Marxismo rivoluzionario n. 5 – filo rosso / il Pci di Togliatti nell'immediato dopoguerra
"PARTITO NUOVO" E "DEMOCRAZIA PROGRESSIVA": DUE STRUMENTI DEL COMPROMESSO DI CLASSE
di Fabiana Stefanoni
Non è una prerogativa del movimento operaio ma, forse,
come Marx prima di altri c’insegna, una legge generale dello sviluppo storico:
le scelte strategiche e, in particolare, le cosiddette svolte nella linea e nel
programma di una formazione politica sono spesso accompagnate da tentativi di
riverniciare e revisionare l’apparato ideologico di riferimento. È ciò a cui
assistiamo anche nel Prc: la scelta dell’alleanza di governo con Prodi e gli
altri rappresentanti del grande capitale italiano si è fin da subito tradotta
nell’urgenza di ridefinire la visione del mondo del partito. La rivendicazione
della nonviolenza sempre e comunque, la rilettura della religione e l’apertura
nei confronti del movimento cattolico (da Capitini a Wojtyla), la teorizzazione
della spirale guerra-terrorismo quale nuovo paradigma in cui inquadrare i
presunti stravolgimenti cosmici del XXI secolo: al di là delle affermazioni di
principio, la nuova veste che il partito si è data trova spiegazione nella
volontà di rendersi più appetibile per il padronato italiano in vista della
partecipazione, con tanto di ministri, a un nuovo governo di centrosinistra.
Con tutti i limiti caricaturali che Marx assegna ai fatti
che riproducono in farsa gli eventi del passato, ciò che avviene oggi nel Prc
richiama a grandi linee le stesse dinamiche che hanno caratterizzato alcune fasi
della storia del Pci, dopo l’abbandono della prospettiva rivoluzionaria. Per
questo può essere utile, anche per individuare costanti e analogie,
ripercorrere quegli anni dell’immediato dopoguerra in Italia che hanno visto
nascere la proposta, da parte di Togliatti, del “partito nuovo”, con i
connessi tentativi di ridefinire la politica culturale in funzione del
compromesso di classe. Del resto, un filo conduttore lega la politica della
maggioranza dirigente del Prc al togliattismo, ovverosia quella mancanza della
discriminante di classe che si traduce inevitabilmente nella teorizzazione della
legittimità della collaborazione di governo con la borghesia. Non stupisce
quindi che, nonostante le velleità “nuoviste” e le strizzate d’occhio
alle bizzarre e “postmoderne” teorie negriane, la maggioranza dirigente del
nostro partito non abbia mancato di celebrare su Liberazione il quarantesimo anniversario della morte di Togliatti (cfr.
l’articolo di Raul Mordenti del 21/08/2004).
“Svolta” di Salerno e contesto internazionale
Evento paradigmatico della storia del Pci nell’immediato
dopoguerra è la cosiddetta svolta di Salerno. Siamo nel marzo del 1944:
Togliatti torna in Italia e propone la costituzione di un governo presieduto da
Badoglio con la collaborazione di tutti i partiti antifascisti, compreso il
Partito comunista. È una scelta che vuole allontanare il Pci –e i suoi
militanti e partigiani- da qualsiasi ipotesi di insurrezione o presa del potere
da parte dei lavoratori nel corso della resistenza antifascista. La prospettiva
che si delinea è quella dell’inserimento a pieno titolo del Pci nella
dialettica delle forze politiche del capitalismo italiano postfascista:
significherà la partecipazione dei comunisti a governi di unità nazionale, in
blocco con la borghesia italiana. Togliatti è esplicito: “La classe operaia
abbandona la posizione unicamente di opposizione e di critica che tenne in
passato, intende oggi assumere essa stessa, accanto alle altre forze
conseguentemente democratiche, una funzione dirigente nella lotta per la
liberazione del paese e per la costruzione di un regime democratico”[i].
Si rompe con la linea strategica del Congresso di Lione e, più in generale, si
abbandona il fine del potere operaio: Togliatti dirà espressamente che il Pci
non si pone l’obiettivo di fare come in Russia.
In realtà, l’immagine della “svolta” è una
finzione storiografica. Le scelte del 1944 affondano le radici nella strategia
dei fronti popolari, ufficializzata al VII Congresso dell’Internazionale
Comunista, che si tiene a Mosca dal 25 giugno al 20 agosto 1935. Tra il 1933 e
il 1934 si assiste a un mutamento, nelle analisi politiche dell’IC, rispetto
alle precedenti posizioni assunte nei confronti del fascismo: abbandonata la
teoria del “socialfascismo”, si afferma la necessità della costituzione di
larghe alleanze (di governo) antifasciste. Trotsky coglie la gravità della
nuova strada intrapresa fin dagli inizi: “dopo il terzo periodo di avventure e
di vanterie, è giunto il quarto periodo, quello del panico e delle
capitolazioni (…). Secondo le leggi della psicologia politica, lo spirito di
avventura e la storditezza si sono trasformati in prostrazione e in
capitolazione (…): battere in ritirata a tempo opportuno, allontanare le
truppe rivoluzionarie dalla linea di fuoco e tendere al fascismo una trappola
che consisterebbe… nel potere governativo. Se questa teoria venisse
definitivamente adottata nel Partito comunista tedesco (…) bisognerebbe
vedervi da parte dell’Internazionale comunista un tradimento di una gravità
storica non inferiore a quello commesso dalla socialdemocrazia tedesca il 4
agosto 1914”[ii].
Quello che Trotsky teme prendendo in esame la situazione tedesca troverà
compiuta realizzazione nella politica dei fronti popolari, ovvero nella
teorizzazione dell’unità tra le classi contro il nemico fascista.
Il ruolo di Togliatti in questo processo non è per nulla
di secondo piano: da ligio esecutore –e organizzatore- delle direttive
dell’Internazionale staliniana, fin dagli inizi si adegua pienamente alla
nuova politica. Nel 1934 il progetto della partecipazione del Pci (allora ancora
Pcd’I) ad un governo di fronte popolare in Italia, nella fase successiva alla
caduta del regime, è già chiaro e ben delineato nella testa del compagno
Ercoli. Non a caso, sin dagli inizi degli anni trenta, comincia da parte di
Togliatti –in perfetta armonia con tutto il quadro dirigente dell’IC- una
revisione dell’interpretazione del fascismo, non più letto come espressione
del grande capitale nel suo complesso, ma piuttosto “degli elementi più
reazionari e sciovinisti della borghesia”. Inoltre, si comincia a parlare di
“profonda trasformazioni delle classi medie” -che tenderebbero a dislocarsi
su posizioni anticapitaliste- e si invitano gli operai più coscienti a
sviluppare un’azione legale all’interno dei sindacati fascisti (Togliatti
arriverà addirittura a individuare elementi “progressivi” nella stessa
organizzazione fascista delle masse: basti ricordare l’analisi togliattiana
del dopolavoro fascista quale “incremento oggettivo della socializzazione
delle masse”).
Già qui prende corpo la successiva rivendicazione della
strategia della “democrazia progressiva”: nel ’44 non c’è nessuna
svolta, piuttosto la prosecuzione di un percorso avviato agli inizi degli anni
trenta in accordo totale con l’Internazionale staliniana. Nel dicembre del
1945, in un rapporto al V Congresso del Pci, Togliatti chiederà ai militanti
del suo partito di dichiararsi repubblicani “per raccogliere e continuare
l’eredità della più nobile corrente del Risorgimento”; chiederà loro di
accantonare la pregiudiziale antimonarchica per trattare con i Savoia la
formazione di un governo di unità nazionale; chiederà alla classe operaia di
diventare “classe nazionale” e partecipare alla ricostruzione “accanto
alle masse cattoliche e contadine” (leggi in alleanza di governo con la Dc).
La parola d’ordine della “democrazia progressiva” ricorda un po’ la
bertinottiana “sinistra di alternativa”: un eufemismo per parlare della
collaborazione di classe, che nell’immediato dopoguerra si configura come
blocco di governo tra Pci, Psi e Dc.
La politica culturale e il “partito nuovo”
In questo quadro s’inserisce il tentativo, da parte di
Togliatti, di dare un volto nuovo al partito per prepararlo, una volta conclusa
l’esperienza resistenziale, ad un blocco di governo con quelle fette
consistenti della borghesia e della classe agraria rappresentate dalla Dc. Già
nel ’44, lancia la parola d’ordine del partito
nuovo, ovvero della trasformazione del Pci in “partito nazionale
italiano” che si ponga in continuità con tutte le “tradizioni progressive
della nazione”. La portata di questa svolta ideologica –le cui ragioni
materiali ho cercato di evidenziare- si esplicita chiaramente negli indirizzi
della politica culturale del Pci in quegli anni. Come ammesso anche dalla
storiografia di marca togliattiana, la nuova apertura nei confronti della Dc non
può che tradursi in un “più ampio rispetto della libertà di religione e
delle sue manifestazioni, rifuggendo da ogni propaganda anticlericale o
ateistica”[iii].
Soprattutto, come ho già ricordato, è posta in primo piano la funzione
nazionale della classe operaia:
l’indirizzo politico della “democrazia progressiva” presuppone che
l’agire comunista sia ridotto a mera estrinsecazione della tradizione
democratico-borghese italiana. Per questo, sulla rivista “Rinascita” –che
comincia le sue pubblicazioni nel giugno del 1944 e che è l’emanazione
ufficiale della direzione del partito- l’affermazione della continuità del
filone Marx-Engels-Lenin-Stalin si muove parallela all’accentuazione della
cosiddetta “questione nazionale”[iv].
L’intento di Togliatti è far convergere nell’esperienza del Pci tutte le
tradizioni nel calderone a suo avviso “progressivo” della nazione italiana:
da Garibaldi a Pisacane, da Gramsci a Gobetti, da Labriola a… Croce.
Nell’abbandonare nella pratica gli assi fondamentali del marxismo
rivoluzionario, si cerca nella teoria di avallare le politiche di collaborazione
di classe con i cattolici della Dc: non a caso, uno degli aspetti peculiari del
“partito nuovo” è proprio l’attenzione e la rivalutazione della cultura
cattolica.
Nel tentativo di privare la classe operaia della sua
funzione rivoluzionaria e di inchiodarla all’ingrato ruolo di una delle
componenti della ricostruzione nazionale (a fianco dei padroni che fino a poco
prima avevano sostenuto il fascismo), si insiste sulla centralità di una
ricerca culturale che sia prioritariamente volta allo studio delle correnti
democratiche del Risorgimento[v].
Si arriva a valorizzare anche la componente turatiana del primo riformismo
italiano e perfino, qualche anno dopo, il giolittismo!
Il Pci e gli intellettuali nell’immediato dopoguerra:
il caso della rivista “Società”
Le medesime ragioni materiali –ovvero il tentativo di
riverniciare l’immagine del partito per renderlo più consono ad un’alleanza
di governo con la Dc- stanno alla base delle dinamiche che riguardano i rapporti
tra il Pci e alcuni esponenti del mondo intellettuale. Tali rapporti sono
espressamente tematizzati nel corso del V Congresso comunista, che si tiene a
Roma dal 29 dicembre 1945 al 6 gennaio 1946. Togliatti e Longo esprimono la
direttiva cui già si sono ispirati nella pratica: l’ammissione di nuovi
aderenti al Pci dovrà avvenire indipendentemente dalle loro posizioni
ideologiche, culturali e filosofiche[vi].
A dispetto dell’immediata apparenza, non si tratta di una presa di posizione
che implica il riconoscimento dell’autonomia dell’attività intellettuale[vii]:
al contrario in gioco è proprio il problema dell’utilizzazione e
dell’inquadramento degli intellettuali iscritti o simpatizzanti in funzione
della collaborazione di classe. Sebbene dal 1944 al 1945 le direttive in campo
culturale non prendano forma organizzata (per l’assenza di una Commissione
Culturale, che verrà istituita solo a partire dal VI Congresso), ciò non
significa che esse non siano ben chiare e delineate. Proprio “Rinascita” è
il centro di tutta l’attività rivolta agli intellettuali: da essa –e quindi
da Togliatti- vengono gli orientamenti.
Un esempio -l’articolarsi dei rapporti tra i vertici del
Pci e un’altra rivista che nasce nell’estate del ’45, “Società”-
aiuta a comprendere come il clima di apertura nei confronti della partecipazione
di intellettuali all’attività del partito sia solo l’altra faccia del
tentativo di creare attorno al Pci un clima di consenso da parte della
Democrazia Cristiana e della sua base di riferimento[viii].
“Società”, che è frutto del lavoro di un gruppo di intellettuali
fiorentini (tra cui Cesare Luporini), a differenza di “Rinascita” non è una
rivista strettamente organica al Pci: non solo i suoi interessi spesso
trascendono l’ambito politico ma, soprattutto, è l’espressione del lavoro
di studiosi di provenienza prevalentemente idealistica, formatisi in ambito
accademico e non nel partito. Probabilmente per questo, l’atteggiamento
iniziale di coloro che collaborano con la rivista fiorentina appare, se non
sordo, quantomeno distratto nei confronti della discussione che si anima nel Pci
circa l’inquadramento degli intellettuali, la linea culturale
nazional-popolare, il rapporto con la tradizione. Se Togliatti strizza
l’occhio alla Dc ponendo l’accento sulla tradizione culturale nazionale, in
“Società” si presta attenzione alla cultura europea e l’atteggiamento nei
confronti della tradizione filosofica italiana è di netto e talvolta violento
rifiuto. Una testimonianza diretta di uno dei protagonisti di quella vicenda,
Luporini, ben indica quale fosse il nocciolo della divergenza: “Togliatti non
apprezzava il nostro proposito di fare i conti con certi nodi della cultura
nazionale, di valutare alcuni aspetti rilevanti della moderna cultura europea
(da esistenzialismo a neopositivismo) e di aprirci verso la cultura classica
russa, (…) insisteva perché trattassimo temi italiani”[ix].
Emblematica è la diatriba che nasce intorno al nodo del
fascismo, argomento ovviamente all’ordine del giorno nell’“Italia
liberata”. “Società” tende a mettere in luce –seppur con tutti i limiti
derivanti da un’impostazione sostanzialmente accademica- la dimensione
internazionale, strutturale, propriamente borghese del fascismo: ciò non può
che apparire, agli occhi di Togliatti, un “offuscamento del carattere
nazionale dei vari fascismi”, una “interpretazione che tende a dissolvere
differenze politiche, nazionali, e con esse (…) il problema specifico di una
tradizione nazionale”. Ciò che più urta Togliatti è la presenza, tra le
file degli intellettuali del partito, di una concezione che tenda a vedere nel
fascismo uno strumento del capitale finanziario nel suo insieme: ciò
significherebbe riconoscere la necessità di una rivoluzione internazionale
quale unica risposta di classe alla reazione fascista. L’intento di Togliatti
è diverso: occorre prospettare un’alleanza proprio col grande capitale
nell’ottica dell’“interesse nazionale”… e in contrapposizione agli
intessi della classe operaia.
Il carattere pretestuoso e strumentale dell’apparente
apertura alla cultura e agli intellettuali del “partito nuovo” togliattiano
emerge chiaramente dal fatto che, proprio mentre afferma di voler accogliere le
più varie correnti culturali al suo interno, la Direzione del Partito avanza
pretese nei confronti di una rivista che, per ammissione degli stessi redattori,
intende occuparsi prevalentemente di filosofia e letteratura. Si verificano
tensioni, che sfociano nella convocazione a Roma da parte di Togliatti di tutta
la redazione. Il casus belli è la
pubblicazione nel 1946 di un documento –relativo al dibattito interno al
partito comunista americano- nel quale si affrontano tematiche di cui Togliatti
preferirebbe non parlare: i processi staliniani, gli attacchi a Trotsky, il
patto Ribbentrop-Molotov, il culto della personalità. Benché il rapporto
–preparato da Bilenchi, che non si può certo sospettare di simpatie
trotskiste- si apra con una condanna e un richiamo all’ortodossia di Duclos,
Togliatti ne approfitta per affrontare con i redattori alcune questioni
riguardanti l’impostazione generale della rivista.
Questa vicenda è stata spesso mal interpretata,
soprattutto da storici di parte socialista, che vi hanno visto la manifestazione
di un presunto dissenso rispetto alla linea del Pci. In realtà, almeno nelle
intenzioni non c’è alcuna volontà di mettere in discussione la linea
politica del partito, di dar vita a una presunta frazione dissidente: eventuali
dissonanze nascono, come ho detto, dalla tendenza, di stampo accademico e
intellettualistico, a sottovalutare le indicazioni della Direzione del Partito
circa le principali urgenze e priorità in ambito culturale. Fatto sta che
“Società” non è una rivista di meri simpatizzanti, bensì è diretta da
iscritti al Pci, da figure comunque considerate rappresentative del Partito. Ne
deriva il disappunto della Direzione, che si trova di fronte una linea culturale
diversa da quella auspicata da Togliatti: i redattori verranno richiamati e
invitati a evitare “troppi diversivi”.
Non molto tempo dopo la supervisione della rivista verrà
affidata a un apposito comitato.
Se l’apparente apertura nei confronti della cultura non
è che un mezzo per raggiungere un fine politico -il blocco di governo con
socialisti e cattolici, nel quadro del progetto staliniano di accordo di lungo
periodo con l’imperialismo americano- scontato è l’irrigidimento nei
confronti di tutto ciò che turba tale progetto. Al di là del metodo, ciò che
più colpisce è la portata della svolta ideologica in relazione all’urgenza
materiale del compromesso di classe: è la medesima dinamica cui assistiamo oggi
(sebbene in termini più gretti…) nel Prc. Se Togliatti arriva ad affiancare
Labriola e Gramsci a Gobetti e Dorso nel quadro di un ben poco marxista
armistizio nei confronti del crocianesimo, oggi Bertinotti fa sedere Marx
accanto a Gandhi e al Dalai Lama. Pur nella diversità di spessore teorico, il
fine è lo stesso: garantire ai comunisti uno spazio nei governi borghesi a
venire[x].
[i]
Avanti verso la democrazia!: è un
discorso pronunciato da Togliatti il 24 settembre del 1944 alla Conferenza
della Federazione comunista romana (cfr. Rinascita,
a. I, n. 3, agosto-settembre 1944).
[ii]
L. Trotsky, Scritti 1929-1936,
Verona 1970, pp. 312-314.
[iii]
P. Spriano, Storia del Partito
comunista italiano, Torino 1975, p.393.
[iv]
Occorre precisare che, nonostante l’estraneità del pensiero di Gramsci
rispetto alle politiche di compromesso di classe portate avanti da Togliatti,
quest’ultimo riuscirà a consolidare il suddetto approccio culturale anche
grazie alla possibilità di attingere nei testi gramsciani non pochi
riferimenti in questo senso. Il richiamo a Gramsci è essenzialmente volto a
inserirlo nella valorizzazione della tradizione marxista italiana,
che comincia con Antonio Labriola. Se è giusto insistere, dopo decenni di
propaganda togliattiana, sulle divergenze tra Gramsci e Togliatti –che si
possono condensare banalmente nella constatazione che, pur con limiti
centristi, il primo era un rivoluzionario e il secondo no-, occorre a mio
avviso ammettere che Gramsci nei Quaderni
non manca di fornire a Togliatti numerosi elementi a sostegno del tentativo
di focalizzare l’attenzione sul movimento democratico e popolare italiano.
[v]
Anche su tale tematica il Gramsci dei Quaderni
–per quanto distorto e strumentalizzato- offre oggettivamente qualche
contributo.
[vi]
Cfr. Rapporto al V congresso del Pci,
in P. Togliatti, Opere scelte (a
cura di G. Santomassimo), Roma 1974, p. 452.
[vii]
Proprio questa è invece la posizione di Trotsky, che, per nulla estraneo al
dibattito sulla cultura e sull’arte, si schiera sempre a favore della
difesa dell’indipendenza dell’attività di artisti e intellettuali, in
aperta polemica con le brutture del “realismo socialista” di marca
staliniana (che troverà compiuta teorizzazione negli scritti di Zdanov):
“E’ più che mai opportuno valersi di questa dichiarazione contro coloro
che pretendono di assoggettare l’attività intellettuale a fini estranei
all’attività stessa e, in spregio a tutte le determinazioni storiche che
le sono proprie, a controllare, in funzione di pretese ragioni di stato, i
temi dell’arte. (…) a coloro che si spingessero, oggi o domani, ad
acconsentire che l’arte sia sottoposta ad una disciplina che consideriamo
radicalmente incompatibile con i suoi mezzi, opponiamo un rifiuto senza
appello e la nostra volontà deliberata di far valere la formula: nessuna
licenza in arte” (A. Breton, L. Trotsky, Per
un’arte rivoluzionaria indipendente; si vedano anche gli scritti di
Trotsky contenuti in Letteratura e rivoluzione).
[viii] Ricordo brevemente che la poco nota vicenda dei rapporti tra “Società” e Pci richiama la invece celeberrima “questione ΄Politecnico΄”, che si apre nell’aprile del ’46 e che vede come protagonisti Vittorini, Togliatti, Alicata, Onofri, Platone: si tratta di una discussione –che prosegue alternativamente su “Rinascita” e “Il Politecnico”- centrata sul nodo dei rapporti tra politica e cultura. La diatriba, che si concluderà con l’abbandono del Pci da parte di Vittorini nel 1951, si apre con il noto editoriale di Vittorini Una nuova cultura:: già dal titolo emerge la volontà da parte di Vittorini di ricollegarsi al pensiero sartiano, poiché nel fascicolo 16 del “Politecnico” esce in traduzione parziale uno scritto di Sartre –la Présentation che apre la pubblicazione della rivista francese “Les Temps Modernes”- intitolato appunto Una nuova cultura come cultura sintetica. Al di là dei richiami filosofici, la diatriba tra Togliatti e Vittorini –il quale non si discosta di fatto dai parametri del realismo nell’ambito della critica letteraria- riguarda essenzialmente la possibilità di un discorso culturale indipendente dall’apparato del partito. Ciò che importa evidenziare è che, anche in questo caso, già nel 1946 –nonostante l’apparente clima di apertura nei confronti degli intellettuali- prendono vita tentativi di controllo degli intellettuali da parte del Partito.
[ix]
N. Ajello, Intellettuali e Pci
1944-1958, Roma-Bari 1979, p.69.
[x]
Ricordo brevemente che quello del “partito nuovo” è un indirizzo
strategico che Togliatti sarà costretto a rivedere
nel 1947 di fronte alla manifesta chiusura da parte di De Gasperi
–non casualmente di ritorno dal viaggio negli Stati Uniti- all’alleanza
di governo con il Pci. Il quadro nel 1947 è mutato e si cominciano a
delineare i primi segni dell’esplodere della guerra fredda: Togliatti si
affretta a lanciare nuove parole d’ordine funzionali alla necessaria
collocazione all’opposizione nel parlamento italiano. Tutto ciò avrà dei
riflessi anche sul piano della politica culturale. Come ho già detto, nel
1947 verrà istituita un’apposita Commissione culturale, diretta da Emilio
Sereni. Dopo il VI Congresso del Pci, vengono date precise direttive in
campo culturale e si prende esplicita posizione a sostegno di un “nuovo”
realismo con venature populista sul modello zdanoviano (uno degli strumenti
di questa politica sarà il “Fronte Nuovo delle Arti”, sul modello
dell’AEAR, l’Associazione degli scrittori e artisti rivoluzionari –in
realtà stalinisti- di Francia). Anche “Società” nel 1948 subirà un
cambio redazionale che la porrà sotto il controllo diretto della
Commissione cultura del Pci: la rivista, per voce del togliattiano Giuseppe
Berti, si farà sostenitrice della “partiticità” della cultura (ovvero
della cultura staliniana del Pci). L’assimilizazione dello zdanovismo va
comunque sempre a braccetto con le tematiche nazionali italiane, per
garantire uno spazio di dialogo con la Dc.