale della classe operaia a partire dagli anni Settanta. I lavoratori non sono stati in grado di difendere le loro posizioni sociali, soprattutto a causa dei fallimenti e dei tradimenti delle loro direzioni. Come conseguenza, i capitalisti sono stati capaci di conservare i livelli di profitto malgrado un’economia generalmente stagnante. Hanno aumentato il tasso di sfruttamento e accresciuto su scala mondiale le disuguaglianze, la povertà e la miseria. Nella maggior parte dei paesi capitalistici avanzati le borse hanno conosciuto rialzi stellari sulla base della valutazione che la classe operaia è ormai finita come forza storica indipendente.

Il punto più alto per i capitalisti – e il punto più basso per i lavoratori – è stato il crollo dell’Unione sovietica e la restaurazione del capitalismo nella terra della Rivoluzione d’Ottobre. L’Unione sovietica ha costituito l’esperimento storico più importante di uno sviluppo economico non capitalistico e la precondizione per ogni altro esperimento successivo. Quando l’Unione sovietica è crollata, gli apologeti borghesi ne hanno parlato come della prova che il capitalismo è il miglior sistema economico possibile – ossia, in epoca moderna, l’unico possibile.

Con la ritirata del movimento operaio e la caduta dell’Unione sovietica, anche il nazionalismo borghese e piccolo borghese è stato sconfitto. I governi nazionalisti borghesi dall’Argentina, al Brasile, al Messico, fino all’Algeria, all’Egitto, alla Turchia, all’India, all’Indonesia e alla Corea del Sud, sono stati costretti ad aprire completamente le loro economie all’imperialismo. I pochi movimenti di liberazione nazionale che sopravvivono e i governi da essi espressi hanno abbandonato ogni pretesa di antimperialismo, dal Sudafrica all’Angola, al Mozambico, alla Palestina, all’Irlanda.

L’assenza di nemici comuni non è ancora sfociata in un conflitto aperto tra le potenze imperialiste. Si è consolidato il predominio militare degli Stati uniti con la «vittoria» della Guerra fredda. Ma essi non hanno cercato di sopraffare gli altri imperialisti dopo la guerra del Golfo del 1991. La riduzione delle spese militari e la persistente ripresa dell’economia mondiale hanno significato che gli Stati uniti potevano conservare la guida dell’economia mondiale senza il ricorso a pressioni extra economiche. Assorbiti dai propri problemi economici, gli altri paesi imperialistici non avevano intenzione di sfidare gli Stati uniti o di sfidarsi a vicenda.

La politica economica preferita dall’imperialismo al giorno d’oggi è il neoliberismo, che ha imposto praticamente a tutto il mondo. Gli elementi di questa politica includono la liberalizzazione dei mercati al commercio e agli investimenti imperialistici, la stabilizzazione monetaria, una regolamentazione ridotta alla sola protezione dei diritti del capitale, la privatizzazione delle aziende statali, la riduzione delle spese pubbliche, tagli ai servizi pubblici, l’eliminazione dei sussidi ai consumatori, meno favoritismi e corruzione.

La forma politica preferita dell’imperialismo al giorno d’oggi è la democrazia borghese, nella quale gli oppressi eleggono periodicamente i rappresentanti dei loro oppressori. Generalmente parlando, la democrazia costituisce per i capitalisti una forma di governo più economica e più efficiente della dittatura, poiché il consenso è meno costoso e più efficace della coercizione e perché i dittatori di solito pretendono troppo per se stessi. Con la fine della Guerra fredda, i capitalisti pretendono un governo a buon mercato e relativamente pulito: «il migliore che il denaro può acquistare».

A un esame più ravvicinato, le contraddizioni del «nuovo ordine mondiale» saltano facilmente all’occhio. L’economia capitalista mondiale è ancora stagnante, soffre di una sovraccumulazione di capitale e di mezzi di produzione. Impossibilitati di fare concessioni ai lavoratori della portata di quelle degli anni Cinquanta, i capitalisti sono costretti ad abbassare drasticamente i livelli di vita per conservare i tassi di profitto.

Ma c’è un limite a quello che i lavoratori sono disposti a subire. E via via che paese dopo paese questo limite viene raggiunto, si sviluppano lotte difensive e anche rivoluzionarie. Il successo di queste lotte dipende dai livelli di coscienza e di organizzazione dei lavoratori e dallo sviluppo di partiti rivoluzionari e da un’Internazionale rivoluzionaria.

 

I paesi imperialisti

 

Le classi dominanti nei paesi capitalistici avanzati hanno perseguito il medesimo obiettivo: aumentare i profitti riprendendosi le conquiste sindacali, sociali e democratiche che avevano concesso alla classe operaia dagli anni Quaranta agli anni Sessanta.

Ciò ha comportato la «razionalizzazione» del lavoro salariato mediante chiusure, licenziamenti, svendite, lavori part-time e temporanei, straordinari obbligatori, intensificazione dei ritmi lavorativi, riduzione o eliminazione delle indicizzazioni del salario al costo della vita, dei sistemi di integrazione salariale e di assistenza sociale e di altre analoghe misure. Spesso queste misure sono descritte come «necessarie» alla competizione globale e combinate con misure fittizie di «concertazione» fra capitale e lavoro per cercare di minimizzare la resistenza.

Ciò ha anche significato l’adozione nelle imprese statali di criteri privatistici di gestione e in seguito la loro totale privatizzazione appena esse giungono a produrre profitti; il taglio dei servizi sanitari, dell’istruzione e degli altri servizi sociali; lo smantellamento dello stato sociale tramite la riduzione degli assegni di disoccupazione, la trasformazione del «welfare» (assistenza sociale) in «workfare» (assistenza al lavoro) ma senza offerta di lavoro, la riduzione dei sussidi per gli indigenti, l’innalzamento dell’età pensionabile e il taglio delle pensioni.

Ciò ha significato la riduzione dei diritti democratici, necessaria per imporre queste misure. Nella maggior parte dei paesi i padroni e i governi hanno introdotto restrizioni dei diritti sindacali di organizzazione e di sciopero e ridotto il potere dei delegati sindacali e dei consigli di fabbrica. Sono stati «snelliti» i regolamenti in materia di salute e di sicurezza, e ridotti i poteri dei tribunali del lavoro e di altri organi amministrativi di intervenire nei rapporti di lavoro. Sono state pure imposte restrizioni all’attività politica e sindacale e sono state limitate le normative elettorali proporzionali e in genere quelle favorevoli allo sviluppo dei partiti di sinistra.

Ciò ha significato attacchi agli immigrati e alle minoranze razziali. I governi hanno chiuso le frontiere contro i migranti dal Sud del mondo, hanno limitato il diritto di asilo, hanno deportato i lavoratori senza documenti, tagliato l’assistenza sociale ai non cittadini, hanno diminuito le istruzioni nelle lingue degli immigrati. Sono state abolite le «azioni positive» (a favore dei soggetti sfavoriti) e ridotta l’applicabilità delle leggi sui diritti civili. Sempre più spesso i minorenni vengono criminalizzati, arrestati, imprigionati, picchiati e sparati, con l’alibi della lotta al crimine e alla droga. Le discriminazioni e l’intolleranza hanno ricominciato ad imperversare. L’estrema destra ha costruito le sue fortune elettorali sulla demagogia contro gli immigrati e il razzismo. E sono proliferati i gruppi fascisti.

Ciò ha significato attacchi alla condizione sociale e ai diritti civili delle donne. Il taglio dei servizi sociali ha colpito maggiormente le donne, dal momento che sono esse che solitamente devono farsi carico dei servizi che lo stato non intende più fornire. L’eliminazione dei programmi di azioni positive hanno spesso rinchiuso delle porte che si erano appena aperte. In molti paesi le restrizioni al diritto di aborto e al controllo delle nascite hanno messo in discussione i diritti riproduttivi. I mass media, le chiese, le scuole e i politici promuovono i «valori della familia» patriarcale, con lo scopo di rinchiudere di nuovo le donne nei ruoli tradizionali.

Le classi dominanti hanno usato i governi tanto di sinistra che di destra per realizzare le proprie politiche. In genere esse tendevano «a sinistra» negli anni Settanta, rivolgendosi ai partiti liberali e ai partiti operai-borghesi per contenere le sollevazioni operaie e giovanili. Hanno fatto poi una svolta «a destra» negli anni Ottanta e Novanta, rivolgendosi ai partiti conservatori per imporre le misure che i partiti liberali e socialdemocratici non potevano far ingoiare alla propria base. E ora virano di nuovo «a sinistra» per imporre quelle misure che i lavoratori non accetterebbero dai conservatori o per consolidare le misure che sono già state imposte da questi ultimi.

Ridefinendo se stessi nel nuovo ordine mondiale, i partiti conservatori hanno virato verso l’estrema destra, i partiti liberali sono diventati conservatori, i partiti socialdemocratici si sono rifondati come liberali, i partiti verdi hanno accettato alleanze con gli inquinatori e i guerrafondai, i partiti stalinisti sono diventati socialdemocratici e i partiti precedentemente rivoluzionari sono diventati riformisti.

In questo quadro generale, ci sono delle differenze importanti tra i paesi capitalistici avanzati. Il crollo dell’Unione sovietica, la guerra del Golfo e altri interventi militari, le relativamente buone prestazioni dell’economia americana dal 1992 in avanti, hanno rafforzato l’egemonia degli Stati uniti sulle altre potenze imperialiste. Per la prima volta in venticinque anni l’imperialismo americano si presenta spudoratamente come un modello per il mondo intero. Le politiche borghesi negli Stati uniti sono diventate un vuoto utilizzo di pubblicità e di scandali, dato che la classe dominante e i suoi partiti non sentono alcuna necessità di cambiare qualcosa di significativo.

Gli altri paesi imperialisti di lingua inglese hanno visto una «americanizzazione» della loro politica, con qualche imitazione di Bill Clinton, come Tony Blair, a fornire una faccia nuova a delle politiche conservatrici.

E’ più complessa la situazione dell’Europa continentale. I conservatori hanno avuto qui meno successo, per cui le classi dominanti si sono rivolte alla «sinistra» per completare il lavoro. In Francia e in Italia governi di «sinistra» o di «centrosinistra» stanno imponendo delle politiche neoliberiste con l’alibi della promessa illusoria della riduzione dell’orario. Anche la Germania potrebbe incamminarsi presto sulla stessa strada. Le parole in codice di queste politiche sono «Europa» ed «euro».

L’Unione economia e monetaria europea ha abolito molte frontiere fra i suoi membri ma non può creare uno stato europeo. Le classi dominanti delle maggiori potenze europee non rinunceranno al controllo dei rispettivi apparati statali. Nel caso di future crisi economiche e sociali si rivolgeranno a questi apparati per cercare protezione dalla concorrenza e dalla lotta di classe e l’Europa si frantumerà lungo le sue linee di frattura storiche.

Per adesso, tuttavia, l’Unione europea provvede un ambito di protezione contro gli Stati uniti e il Giappone e l’euro è un alibi straordinario per attaccare quanto rimane dei sistemi di sicurezza sociale e le altre conquiste della classe operaia.

Negli anni Settanta e Ottanta sembrava che il Giappone costituisse un’eccezione tra i paesi imperialisti, crescendo a loro spese, quali che fossero le condizioni economiche. Ma a partire dagli anni Novanta le contraddizioni del capitalismo avanzato hanno investito anche il Giappone. Le sue riserve di manodopera proveniente dalle campagne erano esaurite, mancava di risorse naturali essenziali, non poteva più fare affidamento sulla tecnologia d’importazione, il suo mercato interno e i suoi mercati di esportazione si sono rivelati troppo ristretti per assicurare la crescita, i costi troppo elevati per sconfiggere i concorrenti. E’ scoppiata infine la bolla speculativa e la sua economia è entrata in una fase di ristagno.

Una rivoluzione non sembra probabile in nessuno dei paesi capitalistici avanzati nel prossimo futuro. Ma negli ultimi anni gli scioperi militanti in paesi come la Francia, la Grecia, la Germania, il Canada, gli Stati uniti, l’Australia e la Danimarca hanno mostrato quali sono le potenzialità di lotta. Come pure le manifestazioni dei giovani contro il razzismo e per i diritti degli immigrati. Persino l’elezione di governi «di sinistra» riflette la rabbia operaia contro la «festa» capitalistica.

 


Ascesa e declino dell’Unione sovietica

 

L’evento più straordinario del ventesimo secolo è stato sicuramente l’ascesa e la caduta dell’Unione sovietica. Sorto dalla crisi della Russia autocratica e arretrata durante la prima guerra mondiale, lo stato operaio sovietico contro tutte le previsioni riuscì a sopravvivere alla devastazione della guerra, alla guerra civile e al blocco imperialistico. Salvato dalla determinazione della classe operaia russa, dall’intelligenza politica della direzione bolscevica, dalla simpatia degli operai del mondo intero e dalla sollevazione rivoluzionaria che pose fine alla guerra, lo stato operaio si trovò infine isolato a causa del fallimento della rivoluzione europea.

Dall’isolamento e dall’arretratezza della Russia trasse vantaggio la burocrazia statale per consolidare il suo monopolio del potere politico sulla classe operaia, malgrado il rovesciamento del capitalismo. Passaggi cruciali in questo processo furono la sconfitta dell’Opposizione di sinistra trotskista nel 1923-24, la vittoria della fazione di Stalin nel 1927-28, l’industrializzazione e la collettivizzazione forzate del 1929-1933 e le purghe sanguinose del 1935-36, in combinazione con la sconfitta della rivoluzione tedesca del 1923 e della rivoluzione cinese del 1927 e con la vittoria di Hitler nel 1933.

La controrivoluzione politica in Unione sovietica era un fatto compiuto verso la metà degli anni Trenta, ma l’impulso fornito dalla rivoluzione era stato così forte che per la controrivoluzione economica e sociale occorsero altre sessant’anni, e esso ancora continua. La superiorità economica della proprietà statale dei mezzi di produzione e della pianificazione centralizzata consentì all’Unione sovietica di evitare i disastri della depressione degli anni Trenta, di realizzare l’industrializzazione, di armarsi e di sopravvivere all’assalto della Germania di Hitler.

La seconda guerra mondiale, più della prima, produsse una crisi rivoluzionaria. Dopo la fine della guerra il capitalismo venne rovesciato in Europa orientale, in Cina, in gran parte dell’Indocina e della Corea. Ma la collaborazione delle direzioni staliniste e socialdemocratiche con l’imperialismo e la debolezza delle forze trotskiste comportò che il capitalismo riuscisse a conservarsi al potere nella maggior parte del mondo, compresi i paesi capitalistici avanzati.

Gli anni Cinquanta e Sessanta videro ripetuti contrapposizioni tra l’Unione sovietica e gli Stati uniti, ma il quadro di riferimento dei loro rapporti rimase la «coesistenza pacifica», come lo chiamavano gli stalinisti, o il «con­teni­mento», come la chiamavano gli imperialisti. Ma nessuno dei due contendenti minacciò mai realmente l’esistenza dell’altro.

Questo cambiò negli anni Settanta, allorché la burocrazia sovietica diede il suo appoggio ad alcuni dei fronti della sfida mondiale all’imperialismo, in modo particolare alla rivoluzione vietnamita, e gli Stati uniti e le altre potenze imperialiste risposero con una controffensiva di cui era parte la corsa agli armamenti di Carter e Reagan.

L’Unione sovietica aveva sopportato molto di peggio nei suoi primi anni, ma negli anni Settanta essa doveva fare i conti con le sue contraddizioni. Come un paziente la cui costituzione è stata minata da anni di stravizi e di malattie, l’Unione sovietica mancava delle risorse fisiche e morali per superare quest’ultima crisi.

Le due contraddizioni fondamentali dell’Unione sovietica per la maggior parte della sua esistenza sono state la contraddizione tra il carattere mondiale dell’economia e il suo isolamento in un mondo dominato dall’imperialismo, e la contraddizione tra la necessità della democrazia operaia per sviluppare il potenziale dell’economia pianificata e collettivizzata e il dominio della burocrazia stalinista.

La corsa agli armamenti di Carter e Reagan impose un peso tremendo sull’Unione sovietica mentre la stagnazione dell’economia capitalistica mondiale limitava i suoi margini di manovra economici. Ma i problemi principali erano in casa.

Quella sovietica era ormai un’economia matura che non poteva più crescere rapidamente con i metodi «estensi­vi» di impiegare quantità crescenti di forza lavoro, di terra, di materie prime, di energia, di macchinari e di altri mezzi di produzione alla vecchia maniera. C’era la necessità di adottare i metodi «intensivi» per aumentare la produttività del lavoro e far progredire il livello tecnologico e la qualità dei prodotti. Ma questo avrebbe richiesto di rimpiazzare il dirigismo burocratico con l’automotivazione collettiva e la creatività del controllo operaio.

A partire dagli anni Ottanta l’economia sovietica era ormai in condizioni di stagnazione. Settori della burocrazia e della classe media cominciavano a invidiare la libertà dei capitalisti occidentali di sfruttare i lavoratori e di arricchirsi a fronte delle costrizioni del proprio sistema. Mentre il sistema non riusciva a soddisfare le richieste e la memoria storica si affievoliva, i lavoratori si preoccupavano sempre meno di ciò che stava succedendo all’Unione sovietica.

Con Michail Gorbaciov la burocrazia cercò di frenare questo processo, prendendo a prestito la perestrojka dall’economia di mercato capitalistica e la glasnost dalla democrazia borghese. Ma queste politiche semplicemente accelerarono il collasso indebolendo il centro burocratico senza costruire un’alternativa. La stagnazione si trasformò in crisi, poiché i burocrati e i dirigenti di ogni unità politica ed economica del paese si accapigliavano per proteggersi dalla catastrofe imminente.

Il fallimento del maldestro colpo di stato dell’agosto 1991 portò Boris Eltsin al potere. Il quale, quattro mesi dopo, assieme ai burocrati restaurazionisti del capitalismo nelle altre repubbliche, sciolse l’Unione sovietica.

 

 

La restaurazione del capitalismo negli ex stati operai

 

La vittoria di Eltsin diede il via alla restaurazione capitalista ma ci sono voluti vari anni per portarla a compimento. I nuovi governi delle ex repubbliche sovietiche annullarono la pianificazione centralizzata e il monopolio statale del commercio estero. Liberalizzarono progressivamente i prezzi e privatizzarono la maggior parte delle industrie statali, inizialmente con una larga componente di proprietà nominale dei dipendenti. Tagliarono i sussidi governativi e i crediti bancari alle imprese in perdita.

Si sviluppò presto una nuova classe di capitalisti poiché i burocrati e i dirigenti d’azienda trovarono il modo di volgere la crisi a proprio vantaggio. Scaltri, spietati, corrotti, violenti e fortunati, i nuovi capitalisti somigliano ai rapaci magnati dell’epoca dell’ascesa dell’imperialismo.

Il processo di restaurazione capitalistica ebbe effetti catastrofici sull’economia e sulla società. La produzione industriale crollò del 50%. L’inflazione salì alle stelle e i conti, le tasse e i salari non venivano più pagati. Crollarono i livelli di vita. I servizi sanitari si deteriorarono rapidamente. Aumentò la mortalità infantile e declinò l’aspettativa di vita. La miseria di massa forniva lo sfondo all’ostentazione dei nuovi ricchi.

Solo due forze avrebbero potuto impedire la restaurazione capitalistica: i settori della ex burocrazia e dell’esercito che pensavano che la proprietà statale fosse necessaria perché l’Unione sovietica restasse un grande paese con loro stessi al comando, e la classe operaia sovietica, che in ultima analisi poteva difendere se stessa soltanto opponendosi alla restaurazione capitalistica.

Il parlamento russo divenne il centro della resistenza politica dei burocrati alla restaurazione capitalistica. Ma esitò troppo a lungo e si trovò senza sostegno militare quando Eltsin si mosse per scioglierlo. L’ottobre del 1993 fu una ripetizione dell’agosto 1991, tranne che questa volta Eltsin aveva le armi e le utilizzò.

Il governo Eltsin divenne immensamente impopolare, specialmente i ministri associati con la «terapia d’urto» economica. Gli elettori si volsero verso i nazionalisti russi e i vari spezzoni dell’ex Partito comunista dell’Unione sovietica. Ma né gli uni né gli altri offrirono un’alternativa reale a Eltsin. Questo fu chiaro a tutti quando il Partito comunista della Federazione russa nei fatti concesse a Eltsin il secondo turno alle presidenziali del 1996, trasformandosi in una leale opposizione parla­mentare.

I lavoratori della Russia, dell’Ucraina e delle altre repubbliche ex sovietiche hanno scioperato ripetutamente per difendere il posto di lavoro e per il salario, e qualche volta per obiettivi politici. Ma queste lotte sono rimaste troppo episodiche per ottenere la maggior parte dei loro obiettivi parziali, ancor più per arrestare il processo di restaurazione capitalistica. La classe operaia è stata troppo confusa e demoralizzata dalla sua esperienza sotto lo stalinismo per vedere o per lottare per una propria strada al di là dei dirigenti del Partito comunista e del sindacato.

La legge del valore non opera ancora liberamente in Russia o negli altri stati ex sovietici. Le loro economie sono troppo caotiche per questo. E verosimilmente la situazione peggiorerà ancora prima di migliorare, con la possibilità di passare attraverso un periodo di dittatura militare o addirittura fascista, prima che la Russia ritrovi la stabilità come grande potenza capitalistica, sempre che essa sia in grado di farlo.

Ma i governi delle ex repubbliche sovietiche difendono la proprietà capitalistica dei mezzi di produzione e conservano un sufficiente controllo del proprio territorio e delle proprie economie da poter considerare come capitalistici i nuovi stati.

Fra le conseguenze dello smembramento dell’Unione sovietica e della lotta fra le sue parti per contendersi le sue spoglie ci sono le guerre civili e nazionali. L’Armenia e l’Azerbaigian si combattevano ancor prima del crollo dell’Urss. La Russia ha alimentato il separatismo nazionale in Georgia nel tentativo di tenerla legata a sé. In una guerra disastrosa per entrambi i contendenti la Russia ha quasi distrutto la Cecenia per impedirle di lasciare la Federazione russa. Le guerre civili nelle repubbliche dell’Asia centrale hanno coinvolto non solo ambizioni burocratiche e capitalistiche ma anche conflitti nazionali ed etnici, fondamentalismo religioso e intrighi stranieri.

I lavoratori hanno reagito troppo lentamente al disastro per riuscire a prevenire la restaurazione capitalistica. Ma i loro livelli di vita e i loro diritti democratici sono tuttora sotto attacco. Il capitalismo non ha una base di massa. Da nessuna altra parte le condizioni obiettive della rivoluzione sono più mature.

 

La restaurazione capitalistica negli altri stati operai deformati

 

Il processo di restaurazione capitalistica è andato più avanti nei paesi più avanzati dell’Europa orientale. La Germania dell’Est è stata assorbita dalla Germania occidentale. La Polonia, l’Ungheria e la Repubblica Ceca sono ora membri associati dell’Unione europea e della Nato. La Slovenia ha essenzialmente lo stesso status, sebbene su una base informale. Meno attraenti per l’imperialismo, gli stati baltici, la Romania e la Bulgaria si stanno integrando più lentamente.

La Jugoslavia è stata spazzata via dalle manovre delle burocrazie staliniste delle sue repubbliche nazionali, ciascuna delle quali cercava la restaurazione capitalistica nei termini più vantaggiosi, e dagli intrighi delle potenze imperialiste alla ricerca di influenza nella regione. La Germania in questa dissoluzione ha giocato un ruolo particolarmente pernicioso.

I conflitti nelle multinazionali Croazia e Bosnia hanno causato distruzioni immense e condotto alla spartizione della Bosnia in tre zone etniche esclusive e alla pulizia etnica dei serbi in Croazia. Ora i combattimenti sono scoppiati nella provincia serba del Kosovo, la cui maggioranza albanese era la sola minoranza nazionale realmente oppressa dell’ex Jugoslavia. Di qui essi possono facilmente estendersi alla Macedonia, che ha una larga minoranza di albanesi, e all’Albania.

L’Albania, il paese economicamente più arretrato dell’Europa orientale, è anche l’unico che ha conosciuto una rivoluzione parzialmente diretta contro le conseguenze disastrose della restaurazione capitalistica. Le condizioni erano diventate così disperate nel 1997 che gli operai e i contadini si sono sollevati, armi alla mano, e hanno rovesciato il governo corrotto di Sali Berisha. L’ex Partito comunista formò allora un governo fondato su una coalizione di fronte popolare che risolse la situazione a favore dell’imperialismo.

La Cina, il paese più popoloso del pianeta, rimane uno stato operaio – deformato e in dissoluzione – ma tuttavia uno stato operaio. A partire dalla metà degli anni Ottanta la burocrazia cinese ha perseguito una politica di perestrojka senza glasnost, mercato senza democrazia. Finora questa politica ha avuto successo.

Le dimensioni e l’arretratezza della Cina hanno consentito alla burocrazia di mantenere il controllo delle «cime dominanti» dell’economia, pur consentendo gli investimenti e lo sfruttamento capitalistici nell’industria di esportazione ad alta intensità di lavoro. Tale combinazione ha consentito alla Cina di crescere più rapidamente e senza interruzione di qualsiasi altra economia prevalentemente capitalistica grosso modo della sua taglia.

Le dimensioni e l’arretratezza della Cina hanno anche reso difficile sia all’opposizione filocapitalistica sia a quella filooperaia di diventare abbastanza forti da sfidare il dominio burocratico. La sfida capitalistica si presenta essenzialmente come evasione fiscale, contrabbando, corruzione. La sfida dei lavoratori si presenta essenzialmente come resistenza individuale al lavoro, sebbene la Cina abbia visto un numero impressionante di scioperi, nonostante l’alto livello di repressione. Tuttavia, memori del massacro di Piazza Tien An Men, gli oppositori politici del regime si muovono ancora con prudenza.

La situazione attuale non può durare all’infinito. La creazione in Cina di un mercato capitalistico interno e la sua apertura al mercato capitalistico internazionale significa che le cime dominanti sono destinate a cadere. La burocrazia può rimanere coesa abbastanza a lungo da arrivare a fare una scelta deliberata in favore della restaurazione capitalistica. Oppure potrà dividersi, come è accaduto in Unione sovietica, ed essere trascinata dalla marea restaurazionista. Ma in un modo o nell’altro il capitalismo sarà restaurato in Cina, a meno che una rivoluzione operaia non lo prevenga.

Anche l’Indocina, la Corea del Nord e Cuba sono attratte nel vortice imperialista. La restaurazione capitalistica è inevitabile, a meno che una rivoluzione operaia in questi paesi e nei paesi vicini non lo impedisca.

 

 

Sviluppi nelle semicolonie

 

La grande maggioranza della popolazione mondiale vive in paesi semicoloniali dominati dall’imperialismo. La politica oggi preferita dall’imperialismo in questi paesi, come nelle metropoli, è il neoliberismo con una mascheratura democratica.

Il neoliberismo non rappresenta niente di nuovo per i tradizionali regimi compradores che hanno sempre aperto le loro economie all’imperialismo. Ma oggi questi regimi si trovano sotto un controllo più stretto di quanto non lo fossero nel periodo della Guerra fredda. Oggi gli imperialisti criticano le manifestazioni di inefficienza e di corruzione, le frodi elettorali e le violazioni dei diritti umani che avrebbero ignorato dieci anni fa. Non vedono più alcuna ragione per pagare profumatamente degli agenti locali di cui si può fare a meno, o di essere posti sotto accusa per i loro eccessi, come hanno scoperto con sgomento il dittatore zairese Mobutu, l’indonesiano Suharto, o anche il messicano Salinas.

Le dittature militari sono cadute in disgrazia presso gli imperialisti che le considerano economicamente e politicamente troppo costose. Nelle attuali condizioni di relativa pace sociale nella maggior parte dei paesi, gli imperialisti preferiscono che i militari si astengano da un diretto coinvolgimento in politica e lascino il posto ai governi civili. Allo stesso tempo continuano a sponsorizzare le forze armate in tutto il globo come clienti per le proprie industrie militari e come assicurazione contro rivolte future.

Nell’ultimo decennio i regimi nazionalisti borghesi hanno messo da parte le loro aspirazioni ad uno sviluppo economico indipendente. Allo scopo di fare affari con gli imperialisti e di con­quistare un posto nell’economia globale, hanno dovuto aprire completamente i propri mercati interni, mettere fine alla protezione e ai sussidi a favore dell’industria nazionale e annullare gli accordi corporativi miranti alla pace sociale.

I regimi nazionalisti piccolo-borghesi che ieri si professavano «marxisti-leninisti» oggi confessano i loro errori, impongono le politiche d’austerità dettate dal Fondo monetario internazionale e tengono elezioni ammettendo i controrivolu­zio­nari armati. I movimenti di liberazione nazionale che non sono al potere rinunciano alle loro aspirazioni rivoluzionarie, si trasformano in opposizioni parlamentari e promettono, se eletti, di continuare le politiche del Fondo monetario internazionale.

I partiti stalinisti che sopravvivono a volte oppongono resistenza alle politiche neoliberiste, ma sono così profondamente irretiti in coalizioni di fronte popolare con forze borghesi che la loro resistenza cede rapidamente.

Il ritiro delle tradizionali direzioni semicoloniali ha lasciato un vuoto politico che in molti paesi è stato colmato dal fondamentalismo religioso. I partiti fondamentalisti sono proni alle esigenze capitalistiche tanto quanto le loro controparti laiche, ma il loro apparente antagonismo all’imperialismo li rende attraenti per settori della classe media urbana, per i contadini e per le masse urbane povere che subiscono gli effetti delle politiche imperialiste.

L’attuale «crisi asiatica» mostra i limiti delle politiche neoliberiste. Fino all’anno scorso l’Asia orientale era la vetrina del capitalismo. Anche dopo che il Giappone aveva cominciato a vacillare, le «quattro tigri» (Corea del Sud, Taiwan, Hong Kong e Singapore) venivano portate a modello di uno sviluppo economico di successo.

Ora le loro bolle speculative sono scoppiate. Hong Kong e Singapore hanno rivelato di essere soltanto degli isolati ed alquanto costosi avamposti imperialistici per il commercio e gli investimenti nella regione piuttosto che entità economiche indipendenti, come ha dimostrato chiaramente la cessione di Hong Kong alla Cina da parte della Gran Bretagna. La Corea del Sud e Taiwan hanno rivelato di essere delle guarnigioni della Guerra fredda i cui dirigenti locali potevano tenere bassi i salari e sviluppare un’industria d’esportazione ad alta intensità di lavoro solo perché protetti dalle armi americane.

Le «tigri» asiatiche sono cadute nella medesima trappola dei precedenti «miracoli economici» dell’Argentina, del Brasile e dell’Iran. I loro livelli di vita sono troppo bassi per creare un mercato interno adeguato ai loro prodotti. La produttività del lavoro è troppo bassa per competere con i paesi capitalistici avanzati. I loro salari troppo alti per competere con il secondo gruppo di «tigri». I popoli vogliono la democrazia. I giovani si ribellano. E la classe operaia è troppo forte per essere schiacciata.

Negli anni Novanta altri quattro paesi asiatici si sono aggiunti al club delle «tigri» asiatiche: la Tailandia, la Malesia, l’Indonesia e le Filippine. Meno direttamente legati all’imperialismo e più rappresentativi della realtà asiatica, non hanno tuttavia mai avuto la possibilità di spiccare il volo, prima di cadere. Ma le loro economie si sono sviluppate quanto basta per creare molte delle contraddizioni sociali e politiche che hanno mutato la Corea del Sud, come la sollevazione di massa in Indonesia ha mostrato su scala gigantesca.

Molto più popolosa dell’Indonesia, e presto più popolosa della stessa Cina, l’India possiede il più ampio spettro di condizioni economiche e sociali del mondo: dall’analfabetismo di massa alla matematica più avanzata, dagli esseri umani ridotti a bestie da soma alle armi nucleari. Lo sviluppo ineguale e combinato dell’India ha creato una enorme classe operaia urbana che convive con una ancor più numerosa popolazione rurale di contadini e di salariati agricoli.

Sia il governo precedente del laico nazionalista Partito del congresso che il governo attuale del fondamentalista hindu Bjp accettano il quadro neoliberista e imperialista. Entrambi sostengono disastrose politiche nazionalistiche e militariste, compresa la corsa agli armamenti con il Pakistan. Il Bjp aggiunge a questo un aperto disprezzo per la democrazia e la protezione dell’organizzazione paramilitare Rss.

Paragonata all’Asia, l’America Latina sembra un continente pacifico. Ma mostra le medesime contraddizioni e un livello di sviluppo economico generalmente più alto. Il modello neoliberista per l’America latina è stato sviluppato dalla dittatura di Pinochet in Cile ma ora è stato abbracciato dai governi apparentemente democratici dall’Argentina al Brasile al Messico.

Nella maggior parte dei paesi i militari sono tornati nelle caserme, ma la polizia e i gruppi paramilitari continuano a terrorizzare i contadini, gli indigeni e i poveri delle città. Fujimori guida comunque un regime che è de facto una dittatura militare in Perù, mentre il governo della Colombia è impegnato in una guerra sporca contro i contadini e i ribelli di sinistra simile alla guerra condotta negli anni Ottanta in Salvador e in Guatemala, con tanto di aiuto militare e di operazioni segrete degli Stati uniti.

In ogni paese il neoliberismo ha significato drastici tagli dei redditi e dei livelli di vita della classe operaia e della classe media. Solo i più ricchi hanno tratto vantaggio dalla modesta ripresa economica degli ultimi anni. Gli imperialisti e le classi dominanti locali sono riuscite finora a reggere ogni tempesta ma le tensioni sociali restano elevate.

L’Africa del Nord e il Medio Oriente sono economicamente stagnanti e politicamente lacerati fra i fallimentari regimi borghesi nazionalisti e compradores di ieri e i fondamentalisti islamici che cercano di soppiantarli. La classe operaia è irrequieta, ma non vede vie d’uscita.

L’Iran è passato attraverso la peggiore delle sue controrivoluzioni fondamentaliste e sta assistendo a una modesta ripresa delle lotte politiche e sindacali. L’Algeria è ancora nel vortice di una lotta tra i nazionalisti corrotti e discreditati e i fondamentalisti. La Turchia sembra imboccare la stessa strada.

L’Irak è ancora in rovina a causa della guerra del Golfo e delle sanzioni imperialiste. La lotta di liberazione nazionale del popolo curdo è compromessa senza speranze nell’Irak settentrionale, ancora repressa nell’Iran settentrionale e incapace di fare dei passi avanti in Turchia orientale. L’agonia della Palestina continua, dal momento che le concessioni dell’Olp non riescono a smuovere Israele e gli Stati uniti, malgrado l’insoddisfazione dell’amministrazione Clinton secondo cui Nethanyau dovrebbe fare di più.

L’Africa subsahariana, tranne il Sudafrica, è nelle condizioni peggiori dall’indipendenza. Durante la Guerra fredda gli imperialisti e l’Unione sovietica avevano gareggiato per l’influenza nella regione, finanziando e armando i governi africani amici. Ora sono finiti i finanziamenti, ma restano le armi. Molti governi si sono disintegrati, essendo diventati i loro generali signori della guerra e i loro soldati banditi.

Le divisioni etniche, alimentate dai governi coloniali e postcoloniali, aggravano il caos. Il risultato sono i conflitti etnici frequenti e talvolta genocidi, dei quali quello del Ruanda è l’esempio peggiore ma ben lungi dall’essere l’unico. I rifugiati sono decine di milioni e la malaria, l’Aids e altre malattie devastano le popolazioni.

I movimenti di liberazione nazionale in genere hanno accettato i diktat dell’imperialismo. Sudafrica, Mozambico, Angola, Congo, Eritrea, Palestina, Nicaragua, El Salvador: nomi che evocano ancora ricordi di lotte eroiche, ma il romanzo è finito da un pezzo.

Anche l’Irlanda segue la stessa strada, in termini politici se non economici, dal momento che l’Ira sembra voler rinunciare alla lotta repubblicana in cambio di una promessa non scritta di una riunificazione che potrebbe forse avvenire nei prossimi cinquant’anni.

Solo le lotte di liberazione più determinate e spietate rimangono fedeli a se stesse: Sentiero luminoso in Perù, il Pkk in Kurdistan e le Tigri Tamil in Sri Lanka. (Dopo che questo documento era stato scritto, il Pkk ha dichiarato l’abbandono della lotta armata e della sua rivendicazione di un Kurdistan indipendente).

Anche l’abdicazione della maggior parte dei nazionalisti radicali piccolo-borghesi ha contribuito a lasciare un vuoto politico.

 

 

Equilibrio e squilibrio capitalistici

 

Nel 1921-22 l’Internazionale comunista discutesse le prospettive della rivoluzione dopo la sconfitta delle tre ondate di lotte rivoluzionarie in Europa del 1918, del 1919 e del 1921. Leone Trotsky, incorporando le osservazioni empiriche di Nikolai Kondratiev e altri, sviluppò allora la concezione di equilibrio e squilibrio nello sviluppo capitalistico per dar conto delle apparenti «onde lunghe» nella curva dello sviluppo capitalistico. Trotsky espose questa concezione in un rapporto al terzo congresso dell’Internazionale comunista.

 

 «Con la guerra imperialista siamo entrati nell’epoca della rivoluzione, nell’epoca cioè in cui i pilastri stessi dell’equilibrio capitalistico sono scossi e stanno crollando. L’equilibrio capitalistico è qualcosa di estremamente complesso. Il capitalismo produce questo equilibrio, lo spezza, lo ristabilisce per spezzarlo di nuovo, estendendo contemporaneamente l’ambito della sua dominazione. Nella sfera economica queste continue rotture e questi continui ristabilimenti dell’equilibrio assumono la forma di crisi e di boom. Nella sfera dei rapporti tra le classi la rottura dell’equilibrio assume la forma di scioperi, serrate, lotte rivoluzionarie. Nella sfera dei rapporti tra Stati la rottura dell’equilibrio significa guerre: in forma più moderata guerre doganali, guerre economiche e blocchi. Così il capitalismo è caratterizzato da un equilibro dinamico, un equilibrio che è sempre in fase di rottura o in fase di ristabilimento. Ma contemporaneamente questo equilibrio possiede una grande capacità di resistenza: la prova migliore consiste nel fatto che sino ad oggi il mondo capitalista non è stato rovesciato.» (Lev Trotsky: Relazione sulla crisi economica mondiale e i nuovi compiti dell’Internazionale comunista, 23 giugno 1921, in Problemi della rivoluzione in Europa, Mondadori 1979, p. 122).

 

L’immagine di Trotsky di una nave in mezzo alla tempesta rende vivacemente la natura conflittuale sia dell’equilibrio sia dello squilibrio capitalistici. Nulla è calmo; nulla è semplicemente «economico». La transizione fra una condizione e l’altra è ben lungi dall’essere qualcosa di «automatico».

Trotsky riconsiderava gli avvenimenti degli anni precedenti – la prima guerra mondiale, la rivoluzione russa, l’ondata rivoluzionaria del dopoguerra e la sua sconfitta – e si chiedeva: E’ stato ripristinato l’equilibrio capitalistico? Egli esaminava questo problema in termini di equilibrio economico, di equilibrio politico, di equilibrio negli assetti internazionali, e della loro interazione.

Trotsky giungeva alla conclusione che l’equilibrio non era stato ristabilito, sebbene non ne escludesse la possibilità in futuro nel caso che la classe operaia non fosse prima riuscita a rovesciare il capitalismo.

 

«Se ammettiamo – e ammettiamolo per un momento – che la classe operaia non riesca a levarsi in una lotta rivoluzionaria, ma conceda alla borghesia la possibilità di decidere le sorti del mondo per un lungo numero dei anni, diciamo per due o tre decenni, allora sicuramente un nuovo equilibrio sarà in qualche modo ristabilito. L’Europa sarà spinta violentemente in direzione opposta. Milioni di operai europei moriranno per la disoccupazione e la denutrizione. Gli Stati uniti saranno costretti a riorientarsi sul mercato mondiale, a riconvertire la loro industria e a subire una contrazione per un periodo considerevole. Dopo di che, dopo che fra conflitti acuti sia stata stabilita una nuova divisione mondiale del lavoro per quindici, venti o venticinque anni, forse seguirà una nuova epoca di rilancio capitalistico.

«Ma tutta questa ipotesi è completamente astratta e unilaterale. Le cose sono presentate come se il proletariato avesse cessato di lottare. Invece, per il momento, non possiamo neppure avanzare una simile ipotesi non fosse che per la ragione che proprio negli ultimi anni le contraddizioni di classe si sono acutizzate all’e­stre­mo.» (id., p. 163-164, sottolineatura nell’origi­nale).

 

Come si è dimostrato, gli stalinisti, i socialdemocratici e i nazionalisti borghesi impedirono alla classe operaia di rovesciare il capitalismo. Dopo venticinque anni di conflitti terribili, fra cui le controrivoluzioni in Cina e in Spagna, l’ascesa di Hitler al potere, l’aggressione giapponese alla Cina, la seconda guerra mondiale, l’Olocausto, la bomba atomica, la guerra fredda, la guerra di Corea e la bomba all’idrogeno, il capitalismo raggiunse infine un nuovo equilibrio.

 

 

L’equilibrio del dopoguerra e il suo crollo

 

L’equilibrio dopo la seconda guerra mondiale includeva cinque elementi. Il primo era l’equilibrio tra i capitalisti e i lavoratori nei paesi imperialisti. I lavoratori accettavano il dominio capitalistico e i capitalisti accettavano la democrazia borghese, i sindacati, alti livelli di vita e un sistema di sicurezza sociale.

Il secondo elemento era l’equilibrio tra gli imperialisti. I paesi imperialisti accettavano l’egemonia militare ed economica degli Stati uniti e questi accettavano che gli altri paesi imperialisti avessero più elevati tassi di crescita.

Il terzo elemento era l’equilibrio tra gli imperialisti e le semicolonie. Le élites semicoloniali accettavano la dominazione imperialista e gli imperialisti, talvolta dopo lotte acute, accettavano la decolonizzazione – operando tramite propri agenti locali piuttosto che tramite un dominio diretto – e un limitato sviluppo economico delle loro ex colonie.

Il quarto elemento era costituito dall’equilibrio tra gli imperialisti e l’Unione sovietica. I burocrati stalinisti accettavano la «coesistenza pacifica» col capitalismo in un mondo dominato dall’imperialismo, e gli imperialisti accettavano il dominio stalinista su un terzo della popolazione mondiale.

Il quinto elemento, basato sui primi quattro, era l’equilibrio fra i tassi di profitto sul capitale e la crescita economica. I capitalisti si erano resi conto che potevano investire con profitto nella ricostruzione dell’economia mondiale, incorporare trentacinque anni di nuove tecnologie e realizzare il potenziale economico dell’ordine mondiale uscito dal secondo conflitto mondiale.

Il diversi elementi di questo equilibrio interagivano. Ad esempio, il condizionamento reciproco fra l’imperialismo e lo stalinismo spingeva a fare concessioni alla classe operaia ma forniva anche degli alibi per la repressione, e ciò contribuiva a mantenere l’equilibrio fra le classi.

Questo equilibrio si è mantenuto per quasi vent’anni, dal momento che i suoi diversi elementi si rafforzavano l’un l’altro in una spirale «virtuosa». Ma a partire dalla fine degli anni Sessanta l’equilibrio cominciò a deteriorarsi. I capitalisti avevano saturato lo spazio economico disponibile e avevano sviluppato ingenti capacità produttive in eccesso in quasi tutte le sfere della produzione: materie prime, beni di produzione, beni di consumo, e persino nei servizi.

Avrebbero potuto continuare l’espansione economica, se fossero stati in grado di agire sulla base di una piano di sviluppo economico mondiale. In quanto capitalisti, tuttavia, non potevano farlo. E il mercato mondiale inviava loro i segnali sbagliati. La sovraccumulazione di capitale aveva causato la caduta verticale nei tassi di profitto, la qual cosa che li induceva a tagliare gli investimenti e a cercare di ridurre i livelli di vita. Ma questo aggravava lo squilibrio fra l’offerta e la domanda, giacché a un’offerta invariata corrispondeva una domanda rapidamente calante. Da ascendente la spirale è diventata discendente.

L’equilibrio sociale nei paesi  capitalistici avanzati ha cominciato a deteriorarsi ancor prima della fine dell’espansione economica. I settori della popolazione precedentemente esclusi hanno cominciato a chiedere l’integrazione: le minoranze razziali e nazionali, gli immigrati, le donne, le lesbiche e i gay, i giovani.

Come i saggi di profitto cominciarono a cadere, i capitalisti cominciarono a negare le promesse fatte in precedenza alla classe operaia. Gli scontri precedentemente settoriali cominciavano ad assumere sempre più un aperto carattere di classe. Scoppiarono acute lotte economiche e politiche, alla quali fu d’esempio l’esplosione del maggio 1968 in Francia.

Con il declino dell’espansione, gli imperialisti si trovarono in concorrenza per dividersi il mercato mondiale. Non più egemoni economicamente, gli Stati uniti cominciarono a ritirarsi dal loro ruolo di guardiani del mercato mondiale. La Comunità economica europea si consolidava sia per proteggere il mercato interno europeo sia per costituire una base per la competizione esterna. Ed emergeva il Giappone come potenza industriale e temibile esportatore.

Si intensificava le rivalità interimperialistiche. Il passo più aggressivo fu la cosiddetta «crisi del petrolio». Sfruttando la propria posizione di principali potenze imperialiste produttrici di petrolio, gli Stati uniti e l’Inghilterra cospirarono con i propri alleati dell’Opec per quadruplicare i prezzi del petrolio nel 1973 e triplicarli nel 1979. Ciò procurò immensi profitti alle loro compagnie petrolifere e alle loro banche, danneggiò pesantemente gli altri paesi imperialisti e le semicolonie non produttrici di petrolio, e costruì un capro espiatorio per l’inflazione galoppante che sul piano interno consentì di abbassamento i salari.

Anche l’equilibrio tra i paesi imperialisti e le semicolonie cominciò a venir meno, allorché gli imperialisti iniziarono a trarre dalle semicolonie profitti superiori ai capitali che vi investivano. Si vennero intensificando le lotte di liberazione nazionale, anche perché gli stalinisti, i radicali piccolo-borghesi e perfino i nazionalisti borghesi cominciarono ad opporre resistenza. Dal Vietnam alla Palestina al Mozambico all’Angola al Cile e al Nicaragua, le lotte anticoloniali si trasformarono o minacciarono di trasformarsi in lotte anticapitalistiche.

Quando l’Unione sovietica venne coinvolta in questi conflitti, cosa che accadde spesso, anche la «coesistenza pacifica» dei burocrati con gli imperialisti cominciò a sfaldarsi. La sconfitta degli Stati uniti in Vietnam registrò efficacemente questi cambiamenti.

 

 

La controffensiva capitalista

 

Le forze capitalistiche non hanno semplicemente ceduto e sono crollate. Si sono ritirate, hanno riaccumulato le forze e hanno cominciato una controffensiva. Sono state in grado di farlo per i limiti delle direzioni dei movimenti di massa, nessuna delle quali ha mai cercato veramente di rovesciare l’ordine del dopoguerra, tanto meno di sostituirlo con il socialismo su scala mondiale.

La sollevazione della fine degli anni Sessanta e dell’inizio degli anni Settanta fu, in un certo senso, vittima del suo stesso successo. Raggiunse in buona misura i suoi obiettivi al punto da indurre a smobilitare gli operai e i giovani che aveva attivato senza aver posto dei chiari obiettivi per una nuova mobilitazione di massa. Per esempio, assicurò la vittoria della rivoluzione vietnamita e delle rivoluzioni in Portogallo e nelle colonie portoghesi, senza porre adeguatamente la necessità di rovesciare l’imperialismo e lo stalinismo su scala mondiale.

La maggior parte della «generazione del ’68» non aveva prospettive per continuare la lotta. Disillusi dai risultati degli anni Settanta, i giovani del ’68 e i loro figli sono diventati la vecchia e la giovane generazioni del ritorno al privato negli anni Ottanta. L’avanguardia e le masse si sono relativamente spoliticizzate.

Non sempre e non dovunque. Ma le rivoluzioni in Iran e in Nicaragua nel 1979 e la quasi rivoluzione polacca nel 1981 sono state le ultime propaggini della sollevazione degli anni Settanta. E la quasi rivoluzione sudafricana del 1985-86 e le rivoluzioni molto limitate di Haiti e delle Filippine nel 1986 sono state le eccezioni che confermavano la regola.

Nei paesi capitalistici avanzati le classi dominanti hanno usato i partiti liberali e socialdemocratici per contenere le lotte operaie negli anni Settanta e poi in genere li hanno scaricati negli anni Ottanta, volgendosi verso i partiti borghesi conservatori.

La vittoria di Margareth Thatcher nel 1979, dopo cinque anni di svendite laburiste, ha indicato la strada. Il governo Thatcher ha sistematicamente smantellato uno dei più forti sindacati d’Europa e uno dei sistemi sociali più solidi. La sola resistenza reale è stato lo sciopero dei minatori del 1984-85. Se fosse diventato uno sciopero generale, avrebbe potuto invertire la rotta. Ma venne isolato e sconfitto per la mancata volontà della burocrazia sindacale, inclusa la burocrazia della Num, di generalizzare la lotta fino a farne uno scontro di classe per il potere.

Negli altri paesi capitalistici avanzati la musica è stata la stessa. La sinistra riformista giunta al governo sull’onda del movimento degli anni Settanta ha fallito l’occasione. I capitalisti sono passati al contrattacco. I lavoratori si sono ritirati. E il risultato sono stati sia governi conservatori (Reagan, Kohl) sia governi socialdemocratici che hanno praticato politiche conservatrici (Mitter­rand).

La controffensiva imperialista contro le semicolonie è stata sia economica che militare. Negli anni Settanta gli imperialisti hanno prestato enormi somme ai governi, alle banche e alle industrie delle semicolonie, in parte allo scopo di stabilizzare questi paesi, in parte allo scopo di trovare sbocchi redditizi per i propri capitali in eccesso. Negli anni Ottanta gli imperialisti hanno cominciato a chiedere il rimborso dei debiti, invertendo la direzione dei flussi di capitale da entrate in uscite per molti paesi, in particolare in America Latina e in Africa.

Un eccesso di offerta fece cadere i prezzi delle materie prime e dei prodotti ad alta intensità di lavoro esportati dai paesi dipendenti, mentre la necessità imperativa di ripagare il debito li costringeva a svendere le loro produzioni, nonostante le sfavorevoli ragioni di scambio. Quando non fu più possibile far fronte ai pagamenti, i paesi imperialisti tramite il Fmi cominciarono a pretendere misure d’austerità e l’apertura delle economie.

I paesi che non accettarono le imposizioni imperialistiche furono marchiati come «stati criminali» e sottoposti a sanzioni economiche e a pressioni militari. Gli Stati uniti imposero sanzioni contro Cuba, il Nicaragua, la Corea del Nord, il Vietnam, la Cambogia, l’Afganistan, l’Iran, l’Irak, la Libia, la Siria, l’Etiopia, il Sudan e altri paesi accusati di «appoggiare il terrorismo». Gli altri paesi imperialistici in genere li seguirono, a meno che avessero non trascurabili interessi economici nei paesi sanzionati.

Gli Stati uniti provocarono inoltre la guerra tra Iran e Irak, sostennero l’invasione israeliana del Libano, invasero Grenada e Panama, bombardarono la Libia, spedirono l’Unita contro l’Angola e il Mnr contro il Mozambico, i contras contro il Nicaragua, i mujaheddin contro l’Afganistan e intrapresero la guerra contro l’Irak. L’Inghilterra appoggiò gli Usa nella maggior parte di queste azioni e mosso guerra all’Argentina. La Francia di solito sostenne gli Usa e spesso inviò le sue truppe a far da «polizia» nelle sue ex colonie africane.

Il bersaglio esterno principale della controffensiva imperialista fu l’Unione sovietica, la cui esistenza rendeva possibile la resistenza dei movimenti di liberazione nazionale.

Con una combinazione di misure economiche e militari, gli imperialisti fecero il possibile per indebolire il blocco sovietico. Attirarono l’Europa dell’Est in una ragnatela di scambi e di debiti e la minacciarono con nuovi dispiegamenti di armi nucleari. Fecero di tutto per corrompere i movimenti antiburocratici, in modo particolare Solidarnosc.

Gli Stati uniti, inoltre, misero in atto pressioni dirette sull’Unione sovietica. Utilizzando come alibi l’invasione sovietica dell’Afganistan nel 1979, l’amministrazione Carter impresse una brusca accelerazione alla corsa agli armamenti. Reagan proseguì questa politica, aggiungendo alle enormi spese militari degli Usa il folle progetto di «guerre stellari». La necessità di far fronte a questa rincorsa contribuì al crollo dell’Unione sovietica, peraltro già minata dalle contraddizioni del regime burocratico.

Il crollo dell’Unione sovietica aprì la strada all’instaurazione del «nuovo ordine mondiale» proclamato dal presidente americano Geor­ge Bush dopo la guerra del Golfo e allo scenario contemporaneo descritto sopra.

 

 

Uno sguardo al futuro

 

Dopo aver dato uno sguardo al passato e al presente, dobbiamo ora rivolgerci al futuro. Dobbiamo farlo con una certa umiltà, riconoscendo che i migliori cervelli del marxismo hanno già sbagliato in simili previsioni.

Per esempio, Marx ed Engels, nel 1850, pensavano che le rivoluzioni del 1848 avrebbero presto conosciuto una ripresa, ma la lunga espansione economica già in corso pospose la nuova ondata rivoluzionaria fino al 1871. Nel 1916 Lenin pensava che non sarebbe vissuto abbastanza da vedere la rivoluzione. E la maggior parte dei trotskisti, sulla scia della previsione fatta da Trotsky alla vigilia della seconda guerra mondiale, si attendevano che la guerra provocasse una crisi rivoluzionaria che sarebbe continuata fino al crollo del capitalismo.

In tutti questi casi le previsioni erano ragionevoli, basate sui fatti, e furono corrette quando si dimostrarono sbagliate. Ma esse ci fanno tornare alla mente la saggezza di Lenin che si correggeva nelle Lettere sulla tattica dell’aprile del 1917, pubblicate insieme con le Tesi di aprile.

«Il marxismo esige da noi un’analisi esatta, controllabile obiettivamente, dei rapporti reciproci tra le classi e delle particolarità concrete di ogni momento storico. Noi bolscevichi ci siamo sem­pre sforzati di conformarci a questa esigenza la quale è assolutamente obbligatoria dal punto di vista di ogni fondamento scientifico della politica.

«La nostra dottrina non è un dogma, ma una guida per l’azione», dissero sempre Marx ed Engels burlandosi a ragione delle ‘formule’ imparate e ripetute meccanicamente le quali, nel migliore dei casi, servono soltanto a indicare compiti generali che la situazione economica e politica concreta di ogni fase speciale del processo storico modifica necessariamente.

«Quali sono dunque i fatti oggettivi, concretamente stabiliti, sulla base dei quali il partito del proletariato rivoluzionario deve guidarsi oggi nella determinazione dei suoi compiti e delle forme della sua azione?» (Lettere sulla tattica, Newton Compton, 1975, p. 67)

La lettera include la famosa citazione delle parole di Mefistofele dal Faust di Goethe.

«La teoria, amico mio, è grigia, ma verde è l’albero eterno della vita.» (id., p. 69)

Come i nostri predecessori rivoluzionari, la cosa migliore che possiamo fare è applicare la nostra analisi marxista ai fatti, intervenire su questa base e aggiustare la nostra analisi nella misura in cui i fatti nuovi, inclusi i risultati del nostro intervento, lo richiedono.

 

 

Due concezioni sbagliate

 

Per cominciare, dobbiamo mettere da parte due concezioni che chiaramente non sono sostenute dai fatti: l’idea che il capitalismo mondiale sia già entrato in un nuovo periodo di equilibrio e di espansione, e l’idea che esso sia in procinto di subire un crollo catastrofico. Entrambe queste concezioni rappresentano una combinazione di impressionismo e di «wishful thinking» [convinzione dettata dal desiderio].

L’idea che il capitalismo sia entrato in un nuovo periodo di equilibrio parte dall’impressione suscitata dalla relativa prosperità e dalla stabilità dei paesi capitalistici avanzati, in primo luogo gli Usa. Con il ciclo economico al suo punto più alto, il tasso di crescita dell’economia statunitense è relativamente alto, i tassi di disoccupazione e di inflazione relativamente bassi, i salari reali stanno aumentando, i profitti sono sufficientemente elevati da motivare e da finanziare gli investimenti, i governi vanno incontro a bilanci in attivo e il mercato azionario è a livelli record.

Le economie europee stanno cominciando a rianimarsi e potrebbero presto raggiungere i livelli di espansione degli Usa, il che potrebbe prolungare la ripresa americana. L’anello debole della catena imperialistica è il Giappone, la recessione del quale si aggrava. Ma questo sembra solo controbilanciare gli anni in cui il Giappone cresceva al contrario degli altri paesi capitalistici sviluppati. Per il momento la crisi del Giappone sembra governabile.

Certo, la maggior parte del mondo ristagna nella depressione economica e la crisi asiatica ha minato i paesi capitalistici che avevano conosciuto lo sviluppo più rapido. Ma il peso degli Usa e dell’Europa nell’economia mondiale è tale che sembra più plausibile che saranno essi a trainare il resto piuttosto che gli altri a trascinarli a fondo, almeno per i prossimi anni.

Osservatori con propensioni teoriche aggiungono ulteriori considerazioni. La minaccia della competizione globale sembra deprimere la lotta di classe tanto negli Stati uniti quanto negli altri paesi capitalistici avanzati, così che gli aumenti salariali restano relativamente modesti, anche di fronte a tassi di disoccupazione bassi o declinanti. La restaurazione capitalista nell’ex blocco sovietico e il neoliberismo nelle semicolonie hanno aperto nuove opportunità di sfruttamento capitalistico potenzialmente immense. E venticinque anni di sviluppi tecnologici sono maturi per nuovi investimenti redditizi.

Francamente, i marxisti devono riconoscere che la controffensiva capitalistica ha avuto abbastanza successo su tutti i fronti tanto che, col passare del tempo, ciò potrebbe costituire la base per un nuovo periodo di espansione. Manca tuttavia un elemento chiave: concessioni massicce da parte dei capitalisti allo scopo di garantire la pace sociale, come negli anni Cinquanta e Sessanta.

La natura di questo elemento rende chiaro perché la prospettiva di un «nuovo equilibrio» sia falsa. Alla base del «nuovo ordine mondiale» e dell’attua­le prosperità imperialista sta operando un massiccio trasferimento di reddito e di ricchezza dai lavoratori e dai poveri ai grandi capitalisti e ai loro lacchè. Rovesciare questa tendenza potrebbe corrispondere all’astratto interesse a lungo termine dei capitalisti stessi, ma essi sono incapaci di agire su una simile base.

I capitalisti continueranno a fare ciò che hanno sempre fatto: tentare di abbassare il livello di vita degli operai e degli oppressi. Se le masse continueranno a subire passivamente, i capitalisti conserveranno la democrazia borghese. Se invece cominceranno a lottare, i capitalisti cercheranno di sopprimere la democrazia e si rivolgeranno alla reazione aperta.

A osservarlo con attenzione, il mondo attuale è un posto troppo instabile per parlare di un nuovo equilibrio. Anche nei paesi capitalistici avanzati l’espansio­ne in atto è basata principalmente sull’acutizzazione dello sfruttamento e dell’ineguaglianza, non sulla crescita della produttività del lavoro. Non può durare. Con la prossima recessione l’illusione si dissolverà.

L’altra concezione erronea che occorre respingere è quella secondo cui il capitalismo mondiale si troverebbe sul­l’or­lo di un crollo catastrofico.

Varie situazioni nel mondo alimentano questa impressione. Ad esempio, sembra quasi inconcepibile che la produzione e i livelli di vita possano cadere così tanto come nell’ex Unione sovietica senza provocare una rivoluzione. O che la caduta di due dittatori che hanno avuto un ruolo chiave nell’ordine della guerra fredda, come lo zairese Mobutu e l’indonesiano Suharto, possa portare così scarsi vantaggi alle masse. O che 31 milioni di persone – di cui 21 milioni nell’Africa subsahariana – possano essere affette da Hiv senza conseguenze per i capitalisti la cui avidità nega alla maggior parte di essi le cure necessarie e ha condannato lo scorso anno 2 milioni di persone a una morte prematura a causa dell’Aids.

Si potrebbe essere tentati di affermare che il boom delle borse, così enfatizzato dai capitalisti, costituirà presto la loro fine. I mercati, gonfiati dagli eccessi della speculazione, preludono certamente a un crollo. In effetti, i crolli sono prima o poi inevitabili, innescati da una ripresa della lotta di classe all’interno del Paese, da una crisi da qualche parte nel mondo, o semplicemente dal panico derivante dalla comprensione che i valori di borsa sono sopravvalutati. Ma il crollo dell’ottobre del 1987 ha mostrato che le borse possono cadere più di quanto fecero nel 1929 senza con questo trascinare a fondo l’economia reale della produzione e del commercio.

Si potrebbe essere tentati di affermare che la democrazia con cui i capitalisti mascherano il loro sfruttamento è una risposta alle pressioni di massa e che i nuovi governi di «sinistra» e di «centrosinistra» costituiscono un tentativo disperato di prevenire la rivoluzione. Ma in realtà essi sono, al momento, il modo più economico e conveniente di cui dispongono i capitalisti per imporre le loro politiche neoliberiste.

Molti paesi potrebbero vedere delle esplosioni nei prossimi mesi, soprattutto alcuni degli ex stati operai e delle semicolonie in cui le tensioni sociali sono più acute. Ma queste esplosioni non metteranno in discussione il sistema capitalistico mondiale fino a quando non riusciranno a suscitare ben di più di una crisi nelle metropoli imperialistiche. E questo non accadrà fino a quando l’economia mondiale non si deteriorerà considerevolmente e gli Stati uniti e gli altri paesi imperialistici non saranno trascinati in guerre e rivoluzioni senza avere le risorse economiche, politiche e militari per contenerle.

 

 

Le prospettive della rivoluzione

 

Le rivoluzioni proletarie hanno luogo quando la classe capitalistica è incapace di governare come prima, le masse lavoratrici non tollerano più di essere governate come prima e un partito operaio rivoluzionario ha conquistato una forza sufficiente nell’avanguardia e nella classe operaia per dirigere la rivoluzione. La rivoluzione mondiale si realizza quando tutte queste condizioni sono abbastanza diffuse, compreso nei paesi capitalistici avanzati, da travolgere il sistema imperialista.

L’approfondirsi della crisi del capitalismo mondiale sta creando le prime due condizioni. La crisi è in qualche modo oscurata dall’attuale momento favorevole del ciclo economico, dalle politiche dei capitalisti che scaricano l’onere della crisi sulle spalle dei lavoratori e degli oppressi e dalla loro persistente capacità di controllare le esplosioni quando si verificano. Ma il mondo è profondamente instabile. Nei prossimi mesi e nei prossimi anni tutti gli elementi di squilibrio tenderanno ad aggravarsi.

I capitalisti si trovano ancora di fronte a un problema economico senza soluzione. Hanno realizzato la previsione di Marx e di Engels di un’economia mondiale altamente socializzata che non sono in grado di controllare. Hanno accumulato troppo e possono produrre troppo. La proprietà privata dei mezzi di produzione e i confini nazionali costituiscono un impedimento alla pianificazione di cui avrebbero bisogno per consentire lo sviluppo dell’economia mondiale. E nessun sistema di pianificazione abbastanza razionale potrebbe tollerare l’irrazionalità della proprietà privata dei mezzi di produzione e dei confini nazionali. Lo squilibrio economico di lungo periodo continua.

Lo squilibrio economico crea problemi politici per i capitalisti. Essi non possono continuare ad aumentare i tassi di sfruttamento e ad abbassare i livelli di vita dei lavoratori nei paesi capitalistici avanzati senza provocare una reazione. Inoltre la produttività del lavoro sta crescendo troppo lentamente per consentire loro di conservare gli alti tassi di profitto senza aumentare lo sfruttamento e senza abbassare i livelli di vita.

Gli scontri di classe sono inevitabili. Come pure i tentativi dei capitalisti di soffocarli con svolte a destra e a sinistra. Il periodo che ci sta di fronte dovrebbe vedere un alternarsi di governi conservatori e liberali o operai-borghesi che perseguiranno in genere politiche neoliberiste, con uno sfondo di razzismo e di xenofobia. Ma con l’approfondirsi della crisi sociale le oscillazioni politiche diventeranno più ampie fino a comprendere il bonapartismo stile anni Trenta e i fronti popolari.

Queste oscillazioni non risolveranno le crisi politiche. Esse continueranno fino a quando i lavoratori non sconfiggeranno in modo decisivo i capitalisti con una rivoluzione socialista, o i capitalisti non sconfiggeranno in modo decisivo i lavoratori con le dittature militari o con il fascismo.

Anche gli scontri fra gli imperialisti sono inevitabili. Con l’approfondirsi della crisi di sovraccumulazione e di sovrapproduzione, gli imperialisti si troveranno in scontri sempre più aspri fra di loro, in concorrenza per i mercati e per le quote di capitale. Quasi certamente queste collisioni condanneranno la Comunità europea e gli altri tentativi di superare le rivalità interimperialistiche sulla base di una relativa uguaglianza e di accordi di compromesso.

Fino ad ora le collisioni fra gli imperialisti sono state relativamente pacifiche. Ma quando la posta in gioco diventa alta, gli imperialisti meglio armati saranno tentati di ottenere con la forza ciò che non possono avere con mezzi economici. In particolare gli Stati uniti saranno tentati di utilizzare la loro schiacciante supremazia militare per compensare la loro relativa debolezza economica. La guerra del Golfo, che ha ricordato bruscamente ai tedeschi e ai giapponesi chi controlla le loro riserve di petrolio, è stata solo una bazzecola paragonata a ciò che gli Stati uniti potrebbero fare se si sentissero senza via d’uscita.

Gli attuali governi della Germania e del Giappone non potrebbero resistere alle mosse aggressive degli Stati uniti. Ma l’approfondirsi della crisi sociale potrebbe portare al potere governi militaristi o fascisti che potrebbero rispondere con la medesima aggressività. Il risultato potrebbe essere una corsa agli armamenti nucleari molto più pericolosa di quella indo-pakistana, dal momento che questi paesi avrebbero la tecnologia e la ricchezza per produrre migliaia di testate nucleari.

La Russia potrebbe benissimo venir attratta nei conflitti interimperialistici. L’oligarchia militare e la nuova oligarchia finanziaria aspira a riunire il territorio dell’ex Unione sovietica in un nuovo impero russo. Questo fattore, combinato con una svolta corporativa finalizzata allo sviluppo economico sul modello della Germania o del Giappone, potrebbe rendere la Russia una potenza imperialista in tempi abbastanza brevi. Oppure la Russia potrebbe costituire un formidabile alleato della Germania o del Giappone, fornendo ad essi le risorse e la capacità militare per affrontare gli Stati uniti.

Gli imperialisti continueranno a spremere le semicolonie e le classi dirigenti nelle semicolonie continueranno a spremere i loro operai e i loro contadini. Le condizioni delle masse continueranno ad essere molto peggiori che nei paesi imperialistici, dato che la produttività del lavoro è più bassa e i padroni nazionali ed esteri si contendono il plusvalore.

Le attuali politiche neoliberiste «democratiche» costituiscono un lusso e gli imperialisti e le classi dominanti nazionali vi faranno ricorso solo fino a quando le masse semicoloniali subiranno in silenzio. Con lo sviluppo della resistenza, torneranno le dittature e gli squadroni della morte. Qualora la rivoluzione si facesse minacciosa, in vari paesi i capitalisti potrebbero rivolgersi di nuovo ai fronti popolari nel tentativo di contenere le lotte. Ma se avranno successo nel contenere le lotte, i fronti popolari potrebbero rivelarsi soltanto il preludio a una repressione selvaggia.

Queste oscillazioni tra estremi sempre più ampi continuerà fino a che gli operai e i contadini non sconfiggeranno in modo decisivo gli imperialisti e i capitalisti nazionali o fino a quando gli imperialisti e i capitalisti nazionali non sconfiggeranno in modo decisivo gli operai e i contadini.

Le classi dominanti in formazione in Russia e negli ex stati operai continueranno a spremere le rispettive classi lavoratrici anche più duramente di quanto non facciano gli imperialisti con le proprie. Coloro che nutrono aspirazioni imperialistiche devono superare lo svantaggio di partire in ritardo rispetto ai loro concorrenti in termini di produttività del lavoro e di accumulazione di capitale. Mentre coloro che stanno scivolando nella dipendenza si ritrovano nella stessa morsa delle attuali semicolonie.

I lavoratori opporranno resistenza ai tentativi dei capitalisti di scaricare su di essi questi fardelli. L’attuale calma relativa non può durare. Il processo con il quale gli operai scenderanno in lotta nelle diverse parti del mondo sarà diseguale e combinato. Diseguale poiché differenti settori di lavoratori entreranno in lotta a diverse riprese. Combinato perché le lotte dei differenti settori si influenzeranno a vicenda, poiché i lavoratori prenderanno esempio e impareranno dalle vittorie e dalle sconfitte gli uni degli altri.

In molte delle semicolonie e degli ex stati operai le condizioni sono già talmente pesanti da suscitare delle rivoluzioni. L’intensificazione della sofferenza fornisce il combustibile. Gli avvenimenti forniranno la scintilla. L’Albania, lo Zaire e l’Indonesia non sono che schermaglie iniziali. Via via che le rivolte diventeranno più radicali e più frequenti, gli imperialisti non saranno in grado di contenerle.

Il processo rivoluzionario si svilupperà più lentamente nei paesi  capitalistici avanzati. Le condizioni peggioreranno con il peggiorare dell’economia. Questo provocherà delle lotte sindacali e politiche per obiettivi parziali. E’ inverosimile che possano svilupparsi in lotte rivoluzionarie a partire solo dalle condizioni economiche. Ma la crisi economica sarà aggravata dalla crisi politica, dato che gli imperialisti saranno colpiti dalle bufere di guerre e rivoluzioni. E la combinazione, nel tempo, provocherà crisi rivoluzionarie anche nelle metropoli imperialiste.

Centocinquant’anni di storia della classe operaia ci dicono che i lavoratori continueranno a lottare. Ci dicono anche che la condizione indispensabile della vittoria è un partito rivoluzionario dei lavoratori. In ultima analisi, le prospettive della rivoluzione si riducono alle prospettive della costruzione di partiti rivoluzionari e di un’Internazionale rivoluzionaria.

 

 

Compiti dei rivoluzionari

 

Il compito generale dei rivoluzionari è dirigere le rivoluzioni, ovvero guidare la classe operaia all’instaurazione della propria dittatura sul capitale e ad organizzare il proprio potere sulla base della democrazia operaia e di una eco­nomia collettivizzata e centralmente pianificata: i fondamenti politici ed economici della transizione dal capitalismo al socialismo. Ma oggi il compito particolare dei rivoluzionari consiste nel prepararsi a ciò attraverso la costruzione di partiti rivoluzionari e di un’In­terna­zio­nale rivoluzionaria.

Nessun partito al mondo oggi è in grado di dirigere una rivoluzione. Coloro che hanno la forza per poterlo fare non sono abbastanza rivoluzionari per farlo. Quelli che sono abbastanza rivoluzionari e hanno la sufficiente chiarezza politica non sono abbastanza forti per riuscirci.

La situazione è anche peggiore a livello internazionale. La ritirata della classe operaia, la caduta dell’Unione sovietica e l’apparente trionfo del capitalismo complicano il compito della costruzione di partiti rivoluzionari.

Molti lavoratori non credono più nella possibilità di una soluzione socialista ai problemi che si trovano di fronte. Molti identificano il fallimento dello stalinismo con il fallimento del socialismo. Molti sono convinti che non c’è nulla di meglio di un’eco­nomia di mercato con la democrazia borghese.

Allo stesso tempo, però, il fallimento delle direzioni tradizionali della classe operaia ha reso gli operai politicamente avanzati e la gioventù più sensibili al marxismo rivoluzionario. Vogliono una spiegazione degli avvenimenti, un programma per il quale lottare e una strategia per vincere. E sanno che gli stalinisti, i socialdemocratici e i nazionalisti borghesi e piccolo-bor­ghesi non hanno risposte.

Si potranno costruire partiti rivoluzionari e un’Internazionale rivoluzionaria attraverso l’incontro tra il movimento rivoluzionario e il movimento dei lavoratori, la loro fusione, con la trasformazione delle organizzazioni rivoluzionarie da circoli isolati in organizzazioni di massa che raggruppano l’avanguardia dei lavoratori.

Il movimento operaio ha già cominciato a riprendersi dagli effetti della controffensiva capitalista e del crollo dell’Unione sovietica. Il livello delle lotte sta crescendo in ogni parte del mondo. I lavoratori e gli oppressi sempre più si difendono e sempre più efficacemente.

Si è potuto osservarlo nelle semicolonie con il rovesciamento di Mobutu e di Suharto, nello sciopero generale in Corea del Sud, nelle insurrezioni in Messico e in Colombia, nel movimento dei senza terra in Brasile e nella resistenza popolare in Palestina. Si è potuto osservarlo negli ex stati operai nel rovesciamento di Berisha in Albania, nella ribellione in Kosovo e nello sciopero dei minatori russi. Si è potuto osservarlo nei paesi capitalistici avanzati negli scioperi del settore pubblico in Francia, nello sciopero generale in Danimarca e negli scioperi nell’Ups e nella General Motors negli Stati uniti.

Il movimento operaio ha ancora molta strada da fare per ricostruire la forza che possedeva venti o venticinque anni fa. Ma gli attacchi capitalistici stanno provocando una reazione. Non semplicemente una reazione sindacale, ma una reazione di tutti i settori della classe operaia, inclusi i disoccupati, gli immigrati, le minoranze nazionali e razziali, le donne, le lesbiche e gli omosessuali, la gioventù. E non solo degli operai, ma anche dei contadini con e senza terra, degli artigiani e dei piccoli commercianti, degli emarginati, degli studenti e anche di settori di tecnici e di studiosi.

Il movimento rivoluzionario è ancora in ritardo. E’ in qualche modo paradossale, dato che oggi nel mondo ci sono parecchi rivoluzionari. Lavorano insieme in gran numero nel movimento dei lavoratori, ma non ancora nel movimento rivoluzionario.

Molti dirigenti del movimento operaio si sono politicizzati nei movimenti degli anni Sessanta e Settanta. Molti conservano le loro convinzioni rivoluzionarie, così come anche molti lavoratori di base radicalizzati nello stesso periodo, anche se non militano più da anni nel movimento rivoluzionario. Molti di coloro che oggi lottano più attivamente sono giovani che si considerano in qualche modo dei rivoluzionari. Anch’essi stanno diventando dei dirigenti operai.

Come ebbe a dire Lenin del movimento russo nei primi anni di questo secolo, c’è molta gente ma non c’è ancora un popolo. La maggior parte dei rivoluzionari sia delle generazioni più anziane sia di quelle più giovani non militano in organizzazioni rivoluzionarie.

Il marxismo rivoluzionario – il trotskismo – fornisce una strategia, un programma e una teoria corrette. Ma la teoria deve svilupparsi in modo da tenere in considerazione gli sviluppi su scala mondiale e la comprensione umana del mondo. Il programma deve concretizzarsi in obiettivi transitori che hanno un senso agli occhi dell’avanguardia e, cosa ancora più importante, delle masse. E la strategia deve concretizzarsi in tattiche appropriate alla situazione.

Le organizzazioni rivoluzionarie devono intervenire nelle lotte reali degli operai e degli oppressi, proporre una linea d’azione, fornire una direzione pratica e, su questa base, conquistare l’adesione di singoli e di gruppi di lavoratori.

Il compito è reso complicato dalla molteplicità delle organizzazioni rivoluzionarie. Nella maggior parte dei paesi ci sono alcune o molte organizzazioni che si considerano rivoluzionarie, tante con deviazioni centriste di un tipo o dell’altro. Finora la lotta di classe non ha messo alla prova dell’azione le loro prospettive così da poter operare la selezione delle loro differenze politiche, produrre nuove convergenze e far emergere un partito operaio rivoluzionario egemone.

La situazione è anche peggiore a livello internazionale. Ci sono varie correnti trotskiste internazionali e correnti nazionali con gruppi in altri paesi. Ma sono tutte minuscole in relazione ai compiti, e molte di loro soffrono di deviazioni centriste in vario grado.

L’interazione fra gli sviluppi della lotta di classe, il movimento dei lavoratori e il movimento rivoluzionario è troppo complicata per essere determinata in anticipo. Sarà determinata dagli avvenimenti e dall’inter­vento dei rivoluzionari.

Non c’è dubbio, tuttavia, che la costruzione di partiti rivoluzionari e di un’Inter­nazionale rivoluzionaria necessiterà sia del superamento della confusione politica e della frammentazione organizzativa del movimento rivoluzionario sia dell’incontro fra il movimento rivoluzionario e il movimento dei lavoratori.

Un compito strategicamente importante è la rigenerazione politica e la ricostruzione organizzativa della Quarta Internazionale come nucleo del futuro Partito mondiale della rivoluzione socialista: la rifondazione della Quarta Internazionale.

Il movimento trotskista conserva un’impor­tanza particolare. Le organizzazioni trotskiste si richiamano al marxismo rivoluzionario. Ciò significa che esse attraggono e continueranno ad attrarre dei rivoluzionari che rompono da sinistra con lo stalinismo, la socialdemocrazia e il nazionalismo. Il nostro compito di costruire il partito sarebbe molto più facile se ci fosse un unico centro, egemone, per il raggruppamento rivoluzionario. Ma questo deve tuttora essere creato.

L’approfondirsi della crisi capitalistica fornirà ai rivoluzionari molte opportunità di intervento nelle lotte di massa. Riaffermando il programma e il metodo del marxismo rivoluzionario, i trotskisti devono conquistare a questo programma e a questo metodo tutti i rivoluzionari pronti ad abbandonare le oscillazioni centriste e l’irrilevanza settaria.