A
proposito del VI Congresso
L’Ernesto
e Erre: due varianti dell’alternanza
La
subalternità al riformismo delle due “aree” critiche della maggioranza
di Ruggero
Mantovani
Per i suoi
contenuti, riteniamo che il VI Congresso, aldilà delle forme, nella sostanza
assuma connotati straordinari,
poiché la prospettiva avanzata da Fausto Bertinotti (alleanza programmatica col
centro sinistra ed entrata in un futuro governo Prodi), mette in discussione la
ragione sociale dell’esistenza del Prc e la stessa sopravvivenza di
un’opposizione di classe in Italia. Contro questa prospettiva non ci si può
limitare a formulare delle critiche e qualificare questa svolta come un errore,
o tentare di ancorarla a salvifici
“paletti” programmatici. Si tratta di fermare questa deriva prima che il
nostro partito, con l’entrata in un futuro governo Prodi, possa salire sul
carro della borghesia; prima che il movimento operaio possa subire ulteriori
attacchi e arretramenti. Questo riteniamo sia il nodo centrale del VI Congresso.
È una
prospettiva politica che, se da un lato ha ancora una volta evidenziato
nettamente la divaricazione strategica tra il gruppo dirigente maggioritario e
le posizioni espresse in questi anni dalla sinistra rivoluzionario del partito,
rappresentata da Progetto Comunista, dall’altro ha indotto (più o meno a
malincuore) le cosiddette tendenze “critiche” interne alla maggioranza ad
uscire allo scoperto.
Le
posizioni espresse sia dalla tendenza de l’Ernesto che da Erre
(ex Bandiera Rossa), pur criticando la proposta di accordo programmatico,
avanzano, con differenti sfumature e motivazioni,
l’ipotesi di un appoggio esterno del Prc a un futuro governo di
centrosinistra. Una soluzione, quest’ultima, che coinvolgerebbe in ugual
misura il nostro partito a responsabilità gravissime nei
confronti del movimento operaio e delle masse popolari.
La
subalternità di Erre al bertinottismo
L’attuale
posizione “critica” alle 15 tesi proposte da Bertinotti da parte del
gruppo dirigente di Erre, deve essere sindacata, al di là del merito
contingente, nel vivo delle scelte politiche che in questi anni hanno
caratterizzato tutta la sua strategia. Non è un caso che i documenti presentati
e gli stessi interventi di quest’area su Liberazione, propongono una
posizione apparentemente critica, ma nella sostanza subalterna al clichè
culturale e politico che in questi anni ha espresso il bertinottismo. Avanzano
in definitiva una sorta di esegesi impressionistica del documento di maggioranza
varato al V congresso, che non a caso fu enfaticamente assunto come il programma
di un partito che diveniva, nelle aspirazione di Erre, conseguentemente
antagonista.
Ma
la realtà ha dimostrato che tutte le questioni di fondo proposte da quel
documento congressuale (prospettiva politica, natura delle categorie analitiche,
giudizio sui conflitti imperialistici, rapporto con il movimento), tenevano
sottotraccia la ricomposizione negoziale con le forze politiche del
centrosinistra e la stessa prospettiva del
compromesso governista. Era una linea politica che fin d’allora si proponeva
di costruire un’alleanza di governo con le cosiddette forze della sinistra
moderata e riformista, indispensabile, come dimostrerà la cronaca dei fatti,
per riattivare il processo negoziale con le forze uliviste, che malgrado
giudicato “difficile e faticoso” era posto come prioritario. Una prospettiva
ricercata e sperimentata fin dall’indomani del V Congresso: Cofferati “uomo
della possibile vittoria”, al di là dei fantascientifici pronostici, ha
rappresento il viatico per riattivare quei rapporti con il centrosinistra
interrotti nel 1998 dopo l’uscita dal governo Prodi.
Un
riavvicinamento che nel maggio del 2003, nonostante la recitazione pubblica
della rottura con il centro liberale propinata al V Congresso, era sacramentato
con il varo delle commissioni paritetiche per la costruzione del programma con
Treu e Mastella. La nascita di quelle commissioni ha impresso in definitiva
un’accelerazione profonda al compromesso con le forze politiche della
borghesia liberale, ben sperimentato sia nelle elezioni amministrative del 2003
e subito dopo in quelle del 2004, malgrado il boicottaggio del referendum
sull’estensione dell’articolo 18, da parte della Margherita e
dell’apparato liberale dei Ds.
Ed
oggi la proposta di “primarie”, di “vincolo di maggioranza” e la stessa
“Gad” (Grande Alleanza Democratica, realizzata nelle ultime settimane)
rappresentano non una “inversione di rotta” come ritiene Erre, ma una nuova
tappa di questa direzione di marcia.
Una
proposta genericamente antiliberista.
L’impostazione
“critica” di Erre nei confronti della linea del segretario del Prc in
definitiva riflette tutte le contraddizioni e le ambiguità, di metodo e di
merito, maturate in questi anni nei rapporti
con il bertinottismo. Bertinotti è stato presentato da questa tendenza come il
veicolo, sia pure empirico, di un processo di radicalizzazione progressiva a
sinistra di rifondazione. Il gruppo dirigente dell’ex Bandiera Rossa riteneva
che Bertinotti avrebbe trasformato il Prc in un partito antagonista. Fu il
compagno Turigliatto sulle colonne di Liberazione, in sede di commento
conclusivo al V Congresso, ad affermare che il Prc passava, addirittura,
“dalle riforme alla rivoluzione”. Oggi l’attuale svolta filoprodiana
disorienta ancora una volta il gruppo dirigente di Erre, poiché spiazza tutta
la letteratura immaginaria sul bertinottismo, che questa area ha consumato
nazionalmente ed internazionalmente.
Da
qui la necessità di un posizionamento “critico” al prossimo VI Congresso,
che non pone però un’alternativa programmatica alle impostazioni neo
riformiste del segretario del partito. Sul piano dei contenuti l’area Erre
dichiara apertamente di non avere posizioni “pregiudiziali”, sia sul
confronto programmatico e sia sul governo col centro sinistra, ma che ad oggi
(dunque non domani) “non esistono le condizioni di un accordo”, ritenendo
ancora insufficiente lo sviluppo dei movimenti e troppo persistente le posizioni
liberiste del centrosinistra.
Nel
documento che in queste settimane è stato proposto dalla rivista Erre,
nell’articolo “Un’altra idea della rifondazione” e, in forma
parzialmente modificata, nell’appello pubblico, si afferma esplicitamente che:
”Il problema della relazione con questo Ulivo, con questo centrosinistra è
pressante e inaggirabile (…). Se davvero si vuole fare l’opposizione al
governo Berlusconi, i partiti del centrosinistra devono raccogliere la spinta
alla mobilitazione che proviene dal basso (….). Questa unità è propedeutica
a qualsiasi altra unità, politica o elettorale che sia (…) serve anche a
chiarire quale programma minimo sia accettabile ai fini di un accordo politico
con il centrosinistra (…). Un programma accettabile è quello di una
prospettiva auspicabile (….) altrimenti meglio pensare a soluzioni
tecnico-elettorali capaci di battere Berlusconi”. Qui sta tutto il concentrato
della subordinazione politica di Erre al bertinottismo, che emerge platealmente
persino nelle pieghe di un’apparente criticità alla prospettiva avanzata dal
segretario del Prc.
Tutta
l’argomentazione proposta dal gruppo dirigente di questa area è mancante di
una base di principio: ignora il carattere di classe del centro liberale come
rappresentazione della grande borghesia; dichiara di non avere
“pregiudiziali” verso un governo comprensivo degli interessi del capitalismo
italiano; non pone la rottura con quel centro liberale come asse centrale di una
politica di classe. Insomma, si avanza oggi un rafforzamento del movimento,
speculare, domani, al “confronto con il centrosinistra”, proponendo in
definitiva un movimentismo incapace di prospettare un’alternativa di classe al
compromesso riformista avanzato con le 15 tesi da Bertinotti.
Una
subalternità che rileva anzitutto in punta di analisi. Si rappresenta la
globalizzazione capitalistica “(…) sostanzialmente governata dalla vittoria
elettorale repubblicana negli Usa e dei governi della destra”, ritenendo che
“(...) ancora oggi meglio di governi democratici o progressisti le destre
incarnano la necessità mortifera di una competizione selvaggia (…) in fondo
la contraddizione del progressismo (centrosinistra internazionale) sta tutta
qui: non coincide con le necessità obiettive di quegli interessi capitalistici
che pure si pretende di rappresentare”. Sia detto di passata, ma le dinamiche
emerse dalla crisi capitalistica in particolare in Italia negli anni novanta,
ribaltano una visione scolastica di un blocco unitario tra borghesia e governo
delle destre. Al contrario, tutta la vicenda italiana degli anni novanta è
stata segnata proprio dall’incontro tra il centrosinistra e la grande
borghesia che, ricordiamo, solo dopo l’esito del voto alle politiche del 2001,
ha scelto di investire (per interesse e non certamente per vocazione ontologica)
sul centrodestra.
Il
ruolo del centro sinistra e al suo interno del Pds nei primi anni novanta è
stato indispensabile per i gruppi dominanti, segnati da un lato dalla crisi
d’egemonia sulla piccola e media borghesia e dall’altro dal venir meno della
Dc che rappresentò per decenni la guida politica e sociale di quegli interessi.
L’aggancio alla socialdemocrazia pidiessina è risultato indispensabile non
solo per superare nella contingenza le contestazioni operaie del 1992 contro il
governo Amato e stabilizzare il quadro politico dopo la caduta del governo
Berlusconi nel 1994; ma al contempo per disporre di un personale politico che
potesse gestire complessivamente le politiche controriformatrici sul terreno
nazionale ed internazionale; capace d’investire i legami di massa del Pds e
organizzare un sistema di consenso e sostegno sociale. Proprio l’abbraccio
negli anni novanta tra grande capitale e il centrosinistra ha eroso e demotivato
la base operaia, passivizzando il conflitto (il minor numero di scioperi
registrati dal dopo guerra), permettendo al capitalismo italiano un reale
processo d’integrazione nel polo imperialistico europeo. Un fenomeno
complessivo che ha inciso profondamente sulla stessa evoluzione liberale
dell’apparto Pds-Ds, che da agente è divenuto gestore diretto degli interessi
dell’imperialismo italiano.
Oggi,
sul piano internazionale, tutte le esperienze di governo con la borghesia
liberale dimostrano di essere avversarie dei movimenti: il
governo Jospin ha realizzato il record di privatizzazioni in Francia ed
ha partecipato ai bombardamenti sul Kossovo; il tanto osannato governo Lula
dimostra di essere subalterno al Fmi: ridimensiona salari e pensioni, privatizza
i servizi sociali, nega la terra ai contadini; il governo indiano (preso a
modello dagli apparati del movimento no global) nella sua prima finanziaria ha
aumentato del 17% le spese militari. Oggi la crisi del berlusconismo spinge le
classi dominanti a cambiare di nuovo cavallo, a ritornare alla concertazione,
che non è il risultato della crisi del liberismo, come vorrebbe Bertinotti, ma
semmai il metodo privilegiato con cui le classi dominanti puntano a realizzare
il loro programma.
Al
contrario, tutte le istanze che sono emerse con la nascita dei movimenti nel
periodo 2001-2004, dimostrano la loro inconciliabilità con gli interessi delle
forze del capitalismo italiano e con la loro rappresentanza politica: è una
verità elementare che pone sia la necessità della rottura con il centro
liberale, sia un’alternativa di classe e anticapitalista. Non si tratta di
avanzare come fa Erre un programma più radicale o più antiliberista, che
richieda alla borghesia liberale : “i rinnovi contrattuali, la lotta contro la
legge 30, un dibattito corretto sul salario” o la “realizzazione transitoria
di nazionalizzazioni di alcuni gangli produttivi” o forme “innovate di scala
mobile” per il recupero di potere di acquisto di salari e pensioni. Si tratta
di proporre un programma di rottura con il centro liberale borghese, capace di
cancellare le controriforme imposte dal padronato.
Si tratta
in definitiva di combinare la cancellazione della controriforma sulle pensioni
di Berlusconi con la cancellazione della controriforma Dini voluta dall’Ulivo;
di combinare la cancellazione della legge 30 con l’abolizione del pacchetto
Treu imposto dal Governo Prodi; di cancellare la legge Bossi-Fini
sull’immigrazione, includendo l’eliminazione dei campi di detenzione voluti
dal centrosinistra; di produrre aumenti salariali, delle pensioni e un vero
salario garantito ai disoccupati, senza contropartita in flessibilità; di
avanzare una forte espansione della spesa sociale, sanitaria e dell’istruzione
pubblica, finanziata con misure di tassazione progressiva dei grandi patrimoni,
rendite e profitti; di nazionalizzare le imprese in crisi, senza indennizzo ai
padroni e sotto il controllo dei lavoratori. Un programma di alternativa che
dimostra, ancora una volta, che l’antiliberismo avanzato da Erre in assenza
dell’anticapitalismo finisce per riproporre con l’antica illusione
riformista nuovi ambiti di compromesso di classe con la borghesia liberale.
Una
storia di subalternità al riformismo.
L’assenza
di una base di classe, che è possibile percepire nelle proposte avanzate da
Erre, è parte integrante di una tendenza programmatica che in questi anni ha
fatto del programma antiliberista, della democrazia partecipativa, la mistica di
un nuovo marxismo del terzo millennio e del movimento no global l’ agente
della ricomposizione di una nuova rifondazione e di un nuovo movimento operaio.
Una posizione liquidazionista che ha caratterizzato continue svolte e contro
svolte, attestandosi costantemente su posizioni subordinate al gruppo dirigente
maggioritario del partito.
Basta
ripercorrere brevemente la storia di Bandiera Rossa (oggi Erre) nel corso dei
congressi del nostro partito. Nel I Congresso di Rifondazione Comunista (1991),
la parola d’ordine di Bandiera Rossa era di evitare qualsiasi battaglia
politica. Si diceva: siamo all’inizio di un lungo tragitto e di un lungo
percorso, non possiamo segnalarci come quelli che pongono problemi. Al II
Congresso (1994), Bandiera Rossa presentò alcuni emendamenti in blocco con
Ferrero, il cui contenuto movimentista li rendeva compatibili con
l’impostazione del gruppo dirigente garaviniano. Solo l'accentuazione della
prospettiva del governo progressista li costrinse a convergere con la seconda
mozione congressuale, che segnò il primo momento di differenziazione a
sinistra, ma come vedremo su basi temporanee e limitate. Durò pochissimo: una
volta chiuso il sipario del congresso, dopo pochi mesi iniziò una corsa al
bertinottismo. Quando scissionò la corrente Magri-Crucianelli, il gruppo
dirigente di Bandiera Rossa enfatizzò lo spostamento a sinistra del
bertinottismo, ritenendo che la dinamica delle cose era la prova provata che
Bertinotti andava a sinistra. Rimproveravano alla sinistra rivoluzionaria del
partito di non comprendere la dinamica, di voler stare da parte, di fare il
processo alle intenzioni del segretario. Si sentenziava: non sapete connettervi
con quelli che sono i sentimenti della base. Ma quando Bertinotti fece la prima
svolta verso Prodi, il gruppo dirigente di Bandiera Rossa si trovò totalmente
spiazzato.
Inizialmente
appoggiò la svolta sostenendo l’accordo politico elettorale con Prodi,
votando a favore in sede di Direzione Nazionale nei confronti del governo.
Passato qualche mese e di fronte al fatto che Rifondazione si apprestava a
votare la finanziaria più gigantesca degli ultimi vent’anni, fecero un passo
indietro, ma anche in questo caso con cautela. Alla vigilia del III Congresso
(1996), il gruppo dirigente di Bandiera Rossa chiese la possibilità di fare
emendamenti al testo di maggioranza e solo per il fatto che Bertinotti impose
una mozione secca furono costretti a malincuore, una seconda volta, a convergere
con la seconda mozione congressuale.
Ma
anche in questo caso durò pochissimo. Quando ci fu la successiva rottura con
Cossutta a seguito della ricollocazione all’opposizione del partito,
nuovamente spuntò l’innamoramento per Bertinotti, questa volta molto più
intenso e appassionato del primo, tant’è che al IV e al V Congresso del
partito Bertinotti ai loro occhi divenne letteralmente un agente, fosse pure
involontario, di una rifondazione comunista rivoluzionaria in Italia (!).
La
sinistra del partito era accusata come in passato di settarismo, di mettersi a
latere, di non essere in sintonia con le dinamiche della base. Ma quando
Bertinotti ha avviato la nuova svolta filoprodiana, c’è stato un nuovo
spiazzamento del gruppo dirigente di Erre, questa volta più intenso del
precedente, poiché ha messo in discussione tutta la teorizzazione del
bertinottismo e la tanto decantata “nuova rifondazione”. All’inizio della
nuova svolta Erre ha manifestato massima cautela, votando tutte le risoluzioni
in Direzione Nazionale e nel Comitato Politico che di fatto aprivano alla
prospettiva di governo.
E
quando il 6 marzo del 2003 Bertinotti impose le commissioni programmatiche con
Treu e Mastella, Erre vota a favore e si oppone pubblicamente alla richiesta di
Progetto Comunista del congresso straordinario del partito, rimanendo
successivamente nel limbo di una contraddittoria astensione. Oggi, registrando
per il VI Congresso l’indisponibilità di Bertinotti alla presentazione di
tesi alternative, Erre inizia una differenziazione con alcuni testi nei gruppi
dirigenti e nelle direzioni, ma tutta giocata, come abbiamo visto, su un piano e
una piattaforma antiliberista. Propone una consulta della sinistra alternativa
che non esclude il confronto programmatico col centro liberale borghese, sia
pure a partire da una valorizzazione dei movimenti.
Si
tratta, in definitiva, di un itinerario subalterno al bertinottismo che
riteniamo non sia il prodotto di un deficit politico, ma l’interiorizzazione
del ruolo di “consiglieri del principe”, il cui esito è stato costantemente
la rimozione del programma dell’indipendenza di classe come questione centrale
e di principio e che tanto più oggi non costituisce una prospettiva di reale
alternativa necessaria per salvare rifondazione comunista come forza autonoma e
di classe.
L’Ernesto:
una rifondazione neotogliattiana
Su
un altro versante e con altri argomenti, anche l’area de l’Ernesto in questi
ultimi mesi ha pubblicamente criticato la proposta congressuale di Fausto
Bertinotti, sollevando questioni prevalentemente di metodo e ancorando il
confronto programmatico col centro sinistra ai cosiddetti “paletti”, in
assenza dei quali quest’area avanza comunque
la possibilità di un sostegno esterno al futuro governo Prodi.
Ma
al di là dei toni e delle polemiche che l’Ernesto ha pubblicamente
indirizzato al segretario del Prc, la prospettiva avanzata è tutta centrata
sulla ricerca del compromesso con le forze di rappresentanza della borghesia
liberale. Non è un caso che la svolta filoprodiana è stata all’inizio
salutata da l’Ernesto con entusiasmo. Anzi, il gruppo dirigente di
quest’area ha rivendicato il ruolo di interlocutore privilegiato della
sinistra Ds, accreditandosi come tassello essenziale di ricucitura
dell’alleanza col centro liberale, limitandosi a sollevare critiche di metodo
sulla gestione del processo. Persino la cronaca spicciola dei fatti dimostra che
tutta la recitazione critica de l’Ernesto, è clamorosamente smentita dalle
posizioni assunte che hanno accompagnato la svolta di Bertinotti.
Con
un articolo su Liberazione del 18 dicembre 2003, il compagno Claudio
Grassi, autorevole rappresentante de l’Ernesto, riferendosi al manifesto di
Prodi affermava: ”Il suo è un appello sincero a riattivare adeguati canali di
partecipazione democratica, un ulteriore aspetto registrato con grande rilievo
è la denuncia della crescita delle disuguaglianze economico-sociali, forse la
migliore parte del documento è quella in cui rivendica il primato del
capitalismo renano contrapposto a quello di marca anglosassone”. L’area de
l’Ernesto non si è limitata a enfatizzare la svolta di Bertinotti, ma
inizialmente ha teso a scavalcare da destra
le aperture del segretario. Solo quando Bertinotti ha rivendicato il
monopolio in proprio di tutta la gestione di questa operazione, senza e contro
il gruppo de l’Ernesto, i dirigenti di questa area hanno virato “a
sinistra” sollevando la pregiudiziale dei “paletti”, segnalando una
posizione apertamente critica a quella del segretario: una posizione che, se nel
merito risulta assente di un chiaro principio di classe, nel metodo fa emergere
tutta la sua inconsistenza e le sue gravi contraddizioni.
Domandiamo:
che senso politico può avere una proposta che rivendica i famigerati
“paletti” come presupposto della alleanza col centrosinistra e al contempo
si dichiara pronta a sostenere dall’esterno il futuro governo, con o senza i
medesimi “paletti”? Tutta l’argomentazione usata dal gruppo de
l’Ernesto, lungi dal costituire per il prossimo VI Congresso un’alternativa
“senza se e senza ma” alla proposta avanzata da Bertinotti, in definitiva
risulta interna ad una trama negoziale con il centrosinistra. I “paletti”
oggi rivendicati dall’area de l’Ernesto, non reggono alle contraddizioni di
una posizione che non esclude, ma rilancia, un compromesso forte con il centro
liberale borghese, testimoniata anche soggettivamente dalle responsabilità
assunte in questa direzione da suoi autorevoli esponenti. Il compagno Claudio
Grassi, componente e responsabile per il Prc in una commissione paritetica per
la costruzione del programma col centrosinistra, è uno dei firmatari della
bozza Amato sulle riforme istituzionali: un documento di riforma che rivendica
esplicitamente di completare e migliorare la riforma già realizzata del titolo
V della Costituzione, il cui contenuto da un lato è un federalismo
pro-devolution, dall’altro punta ad adeguare la forma di governo al cosiddetto
premierato inglese, strumento ben collaudato per stabilizzare i governi
borghesi.
La
posizione oggi apparentemente critica del gruppo dirigente de l’Ernesto, lungi
da mostrare un posizionamento contingente e momentaneo, è viceversa tutta
interna alla sua tradizione togliattiana,
con tutto quello che ha significato questa eredità sulle impostazione
politiche: dalla prospettiva internazionale, articolata tutta in termini
campisti, là dove i rapporti interstatuali sostituiscono nei fatti la centralità
della lotta di classe; a quella politico-programmatica sulla questione del
governo, che esplicitamente in linea con il recupero della via italiana al
socialismo, della via graduale, accetta e promuove le alleanze con la cosiddetta
borghesia democratica o progressista.
Queste
impostazioni di fondo, oltre ad essere uno strumento conoscitivo di
quest’area, hanno caratterizzato tutte le proposte e gli atteggiamenti
consumati dalla stessa nei congressi del nostro partito. Inizialmente il gruppo
dirigente oggi denominato l’Ernesto partecipò al “Movimento per la
Rifondazione Comunista”, anzi in un certo senso ne fu uno degli iniziatori.
Fece la convergenza con Vinci, con una corrente di Dp attorno alla rivista Comunisti
oggi, che ebbe breve corso ma che annunciava un processo di ricomposizione
fra settori di estrema sinistra e settori che si andavano liberando dal versante
del Pci. Quando iniziò però il processo vero e proprio della rifondazione
comunista, attraverso l’incontro tra Garavini e Cossutta, questo piccolo
gruppo fu totalmente accantonato e messo da parte.
Tutta
la sua storia negli anni successi sarà segnata dal tentativo di rientrare
nell’economia delle relazioni dei gruppi dirigenti del partito. Al I Congresso
del Prc quest’area, malgrado non avanzasse nessuna differenziazione con la
maggioranza del partito e vantasse la tradizione espressa dal giornale Comunisti
oggi, venne emarginata, tant’è che non entrò nella segreteria. Al II
Congresso, nel timore di essere messi da parte dall'asse maggioritario
Cossutta-Magri, mimarono una differenziazione a sinistra con la famosa terza
mozione del II Congresso del partito, la mozione Vinci-Sorini-Salvato, ma su una
posizione in realtà intermedia tra quella governista del gruppo dirigente e la
seconda mozione congressuale. Anche in questo caso, ai dirigenti dell’attuale
area de l’Ernesto non fu permessa l’entrata nella Segreteria nazionale,
inserendosi organicamente nella direzione del gruppo dirigente del Prc solo in
virtù delle scissioni ripetute che quest’ultimo conobbe: prima la scissione
della componente PDUP Crucianelli-Magri e successivamente la scissione di
Cossutta. Iniziò a questo punto la totale copertura della linea maggioritaria
del partito da parte del gruppo dirigente de L’Ernesto.
Tutta
la vicenda del primo governo Prodi è stata totalmente coperta da responsabilità
di segreteria: non c'è stata nessuna differenziazione del gruppo de L’Ernesto
sulle finanziarie da 60.000 miliardi, sul Pacchetto Treu e sui campi di
detenzione per gli immigrati. E così quando il partito si è ricollocato
all’opposizione (forzata e non voluta), L’Ernesto si è trovato alla destra
del gruppo dirigente bertinottiano: tutta la sua differenziazione al V Congresso
nei confronti di.Bertinotti è stata finalizzata a ricostruire una base
negoziale verso il centrosinistra. Oggi, alla vigilia del VI Congresso, solo la
perentorietà del segretario del PRC nel richiedere un congresso a mozioni
contrapposte (o con me o contro di me!), congeniale a presentare a Prodi un
mandato omogeneo e non emendato per l’accordo programmatico, potrà spingere
le aree de l’Ernesto e di Erre alla presentazioni di mozioni alternative.
Ma
fuori dalla prospettiva, che avanza la rottura del Prc con Prodi e col centro
liberale borghese, della costruzione di un polo autonomo e di classe e che ponga
l’opposizione dei comunisti come scelta strategica, riemerge, seppur con
motivazioni, proposte e tradizioni differenti, l’antico compromesso di classe.
Un nuovo compromesso che cancellerebbe il Prc quale rappresentanza sociale e
politica delle istanze popolari, costituendo una pesante ipoteca sullo stesso
destino dei movimenti sociali e del movimento operaio che in questi anni hanno
rialzato testa.
Spetta
a tutti i compagni e le compagne di Rifondazione Comunista a non abbandonare
quelle domande di cambiamento. Spetta a Rifondazione Comunista contrastare la
quotidiana violenza del capitalismo e delle sue rappresentanze politiche,
rifiutando così l’entrata in un futuro Governo Prodi, governo
dell’imperialismo italiano
1.11.2004