A proposito del dibattito sulla nonviolenza

Servizio d’ordine, uso della forza e organizzazione del partito

 

 

di Marco Boccasile, Luca Prini, Daniele Paoloni, Giuseppe Iandolo, Francesco Chiodale

 

Il dibattito sulla non violenza, che ha coinvolto in questi ultimi mesi il Partito, non può essere slegato da una riflessione sulle prospettive politiche e sugli strumenti di cui ci si deve dotare per perseguirle. Pertanto una discussione su una questione apparentemente solo organizzativa, come il servizio d’ordine, in realtà diventa immediatamente una discussione politica di più alto livello. Limitare la discussione ad aspetti puramente organizzativi ci pare perdente.  

Un partito che si pone come obiettivo l’abolizione dello stato di cose presenti e, quindi, la trasformazione della società in senso socialista, dovrà necessariamente fare i conti con la reazione del nemico di classe, che ricorrerà ad ogni mezzo, compresa la violenza, come ci insegna la storia, per impedirlo. Nessuno stato, nessuna multinazionale, nessun apparato repressivo, si faranno mai espropriare spontaneamente. Tutti gli esempi storici, che si spingono fino agli ultimi anni, dimostrano precisamente che nessun processo di trasformazione sociale avviene senza l’uso della forza. E’ questo l’insegnamento non solo dell’Ottobre 1917, ma anche, più modestamente, della Bolivia e del Venezuela in questo nuovo millennio.

L’uso della forza, pertanto, non è solo un problema di autodifesa o di resistenza: è inscritto nella nostra scelta politica di campo, il campo degli oppressi, degli espropriati. Naturalmente il problema dell’autodifesa e della resistenza è percepito come più immediato, più concreto. Anche in questo caso non mancano gli equivoci: gli Irakeni hanno il diritto di resistere militarmente a un’occupazione militare? A nostro parere sì, senza che questo significhi nutrire simpatie politiche per gli Sciiti di Al Sadr o per i Sunniti del Baath. L’uso della forza è rapportato alla situazione concreta e ai fini che si perseguono. La storia dei comunisti è segnata dalla duplice polemica tra chi nega la necessità del ricorso alla forza, pensando di poter cambiare la società dai ministeri borghesi e chi pensa di cambiare la società con atti violenti e isolati.

Si dirà: gli esempi utilizzati sono lontani da noi, rischiano di proporre solo una discussione astratta, accademica. Proviamo a vederli in concreto. Nelle grandi mobilitazioni, anche in quelle che avvengono in contesti molto problematici come è stata Genova 2001, tutti hanno il diritto di scendere in piazza e di sentirsi protetti e tutelati. I servizi d’ordine devono garantire l’agibilità politica e fisica nelle iniziative del partito e in quelle di massa. Troviamo gravissimo abbandonare dei manifestanti inermi in balia della repressione poliziesca, teorizzando che il movimento “è in grado di difendersi da solo’’. Nel corso delle ultime mobilitazioni alle acciaierie a Genova gli operai hanno sfondato dei cordoni di polizia per entrare dove veniva loro vietato. Che cosa avrebbe dovuto fare un servizio d’ordine in quel caso? Aiutare la polizia a mantenere la calma o aiutare gli operai a raggiungere l’obiettivo che si erano prefissati? Se la risposta scelta è la seconda, è chiaro che non si tratta di una funzione puramente difensiva.

Queste considerazioni sono preliminari a qualsiasi riflessione sui servizi d’ordine. Esse non prefigurano una concezione militarista dell’organizzazione. Al contrario, richiedono il massimo della discussione politica, e quindi del coinvolgimento politico dei circoli. Il servizio è una struttura del partito e deve essere completamente interna ad esso, sia formalmente -cioè riconosciuto dagli organismi dirigenti– sia da un punto di vista  sostanziale, cioè formato in modo ampio e orizzontale nei circoli. Questo significa che tendenzialmente ogni circolo dovrebbe mandare uno o più compagni o compagne nel servizio d’ordine. La struttura potrebbe prevedere un nucleo stabile e una parte di compagni che si impegna solo per un certo periodo. Un obiettivo politico è rappresentato anche dal coinvolgimento delle compagne: non si capisce perché tanta enfasi sulla composizione paritetica si arresti davanti ai servizi d’ordine, quasi si voglia accreditare la miope idea che i servizi d’ordine siano fisiologicamente ‘’maschili’’. Si deve compiere uno sforzo reale per allargare la partecipazione, in senso numerico, ma soprattutto per radicare e approfondire la coscienza politica e quindi la forza del servizio d’ordine.

L’attività del servizio d’ordine prevede indubbiamente una parte ‘’militare’’, relativa alla gestione della piazza. La formazione del servizio d’ordine deve essere anche politica, e lo stesso dicasi per la sua discussione. Una parte del suo dibattito deve provenire dalle istanze dei circoli e deve poi tornare nei circoli. Eminentemente politica è poi l’indispensabile attività d’inchiesta da svolgere riguardo al funzionamento degli apparati repressivi dello stato e delle bande fasciste. Anche qui non si comprende perché l’inchiesta, tanto decantata in ogni ambito della nostra attività politica, si debba arrestare fuori dalle stanze del servizio d’ordine.

Il nostro partito sconta un forte ritardo: non ha mai voluto affrontare apertamente la questione. I servizi d’ordine sono stati assimilati a una struttura puramente organizzativa con al massimo delle funzioni di scorta o di vigilanza urbana alternativa. Il dibattito che ci troviamo ad affrontare oggi, suscitato da prese di posizione di vertice, ha investito il corpo del partito nel modo peggiore possibile: riportando in auge una discussione che ha radici storiche molto lontane, senza che vi sia stata alcuna preparazione. Si propone una svolta non violenta per il qui e ora come se esistesse solo questo qui e ora. Negare l’uso della forza tout court impedisce l’organizzazione. La storia del movimento operaio ha già pesantemente sofferto per le scelte irresponsabili dei propri dirigenti:  per esempio  negando la necessità dello scontro con i fascisti nel 1920-21. La dottrina della non violenza che si vuole imporre come nuovo codice culturale del partito non rappresenta una novità: è parte di una scelta di campo ben precisa e con illustri precedenti a favore della collaborazione di classe. La non violenza di oggi è strettamente legata alla scelta governista di domani e prelude a un partito sempre più leggero. Noi ci opponiamo a questa scelta non perché veneriamo il partito o l’organizzazione come un fine in sé, ma perché ci rendiamo conto del tragitto che è stato compiuto e di quello che ci si vuole ancora fare compiere. Noi ci opponiamo perché vogliamo costruire un partito rivoluzionario all’altezza dei tempi.