E' qui disponibile la versione in formato .rtf (già impaginato ed esente da virus) del documento congressuale.
PER UN PROGETTO COMUNISTA ¨
Cacciare Berlusconi dal versante dei
lavoratori e non dei padroni ¨
Rompere col centrosinistra
confindustriale per un polo anticapitalistico autonomo e unitario ¨ Costruire il PRC come partito dell’opposizione di classe |
¨
INTRODUZIONE - SINTESI
Il VI Congresso del nostro partito non è un
Congresso ordinario. La svolta della maggioranza dirigente del PRC in direzione
di una prospettiva di governo, attraverso la Grande Alleanza Democratica a guida
Prodi, mette di fatto in discussione la stessa natura sociale del partito,
l’esistenza di un’opposizione di classe e comunista in Italia.
Naturalmente
è importante la rivendicazione della cacciata di Berlusconi (purtroppo respinta
a maggioranza nel precedente Congresso). Ma un conto è cacciare Berlusconi,
un conto è governare con l’Ulivo. Un conto è cacciare Berlusconi alla
testa delle lotte, un conto è cacciare Berlusconi alla coda dei banchieri e del
recupero della concertazione.
I primi effetti di questa svolta sono già oggi visibili. Mentre il Centro liberale dell’Ulivo (Margherita, maggioranza DS, SDI), sostenuto dalle grandi imprese, plaude alla scelta governista del PRC, si diffonde tra le nostre fila un disorientamento profondo e si moltiplicano le contraddizioni con significativi settori di movimento.
La
stessa linea di massa del partito porta il segno della prospettiva intrapresa:
sia sul versante operaio e sindacale, dove emerge un appiattimento sulla
burocrazia dirigente della CGIL; sia sul versante delle scelte locali,
sempre più segnate, alla vigilia delle elezioni regionali, da una generale diffusione
degli accordi di giunta con l’Ulivo attorno a candidati liberal-padronali;
sia sul versante della politica internazionale, dove la tesi della spirale
guerra-terrorismo rimuove totalmente la battaglia antimperialista e il
diritto di resistenza dei popoli oppressi: sino all’accettazione della
proposta ulivista di una Conferenza di “pace”, comprensiva delle potenze
occupanti, che prepari una presenza multinazionale in Irak
Peraltro
la stessa svolta della “non violenza” e la promozione di un nuovo partito
della sinistra europea dichiaratamente non comunista sono inseparabili dalla
ricerca di un profilo accomodante e compatibile con la nuova prospettiva di
governo. Di fatto, sia sul piano interno che sul piano internazionale ci si
candida ad occupare lo spazio liberato dall’evoluzione a destra della
socialdemocrazia nel nome del recupero delle vecchie bandiere
socialdemocratiche. Nel nome della non violenza ci si allea con i campioni
delle guerre umanitarie e delle soluzioni coloniali multilaterali. Nel nome del
rifiuto del potere ci si subordina al potere esistente.
Noi
pensiamo che questa deriva vada fermata, prima che sia troppo tardi.
Non
è sufficiente “criticare” questa prospettiva. Né sono credibili
atteggiamenti che da un lato
salutino positivamente la svolta di governo con l’Ulivo e dall’altro
chiedano un confronto negoziale più stringente. Né, infine, sono accettabili
soluzioni che prospettino un sostegno esterno al governo dell’Ulivo: soluzione
già sperimentata drammaticamente nel 96-98 col nostro coinvolgimento nelle
politiche antipopolari del primo governo Prodi (v. il voto del PRC a finanziarie
da 70.000 miliardi di tagli, al pacchetto Treu, alle privatizzazioni, ai campi
di detenzione per gli immigrati, alla rottamazione a vantaggio della
Fiat, alla liberalizzazione dei fitti) allora sostenute da tanti
dirigenti di partito oggi “critici” (v. Ernesto).
Non
è più tempo di tatticismi e diplomatismi, né tanto meno di ripercorrere
vecchie strade. E’ tempo di chiarezza.
L’ingresso del PRC in un futuro governo Prodi o
nella sua maggioranza significherebbe la compromissione della ragione sociale
del nostro partito. Non potremo stare, allo stesso tempo, dalla parte degli
operai di Melfi e in un governo benedetto dalla Fiat. Non può esistere
programma comune tra movimenti alterglobal e banchieri di Maastricht, tra
pacifisti conseguenti e sostenitori dell’Europa in armi, tra difensori dei
popoli oppressi e sostenitori dell’ipocrisia dell’ONU. O di qua, o di là.
Questo
è il nodo del VI Congresso.
E’
un nodo che interroga la rifondazione comunista.
L’opposizione
ai governi borghesi ha costituito un principio elementare del marxismo
e del movimento comunista prima della degenerazione staliniana. Come scriveva
Rosa Luxmburg: “Nella società borghese il ruolo spettante alla
socialdemocrazia (oggi diremmo: ai comunisti) è per sua essenza quello
di un partito di opposizione; come partito di governo può farsi avanti
solamente sulle rovine dello stato borghese…l’opposizione radicale lungi dal
rendere impossibili successi parziali e riforme è l’unico mezzo per
raggiungerli”. Questa concezione –alla base della Terza Internazionale
di Lenin e Trotsky- è stata confermata indirettamente dall’intera esperienza
della storia: ogni governo di collaborazione con forze liberali si è
tradotto, senza eccezioni, in una sconfitta del movimento operaio. E’ la
lezione del ‘900. Solo un pregiudizio, qui si “ideologico”, può rimuovere
questa verità. Ed essa è tanto più attuale nell’odierna epoca storica: dove
la crisi del capitalismo internazionale e il crollo dell’Urss eliminano ogni
spazio riformatore e impongono ovunque programmi di controriforme e militarismo.
Le esperienze di Jospin e di Lula sono al riguardo inequivocabili.
Tanto più oggi ogni coinvolgimento di partiti comunisti in governi borghesi o
nel loro sostegno li renderebbe corresponsabili di politiche antipopolari.
Il
nostro partito deve scongiurare quell’esito. Un partito della rifondazione
comunista non può ripercorrere i sentieri già battuti e già falliti del
riformismo novecentesco. Un partito nato come cuore dell’opposizione non può
morire come partito di governo.
Un
anno e mezzo fa, all’inizio della “svolta”, è stato richiesto con forza
un Congresso straordinario del PRC che desse per tempo la parola e il
diritto di decidere la strada a tutti i compagni del partito (vedi www.progettocomunista.it).
Questa richiesta elementare è stata respinta non solo dalla Segreteria, ma da
tutti gli attuali promotori delle altre proposte congressuali. E’ stata una
grave responsabilità, che ha consentito alla Segreteria nazionale di perseguire
indisturbata la nuova rotta, mettendo il partito davanti al fatto compiuto. Così
è stato grave il mancato sostegno delle stesse aree “critiche” di
maggioranza alla richiesta di sospensione della partecipazione del PRC alla Gad
a difesa della sovranità democratica del congresso.
Ma
ora tutti i compagni e le compagne del partito hanno la possibilità di porre un
argine alla deriva, di affermare il carattere irrinunciabile dell’opposizione
comunista, di promuovere e sostenere una proposta alternativa rivolta a tutti
i protagonisti della stagione di lotta di questi anni: la costruzione di un polo
autonomo di classe, di un fronte unico anticapitalistico.
E’
l’esatto opposto di un ripiegamento settario.
E’
l’appello a tutte le rappresentanze politiche e sindacali del movimento
operaio e dei movimenti di lotta a rompere col Centro dell’Ulivo, a unire le
proprie forze sul terreno dell’azione, a promuovere una mobilitazione
indipendente che abbia come fine la cacciata di Berlusconi dal versante dei
lavoratori e non dei padroni: e che per questo crei le condizioni di
un’alternativa vera.
E’
dunque una proposta che risponde alla domanda di unità contro Berlusconi
(e infatti contempla le possibilità di accordi elettorali, puramente tecnici,
per la cacciata di Berlusconi con altre forze della sinistra politica e
sociale). Ma rifiuta di trasformare l’unità dei lavoratori nell’unità
di governo con gli avversari dei lavoratori.
E’
una proposta sfida che vuole entrare da un versante di classe nelle
contraddizioni del centrosinistra, per liberare le masse dalle illusioni
nelle proprie direzioni, per sviluppare l’egemonia alternativa dei comunisti.
Che è decisiva per il futuro dei movimenti stessi.
Solo
a partire da questa proposta di unità e di autonomia di classe, è possibile
determinare una svolta reale e concreta nell’azione politica del nostro
partito.
Sul
terreno operaio e sindacale: dove è
centrale una proposta alternativa alla linea della direzione CGIL, basata sulla
rivendicazione di una piattaforma di lotta unificante per una vertenza generale
e di una vera prova di forza contro governo e padronato. Contro ogni
concertazione con Confindustria.
Sul
terreno del movimento contro la guerra:
dove è essenziale una reale campagna di massa per il ritiro immediato delle
truppe da tutte le missioni coloniali (Irak, Balcani, Afghanistan), e per il
diritto incondizionato di resistenza di tutti i popoli oppressi, a partire dal
popolo irakeno e palestinese.
Sul
terreno delle politiche locali: dove
va recuperata l’autonomia del PRC dalle giunte di centrosinistra, a partire
dalla presentazione indipendente del partito in occasione delle imminenti
elezioni regionali.
Sul
terreno decisivo della costruzione di una direzione alternativa del movimento
operaio su scala internazionale: che
è possibile solo a partire dal principio di fondo dell’indipendenza di classe
del movimento operaio.
Questa
proposta riconduce ogni lotta immediata e rivendicazione parziale ad una
prospettiva anticapitalistica. Perchè solo una lotta di massa per questa
prospettiva può consentire vittorie parziali e risultati per i lavoratori.
Viceversa, la rinuncia a questa prospettiva, ossia l’adattamento alla società
esistente e ai suoi governi, compromette l’esito delle stesse battaglie
parziali, disperde le loro potenzialità, vanifica i loro risultati. La
concezione di Lenin secondo cui “le riforme sono il sottoprodotto della
rivoluzione” è più attuale che mai.
Peraltro
questa prospettiva richiama il recupero della rifondazione come rifondazione
comunista. Il comunismo non può essere ridotto né a memoria di una
tradizione indistinta, né a istanza metafisico-religiosa, entrambe compatibili
con l’opportunismo politico quotidiano. Il comunismo va recuperato sulle basi
del marxismo: come programma reale di trasformazione del mondo, come programma
di rivoluzione internazionale, come programma di alternativa di potere delle
masse oppresse. Come unica risposta vera, certo difficile ma necessaria,
alla crisi generale del capitalismo e alla barbarie quotidiana
dell’imperialismo.
Preservare
questo progetto comunista dalla moda liquidatrice del “nuovismo”. Riattualizzarlo
in riferimento alla svolta d’epoca del nostro tempo. Investirlo nella
lotta quotidiana della classe operaia e della giovane generazione in rapporto
alle loro domande ed esigenze, è il compito centrale della rifondazione.
Difendere
la collocazione di opposizione del nostro partito è la condizione necessaria
per affrontare quel compito.
IL CENTRO DELL’ULIVO VUOLE CANCELLARE L’OPPOSIZIONE DI CLASSE PER RILANCIARE LA CONCERTAZIONE E SCONFIGGERE UNA STAGIONE DI LOTTE
LE CLASSI DOMINANTI
CAMBIANO CAVALLO
La crisi del berlusconismo –amplificata dalla crisi capitalistica- spinge le classi dominanti a cambiare cavallo.
La
grande industria e le grandi banche, pur utilizzando il governo delle destre,
non si sono mai identificate nel parvenù Berlusconi. Oggi, la crisi del blocco
sociale e politico di centrodestra spinge i poteri forti verso la ricerca di
soluzioni nuove che possano assicurare una rappresentanza generale del
capitalismo italiano, e soprattutto il ritorno alla pace sociale messa in
discussione dalla politica del Berlusconismo.
Questo
nuovo indirizzo della grande borghesia è la forza motrice dell’alternanza
liberale. Un processo che passa per la riconquista della Confindustria da parte
della grande impresa (Luca Di Montezemolo), per la ricomposizione di un asse tra
grande industria e banche, per la
vasta ricollocazione di tanti potentati locali (a partire dagli Illy,
Soru, Divella) che fiutano il vento nuovo.
La
bandiera di raggruppamento di questi poteri ha un nome preciso: il ritorno alla
concertazione, che è il metodo con
cui le classi dominanti puntano a
corresponsabilizzare le rappresentanze delle classi subalterne nell’attuazione
del proprio programma. Un programma che non è affatto sospinto “a sinistra”
dalla cosiddetta crisi del liberismo - come pure si è detto – ma al contrario
è e resta un programma antipopolare: tanto più sullo sfondo della perdurante
crisi capitalistica internazionale e della costruzione del polo imperialistico
europeo.
Il
metodo della concertazione mira a garantire le migliori condizioni della
realizzazione di questo programma, integrando e rimuovendo l’opposizione
politica e sociale.
E’
la linea che la borghesia italiana ha sperimentato con successo nella
legislatura precedente, in particolare con il primo governo Prodi, colpendo come
non mai conquiste e diritti dei lavoratori (pacchetto Treu, record delle
privatizzazioni, campi di detenzione per gli immigrati, guerre all’uranio
impoverito nei Balcani, professionalizzazione dell’esercito, revisione
costituzionale…).
E’ la linea su cui oggi il padronato reinveste per uscire a proprio vantaggio dalla crisi del berlusconismo.
LA CONFINDUSTRIA SI
SCHIERA COL CENTRO DELL’ULIVO NEL NOME DELLA CONCERTAZIONE
Il Centro dell’Ulivo è il principale punto di riferimento politico di questo progetto del grande padronato.
La
costruzione di un soggetto unitario dei “riformisti” italiani, sostenuto da
Margherita, maggioranza DS e SDI ha un preciso significato di classe: mira a
ricomporre una rappresentanza politica centrale della borghesia italiana.
Questo
progetto non è privo di contraddizioni. E tuttavia è il progetto sostenuto da
Massimo D’Alema e Romano Prodi, i due soggetti politici maggiormente legati
agli ambienti del capitale finanziario. Non a caso la nomenclatura delle grandi
famiglie industriali e delle grandi banche rientra oggi quasi totalmente
nell’orbita di riferimento del Centro liberale ulivista (da Montezemolo a
Tronchetti Provera, da Banca Intesa a Unicredito, dalla Banca San Paolo a Monte
dei Paschi…).
Il
programma del Centro ulivista è il coerente riflesso della sua natura di
classe. Il programma di Bersani, Treu, Letta – come ha testualmente
dichiarato Montezemolo – è “intercambiabile col programma di Confindustria”.
Ne sposa sino in fondo sia la domanda di classe (liberalizzazioni e
“rigore”) sia la scelta strategica concertativa (tentativo di
ricoinvolgimento della CGIL), sia la logica bypartisan dell’alternanza. Quando
Rutelli dichiara che un futuro governo dell’Ulivo non cancellerà le
controriforme del Polo rivela semplicemente la sostanza del programma ulivista:
continuare la gestione delle politiche dominanti con metodi diversi.
La
figura di Romano Prodi è l’emblema del progetto del centrosinistra.
Da sempre grande amico della Fiat, protagonista delle privatizzazioni IRI,
interlocutore quotidiano dei banchieri, già sperimentato alla guida del
governo, nelle peggiori politiche antioperaie del precedente decennio: Prodi
possiede tutte le qualità che il grande capitale gli richiede. La sua fedeltà
all’interesse del capitalismo italiano è comprovata peraltro dalla politica
che ha condotto da Presidente della Commissione europea là dove ha dispensato
in tutta Europa le più pesanti ricette di rigore finanziario e di difesa del
patto di stabilità, dentro l’attiva costruzione di un trattato costituzionale
profondamente reazionario.
Romano
Prodi è già, in sé, il programma della Grande Alleanza Democratica.
PRODI, RUTELLI, D’ALEMA
CHIEDONO LA SUBORDINAZIONE DEL PRC
Questo progetto di alternanza a guida Prodi richiede tuttavia una condizione: la subordinazione della sinistra italiana.
Solo
questa disponibilità può offrire al nuovo governo dell’Ulivo una speranza di
pace sociale. E solo questa prospettiva, a sua volta, può rafforzare la
credibilità dell’Ulivo presso i circoli degli industriali e dei banchieri.
Per
questo tutto il Centro ulivista chiede pubblicamente un accordo vincolante sia
alla sinistra sociale, sia alla sinistra politica.
Sul
versante sociale, il Centro
dell’Ulivo lavora alla ricomposizione della frattura tra CGIL e Confindustria.
L’esperienza di Berlusconi col tentativo di isolamento della CGIL si è
rivelata un fallimento per il padronato. Non solo non ha ammortizzato le lotte
ma ha contribuito ad alimentarle (v. Melfi). Solo un ritorno della CGIL alla
concertazione può favorire, nella logica padronale, un recupero di controllo
dei conflitti.
Sul
versante politico l’operazione
ulivista è ancora più chiara.
Il
Centro dell’Ulivo non chiede alla sinistra (sinistra DS, PdCI, PRC, Verdi,…)
un accordo elettorale per battere Berlusconi; chiede e pretende un accordo di
governo che la vincoli a un patto di legislatura. Perché solo un coinvolgimento
di governo di tutta la sinistra, può corresponsabilizzarla per cinque anni ai
programmi liberali del Centro ulivista. Solo questo pieno coinvolgimento di
governo può favorire lo stesso recupero organico, di una concertazione con la
CGIL e una non belligeranza dei movimenti.
Cancellare l’opposizione politica a sinistra è quindi per l’Ulivo una necessità strategica.
Qui
sta il significato dell’offerta di ministri al nostro partito. Dentro una
logica pubblicamente razionalizzata da Romano Prodi e Massimo D’Alema: da un
lato un Centro liberale che guida il governo, in rappresentanza dei poteri
forti, e dall’altro un PRC cui si assegna il ruolo di rappresentanza
subalterna delle istanze sociali e “di pace” in funzione di controllo dei
movimenti.
Si
può non vedere che questa operazione di integrazione del PRC non è solo
indirizzata contro i comunisti ma è in
funzione
della sconfitta di un’intera stagione di lotte?
LA SVOLTA DI GOVERNO DELLA SEGRETERIA DEL PRC E’ SUBALTERNA ALL’ALTERNANZA LIBERALE E AI POTERI FORTI CHE LA SOSPINGONO, SUL PIANO NAZIONALE E INTERNAZIONALE
L’ESPERIENZA
SMENTISCE LA SVOLTA DI BERTINOTTI
L’accettazione
dell’offerta ministeriale avanzata dall’Ulivo è priva di qualsiasi base di
principio. Tutti gli argomenti
avanzati a giustificazione di questa scelta sono stati smentiti
dall’esperienza dei fatti.
Si
è detto che la nuova stagione dei
movimenti può contaminare il programma dell’Ulivo spostando a sinistra il suo
baricentro. Invece dopo la più grande stagione dei movimenti degli ultimi 30
anni le posizioni del Centro dell’Ulivo restano
opposte a tutte le loro ragioni. Ed anzi l’operazione di alternanza è
costruita esattamente per rimuovere i movimenti.
Si
è detto che un confronto
programmatico con l’Ulivo può metterne in discussione l’impianto generale.
Ma il confronto con l’Ulivo è un fatto pubblico che dura da anni e che ha
investito ogni passaggio della lotta politica (dalle politiche sociali, alle
guerre…). Eppure non ha registrato alcun accordo di fondo. E la Grande
Alleanza Democratica è stata fondata nonostante
l’assenza di un’intesa programmatica.
Si
è detto che è possibile spostare il
programma dell’Ulivo grazie all’invenzione delle “primarie” in
concorrenza con Prodi. Ma la concorrenza con Prodi è una finzione, un gioco
dichiarato delle parti entro un’alleanza già concordata. Prodi vuole le
primarie come momento di propria incoronazione presidenziale per avere poi mano
libera sui programmi. Bertinotti accetta le primarie per guadagnare spazio come
ala sinistra del centrosinistra dopo aver accettato di adeguarsi al vincolo di
maggioranza dell’alleanza. E inoltre: le vere primarie non vi sono forse state
quando il popolo della sinistra ha votato per l’estensione dell’articolo 18
o si è mobilitato per il ritiro incondizionato dall’IRAK?
La
verità è sotto gli occhi di tutti.
I
fatti non solo misurano la distanza incolmabile tra le rivendicazioni dei
movimenti e gli orientamenti del centro ulivista. Ma ci dicono che quella
distanza è dovuta alla rappresentanza obiettiva di ragioni di classe
contrapposte. Aggirare questa verità,
magari con la richiesta di una maggiore pressione negoziale (come fa una parte
della maggioranza dirigente del PRC) significa solo negare l’evidenza. Non può
esistere alcun programma comune tra lavoratori e padroni, tra gli operai di
Melfi e Luca di Montezemolo, tra i giovani noglobal e i banchieri di Maastricht,
tra i pacifisti conseguenti e i sostenitori dell’Europa in armi, tra i
difensori dei popoli oppressi e i sostenitori delle guerre umanitarie.
L’ALTERNANZA PRODI
E’ CONTRO I MOVIMENTI SU SCALA NAZIONALE E INTERNAZIONALE
La tesi secondo cui un governo della Grande Alleanza Democratica favorirebbe la “crescita” dei movimenti è contraddetta dall’esperienza.
Il
gruppo dirigente del nostro partito entrò nel 96 nella maggioranza del governo
Prodi - così si disse – “in funzione dello sviluppo dei movimenti”.
Invece per due anni e mezzo i movimenti registrarono una caduta verticale. E il
PRC votò le peggiori controriforme del capitale contro i movimenti.
Oggi
si ripete che il nostro ingresso in un secondo governo Prodi è in funzione dei
movimenti stessi. Ma il ruolo che Prodi incarna è esattamente opposto: quello
di ammortizzatore delle lotte. Proprio come otto anni fa. L’obiezione secondo
cui oggi i movimenti hanno una portata più ampia rovescia i
termini del problema: è proprio perché vi è una ripresa dei movimenti che
Prodi ha bisogno di rilanciare la concertazione. Proprio perché oggi si
affaccia una giovane generazione in lotta, il coinvolgimento del PRC in un
governo di concertazione avrebbe una valenza ancor più dannosa per la dinamica
dei movimenti.
In
ogni caso un governo della Grande Alleanza Democratica opererebbe contro le
ragioni dei movimenti. Tutte le
esperienze internazionali di governo con la borghesia liberale sono al riguardo
emblematiche. Il governo Jospin, ha realizzato il record delle privatizzazioni
in Francia e ha partecipato in prima fila ai bombardamenti sui Balcani. Il
governo Lula governa da un anno e mezzo contro la sua base di massa e in
ossequio alle direttive del FMI (riduzione dei salari del 13%, incremento dei
profitti del 1048% delle 500 aziende più grandi). L’appena costituito governo
indiano ha varato nella sua prima finanziaria l’aumento del 17% delle spese
militari. Quanto a Zapatero ha siglato un patto tra padronato e sindacati che
preserva la controriforma pensionistica di Aznar e privatizza la cantieristica.
Chi
può seriamente pensare che un governo Prodi possa produrre politiche diverse?
La valenza internazionale della nostra scelta sarebbe enorme.
Tutti
sappiamo che un secondo governo Prodi opererebbe a difesa della costruzione
imperialistica europea. Preserverebbe le missioni militari delle truppe
italiane. Lavorerebbe ad assicurare alle grandi imprese italiane una
penetrazione a basso costo nei mercati coloniali. Si impegnerebbe nella
“difesa” delle frontiere della cosiddetta “invasione immigratoria”.
Lavorerebbe al recupero di un’intesa internazionale con l’imperialismo Usa.
Nulla di nuovo: sono le posizioni che Prodi ha sostenuto in questi anni ai
vertici della Commissione Europea.
Su
ogni versante dunque quel governo sarebbe contrapposto non solo ai lavoratori
italiani ma ai popoli oppressi e alle rivendicazioni più avanzate del
movimento internazionale
alterglobal. Il nostro impegno in quel governo segnerebbe obiettivamente il
coinvolgimento del PRC in un governo imperialista, più precisamente nel
governo della settima potenza imperialista del mondo.
E’
questo il posto della rifondazione comunista?
LE CONSEGUENZE DELLA
SVOLTA SULLA POLITICA DEL PARTITO E SUL SUO PROFILO POLITICO CULTURALE (SINISTRA
EUROPEA, NON VIOLENZA, IDEALIZZAZIONE DELLA CHIESA)
Il
solo perseguimento di questa prospettiva produce già oggi ricadute profonde
sulla nostra politica di massa.
Innanzitutto
è sempre più evidente un appiattimento politico sulla direzione CGIL da
parte della segreteria nazionale del partito: non è un caso; non si può
lottare contro la prospettiva di recupero della concertazione se la nostra
prospettiva è un governo di concertazione politica con l’Ulivo.
Parallelamente
la teorizzazione della spirale guerra terrorismo come paradigma interpretativo
del mondo ha accompagnato il rifiuto del sostegno incondizionato al diritto
di resistenza del popolo irakeno, e la stessa richiesta di ritiro delle
truppe dall’Iraq viene subordinata alla politica estera ulivista (Conferenza
di “pace”). Non è un caso: se la prospettiva è l’accordo di governo con
l’Ulivo occorre stemperare ogni posizione antagonistica anche in politica
estera.
Infine
si estende massicciamente l’ingresso del PRC nelle amministrazioni locali
dell’Ulivo (Illy, Soru, Divella…): entro una linea di tendenza che alla
vigilia delle elezioni regionali mira ad estendere anche alla Toscana (coi
dirigenti DS più liberisti d’Italia) la presenza governativa del PRC. Non è
un caso: se si persegue la prospettiva di ingresso nel governo Prodi,
l’allargamento delle coalizioni locali è del tutto naturale.
Lo stesso profilo politico-culturale del nostro partito e la sua iniziativa internazionale sono stati investiti dalla svolta.
La
promozione del “nuovo partito della sinistra europea” è, al
riguardo, significativa.
Non
si tratta –come altri affermano– di un’iniziativa “sbagliata” perché
discriminatoria verso “partiti comunisti” di estrazione staliniana o verso
formazioni di richiamo “trotskista”. Né si tratta semplicemente di
un’iniziativa sottratta alla verifica preventiva del partito (ciò che è
indubbiamente grave). Si tratta della promozione di un soggetto politico
dichiaratamente “non comunista” e vocato a prospettive di governo
d’alternanza.
Questa
prospettiva si riflette nello stesso programma del PSE: che non solo rimuove
ogni progetto di alternativa socialista all’Europa del capitale, in nome di un
generico progressismo, ma autoriduce lo stesso richiamo riformista su punti
cruciali (come si ricava dalle ambiguità sull’esercito europeo). E’
inevitabile: se la prospettiva è quella di un governo con forze liberali nel
cuore della crisi capitalistica, la stessa radicalità “riformista” deve
essere preventivamente smussata.
Non
è un caso che proprio la segreteria del PRC sia stata la forza promotrice di
questo soggetto europeo: allearsi con forze omologhe nella U.E. significa
consolidare il nuovo corso in Italia; consolidare il nuovo corso in Italia
significa sospingere esperienze analoghe in Europa.
Anche
la svolta identitaria della “non violenza” è inseparabile dalla
svolta politica del partito.
Non
si tratta semplicemente – come altri vorrebbero – di una rottura con la
tradizione delle lotte dei popoli oppressi. Né solo dell’assurda
equiparazione di leninismo e stalinismo assimilati al comune codice culturale
della violenza, al di là della loro contrapposizione materiale, politica e
sociale, nella storia reale.
Si
tratta di un riflesso “ideologico” del nuovo corso politico del partito.
Nella lunga storia del momento operaio la professione ideologica delle vie pacifiche e non violente ha sempre coperto l’avvicinamento ai governi borghesi. E così è oggi. La nuova veste identitaria della non violenza serve a stemperare il comunismo come alternativa di società per ridurlo ad un orizzonte di valori etici. Che, per definizione, possono poi combinarsi nel mondo terreno con le più diverse collocazioni: anche quella dell’ingresso nel governo Prodi, difensore dell’aumento delle spese militari, dell’esercito europeo, delle occupazioni coloniali, quindi… dell’ordinaria violenza borghese. Come sempre dietro il rifiuto della prospettiva del potere si cela l’adattamento al potere esistente: si irride al Palazzo d’Inverno, si chiedono ministri a Palazzo Chigi.
Infine, anche l’accentuata idealizzazione della dimensione religiosa, della Chiesa, dello stesso papato di Woityla ha a che fare col nuovo corso politico. Sia perché anch’essa contribuisce alla rappresentazione metafisica, quindi innocua, del comunismo. Sia perché il rispetto dell’istituzione Chiesa (cosa ben diversa dall’azione di conquista di masse cattoliche); il nascondere l’intreccio di interessi tra gerarchia ecclesiastica, proprietà capitalistica, organizzazione borghese dello Stato, significa acquisire un titolo di credibilità agli occhi delle classi dominanti e dei loro partiti. E purtroppo rinunciare ad una battaglia anti-clericale che dovrebbe essere elementare per i comunisti.
LA BORGHESIA PLAUDE
ALLA “SVOLTA DI BERTINOTTI” MENTRE CRESCE IL DISAGIO NEI MOVIMENTI
Il miglior metro di misura della svolta della segreteria nazionale è data dal commentario di classe di cui è oggetto: la borghesia applaude la svolta, l’avanguardia dei movimenti la contesta.
Mai
come oggi la grande stampa è prodiga di riconoscimenti a Bertinotti. Tutto il
Centro dell’Ulivo, da Massimo D’Alema a Ugo Intini loda la “maturazione di
governo” del PRC e il suo ritrovato senso di
“responsabilità”. In particolare la disponibilità espressa ad
accettare il principio di maggioranza della coalizione è stato salutato per
quello che è: l’accettazione preventiva della guida liberale del governo
in cambio del proprio riconoscimento di guida della sinistra.
Viceversa
cresce nella parte più combattiva dei movimenti, ostilità o diffidenza verso
la svolta governista del partito.
Nell’ambito
sindacale, un vasto settore di sinistra esprime in forme diverse un disagio
crescente, sia nei sindacati di base anticoncertativi, sia in settori della
sinistra CGIL e della FIOM.
Nel
movimento contro la guerra la disponibilità ad accettare la clausola ONU sulle
iniziative militari ha suscitato una vasta reazione negativa.
Nel
movimento di solidarietà con la Palestina –terreno centrale di battaglia
internazionalista- si sono prodotte, a più riprese, contraddizioni crescenti
con l’orientamento del partito.
Nel
movimento noglobal è precipitata infine la rottura tra il gruppo dirigente del
PRC e il settore dei disobbedienti: prima acriticamente esaltato in tutte le sue
espressioni, poi di fatto scaricato nel nome di un’immagine più compatibile
col nuovo profilo di governo.
Se
il solo perseguimento di una prospettiva di governo ha prodotto questi effetti,
la realizzazione di quella prospettiva produrrebbe una loro precipitazione.
TRE ASSI GENERALI DI PROPOSTA STRATEGICA ALTERNATIVA:
PER UN POLO AUTONOMO DI CLASSE CHE PUNTI A CACCIARE BERLUSCONI DAL VERSANTE DEI LAVORATORI
PER UN’ALTERNATIVA ANTICAPITALISTICA, UNICA VERA ALTERNATIVA
PER LA DIFESA E IL RILANCIO DELL’OPPOSIZIONE COMUNISTA
E’
necessaria una reazione forte del corpo militante del partito.
Il
VI Congresso carica oggi ogni compagno e compagna del PRC di una grande
responsabilità, ben al di là delle vecchie divisioni congressuali. In gioco
non c’è questo o quell’altro interesse di componente, ma in prospettiva,
l’esistenza stessa del nostro partito come partito di classe.
E’
indispensabile in primo luogo un bilancio serio dell’ultimo congresso.
Glorificare
tutt’oggi il V Congresso come svolta a sinistra e poi lamentare l’attuale
corso di destra è una contraddizione senza senso. E’ vero invece che la
sincera interpretazione di sinistra del V Congresso da parte di una reale
maggioranza del partito, è alla base dell’attuale contraccolpo interno della
“svolta” e dell’esproprio democratico che essa ha prodotto.
Per questo già nel marzo del 2003, dopo il varo delle commissioni programmatiche con Treu e Mastella, fu chiesta la convocazione del congresso straordinario del PRC; un congresso che potesse dare per tempo a tutti i compagni un potere decisionale sulla rotta da intraprendere. Se questa petizione fosse stata sostenuta da tutte le componenti “critiche” del PRC sarebbe stato possibile, statutariamente, ottenere il congresso già un anno fa. Così non è stato. E il gruppo dirigente ha potuto portare avanti il percorso della svolta al riparo da ogni verifica democratica. Disponendo anzi a lungo del sostegno unitario della vecchia maggioranza (o di qualche benevola astensione).
Anche
a partire da questo bilancio è essenziale che il vasto sentimento presente
nel partito contro la svolta si traduca in un orientamento chiaro, capace di
evitare ricorrenti ambiguità e pendolarismi.
Avanziamo
al riguardo tre proposte di linea di valore strategico e tra loro intrecciate.
1) PER LA ROTTURA DEL
PRC CON PRODI. PER UN POLO AUTONOMO DI CLASSE. PER LA CACCIATA DI BERLUSCONI DAL
VERSANTE DEI LAVORATORI E NON DEI PADRONI
Senza
la rottura col Centro dell’Ulivo e il suo blocco di riferimento (grande
industria e banche) ogni prospettiva di classe del PRC sarebbe azzerata. Ma la
proposta di rottura del PRC con i liberali non ha affatto il senso di un
ripiegamento settario. Al contrario sta dentro una proposta più generale di
unità del movimento operaio e dei movimenti di lotta in piena autonomia dalla
borghesia. La proposta di un polo autonomo di classe inteso come fronte unico
anticapitalistico risponde a questa necessità.
E’
una proposta rivolta a tutte le forze protagoniste di tre anni di mobilitazioni
contro Berlusconi, a partire dai lavoratori; a tutte le loro organizzazioni e
rappresentanze di massa (CGIL, sindacalismo di base, rappresentanze del
movimento antiglobalizzazione, organizzazioni del movimento contro la guerra); a
tutte le forze e tendenze politiche di sinistra che sono state in questi anni
dalla parte dei movimenti e che, per
semplificare, hanno sostenuto il referendum del PRC sull’articolo 18 (Sinistra
DS, PdCI, Verdi). All’insieme della sinistra italiana il PRC deve chiedere di
rompere con il Centro liberale e di unire nell’azione le proprie forze per
candidarsi a dirigere la lotta contro Berlusconi e preparare un’alternativa
vera.
E’ una proposta sfida che vuole entrare da un versante di classe nelle contraddizioni del centrosinistra per sviluppare l’egemonia alternativa dei comunisti.
Undici
milioni di lavoratori, di giovani, di popolo della sinistra hanno votato per
l’estensione dell’articolo 18 in contrapposizione all’alleanza tra
Berlusconi e Centro dell’Ulivo. Tutti i movimenti di lotta di questi anni
(dalla piazza del 23 marzo, alla manifestazione di Genova del 2001, al movimento
per il ritiro delle truppe) hanno visto il Centro dell’Ulivo, dalla
Margherita alla maggioranza DS, o estraneo o più spesso ostile.
Eppure
le direzioni di quei movimenti (a partire dalla burocrazia CGIL) continuano a
perseguire l’alleanza subalterna col Centro liberale, in una logica di pura
pressione.
Occorre
entrare in questa contraddizione.
Occorre
battersi in tutti i movimenti per la loro autonomia dal Centro. Occorre porre le
direzioni e le rappresentanze politiche dei movimenti di fronte a un bivio: o
l’unità dei movimenti e delle loro ragioni contro la borghesia italiana. O
l’unità con la borghesia italiana e le sue rappresentanze contro le ragioni
dei movimenti. O di qua o di là.
E’
una sfida che mira a liberare lavoratori e movimenti dalle illusioni nelle loro
direzioni allargando l’influenza alternativa del PRC.
Peraltro
la rottura col Centro è una necessità reale di tutti i movimenti, a partire
dalla stessa esigenza di una mobilitazione vera contro Berlusconi.
La
ragione è semplice: il Centro dell’Ulivo spalleggia Berlusconi nelle
controriforme sociali, poiché se Berlusconi completerà il lavoro sporco il
futuro governo di centrosinistra godrà di un rapporto di forza più favorevole
nei confronti di un movimento operaio sconfitto. Ecco perché la sola
prospettiva di un governo di concertazione con Prodi si è rivelata
incompatibile con una mobilitazione radicale per cacciare Berlusconi. La
gestione centellinata di scioperi simbolici; il rifiuto di una piattaforma
unificante, l’assenza di qualsiasi indicazione di lotta a giugno-luglio
proprio nel momento di massima debolezza del governo, non hanno rappresentato
semplicemente “errori” sindacali: hanno rappresentato la volontà politica
di subordinare il movimento operaio all’egemonia dell’alternanza. Il
risultato è stato disastroso. Berlusconi non solo rimane al suo posto, ma forte
dell’assenza di un contrasto reale, rilancia la propria offensiva.
Così
non può continuare. Solo una rottura col Centro dell’Ulivo può liberare sino
in fondo il potenziale di lotta che si è manifestato nel paese.
Le lotte a oltranza e vincenti nella primavera scorsa a Scanzano, in Fincantieri
e soprattutto a Melfi hanno dimostrato non solo l’inconsistenza delle
obiezioni (nello stesso PRC) alle forme di lotta radicali ma la possibilità
concreta di una prospettiva di unificazione delle lotte in un vero sciopero
generale prolungato attorno a una comune piattaforma di mobilitazione che punti
apertamente alla caduta del governo. Solo una vera prova di forza può
cacciare dal basso Berlusconi. E una caduta di Berlusconi sull’onda di una
lotta di massa segnerebbe l’intera situazione politica, muterebbe i rapporti
di forza tra le classi, costruirebbe condizioni più avanzate nella lotta per
un’alternativa vera. Il PRC deve avanzare ovunque questa proposta di svolta.
2) PER
UN’ALTERNATIVA DI SOCIETA’ E DI POTERE. L’ALTERNATIVA E’
ANTICAPITALISTICA O NON E’
Sul
termine alternativa regna la confusione più totale
dentro uno slittamento semantico cui
il gruppo dirigente del PRC ha largamente contribuito. Quello per cui il
liberalismo di Prodi e D’Alema è diventato riformismo. E il riformismo è
diventato “l’alternativa radicale”.
E’
bene restituire le parole alle cose.
Non
c’è alternativa reale a braccetto delle classi dirigenti. L’alternativa è
tale solo in rottura con la borghesia italiana e i suoi partiti.
Tutte
le esperienze di compromesso storico tra movimento operaio e borghesia italiana
si sono risolte in una sconfitta del movimento operaio: dal governo di unità
nazionale del secondo dopoguerra, al primo centrosinistra, all’unità
nazionale degli anni 70, sino al secondo centrosinistra degli anni 90. Tutte
queste soluzioni, senza eccezione, si sono basate sulla difesa del capitale. Il
coinvolgimento in esse di partiti formalmente “socialisti” o “comunisti”
non solo non ha rappresentato un fattore di svolta, ma ha rappresentato un
fattore di conservazione dell’ordine dominante.
Il
vecchio concetto di Gramsci secondo cui in Italia l’alternativa o è
anticapitalistica o non è, ha trovato nella storia una conferma completa.
Questa
lezione è tanto più attuale oggi, nel momento in cui la crisi capitalistica
internazionale mina le basi di ogni “compromesso
sociale riformatore”. Non esiste alcun settore di borghesia italiana
interessato a riforme progressive. I programmi di Montezemolo e del Centro
ulivista sono emblematici. Così come lo sono le politiche controriformatrici di
tutti i governi europei negli ultimi trent’anni.
Un’alternativa
in Italia deve dunque avere un carattere di rottura con ogni ipotesi di
compromesso sociale con la borghesia.
Innanzitutto
un programma di alternativa vera è chiamato a cancellare l’intera stagione di
controriforme che le classi dominanti hanno imposto negli ultimi 15 anni.
La
cancellazione della controriforma pensionistica di Berlusconi è doverosa: ma va
combinata con la cancellazione della riforma Dini
voluta dall’Ulivo che ha abbattuto le pensioni future dei giovani per fare
largo al capitale finanziario.
La
cancellazione della legge 30 è una necessità: ma va congiunta all’abolizione
del pacchetto Treu, imposto dal
governo Prodi col voto del PRC, che ha introdotto la piaga del lavoro
interinale.
La
cancellazione della “Bossi-Fini” è drammaticamente urgente: ma non può
risparmiare i campi di detenzione (CPT) imposti dall’Ulivo
agli immigrati, col voto favorevole del PRC, e tutte le loro brutture.
E
lo stesso vale per la scuola e l’università, per i trasporti
e le poste, per ogni campo di vita sociale.
Un’
“alternativa” che risparmiasse le controriforme dell’Ulivo sarebbe una
contraddizione in termini: sarebbe nei fatti un’alternanza liberale.
In
secondo luogo una vera alternativa non potrebbe essere meno radicale verso la
borghesia di quanto la borghesia sia stata contro i lavoratori.
La
borghesia italiana e i suoi governi hanno operato in vent’anni una radicale
redistribuzione della ricchezza verso l’alto, da un lato comprimendo salari e
spese sociali, dall’altro detassando patrimoni, profitti e rendite. Un governo
di alternativa dovrebbe realizzare un programma di segno opposto: da un lato
determinare un forte aumento di salari e pensioni, un vero salario
garantito ai disoccupati senza contropartite di flessibilità, una forte
espansione della spesa sociale nell’istruzione, nella sanità, in opere
pubbliche ecologicamente compatibili; e dall’altro finanziare questo programma
sociale con la tassazione progressiva dei grandi patrimoni, profitti e
rendite, con l’abolizione dei trasferimenti pubblici alle imprese
private, con l’abbattimento delle spese militari, con l’abolizione
dei finanziamenti pubblici a scuole e sanità private.
Qualsiasi
soluzione che non realizzasse questo rovesciamento nella redistribuzione della
ricchezza, si limiterebbe ad amministrare la regressione sociale avvenuta in
vent’anni. Potremmo chiamarla alternativa?
In
terzo luogo un’alternativa vera dovrebbe necessariamente affrontare il nodo
della proprietà.
In
vent’anni la borghesia italiana e i suoi governi sono intervenuti in modo
radicale sul tema della proprietà, promuovendo privatizzazioni gigantesche e
riassetti di grande rilevanza. Un’alternativa vera dovrebbe innanzitutto
procedere, con eguale radicalità, nella direzione opposta: rinazionalizzare,
senza indennizzo, e sotto il controllo dei lavoratori le imprese e i servizi
privatizzati; nazionalizzare senza indennizzo e sotto controllo operaio e
sociale le aziende in crisi, che licenziano, che inquinano; nazionalizzare senza
indennizzo e sotto controllo operaio e popolare le industrie e
responsabili di truffe e speculazioni - a danno di lavoratori,
consumatori, piccoli risparmiatori. I casi Parmalat e Cirio, i casi Eni ed
Enel, sono esemplari. Dimostrano che non può esservi alleanza con il profitto
“buono” contro la rendita parassitaria. Che senza incunearsi nel diritto di
proprietà, ogni predicazione rituale contro corruzione e malaffare resta
illusione e ipocrisia.
Questo
programma generale di vera alternativa è vitale, in particolare, per il
riscatto del Mezzogiorno. La crisi
capitalistica e l’integrazione capitalistica dell’Europa hanno comportato
un’autentica precipitazione delle condizioni di vita delle masse meridionali
(disoccupazione, precariato dilagante, emarginazione femminile, nuovo sviluppo
di una criminalità organizzata che si nutre sia della liberalizzazione
capitalista, sia della miseria e ricattabilità sociale). Tutte le promesse del
meridionalismo borghese di centrodestra e di centrosinistra hanno fallito. Non
c’è riscatto possibile delle masse meridionali senza misure radicali che
cancellino le leggi della precarizzazione, sanciscano la punibilità penale dei
padroni che sfruttano lavoro nero, impongano la trasformazione dei rapporti di
lavoro di tipo precario in rapporti a tempo indeterminato, determinino un
massiccio sviluppo della spesa sociale nel sud sotto controllo popolare. Non
c’è riscatto del Sud senza misure radicali che colpiscano potere e proprietà
delle grandi banche, vere organizzatrici della rapina del meridione, e delle
grandi imprese a partire dalla Fiat (le cui leve di potere nel sud spaziano dal
supersfruttamento operaio alla gestione affaristica ed antiambientale dello
smaltimento dei rifiuti, v. Acerra)
E’
vero: questo programma di alternativa non è conciliabile col quadro di
compatibilità del capitalismo italiano e della UE.
Ma questo dimostra una volta di più la necessità di superare l’illusione
neoriformista di un’Europa sociale in ambito capitalistico. L’alternativa
è anticapitalistica o non è, su scala sia italiana che europea. E chiama
la prospettiva di un’alternativa di potere. Se le classi dirigenti d’Italia
e d’Europa hanno fallito, incapaci di prospettare qualsiasi prospettiva di
progresso, spetta ai lavoratori, ai giovani, al blocco sociale alternativo
emerso nelle mobilitazioni di questi anni rifondare su basi socialiste la società
italiana ed europea.
La
lotta per un governo dei lavoratori e delle lavoratrici in Italia -unica vera
alternativa- avrebbe un’enorme ricaduta su scala europea ed internazionale.
E solo una lotta per un governo dei lavoratori, che congiunga gli obiettivi
immediati alla prospettiva anticapitalistica può difendere vecchie conquiste e
strappare nuovi risultati. Viceversa la rinuncia alla prospettiva di
un’alternativa di potere, quindi l’accettazione del potere esistente,
condanna le classi subalterne all’arretramento delle proprie condizioni e al
vicolo cieco della sconfitta.
3) L’OPPOSIZIONE
COMUNISTA E’ IRRINUNCIABILE
La lotta per un’alternativa vera implica la salvaguardia di un’opposizione comunista e di classe, a tutti i governi della borghesia italiana. L’opposizione comunista è irrinunciabile. E’ questa una considerazione di grande rilevanza strategica. Non riguarda solo i comunisti, ma le stesse prospettive del movimento operaio.
Innanzitutto
si tratta di un principio elementare della tradizione comunista, prima della
degenerazione staliniana. Quella che faceva dire a R. Luxemburg: i comunisti
stanno all’opposizione sino alla conquista del potere. La revisione di quella
posizione, a favore delle alleanze di governo con la cosiddetta “borghesia
progressista”, ha segnato la deriva riformistica della maggioranza del
movimento comunista internazionale del secolo scorso. Denunciare lo stalinismo
e, al tempo stesso, puntare all’ingresso del PRC nel governo Prodi rivela
tutta la superficialità d’immagine della cosiddetta svolta culturale del
partito rispetto all’esperienza del 900.
Non
c’è rifondazione comunista senza recuperare il principio marxista
dell’opposizione ai governi del capitale. La rimozione di questo principio da
parte delle stesse “aree critiche” della maggioranza del PRC (Ernesto ed
Erre) misura di fatto un posizionamento subalterno al riformismo.
Ma
soprattutto l’attualità del recupero di questo principio è testimoniata dall’esperienza
delle collaborazioni di governo nell’attuale fase di crisi capitalistica
internazionale. In un contesto storico segnato dall’esaurimento dello
spazio riformistico l’ingresso dei partiti comunisti nei governi borghesi
significa il loro coinvolgimento nelle politiche di attacco ai lavoratori. Così
è stato per il PCF nel governo
Jospin del 97-2001, e per il nostro partito nella maggioranza del primo governo
Prodi del 96-98. Così è per il Partito Comunista del Sudafrica nell’attuale
governo Mbeki, e per i partiti comunisti indiani a sostegno del governo Sigh.
E’
una lezione generale: tanto più oggi, ogni coinvolgimento di governo dei
partiti operai comporta non un avanzamento
dei movimenti di lotta, ma una manomissione di vecchie conquiste. E
viceversa solo dall’opposizione ai governi borghesi, solo sul terreno della
mobilitazione e della lotta, è possibile difendere conquiste vecchie e operare
conquiste nuove.
Peraltro
la necessità di un’opposizione comunista è tanto più attuale a fronte
dell’attuale disaffezione di massa su scala continentale verso l’Europa di
Maastricht, come hanno rivelato le
stesse elezioni del 12-13 giugno. L’opposizione comunista è l’unico
possibile riferimento a sinistra dell’insofferenza popolare. La rimozione di
quella opposizione significherebbe
lasciare campo libero a un populismo reazionario che già in forme diverse si
rafforza in diversi paesi dell’Europa.
Tutte
queste considerazioni richiamano una conclusione precisa.
Cacciare
Berlusconi per un’alternativa di classe deve essere una parola d’ordine
centrale dei comunisti. Ma proprio quella parola d’ordine implica
l’opposizione comunista a un eventuale governo d’alternanza.
Se
i comunisti hanno tutto
l’interesse a concorrere alla sconfitta di Berlusconi sullo stesso terreno
elettorale, hanno la necessità assoluta di preservare la totale autonomia della
propria opposizione a un governo borghese dell’Ulivo. Di più: dovrebbero sviluppare un’opposizione incalzante alla
politica di quel governo, entrare nelle contraddizioni del suo blocco sociale,
raccogliere l’avanguardia di tutti i movimenti contro la politica di
concertazione. Ed anzi proprio l’inevitabile delusione di massa a seguito
della prevedibile politica di Prodi darebbe all’opposizione comunista uno
spazio crescente di radicamento. Viceversa ogni altra soluzione
significherebbe un’inaccettabile compromissione del PRC: sia nel caso di un
ingresso diretto del PRC nel governo Prodi, come vorrebbe l’attuale
maggioranza della segreteria nazionale del partito, sia nel caso di un appoggio
esterno del PRC al governo o di una pura pressione su di esso
come vorrebbero, in forme diverse, le componenti dell’Ernesto e di Erre
(per via del recupero del vecchio accordo politico-elettorale del 96).
No.
Su questo terreno decisivo non possono esservi pasticci e compromissioni.
L’opposizione comunista a un governo liberale non può essere messa in
discussione.
PER UNA DIVERSA LINEA DI AZIONE: NEL MOVIMENTO OPERAIO E SINDACALE; NEL MOVIMENTO CONTRO LA GUERRA E L’IMPERIALISMO; NELLA RELAZIONE CON TUTTE LE DOMANDE DI LIBERAZIONE DELLE MASSE OPPRESSE; NELLE ISTITUZIONI LOCALI; NELL’INIZIATIVA POLITICA INTERNAZIONALE
Solo la definizione di questa chiara scelta strategica, sui tre assi di fondo indicati, può liberare la necessaria svolta del nostro partito nell’azione politica e nella proposta di massa.
PER UNA SVOLTA DELLA
POLITICA SINDACALE DEL PRC
Va superata l’attuale subordinazione del PRC alla direzione della CGIL.
La
tesi secondo cui la CGIL avrebbe realizzato in questi anni una positiva svolta
strategica, salvo residue incoerenze a livello vertenziale si è rivelata
sbagliata.
La
burocrazia dirigente della CGIL preserva
una prospettiva strategica di recupero della concertazione.
Questa
prospettiva si è confrontata in questi anni con due elementi di contraddizione
che ne hanno ostacolato il dispiegamento. In primo luogo l’indirizzo del
governo Berlusconi che ha puntato all’emarginazione dell’apparato CGIL dal
tavolo concertativo. In secondo luogo l’operazione politica (poi abortita) di
Sergio Cofferati tesa a far leva sulla CGIL per occupare lo spazio liberato
dall’evoluzione liberale della maggioranza DS e ricontrattare gli equilibri di
centrosinistra.
La
risultante di questo doppio condizionamento è stata un parziale irrigidimento
della CGIL sul piano “politico”.
Ma
questo stesso irrigidimento era ed è funzionale a riconquistare un proprio
riconoscimento sul terreno della collaborazione di classe. Sia sul piano
sindacale, dove la CGIL apre alla “nuova” Confindustria di Montezemolo. Sia
sul piano politico dove la CGIL, prima con l’operazione cofferatiana, poi in
forme diverse con la gestione Epifani, continua a proporsi come soggetto interno
al disegno governativo del Centrosinistra quale esplicita lobby di pressione.
Questa
prospettiva di collaborazione col padronato e le sue rappresentanze ha prodotto
effetti profondamente negativi sul movimento operaio.
Non solo ha comportato la dispersione delle potenzialità di lotta contro
Berlusconi. Ma ha coinvolto la CGIL nella gestione di soluzioni contrattuali
negative come nel caso dei
ferrovieri, del commercio, dei lavoratori delle telecomunicazioni, dell’Alitalia.
La burocrazia CGIL già oggi opera come fattore di disinnesco di una possibile
esplosione sociale in Italia.
Grave
è stata, in questo quadro, la crescente subordinazione del gruppo dirigente di
Lavoro e Società all’indirizzo della CGIL. Sia in ambito sindacale, dove è mancata una proposta alternativa alla
gestione confederale delle lotte e dove anzi si sono moltiplicati casi di aperta
corresponsabilizzazione alle scelte della burocrazia. Sia sul terreno politico,
dove il gruppo dirigente di Lavoro e Società si è adattato alla prospettiva di
centrosinistra: prima col sostegno politico all’operazione Cofferati, poi con
la richiesta di condizionare a sinistra la “coalizione democratica” a guida
Prodi.
Non
a caso si giunge ora a prefigurare un documento unitario per il prossimo
congresso della CGIL.
Il
PRC deve opporsi, apertamente, alla
linea della burocrazia CGIL.
In
primo luogo sul terreno centrale dell’azione di massa,
dove occorre avanzare una proposta di svolta sul terreno dell’unificazione
delle lotte e di una vera prova di forza contro il governo e il padronato.
Le
rivendicazioni di un aumento generale e consistente dei salari (senza
subordinazione della libera contrattazione a meccanismi concertativi);
dell’abolizione delle leggi di precarizzazione; dell’estensione
dell’articolo 18 a tutti i lavoratori e a tutte le lavoratrici; di un vero
salario garantito per i disoccupati; della nazionalizzazione senza indennizzo
delle industrie in crisi e che licenziano, vanno proposte nelle organizzazioni
sindacali e tra i lavoratori come base di una piattaforma vertenziale
unificante.
In
secondo luogo all’interno della stessa Confederazione
dove va avanzata una proposta alternativa di indirizzo a partire da una scelta
di autonomia della CGIL dal centrosinistra. Il prossimo Congresso della CGIL
dovrà vedere, necessariamente, un documento alternativo alla impostazione
politica e sindacale della maggioranza CGIL. Il PRC, con i suoi militanti in
CGIL, deve apertamente lavorare in questa direzione, con una proposta di
raggruppamento unitario di tutte le forze coerentemente classiste della
confederazione.
Parallelamente
nel sindacalismo di base (Cub, Sincobas, Confederazione Cobas) che si oppone
positivamente alla linea di concertazione, i militanti del PRC debbono
contrastare ogni logica di autosufficienza o di difesa corporativa di un proprio spazio, a favore di una linea di
ricomposizione unitaria della classe sul terreno dell’alternativa radicale al
padronato e ai suoi governi, e di una reale alternativa di direzione sindacale a
livello di massa.
Più
in generale la proposta del polo autonomo di classe anticapitalistico,
opportunamente articolata sul piano sindacale,
deve divenire il terreno di unificazione dell’azione sindacale dei
militanti del PRC, ovunque collocati sindacalmente.
PER UNA SVOLTA DELLA
NOSTRA AZIONE E PROPOSTA NEL MOVIMENTO ALTER GLOBAL E CONTRO LA GUERRA. PER UNA
MOBILITAZIONE CONTRO L’IMPERIALISMO.
Il PRC non può limitarsi ad una rappresentanza d’immagine del movimento alter global ai fini del negoziato col Centro ulivista. Deve fare l’opposto: salvaguardare l’autonomia del movimento dai tentativi di subordinarlo all’alternanza liberale.
Ovunque
le forze liberali o socialdemocratiche lavorano a subordinare il movimento al
bipolarismo d’alternanza. Così è negli USA con la pretesa del partito
democratico di inglobare settori di rappresentanza del movimento, quale lobby
“progressista”. Così nel Brasile di Lula dove un governo di coalizione con
industriali e banchieri, mira ad integrare le rappresentanze di movimento nel
governo del patto sociale. Così è in India, dove una parte della dirigenza no
global è stata coinvolta nella
collaborazione di governo.
In
tutti questi casi le forze liberali, o socialdemocratiche, o di “sinistra
alternativa” hanno presentato l’integrazione del movimento come
valorizzazione delle sue ragioni. In tutti questi casi si è realizzato invece
l’opposto: il sacrificio delle ragioni del movimento alle compatibilità di
governi borghesi.
Il
PRC deve opporsi, in Italia, ad un esito analogo: la rilevanza che il movimento
alter global e contro la guerra ha assunto negli anni nel nostro paese non deve
essere piegata a una soluzione di governo con Prodi, Rutelli, D’Alema,
Mastella.
A
sua volta la battaglia per l’autonomia del movimento passa per una proposta di
azione che si ponga al livello dello scontro in atto.
Ciò
in particolare, sul terreno della lotta alla guerra.
L’Italia
è un paese imperialista oggi direttamente coinvolto in missioni militari e
nell’occupazione coloniale dell’Irak. Il livello di mobilitazione contro il
governo su questo terreno centrale è assolutamente inadeguato, e costantemente
condizionato dalla logica di compromesso con l’Ulivo.
Questa
logica va respinta.
La
parola d’ordine del ritiro, immediato e incondizionato, delle truppe
d’occupazione dall’Irak, va riaffermata in tutta la sua centralità. Ogni
subordinazione del ritiro delle truppe a false Conferenze di “pace”
designate dalle grandi potenze va apertamente respinta. A maggior ragione va respinto ogni avallo ad una presenza militare
multinazionale in Irak benedetta dell’Onu: questa eventualità
rappresenterebbe unicamente un accordo di spartizione tra potenze e la
ricomposizione dell’alleanza internazionale “contro il terrorismo”, già
battezzata nei Balcani e in Afghanistan. E’ la prospettiva rivendicata
dall’imperialismo francese e dal Centro ulivista italiano. Non può essere la
posizione del PRC, che deve apertamente contrastarla.
Più
in generale il PRC deve rivendicare il ritiro
immediato e incondizionato delle truppe da ogni teatro coloniale, inclusi i
Balcani e l’Afghanistan. E deve sviluppare una vera compagna di massa che
denunci il ruolo criminale delle truppe italiane in Irak e gli affari
dell’imperialismo italiano (vedi gli interessi dell’ENI a Nassiria, i lauti
affari delle aziende italiane coinvolte nel business della ricostruzione).
Parallelamente
il nostro partito deve sostenere, senza ambiguità, il diritto incondizionato di
resistenza e sollevazione del popolo irakeno contro l’occupazione coloniale
(americana, inglese, italiana). La rivendicazione di questo diritto non
significa identificazione politica con le forze baathiste o islamiste. La lotta
per l’organizzazione indipendente del movimento operaio e per un’altra
direzione della resistenza irakena che contrasti ogni soluzione Khomenista e si
batta per un governo operaio e contadino è un compito centrale dei comunisti.
Ma la stessa lotta per un’egemonia alternativa nella lotta di liberazione
dell’Irak implica il riconoscimento del diritto incondizionato del popolo
irakeno alla resistenza contro le truppe d’occupazione: ciò che significa
l’uso legittimo di tutti i mezzi propri di una lotta di liberazione (scioperi,
dimostrazioni, azione armata contro le forze militari d’occupazione e del
governo fantoccio, sollevazioni insurrezionali).
Ogni
pregiudiziale ideologica “non violenta” in nome dell’assimilizzazione tra
resistenza armata e terrorismo rappresenta di fatto una capitolazione alla
pressione politica delle classi dominanti e dell’ambiente ulivista. Ciò che
è ancor più grave nel quadro di un Italia oggi in guerra contro la resistenza
irakena.
Solo
la lotta per un polo autonomo di classe che rompa col Centro dell’Ulivo può
favorire la crescita del movimento di lotta contro l’imperialismo italiano e
la sua politica estera.
PER UN RILANCIO DEI
GIOVANI COMUNISTI CONTRO QUALSIASI IPOTESI DI SUBORDINAZIONE ALL’ULIVO
Tre
anni di mobilitazioni -contro la guerra, contro le controriforme della scuola e
dell’università, contro la globalizzazione
capitalistica- hanno riaperto per i Gc un nuovo spazio potenziale
d’intervento. Nonostante la mancata battaglia di egemonia nei movimenti, è
indubbio che settori della nuova generazione hanno guardato ai GC quali
referenti per una reale alternativa. Queste attese sono state deluse nel momento
in cui è stata avviata la svolta di governo con Prodi.
Fin
da subito, si è consumata una rottura con i settori di sinistra del
movimento alter globalizzazione. Emblematico da questo punto di vista è lo
strappo coi Disobbedienti, sui quali la maggioranza dirigente dei Gc aveva
investito tutto il senso del proprio agire. La prospettiva di governo si è
tradotta nella dissociazione da parte della segreteria nazionale da tutti gli
atti di “disobbedienza” che potevano compromettere la credibilità del PRC
agli occhi del Centro liberale italiano: in questo quadro si inseriscono anche
le recenti prese di distanza nei confronti di pratiche (quali la “spesa
proletaria”) che in passato sono state assecondate acriticamente e che oggi
vengono condannate nonostante le minacce repressive del governo.
Se
la scelta della disobbedienza in passato ha significato non solo la diluizione
organizzativa della nostra struttura giovanile, ma anche il mancato rilancio di
una prospettiva, oggi si passa dai limiti della disobbedienza a una ben più
grave obbedienza a Prodi e all’Europa dei padroni. In questo modo, si
disperdono anche le migliori potenzialità della disobbedienza stessa, che molti
giovani hanno abbracciato con la prospettiva di “un altro mondo possibile”.
Ma
lo strappo coi Disobbedienti è solo un aspetto di un processo ben più ampio,
che ha visto la marcia verso il governo ulivista porre i Gc in contraddizione
con i movimenti giovanili su ogni terreno. Un programma di intervento nei
movimenti dovrebbe contrapporsi a quello dell’Ulivo in tutti i settori che più
da vicino riguardano le nuove generazioni. Basta pensare alle lotte in
difesa della scuola pubblica contro l’attacco della Moratti, che a sua
volta riprende il lavoro dove lo avevano lasciato Berlinguer e De Mauro.
Lo
stesso vale per le lotte contro il lavoro precario, contro la guerra:
nella costruzione per noi centrale del rapporto con le nuove generazioni
studentesche e operaie. Solo una prospettiva di opposizione di classe può
garantire il rilancio delle migliori istanze di lotta. Al contrario, la
rimozione dell'opposizione di classe porterebbe il partito alla rottura con
quella giovane generazione che ha iniziato la lotta per "un altro mondo
possibile".
PER UN BLOCCO
ANTICAPITALISTICO DI TUTTE LE DOMANDE DI LIBERAZIONE
La
proposta del polo autonomo di classe e anticapitalistico non ha nulla a che
vedere con l’economicismo. Al contrario: pone la necessità che il movimento
operaio assuma coerentemente nel proprio programma tutte le domande di
liberazione delle masse oppresse a partire dalla domanda centrale di liberazione
della donna, dalle rivendicazioni degli immigrati, dalle coerenti istanze
ambientaliste.
L’Alleanza
col Centro dell’Ulivo non solo comporta il sacrificio delle ragioni dei
lavoratori, ma contraddice ogni coerente istanza progressiva, democratica,
sociale, di genere.
La
politica di intesa col Centro cattolico contraddice la piena libertà della
donna in fatto di maternità (come si è visto sullo stesso tema della
fecondazione assistita); pregiudica ogni battaglia democratica coerente per i
diritti degli omosessuali; ripropone la protezione dei privilegi della scuola
privata confessionale contro ogni coerente battaglia democratica per il
carattere laico e pubblico dell’istruzione.
Così
la politica di coalizione col Centro borghese “europeista” comporta
l’adattamento alle politiche antimmigrazione della UE (militarizzazione delle
frontiere, politiche dei “flussi”) in contraddizione con le rivendicazioni
di uguaglianza e di emancipazione degli immigrati.
Infine
l’alleanza col Centro tutore del mercato contrasta con una battaglia radicale
per il risanamento dell’ambiente, per una svolta reale nello smaltimento dei
rifiuti, per un riassetto idrogeologico del territorio, per una riorganizzazione
dell’intero sistema dei trasporti.
Solo
la rottura col Centro ulivista, solo una prospettiva di alternativa
anticapitalista può liberare un’azione coerente su ognuno di questi terreni.
Il movimento operaio può e deve assumere sino in fondo nel proprio programma
l’insieme di queste istanze, secondo la sua migliore tradizione.
Parallelamente in ognuno dei movimenti a
carattere progressivo è importante che i comunisti riconducano le specifiche
rivendicazioni “di movimento” all’insieme del programma socialista e alla
centralità strategica della lotta di classe.
LA NECESSITA’ DI UNA
SVOLTA DEL PRC SUL TERRENO LOCALE
Il
PRC deve recuperare la propria autonomia dalle giunte di centrosinistra.
L’accordo
raggiunto nella Grande Alleanza Democratica (11 ottobre) circa l’intesa tra
PRC e Ulivo in tutte le regioni in occasione delle imminenti elezioni
amministrative è la migliore dimostrazione che quelle intese non hanno alcun
rapporto con la cosiddetta “qualità locale dei programmi” ma l’hanno
invece con la comune prospettiva nazionale di governo.
L’esperienza
di oltre dieci anni ci dice che il coinvolgimento del PRC nelle Giunte
dell’Ulivo ha corresponsabilizzato il partito nella gestione locale delle
politiche nazionali (in una logica, nel migliore dei casi, di “limitazione del
danno”): in parte rilevante del paese siamo compartecipi di scelte di
privatizzazione, di tagli della spesa, di patti concertativi con le
organizzazioni del padronato, alla coda di sindaci o governatori ulivisti.
Oggi
la svolta governativa nazionale minaccia di trascinare con sé una ulteriore
estensione del governismo locale.
La
linea del polo autonomo di classe chiama al contrario ad una chiarificazione di
fondo sulla collocazione locale del partito.
Il
PRC non può subordinarsi a giunte guidate dal Centro dell’Ulivo e dal blocco
d’interessi che questo rappresenta. E’ necessaria una ricollocazione di
opposizione. La rottura realizzata nella regione Campania e nella città di
Genova dopo una lunga e grave subordinazione non può ridursi a un fatto
d’eccezione, per di più provvisorio. Deve divenire un fatto esemplare,
razionalizzato dall’insieme del partito, capace di riproporre in termini
generali l’inconciliabilità delle ragioni operaie e popolari con gli
interessi rappresentati dalle giunte dell’Ulivo.
Questo
non significa ignorare, là dove possibile, spazi di tattica elettorale
funzionali alla sconfitta delle destre e al contatto col sentimento
antiberlusconiano del popolo di sinistra (quale può essere ad esempio
un’indicazione di voto per un candidato di sinistra in contrapposizione a un
candidato reazionario al secondo turno di un’elezione amministrativa). Ma
anche sul piano locale vale un criterio di classe: un conto è la convergenza
elettorale, unicamente tecnica, per sconfiggere un comune avversario; un conto
è la corresponsabilizzazione con propri assessori ad una giunta liberale di
centrosinistra.
In
occasione delle imminenti elezioni regionali il PRC deve rifiutare le coalizioni
di governo col centrosinistra: a
partire dal rifiuto di ogni subordinazione ai candidati liberali indicati dal
gruppo dirigente dei DS e della Margherita, che nulla hanno a che vedere con le
ragioni dei movimenti e con le lotte che il nostro partito ha condotto.
PER UNA DIREZIONE
INTERNAZIONALE ALTERNATIVA DEL MOVIMENTO OPERAIO
Il
PRC deve superare l’attuale scelta e orizzonte della “Sinistra Europea”.
Il
disegno della sinistra europea ha aggregato forze convergenti con la svolta
governativa del PRC in Italia: sulla base di un programma neoriformistico, del
tutto illusorio, e dentro una cornice culturale di tipo socialdemocratico.
La
svolta di linea del polo autonomo di classe richiama un altro indirizzo di
fondo: quello di lavorare a capitalizzare la crisi del riformismo europeo con il
rilancio di una vera rifondazione comunista internazionale.
Di una rifondazione che recuperi l’impianto programmatico originario del
movimento comunista, lo attualizzi in riferimento all’odierno quadro
internazionale, lo assuma come terreno di ricomposizione di forze
d’avanguardia, ovunque collocate, del movimento operaio e dei movimenti di
massa.
La
costruzione di un’Internazionale rivoluzionaria è impresa difficile ma
necessaria. Si
tratta di unire forze d’avanguardia di diversa provenienza e
collocazione attorno a un comune programma d’azione rivoluzionario: un
programma che rivendichi l’alternativa di potere dei lavoratori, delle
lavoratrici, delle masse oppresse, quale leva insostituibile di una prospettiva
socialista. Un programma che rivendichi il socialismo quale unica vera
alternativa alla barbarie capitalistica. Un programma che lavori a costruire in
ogni lotta la connessione tra gli obiettivi immediati e l’alternativa
socialista. Che colleghi la difesa incondizionata di ogni popolo oppresso e/o
minacciato dall’imperialismo alla prospettiva della rivoluzione socialista
internazionale.
Un
fondamento essenziale di questo processo d’aggregazione è l’opposizione dei
comunisti ai governi delle classi dominanti. Senza recuperare questo principio del marxismo, ogni aggregazione
“comunista” internazionale sarebbe un inganno nominalistico, privo di
futuro. A sua volta solo un vero programma di alternativa socialista, sul piano
internazionale, può fondare il carattere strategico dell’opposizione
comunista e dargli un riferimento coerente.
La
crisi del vecchio riformismo internazionale apre uno spazio storico nuovo per il
rilancio di una rifondazione comunista rivoluzionaria nel mondo.
Larga parte della socialdemocrazia conosce una profonda crisi di rapporto col
proprio insediamento sociale. Larga parte dei
vecchi partiti comunisti di estrazione staliniana e di ispirazione
governativa (v. PCF) sono stati attraversati in questi anni da crisi profonde.
Una giovane generazione e nuovi movimenti si sono affacciati sulla scena, anche
in connessione con l’indebolimento delle tradizionali strutture di controllo
del movimento operaio. Nuove lotte operaie si manifestano in Europa. Processi di
radicalizzazione di massa si sono sviluppati in America Latina (Argentina,
Bolivia, Venezuela, Equador…) riproponendo la centralità del tema strategico
del potere. Nei paesi arabi, dalla Palestina all’Irak, settori importanti
della giovane generazione rifiutano il compromesso con l’imperialismo e
pongono una domanda di liberazione, in aperto contrasto con le vecchie direzioni
nazionaliste.
L’unità dei comunisti conseguenti, al di là delle frontiere, su un comune programma rivoluzionario è oggi più di ieri una necessità storica. Essa va perseguita combinando il massimo rigore programmatico sui principi con la massima apertura verso tutte le forze disponibili, in ogni paese e su scala internazionale.
PER UNA SVOLTA DEMOCRATICA NELLA VITA DEL NOSTRO PARTITO CONTRO LA DERIVA BUROCRATICO/LEADERISTICA CHE LO ATTRAVERSA
La
svolta di linea del polo autonomo di classe richiama indirettamente una profonda
svolta democratica nella vita del nostro partito.
L’accelerazione
della svolta di governo ha registrato ed aggravato una deriva burocratica/leaderistica
del PRC.
Tutto
il nuovo corso politico è stato di fatto guidato dalle interviste del
Segretario. Gli stessi organismi dirigenti nazionali sono stati messi ogni volta
di fronte al fatto compiuto e alla richiesta di una sua presa d’atto. Il corpo
complessivo del partito, i suoi militanti, i suoi circoli, i suoi gruppi
dirigenti locali si sono trovati nella condizione di spettatori passivi.
Così
è stato al momento del varo della svolta (marzo 2003). Così è stato al
momento del varo del partito della sinistra europea. Così è stato al momento
della svolta identitaria della non violenza. Così è stato al momento
dell’accettazione delle primarie, del vincolo di maggioranza, della nuova
Grande Alleanza Democratica.
Questo
stesso Congresso si trova obiettivamente di fronte ad un itinerario largamente
compiuto e quindi subisce una limitazione della sua reale sovranità decisionale.
Grave è stata la recente scelta di maggioranza del CPN, con l’astensione
determinante di Ernesto ed Erre, di respingere la richiesta di un congelamento
della partecipazione del PRC alla GAD che consentisse la salvaguardia dei poteri
decisionali del Congresso.
Tutto
ciò ha contribuito ai processi di passivizzazione ed ha aggravato i rischi di
distacco. La stessa scarsa partecipazione alla manifestazione nazionale del 25
settembre riflette questa realtà.
Vi
è una connessione tra la natura della svolta intrapresa e l’accentuazione
della deriva leaderista. Un reale
percorso democratico avrebbe messo a rischio la svolta di governo e le scelte ad
essa collegate. Solo la politica del fatto compiuto poteva garantire la
continuità della svolta mettendola al riparo da una reale e tempestiva verifica
democratica.
Parallelamente
il sempre più esteso coinvolgimento di governo sul terreno delle giunte locali,
con la conseguente moltiplicazione degli assessori sposta sempre più il
baricentro delle decisioni fuori dalle istanze del partito, sul terreno della
mediazione esterna con interessi avversi ed estranei. Ciò che espropria
ulteriormente poteri e diritti dei militanti del partito.
Così non può continuare. Il corpo complessivo dei militanti del PRC deve conquistare un reale potere democratico di controllo sulla vita del proprio partito.
Gli
organismi del partito vanno realmente coinvolti
nel processo di definizione della linea del PRC.
L’intero
confronto negli organismi dirigenti, a partire della Direzione Nazionale va reso
trasparente agli occhi dei militanti e
degli iscritti.
Il
quotidiano del partito deve aprire uno spazio stabile e riconosciuto al
confronto interno con garanzie
democratiche per tutte le posizioni.
Va
ripristinato il diritto delle federazioni a designare democraticamente le
proprie candidature elettorali ai vari livelli, contro logiche di
imposizione da parte delle istanze superiori del partito.
Eventuali
proposte di commissariamento di federazioni e strutture regionali vanno discusse
e documentate seriamente negli
organismi dirigenti. Non possono avvenire per via burocratica, e subordinate a
interessi di componenti.
Inoltre
va respinta l’ipotesi di una decisione amministrativa di scioglimento delle
federazioni estere del PRC che obblighi burocraticamente i compagni
all’adesione alle strutture nazionali aderenti al PSE.
Parallelamente
il partito deve realizzare una scelta seria sul terreno della formazione dei
quadri che non può essere confusa
con legittime iniziative di componente (come nel caso del Convegno di Venezia
sulla non violenza) né può essere affidata ad esternazioni d’immagine.
Così
il partito deve seriamente affrontare il tema cruciale del proprio
radicamento sociale. In particolare è necessario un bilancio serio sulla
condizione dei circoli del PRC nei posti di lavoro, che o non esistono o sono
spesso in uno stato di isolamento; l’esigenza di una struttura di reale
coordinamento dei circoli operai, e delle commissioni di lavoro, che dia
organicità nazionale al loro intervento non può più essere elusa.
Ma
questa riforma complessiva del partito è inseparabile dal cambio di prospettiva
politica. Solo una effettiva autonomia
del PRC dal centrosinistra, solo un’effettiva battaglia di egemonia
alternativa tra i lavoratori e nei movimenti, possono liberare una vera
democrazia del partito, la costruzione dei suoi quadri, un vero radicamento
sociale.
Una battaglia per la democrazia interna e il radicamento sociale senza svolta di linea si ridurrebbe ad una frase vuota.
MARCO FERRANDO
(Direzione Nazionale)
FRANCO GRISOLIA
(Direzione nazionale)
FRANCESCO RICCI
(Vice Presidente Collegio Nazionale di Garanzia)
IVANA AGLIETTI
(Comitato Politico Nazionale)
TIZIANO BAGAROLO (Comitato
Politico Nazionale)
VITO BISCEGLIE
(Comitato Politico Nazionale)
PIA GIGLI
(Comitato Politico Nazionale)
LETIZIA MANCUSI
(Comitato Politico Nazionale)
MICHELE RIZZI
(Comitato Politico Nazionale)
MICHELE TERRA
(Comitato Politico Nazionale)
NICOLA DI IASIO
(Coordinamento Nazionale Giovani Comunisti)
FABIANA STEFANONI
(Coordinamento Nazionale Giovani Comunisti)
Piero Acquilino (Genova); Alberto Airoldi (Milano); Ivan Alberotanza (Chieti); Fabio Alfonsetti (Brindisi); Fabrizio Allegretti (Mantova); Roberto Angiuoni (Roma); Federico Bacchiocchi (Bologna); Enrico Baroni (Milano); Luca Belà (Cagliari); Dino Belli (Frosinone); Riccardo Bocchese (Vicenza); Arturo Bonazzi (Avellino); Giuseppe Bongiorni (Piacenza); Andrea Bono (Genova); Alessandro Borghi (Genova); Cristiana Boscarelli (Napoli); Luigi Bozzato (Trento); Alberto Cacciatore (Latina); Massimiliano Caligiuri (Catanzaro); Antonio Callà (Vibo Valentia); Patrizia Cammarata (Vicenza); Rossana Canfarini (Cesena); Antonio Carabba (Arezzo); Giuseppe Casarella (Foggia); Vincenzo Castriotta (Verona); Leopoldo Cattaneo (Lodi); Isabella Cecchi (Pisa); Bruno Cicognani (Ravenna); Cristina Clemente (Pisa); Salvatore Cossa (Lecce); Ferruccio Cotti Cometti (Novara); Stefania De Nicolai (Trento); Francesco De Simone (Cosenza); Marco Debenedetto (Reggio Calabria); Daniele Debetto (Torino); Ilaria Del Biondo (Pescara); Alessandro Della Casa (Viterbo); Maria Luisa di Bartolomeo (Castelli); Daniele Di Bitonto (Castelli); Tiziano di Clemente (Isernia); Giacomo Di Leo (Messina); Alberto Faccini (Pescara); Francesco Fioravanti (Roma); Stefano Fontana (Venezia); Fausto Fornaciari (Reggio Emilia); Enrica Franco (Pesaro); Alessandro Frediani (Viareggio); Maurizio Freschi (Treviso); Angelo Frigoli (Cremona); Alì Ghaderi (Teramo); Vito Giunta (Messina); Pasquale Gorgoglione (Bari); Giuseppe Guarnaccia (Salerno); Nicola Iozzo (Vibo Valentia); Hernan Kurfirst (Firenze); Alessandro Leni (Genova); Angelo Libretti (Monza); Lerek Liverani (Forlì); Alberto Madoglio (Cremona); Giorgio Magni (Savona); Bruno Manganaro (Genova); Ruggero Mantovani (Latina); Tiziana Mantovani (Milano); Antonino Marceca (Venezia); Davide Margiotta (Pesaro); Marinella Mariani (Siena); Domenico Marsili (Viareggio); Giuseppe Mazzoli (Arezzo); Alessandro Mazzolini (Cremona); Luigi Minghetti (Torino); Fabrizio Montori (Bologna); Paolo Moresi (Tigullio); Michele Napolitano (Campobasso); Piero Nobili (Monza); Carlos Pagnozzi (Como); Alfonsina Palumbo (Benevento); Massimo Paparatti (Messina); Giacomo Petrini (Firenze); Nedda Petroni (Vicenza); Luigi Pisci (Nuoro); Edmondo Pizzuto (Benevento); Giovanni Poggioni (Firenze); Renato Pomari (Monza); Claudio Rappa (Svizzera); Aldo Romaro (Padova); Giuseppe Ruberto (Foggia); Vittorio Sacco (Cosenza); Gabriele Sandri (Torino); William Sanna (Cagliari); Luca Scacchi (Aosta); Luca Scafoglio (Napoli); Roberta Schiavello (Catanzaro); Susanna Sedusi (Padova); Pino Siclari (Reggio Calabria); Luigi Sorge (Frosinone); Andrea Spadoni (Roma); Mario Tommasi (Rieti); Valerio Torre (Salerno); Gabriella Tulli (Teramo); Romeo Tuosto (Bari); Patrizia Turchi (Savona); Alessandro Turco (Torino); Pasquale Urbano (Ravenna); Marco Veruggio (Genova); Marco Vettore (Padova); Luciano Zangoli (Cesena); Matteo Zanini (Como); Michela Zizi (Viterbo).