Controriforma
Moratti e lotte universitarie
Per
un università di massa e non di classe
di
Luca Scacchi
Nei prossimi mesi si tenterà
di chiudere il lungo processo di ristrutturazione dell’università italiana,
avviato con la riforma Ruberti e l’occupazione di quasi tutti gli atenei
italiani (la cosiddetta Pantera) nel 1990. Per capire meglio quello che oggi
vuole fare la Moratti (ma non solo lei) è utile dare uno sguardo più
approfondito a questo processo.
Un passo indietro
Due gli obiettivi che il
padronato italiano si poneva negli anni ’90 con la controriforma
dell’università: uno sul fronte della didattica, stratificando i titoli di
studio tra diversi livelli per costruire un mercato del lavoro qualificato più
compartimentato, con una forza lavoro divisa, ricattabile e valorizzata; uno sul
fronte della ricerca, portando un pezzo della struttura universitaria pubblica e
dei relativi fondi sotto il controllo del grande capitale (in particolare con i
Parchi Scientifici e Tecnologici).
Il processo di
ristrutturazione avviato nel ‘91 ha trovato fortissime resistenze nel mondo
accademico e una sostanziale mancanza di sponde su cui far leva per imporre le
riforme. Innanzitutto, pensiamo all’opposizione da parte degli studenti, che
dopo la Pantera hanno dato vita ad un ciclo di lotte durato un quinquennio
(mobilitazioni ed occupazioni a Pisa, Cosenza, Padova, Milano, Roma, ecc),
isolate tra i diversi atenei e sconfitte una ad una (contro l’aumento delle
tasse, il costo pieno per case dello studente e mense, il numero chiuso).
Ma c’è stata anche
un’opposizione del baronato universitario, legato a privilegi e modalità di
funzionamento del precedente sistema, che è stata aggirata e blandita dando il
via libera alla moltiplicazione delle sedi e dei corsi di laurea. I
provvedimenti e dispositivi di riforma sono stati quindi disarticolati,
muovendosi intorno a quattro assi: autonomia degli atenei (costruzione degli
Statuti nei primi anni 90), riduzione e redistribuzione dei fondi (finanziaria
del ’93), concorsi dei docenti (banditi e controllati dagli atenei), nuovi
corsi di studio (3+2 nel 1998).
In questo processo decennale
è mancata la capacità di costruire una voce alternativa, in grado di uscire
dall’isolamento della propria sede o della propria corporazione. Soprattutto
gli esponenti della sinistra accademica, i Ds in particolare, sono stati tra i
principali promotori della ristrutturazione: con Ruberti ex-rettore
“progressista” della Sapienza, Lombardi ministro della riforma con Ciampi
nel ’93, sino a Berlinguer nel governo Prodi (riforma dei concorsi e 3+2). Non
a caso oggi uno dei principali centri di lobby su Parlamento e Governo per le
controriforme del sistema educativo è la Fondazione TreeLLLe, che ha assunto in
pieno obbiettivi e ragionamenti del padronato, riunendo esponenti di entrambi i
poli (si vedano gli interessanti documenti proposti nel sito www.associazionetreelle.it).
La Moratti in campo: si
prova a chiudere la partita
Ma questo processo è
avanzato con fatica e contraddizioni. La prolificazione degli atenei e dei corsi
ha creato sedi con bilanci traballanti ed enormi problemi di sopravvivenza. Dopo
il fallimento dei diplomi universitari (istituiti nei primi anni ’90, che
invece che tecnicizzare i corsi universitari hanno accademicizzato i corsi
professionali come educatori, assistenti sociali, infermieri, ecc), i nuovi
ordinamenti didattici hanno dovuto mediare tra l’esigenza di creare un titolo
di studio intermedio (3 anni), tecnico, e la tendenza
degli Atenei nei primi anni 90 ad aumentare i carichi didattici (per
essere corsi d’eccellenza nella nuova competizione del mercato universitario).
I parchi scientifici sono nati senza un retroterra industriale in grado di
sostenerli e senza ingenti finanziamenti pubblici in grado di farli intervenire
nella piccola e media impresa.
La moltiplicazione dei corsi
e l’autonomia ha consolidato un’ampia fascia di precariato sia nella ricerca
che nella didattica: un precariato non regolamentato che produce la tendenza a
bandire concorsi da ricercatori per sistemare il più possibile i propri
accoliti (dati in sparizione a metà degli anni 90, i ricercatori si sono in
questi anni moltiplicati per il loro costo minore, ed hanno iniziato a svolgere
regolarmente compiti didattici teoricamente non di loro competenza).
La Moratti, in difficoltà
sul fronte della scuola, ha pensato la scorsa primavera di rifarsi sul fronte
dell’università, con una rapida approvazione di alcuni provvedimenti che
avevano alle spalle l’elaborazione ed il consenso di un gruppo di rettori e
noti docenti che sostenevano la riforma, e un centrosinistra storicamente non
contrario ai suoi contenuti. Obiettivo: portare un po’ d’ordine nella
ristrutturazione in corso, ricentralizzare il controllo di fondi e concorsi nel
ministero, passare definitivamente dall’università di massa all’università
di classe nel nostro paese. L’offensiva della Moratti si è concetrata su tre
aspetti, fra loro intrecciati: ddl
sullo stato giuridico dei docenti, la riforma del 1+2+2, la revisione dei
criteri di finanziamento ai singoli atenei. Vediamoli nello specifico:
1) Il ddl sullo stato
giuridico, proposto a febbraio e varato d’improvviso dalla Commissione
parlamentare a luglio, assomma diversi provvedimenti: rinazionalizzazione dei
concorsi per i docenti, con commissioni "prevalentemente
elettive" (chi e come decide la parte non elettiva?); precarizzazione dei
docenti (scomparsa dei ricercatori; introduzione di docenti e ricercatori a
tempo determinato 4+4 anni; precarizzazione per la prima fase, da 1 a 6 anni, di
assunzione in ruolo come docente ordinario o associato); istituzione di cattedre
(professori ordinari) temporanei finanziati da enti privati; scomparsa del tempo
parziale (favorendo i liberi professionisti); introduzione di una quota di
salario variabile ai docenti (una delle leve per introdurre le differenziazioni
fra atenei).
2) La riforma
dell'1+2+2 istituisce una canalizzazione rigida, introducendo un diploma
universitario triennale su tutti i corsi di laurea, irrigidendo la divisione tra
corsi “superiori” che andranno a sfociare nel proseguimento verso la laurea
quinquennale e corsi “tecnici”, con un titolo di studio molto
settorializzato e poco spendibile (in termini di forza lavoro, poco
valorizzante). I primi saranno ovviamente appannaggio degli atenei forti, i
secondi preferibilmente relegati nei piccoli atenei diffusi sul territorio. La
Moratti ha aperto 6 tavoli di discussione con organismi universitari e
professionali per definire, entro natale, i nuovi ordinamenti didattici, che
vorrebbe operativi dal prossimo anno accademico.
3) La riforma dei criteri di
finanziamento è un po' la leva con cui entrambe le riforme otterranno il loro
effetto. Attualmente gli atenei ricevono i soldi statali da due fondi (per quasi
tutti questa quota rappresenta il 70-80 % del bilancio, ad eccezione di
pochissimi come il Politecnico di Milano): il fondo ordinario (proporzionale
alla grandezza degli atenei), e quello di ripartizione, gestito dal Miur (assai
più ridotto) che è suddiviso da una commissione nazionale sulla base della
qualità (?) degli atenei. La nuova proposta della Moratti è di ripartire con
criteri “meritocratici” anche il fondo ordinario, con cui si paga la spesa
corrente nelle università (dal riscaldamento agli stipendi). Nel momento in cui
verranno tagliati i soldi con cui si garantisce il normale funzionamento
dell’ateneo, saranno incentivate nei piccoli atenei forme di precariato anche
“alto” (assumo un associato per tre anni, poi si vedrà se ci sono i soldi);
nel momento in cui non sono in grado di pagare un laboratorio, le spese per le
ricerche nelle tesi, i docenti per il biennio, verrà naturale concentrarsi sui
corsi triennali (soprattutto se verranno alzati i criteri minimi per i corsi di
laurea, numero docenti, ecc).
Le lotte dei precari, dei
ricercatori e dei docenti. Problemi e potenzialità
Con il varo del ddl a luglio
è partita nel personale universitario un’ampia mobilitazione che racchiude
interessi e posizione diverse, unificate dal no alla riforma. Le proteste in
corso si stanno allargando in queste settimane, con alla testa ricercatori,
colpiti dalla scomparsa del loro ruolo e da una loro maggior subordinazione
prevista nel provvedimento (con un titolo di “professore aggiunto”,
mantengono uguale stipendio, rimangono esclusi dagli organismi accademici, ma
diventa obbligatoria l’attività didattica). In più di trenta atenei sono
state tenute assemblee e l’avvio dell’anno accademico è stato segnato da
blocchi della didattica (in un paio di realtà, a Trieste e Potenza, ad
oltranza). La fase di sospensione della didattica si sta ora concludendo,
passando a forme di mobilitazione più pubbliche (assemblee e lezioni in piazza,
cortei cittadini e regionali, presidio al Miur a metà novembre, ecc), tentando
di coinvolgere anche gli studenti.
La Conferenza dei Rettori ha
reagito alle mobilitazioni con un comunicato ambiguo: si chiede di rimandare il
ddl a dopo la finanziaria, per valutare la fattibilità della riforma con un
adeguato apporto finanziario. Molti Senati Accademici (gli organismi di gestione
didattica degli atenei) hanno richiesto invece un ritiro secco del
provvedimento. Nonostante per ora il fronte sia abbastanza unito, si vedono
spaccature esistenti e possibili.
Le spaccature presenti:
innanzitutto non tutti gli atenei sono in mobilitazione. Una parte dei docenti 1°
e 2° fascia sono sostanzialmente favorevoli alla riforma: sono soprattutto i
ricercatori a tirare la mobilitazione. I docenti professionisti sono premiati
dalla riforma e quindi per la maggior parte silenti (economisti, avvocati,
medici, ecc) e quindi molte facoltà di questo tipo non sono in mobilitazione.
La componente studentesca spesso appare passiva, se si muove la fa in appoggio a
precari e ricercatori ma senza un proprio profilo, senza un’attenzione
rispetto alla riforma della didattica e tantomeno un ragionamento complessivo
sulla trasformazione dell’università italiana. In fondo, come è possibile
vedere nell’ultimo decennio, anche la componente studentesca è divisa tra
interessi diversi a seconda delle sedi e dei corsi di laurea in cui lo studente
si ritrova iscritto (chi per possibilità economiche o scelte errate si ritrova
in un ateneo marginale ha una prospettiva diversa dallo studente iscritto ad un
corso di laurea forte in un ateneo centrale).
Le spaccature possibili: la
riforma colpisce differentemente i grandi ed i piccoli atenei, quelli con
possibilità di reperire fondi (sul territorio, dai privati, aumentando le tasse
degli studenti) e quelli senza queste possibilità. Inoltre i momenti ed i
luoghi di coordinamento e verifica delle mobilitazioni sono carenti. Non
esistono e non sono pensati momenti di convocazione di assemblee nazionale o di
coordinamenti per delegati, i sindacati dei docenti (tutti) sono deboli e si
tende a organizzarsi per atenei o coordinamenti di categoria (rettori,
conferenza dei presidi, coordinamento dei ricercatori
non assunti, ecc).
In questo quadro l’unità
delle mobilitazioni oggi si regge solo sul rifiuto del provvedimento: se da una
parte questo è un elemento di radicalità rispetto ai settori dialoganti con il
Miur, dall’altro blocca l’approfondimento di un bilancio della
ristrutturazione universitaria e l’emergere di una posizione alternativa ai
processi in corso, sostenuti non solo dal governo ma anche dal
centrosinistra.
La settimana di
mobilitazione nazionale tra l’8 e il 13 novembre, lo sciopero unitario con la
scuola il 15 novembre, la convocazione di uno sciopero generale ad oltranza nel
momento in cui il ddl arriverà in aula saranno il banco di prova di questo
movimento, verificheranno la capacità di allargare la mobilitazione dentro e
fuori l’università, ma anche di costruire piattaforme e rivendicazioni non
legate unicamente alla difesa dei propri interessi corporativi.
Contro un università di
classe, contro il baronato di destra e i riformatori di sinistra
L’obiettivo di una forza
comunista dentro le mobilitazioni in corso è quindi duplice: da una parte riunificare
un fronte di lotta che rompa i gruppi corporativi (studenti, ricercatori,
associati, ordinari), dall’altra aprire una battaglia sulle parole d’ordine
e le piattaforme del movimento, traendo un bilancio sull’opera del
centrosinistra e mettendo al centro la questione di classe che spesso viene
occultata nel dibattito in corso. L’obiettivo del padrontato italiano è
segmentare i corsi di studio, per dividere il mercato del lavoro, per
specializzare la forza lavoro contemporaneamente svalorizzandola (il tuo titolo
vale meno quindi lo pago meno), dividendola e scomponendola.
Occorre evitare che prevalga
la passività degli studenti e il carattere talvolta "corporativo"
delle mobilitazioni dei ricercatori: insieme al possibile successo del blocco
del provvedimento si aprirebbe infatti il fianco al passaggio di alcune idee
forza (efficienza degli atenei, autonomia, professionalizzazione,
differenziazione stipendi, titoli, ecc), su cui poi sarà costruito il prossimo
attacco all’università di massa, questa volta magari gestito dal
centrosinistra.
Nelle mobilitazioni in corso
questo vuol dire aprire un confronto e uno scontro con quei soggetti che hanno
avviato il processo di ristrutturazione e si potranno trovare domani, con un
nuovo governo Prodi, a chiuderlo. Una controriforma che magari eliminerà dalla
proposta Moratti le parti più baronali (parità tra tempo parziale e tempo
pieno, ordinari istituiti dai privati, ecc), per sfondare sulla sostanza
(divisione tra corsi alti e tecnici, precarizzazione dei docenti, fine del
valore legale del titolo di studio). Non a caso alcuni senatori dell'Ulivo
(Tessitore, Monticone, Acciarini, Coviello, D'Andrea e Villone) hanno presentato
all'inizio di questa legislatura (e ancora non l'hanno ritirato) un disegno di
legge che prevede un precariato più lungo di quello previsto ora dal ddl
governativo e una riforma dei concorsi identica a quella contenuta nello stesso
ddl. Non a caso il ddl sullo statuto giuridico è stato approvato il 31 luglio
in Commissione Cultura grazie ad un accordo con l’opposizione, che avrebbe
potuto bloccare il provvedimento.
Difendere l’università
pubblica, ma soprattutto un università di massa, il valore legale del titolo di
studio, la libertà e l’unitarietà del lavoro docente è la piattaforma che i
comunisti devono avanzare nelle mobilitazione in corso, una voce di classe nel
movimento, tra docenti e studenti, contro un università di classe, contro il
baronato di destra e i riformatori di sinistra.