Marxismo rivoluzionario n. 5 – saggio / il travagliato processo della nascita del comunismo italiano
GRAMSCI, BORDIGA, SERRATI: TRE LINEE A CONFRONTO
di Ruggero Mantovani
Come spesso accade per il gruppo
dirigente maggioritario del Prc, le ricorrenze sono l’occasione per celebrare
rotture con la tradizione novecentesca del movimento operaio e comunista,
arrivando persino a rimuovere Gramsci e la strategia rivoluzionaria del Partito
comunista come avanguardia del proletariato (Per dirla con Lenin “il movimento
cosciente che dirige il movimento non cosciente”[1]),
che ha posto fin dal suo nascere l’obbiettivo di condurre le masse oppresse
alla trasformazione socialista dello stato borghese e dell’intera società.
Gramsci,
secondo gli strafalcioni teorici e politici della maggioranza del Prc, diventa
semplicemente un intellettuale sardo, che, trasferitosi a Torino, nel tempo
libero faceva, oltre al giornalista dell’Ordine Nuovo, anche il
comunista; e di conseguenza, non c’è più traccia del vero Gramsci, cioè il
marxista conseguente, il dirigente comunista, il tribuno del popolo, che ha dato
un contributo significativo al tentativo di unificazione del proletariato sotto
la bandiera del bolscevismo, della dittatura proletaria e del potere dei Soviet.
La
storiografia di sinistra, da sempre, riporta la vicenda del Partito Comunista
d’Italia (PCd’I) e delle lotte di tendenza, in modo del tutto frammentario,
disorganico, schematico, rispetto alla vicenda del movimento operaio italiano e
internazionale, suggerendo semmai un’interpretazione piuttosto approssimativa
0e superficiale degli avvenimenti, e della tenace lotta di idee, che ha visto
protagonisti diretti Gramsci, Bordiga, Togliatti, Serrati, ecc. dentro e fuori
il Pcd’I e il Psi, in rapporto alle vicende che man mano attraversarono la III
Internazionale.
A
questa pratica non è stato immune sia il Pci del dopoguerra (per ovvie ragioni
di interesse opportunista), sia il Prc, che a oltre settant’anni di distanza
liquida sbrigativamente quell’esperienza.
Quello
che è mancato, e manca tuttora, è un’analisi storica autenticamente
materialista, applicata in questo caso alle vicende dei partiti. Non si può
studiare la storia del partiti come semplice storia delle loro idee; ma quelle
idee devono doverosamente essere studiate in rapporto alla storia della lotta
politica, della lotta di classe, e alla storia in generale.
In
questo senso assume un significato fondamentale la nascita del PCd’I,
tracciata non nell’astratto processo identitario, ma nella sua funzione
materiale esercitata nel movimento operaio italiano e internazionale, nel
rapporto con la società civile e con le principali istituzioni di dominazione
borghese.
Un’analisi
che assume il dato dei fatti come precondizione essenziale per ricostruire la
memoria del movimento comunista, offre a distanza di decenni elementi analitici
fondamentali per un’autentica rifondazione comunista.
1921:
nasceva il Partito Comunista d’Italia
Il
21 gennaio del 1921, mentre si celebrava a Livorno il XVII congresso del Partito
Socialista Italiano presso il teatro Goldoni, una minoranza dei delegati
abbandonava l’assise congressuale per
dirigersi al teatro S. Marco.
In
una struttura quasi irreale lacera dal primo conflitto bellico, in penombra
per l’assenza di luci e con la pioggia che entrava dal tetto, nasceva il
PCd’I, sezione italiana della III Internazionale.
Le
motivazioni della formazione del partito comunista erano inscritte in una
pluralità di fattori e il loro svilupparsi, come vedremo, fortemente condizionò
il dibattito dell’Internazionale comunista ([2]),
costituendo il terreno preparatorio per ulteriori svolte del movimento operaio.
L’origine
della scissione deve senz’altro essere ricollocata nella necessità di
staccare e selezionare le avanguardie operaie dalle paludi del riformismo e del
centrismo, per creare anche in Italia il partito del proletariato
rivoluzionario. Ma la nascita del PCd’I era inscritta anche nelle condizione
obiettive maturate nella società italiana: tra il 1919 e il 1920 sono in
particolare Gramsci e la corrente degli “ordinovisti” a comprendere che
l’Italia viveva una situazione “peculiarmente rivoluzionaria”.
L’analisi
gramsciana di quegl’anni è organica, inequivoca e senza oscillazioni,
caratteristiche che misurarono tutta la loro dirompenza nei confronti del
riformismo che ascriveva le precipitazioni capitalistiche alle involuzioni
soggettive della borghesia, con l’intento malcelato di predisporre nuovi
ambiti di collaborazione con individualità più “capaci e democratiche”.
Malgrado
nel Psi fossero maturate divisioni insanabili, così come dimostra il
consolidarsi di correnti rivoluzionarie, il
Pcd’I fu tra gli ultimi a formarsi in Europa.
La
ragione di questo ritardo deve essere sindacata nella storia del Psi e nel suo ben radicato antibellicismo: opponendosi
alle spinte opportunistiche del patriottismo socialdemocratico, sviluppò reali
rotture con il riformismo che costituirono l’embrione di quelle tendenze
rivoluzionarie che furono il presupposto materiale per la scissione operata a
Livorno. Un antibellicismo già fortemente espresso al Congresso di Reggio
Emilia nel 1912, in cui la corrente che aveva sostenuto la guerra in Libia venne
espulsa ([3]). Ancora allo scoppio
della prima guerra mondiale il Psi non si limitava all’opposizione contro il
governo Salandra e la monarchia – che auspicavano di scendere in guerra a
fianco delle grandi potenze dell’Intesa – ma espulse l’allora direttore
dell’Avanti Benito Mussolini per essersi espresso a favore dell’intervento
bellico.
Un
pacifismo sincero quello del socialismo italiano, con radici e motivazioni
antiche: il motto “nè aderire nè sabotare” si trasformava con lo
svilupparsi della corrente massimalista nel rigido “non aderire”, prodromo
di un profondo contrasto con l’ala riformista che venne accusata di
“concedere una tregua alla guerra borghese” ([4]).
L’avversione
nei confronti della I guerra mondiale portava il Psi a svolgere un
ruolo di prim’ordine anche nell’organizzazione delle conferenze
pacifiste di Zimmerward (1915), di Kienthal (1916) e di Stoccolma (1917), in
palese ostilità con la socialdemocrazia Europea che, tradendo il proletariato,
votava i crediti di guerra.
Una
collocazione antibellicistica che se da un lato fece maturare la corrente
massimalista di Serrati, dall’altro produsse un obbiettivo rallentamento della
costruzione del partito rivoluzionario, proprio in un momento in cui si
mostravano profondi i processi di disarticolazione che pervadevano la
socialdemocrazia europea ([5]).
Malgrado
il Psi esprimesse un sincero pacifismo, che rompeva le maglie del compromesso
riformista, sancendo già al XVI congresso a Bologna l’adesione all’IC, non
produsse, però, una reale trasformazione attestandosi in un confuso
massimalismo.
L’inconcludenza
del massimalismo italiano rispetto alla dinamica del biennio rosso, il rifiuto
di aderire alle 21 condizioni disposte dall’I.C. per dare maggiore compiutezza
teorica e pratica ai partiti e tendenze che fino a quel momento si riconoscevano
nello stato dei soviet, aprirono inevitabilmente la strada alla scissione, che
nel gennaio del 1921 portò via dal PSI 60.000 iscritti su 216.000 per dare vita
PCd’I.
Un processo convulso e spesso
contraddittorio quello sul finire degli anni dieci, che però vide svilupparsi
nel 1918 in Germania e nell’Impero austro-ungarico reali processi
rivoluzionari, al punto da indurre Lenin a sospendere i trattati di
Brest-Litovsk con la Germania, ritenendo iniziata la rivoluzione in Europa
occidentale ([6]).
La
rivoluzione in Europa falliva perché uccisa dalla repressione borghese e per
l’ennesimo tradimento della socialdemocrazia, ma la storia ben mise in
evidenza un grande assente nelle rivolte del 1918: il partito bolscevico.
In
questo quadro politico e sociale il Pcd’I nel 1921 nasce in ritardo: il
conflitto sociale accusava una radicale inversione di tendenza; il padronato
riorganizzava la propria forza attraverso le squadracce fasciste che divennero
da lì a poco la nuova guardia pretoriana del capitalismo italiano.
Non
solo: il partito comunista nasce col vizio infantile
dell’estremismo, non comprendendo che la parabola discendente del
conflitto di massa avrebbe dovuto incontrare un mutamento della tattica, come
l’IC indicava al III e IV congresso.
Il
primo gruppo dirigente guidato da Amadeo Bordiga già nei primi momenti della
formazione del partito, manifestava una decisa ostilità verso le elaborazioni
sviluppate dall’IC.
Il
II congresso del Pcd’I tenutosi a Roma nel Marzo 1922 ribadiva l’opposizione
di fondo sia alla concezione del “fronte unico” che del “governo
operaio”, ritenendole cedimenti al riformismo.
In
sintesi: malgrado la nascita del partito comunista fosse stata una necessità
storica per isolare l’opportunismo riformista di Turati, completamente
omologato al sistema capitalista e al cretinismo parlamentare, per dare una
direzione rivoluzionaria al movimento operaio, l’infantilismo originario non
riusciva nei primi anni venti a capitalizzare un fertile quadro sociale.
La
genesi del Pcd’I: il Psi di
Serrati e il dibattito nell’IC
La
I guerra mondiale, che aveva fatto precipitare la società italiana in una
profonda crisi sociale – disperazione per i lutti, povertà, condizioni di
lavoro massacranti a causa dell’aumento della produzione bellica – fece da
detonatore all’avvio di importanti mobilitazione popolari che, in particolare
nelle città più industrializzate del paese incontrarono una classe operaia che
dimostrava di essere molto sensibile agli echi della rivoluzione bolscevica ([7]).
La vitalità del nuovo quadro sociale incise inevitabilmente sulle
contraddizioni e l’inadeguatezza del gruppo dirigente riformista del Psi,
facendo sempre più maturare la necessità della rivoluzione: “così come era
accaduto in Russia”.
Pochi
giorni dopo la vittoria dei bolscevichi, presso l’abitazione dell’avvocato
socialista Mario Trozzi a Firenze, si riunirono clandestinamente una ventina di
delegati dalle più importanti federazioni del PSI, esponenti della corrente
“intransigente – rivoluzionaria”, detta anche massimalista, che richiamava
l’etimologia politica del bolscevismo.
A
quella riunione erano presenti, tra gli altri, anche i giovani Amadeo Bordiga ed
Antonio Gramsci, che insieme al direttore dell’Avanti Giacinto Menotti
Serrati caratterizzeranno una fase cruciale della storia del PSI fino alla
scissione dei comunisti avvenuta nel 1921.
Questa
riunione diede i natali al massimalismo italiano che al XV congresso socialista
tenutosi a Roma nel settembre del 1918 trionfava con il 70% dei suffragi,
ponendo la necessità storica di una scissione con l’ala riformista di Turati.
La
corrente dei massimalisti aveva un consistente collegamento con la sinistra
europea di Rosa Luxemburg e Karl Liebknecht, con le minoranze sindacaliste e
rivoluzionarie operanti in Francia, con alcuni esponenti del movimento laburista
inglese, stabilendo inoltre contatti con personalità come Trotskij e Radek. Una
coalizione che tendeva a formare, intorno al movimento bolscevico e a Lenin,
nuove forze in radicale contrapposizione all’esperienza socialdemocratica ([8]).
In seno al massimalismo italiano si svilupparono altre correnti.
Quella
degli astensionisti, guidata da Bordiga che si era mossa su un terreno
scissionistico fin dal suo nascere, ben radicata a Napoli tra gli operai, i
ferrovieri, i postelegrafonici, fornita di una testata nazionale, Il Soviet
che gli garantiva una visibilità consistente nel movimento operaio italiano.
Meno
strutturata era la corrente che si era formata con la rivista L’Ordine
Nuovo ad opera di Gramsci, Tasca,
Togliatti, e Terracini.
Questa
corrente si contraddistinse per la profonda battaglia teorica contro
l’economicismo e il determinismo, dando inizio ad un reale distacco dalle
posizioni politiche dall’intransigentismo serratiano, producendo una corrosiva
critica che, sopratutto per opera di Gramsci, formulava la costruzione dei
“consigli di fabbrica” quale base di una nuova concezione
dell’organizzazione e della lotta rivoluzionaria ([9]).
In questo periodo Serrati tentava di riconnettere le peculiarità del socialismo
italiano nelle più ampie dimensioni del movimento rivoluzionario
internazionale: un tentativo “unitario” che ha caratterizzato gran parte dei
suoi errori impedendo lo sviluppo di un partito bolscevico in Italia.([10]).
L’approccio
di Serrati, come vedremo, si dimostrava tutto interno alla tradizione della II
internazionale. L’idea della rivoluzione quale processo i cui cardini
essenziali erano la lotta di classe attraverso le strutture tradizionali del
movimento operaio, non rispondeva più all’esigenze dell’epoca nuova, alla
straordinaria esperienza consiliare del biennio rosso che rendeva pressoché
improponibile il tentativo di investire la socialdemocrazia italiana nella
prospettiva rivoluzionaria della III internazionale.
Con
l’adesione all’IC del Psi al congresso di Bologna si espresse più
concretamente l’influenza del bolscevismo sul movimento operaio italiano.
In
realtà tutte le aperture e i tentativi dei massimalisti, e in particolar modo
di Serrati, di dislocare la storia del movimento socialista nel quadro
internazionale rivoluzionario, non mutava grandemente la tradizione riformista
del Psi.
Ancora
una volta si mostravano tutti i limiti del massimalismo: l’incapacità ad
analizzare i rapporti di classe, le forme e gli strumenti della lotta
rivoluzionaria, anzitutto dei consigli di fabbrica, che incontravano la cecità
intransigente del massimalismo e persino della frazione bordighista ([11]).
Per
Gramsci e più in genere per gli ordinovisti, i consigli rappresentavano il
nuovo strumento per superare i limiti corporativi delle organizzazioni
tradizionali: essi divenivano la sede materiale della unità politica ed
economica della classe operaia e soprattutto rendevano possibile
l’inquadramento di masse disorganizzate.
Il
dibattito nel Psi, a partite dai consigli, andava di pari passo con il dibattito
nell’IC: è Lenin a definire i consigli operai “organismi del processo
rivoluzionario” e “governo rivoluzionario in embrione”.
Lenin
affermava che “il corso generale della rivoluzione proletaria era identico in
tutto il mondo” ([12]),
prendendo spunto dal successo degli organismi di autogoverno operaio, non solo
nell’arretrata Russia, ma anche nel cuore del capitalismo mondiale in Germania
e Inghilterra.
In
definitiva il rifiuto dei consigli da parte del massimalismo e del bordighismo,
produceva la negazione più profonda della politica delle alleanze tra la classe
operaia tradizionalmente organizzata nei sindacati, le masse disorganizzate e
quei settori di piccola borghesia in crisi sospinta su un terreno
anticapitalista.
La
battaglia che Serrati nei confronti dei consigli (che definì “opera di
faciloneria”), altro non era che il tentativo di depotenziare il patrimonio
rivoluzionario internazionale, tentando un’improbabile sostituzione con le
vecchie cooperative e le mutue,
puntando dunque sulla tradizionale unità economicistica del movimento operaio.
Questa
impostazione ha rappresentato il portato storico della socialdemocrazia, che
costruiva il partito quale “coordinatore-educatore” delle coscienze, nella
prospettiva “mitica dello sviluppo delle forze produttive”, rimanendo così
estranea la prassi della rottura rivoluzionaria e dello strappo dal capitalismo.
Anche
lo scontro tra Lenin e Serrati in seno all’IC risentiva delle contraddizioni
del massimalismo italiano: Serrati mosso da uno storico settarismo di partito e
da un corporativismo sindacale, come avversò i consigli per valorizzare
astrattamente le strutture tradizionali del movimento operaio, finiva per
osteggiare – in merito alla questione coloniale – l’appoggio ai movimenti
di liberazione nazionale.
Queste
concezioni sancirono il distacco da Lenin, il quale asseriva: “il suo discorso
è come quelli che noi sentivamo anche nella II internazionale..”.
Preso
atto dell’impossibilità di un rinnovamento della politica rivoluzionaria
basata sui consigli, della mancata espulsione dei riformisti dal partito e
dell’influenza del gruppo di Radek e quello degli ungheresi ([13]),
Gramsci e Terracini, malgrado la differente impostazione sulla politica delle
alleanze, si riavvicinavano a Bordiga per preparare la scissione del 1921.
Le
scissioni in Europa e l’Internazionale Comunista
La
nascita della III internazionale nel marzo 1919, riscosse grande successo poiché
del tutto naturalmente si proclamava, ed era riconosciuta, quale erede del
movimento zimmerwaldiano: segnando definitivamente l’allontanamento dalla
socialdemocrazia e dal revisionismo, avanzava “l’alternativa rivoluzionaria
quale rottura con l’ordine capitalista nel punto di sua massima crisi” ([14])
.
In
Europa, in quegli anni, ancora mancava un reale partito bolscevico e i
raggruppamenti di sinistra non riuscivano a superare politicamente e
organizzativamente la II internazionale.
L’unico
gruppo a porsi realmente la necessità della costruzione del partito
rivoluzionario era quello Spartachista, che, pur potendo vantare una grande
credibilità agli occhi del movimento pacifista, aveva il grande limite di non
essersi collegato alle organizzazioni consiliari per conquistarne l’egemonia
([15]).
Le
gravi mancanze in seno al gruppo Spartachista si ripercossero inevitabilmente
sulla rivoluzione tedesca: Eberlein all’interno del partito comunista tedesco
(Kpd), più volte spiegò che quel fallimento dipendeva dalla mancata formazione
di un partito rivoluzionario e dallo sviluppo di massa delle strutture
consiliari.
La
rivoluzione tedesca riproponeva al movimento operaio internazionale la questione
di fondo: la dialettica leninista direzione-spontaneità, partito-masse.
La
sconfitta dei moti rivoluzionari tedeschi, ungheresi e di Monaco di Baviera,
indusse Lenin, per riattivare il processo rivoluzionario, a costituire una rete
di partiti comunisti aderenti all’Internazionale.
La
posizione di Lenin, in questo periodo, si differenziava sia dalle tendenze
legate a Levi (KPD) – della rivoluzione quale processo di lungo periodo basata
sull’idea dell’immaturità delle masse – e sia dalla tendenza di sinistra
di Radek, che contrapponendosi a Levi sosteneva con Bela Kun il proseguimento
dell’offensiva rivoluzionaria.
Pur
contrastando decisamente le posizioni estremistiche, Lenin al II congresso si
trovava sostanzialmente isolato tra la destra e la sinistra
dell’internazionale: un quadro politico questo che influenzò fortemente la
stessa scissione di Livorno in Italia.
La
scissione nel Psi venne preceduta in Germania ed in Francia da scissioni
maggioritarie: in Germania la fusione ad Halle
tra la Kpd e la maggioranza di sinistra della Uspd, e a Tours in Francia con una
scissione che tra forti polemiche reclutava adesioni anche tra gli ex
interventisti.
Le
due scissioni provocarono nella destra indipendente tedesca e nella minoranza
socialista francese la nascita dell’Internazionale di Vienna, organizzazione
delle tendenze centriste, conosciuta anche come “Internazionale due e
mezzo”.
Le
scissioni di Halle e a Tours, però, erano strettamente connesse allo
spostamento a sinistra della base operaia, che in particolare in Germania, dopo
putsch di Kapp, rendeva evidente il fallimento della funzione mediatrice della
socialdemocrazia, tra la reazione militare della borghesia e la rivoluzione
bolscevica.
Il
valore della fusione intervenuta ad Halle era soprattutto inscritto nel mutato
quadro sociale, che produsse ad opera di Radek e Levi la tattica della
“Lettera aperta ai partiti tedeschi”, che in definitiva venne assunta da
Lenin e meglio sistematizzata al III congresso dell’IC nella concezione del
“fronte unico.”
In
particolare con la concezione della “Lettera aperta”, per Levi bisognava
realizzare scissioni maggioritarie per puntare alla costruzioni di partiti
comunisti di massa, legati ai sindacati tradizionali.
La
posizione di Levi però non si costruiva essenzialmente come proposta tattica,
ma era più in generale l’espressione della formazione di una tendenza di
“destra” in seno all’IC, per molti versi simile a quella espressa da
Serrati.
Il
quadro delle posizioni che si agitavano in seno all’ IC erano così
riassumibili: Lenin e Zinov’ev puntavano in Italia ad una scissione
maggioritaria, mentre il delegato tedesco Levi (della KPD) aveva una posizione
più moderata (di lungo periodo), Kabakeev e Rakosi erano i più ferrei
sostenitori della scissione a Livorno anche se minoritaria ([16]).
Gli anni a venire dimostrarono che tra Levi e Serrati vi era stata un’unitaria
posizione di carattere contingente: mentre Levi acuirà progressivamente il suo
distacco dall’Internazionale, Serrati malgrado gli aspri contrasti avvierà un
difficile riavvicinamento nelle file del Partito Comunista ([17]).
Levi considerava estremamente grave la rottura avvenuta a Livorno giudicando
“un’illusione che in Italia ci fosse un partito comunista”, ma soprattutto
pensava, così come la direzione del Kpd, che senza Serrati gran parte delle
masse socialiste venivano spinte nelle mani dell’Internazionale due e mezzo.
I
rapporti tra il Partito Socialista di Serrati e il KPD di Levi si fecero così
stretti al punto che Gejer della direzione e a nome del Kpd, inoltrò il ricorso
all’Internazionale per le decisioni prese a Livorno.
Da
questa apparente “fusione” tra gli apparati della Kpd e del Psi prese le
distanze Clara Zetkin, che pur confermando le critiche per la scissione, nonché
per i metodi di alcuni dirigenti dell’IC, non risparmiava un giudizio negativo
anche verso lo stesso Serrati ([18]).
La
questione della scissione di Livorno tornava di nuovo all’ordine del giorno
nel Kpd, su sollecitazioni di Rakosi a cui si unirono tutte le tendenze di
sinistra, votando un ordine del giorno contrario a quello precedente formulato
da Levi.
La
votazione del nuovo ordine del giorno vide la vittoria delle tendenze di
sinistra del Kpd, che anzi sostenevano la necessità della formazione di partiti
ristretti e l’attualità dell’attacco frontale con la borghesia (teoria
dell’offensiva).
Questo
produsse al III congresso dell’IC un riposizionamento delle tendenze di
sinistra, attraendo anche a sé il giovane partito italiano e quello ungherese,
oltre a raggruppamenti minori.
Al
polo opposto si collocava la destra di Levi e in una posizione intermedia Clara
Zetkin, mentre Zinov’ev, Bucharin e Radek guardavano fortemente alla
costituenda tendenza di sinistra.
Lenin
e Trotskij assunsero una posizione che la tendenza di sinistra giudicava in modo
critico, come una svolta verso le posizioni di Levi, poiché i due dirigenti
rivoluzionari ritenevano positiva “la lettera aperta”, pur considerando
sbagliata la tattica di Levi nei confronti di Serrati, ma ormai Levi era già
stato espulso dal Kpd e tra l’altro proprio in quel periodo scriveva un
opuscolo contro tutta l’IC.
Lenin,
dal canto suo, era fortemente convinto della bontà della tattica della
“lettera aperta”, così come era radicata in lui la convinzione che solo
“la conquista della maggioranza” della classe operaia avrebbe aperto la
porta alla rivoluzione; e recriminava
“(…) si dovevano espellere dall’IC non più tardi da un mese dopo il III
congresso, tutti coloro che non avevano capito la necessità della
tattica della lettera aperta” ([19]).
In
particolare Lenin rimproverava a Serrati, così come a Levi,
“di non avere espulso i riformisti”, ma al contempo ammoniva i
comunisti italiani che dovevano convincere della necessità della scissione gli
operai serratiani, ammonendoli con parole più dure di quelle indirizzate alla destra:
“non fate i gradassi, non giocate al sinistrismo”.
Queste
critiche incontrarono anche le posizioni di Clara Zetkin, che ripeté più volte
a Levi che erano le masse che contavano e che non bisognava alienarle “con gli
spropositi di sinistra e le timidezze di destra”.
Noi
– continuava la Zetkin – “conquisteremo
le masse se agiremo sempre nelle piccole come nelle grandi questioni da
comunisti conseguenti”.
Le
impostazioni di Lenin, Trotskij e della Zetkin, costituirono la porta aperta del
III congresso dell’IC agli ex indipendenti tedeschi e ai terzini italiani, pur
permanendo un non secondario conflitto tra Lenin e Serrati sulla questione
dell’espulsione dei riformisti di Turati.
I
terzini e la fusione con il Pcd’I
Il
conflitto che era maturato a seguito della richiesta di
espulsione dei riformisti provocava importanti conseguenza all’interno
del Psi: si formava la frazione dei terzini che predispose la successiva
rottura con l’unitarismo di Serrati.
Il
III congresso dell’IC iniziava proprio con la questiona italiana, per un
ricorso contro l’esclusione del PSI portato da Costantino Lazzari, Fabrizio
Maffi ed Ezio Riboldi – denominati i pellegrini – che costituirono la
cellula originaria della frazione terzina.
Il
dibattito all’interno dell’IC sulla questione del PSI registrava posizioni
spesso contrapposte: la Zetkin, ad esempio, ancora una volta levava una voce
critica, denunciando che la questione delle masse proletarie italiane non
potevano essere ridotte al caso Serrati.
Ma
le giuste critiche della Zetkin, per come l’Internazionale affrontava la
questione italiana, tendevano ad una giustificazione complessiva di Serrati,
avallando una sorta di luxemburghiana immaturità delle masse, che non avendo
espresso nel biennio rosso una reale coscienza, non permisero al partito di
dirigere la rivoluzione.
Questa
impostazione veniva fortemente criticata sia dall’IC – in particolare ad
opera di Zinove’v e Radek – ma soprattutto dai comunisti italiani, che nel
difendere la necessità della scissione assumevano quale obiettivo prioritario
lo sgretolamento del Psi ([20]).
Dal
canto loro gli inviati socialisti al III Congresso dell’IC, pur tentando di
rilanciare nuove relazioni, presero
sostanzialmente le difese di Serrati, utilizzando in tal senso la famosa
espressione di Frossard, “nè subordinazione, nè indipendenza assoluta”,
proponendo in ultima analisi una improbabile unità che andava a ricomprendere
anche l’ala riformista di Turati.
Ma
chi diede una svolta decisiva al congresso dell’IC fu sicuramente Lenin, il
quale pur rimarcando di nuovo le critiche alla tattica di Serrati, ancora
prigioniero di un pericoloso unitarismo, dichiarava senza esitazioni che
occorreva giungere al superamento delle rispettive posizioni, per riavviare una
unità di tipo nuovo sul piano della lotta rivoluzionaria.
A
tal proposito Lenin ammoniva – ancora una volta – la necessità della
“rottura definitiva, assoluta con la corrente menscevica italiana, che da
oltre 20 anni era maturata al solo fine di collaborare con il governo
borghese”.
A
Bari il dirigente Di Tullio anticipava la richiesta di eliminare la destra, di
aderire alla III Internazionale e di fondersi con le forze comuniste in Italia.
Serrati
dal canto suo con lo svilupparsi della tendenza terzina tra il 1921 ed il 1922
tendeva a spostarsi sempre più a destra – segnando un ulteriore strappo
dall’IC –, incoraggiando così l’avanzare dell’ala riformista e
spingendo le correnti centriste legate al massimalismo italiano a costituirsi in
settori di estrema sinistra.
Una
geografia politica particolarmente contraddittoria quella del Psi, che faceva il
paio con il riflusso delle lotte operaie, la polemica con i comunisti e
l’isolamento internazionale.
Gli
effetti della debolezza della direzione di Serrati non si fecero attendere:
l’area dei pellegrini in particolare Riboldi (non Lazzari e Maffi che rimasero
oscillanti) proponeva esplicitamente la formazione di una frazione
internazionalista, ponendo le basi per la riunificazione di tutte le forze di
estrema sinistra che erano entrate in rotta di collisione con il massimalismo.
La
storia dimostrerà che in effetti il risultato elettorale dei terzini sarà
ancor più modesto delle previsioni, ma la frazione terzinternazionalista aveva
gettato le basi della successiva fusione con il Pci.
Alla
vigilia del congresso di Milano coesistevano due posizioni all’interno della
tendenza terzina: la più apparentemente moderata faceva capo a Lazzari ed era
senz’altro prevalente; mentre quella filo-bolscevica
faceva capo a Riboldi ed al nucleo dei terzini napoletani. Al di là dei
differenti orientamenti i terzini formarono una vera e propria frazione
internazionalista, che si contrappose duramente alla direzione di Serrati.
Questo
positivo processo di maturazione all’interno del Psi era testimoniato dalla
presenza della Zetkin fin dalla prima riunione della formazione della frazione.
Questa presenza non rappresentò solo il sostegno alla frazione
internazionalista, ma il tentativo di condizionamento su Serrati per produrre
l’espulsione dei riformisti e tentare di ricondurre il grosso della corrente
massimalista nell’alveo dell’IC.
Ma
fu proprio la Zetkin in un rapporto all’esecutivo internazionale a sostenere
che: “ era impossibile trattenere il PSI nell’IC... nessuna tattica prudente
e nessuna fine azione diplomatica avrebbe potuto cambiare qualcosa in questa
direzione per l’unità”
I
terzini dal canto loro pur convinti della necessità di rompere l’unità
imposta da Serrati e riportare il PSI nella III Internazionale, erano al
contempo coscienti di essere una piccola minoranza e di avere a disposizione
poco più di 5.000 militanti che li avrebbero seguiti. Le loro incertezze non
impedirono loro di dare battaglia duramente, giungendo sino al punto di
boicottare l’intervento del rappresentante dell’Internazionale due e mezzo
Fritz Adler.
La
Zetkin aveva ritenuto che l’azione dei terzini avrebbe attratto il
proletariato italiano più significativo su posizioni rivoluzionarie,
proiettando questo processo in una successiva fusione con il Pcd’I.
L’estremismo
di Bordiga non si fece attendere: Terracini e Gennari erano per “ignorare”
l’esistenza della frazione, proprio in un momento in cui il Pcd’I avrebbe
dovuto attrarre a se il grosso del massimalismo italiano.
Anche
Gramsci usa parole dure nei confronti della frazione terzina accusandola di
“una mancanza di coraggio morale”.
La
sua acrimonia era nella sostanza opposta a quella di Bordiga, poiché riteneva
che i terzini avrebbero dovuto fare di più: dovevano rendere più profonda la
spaccatura tra i settori significativi del proletariato italiano e la direzione
di Serrati ([21]).
I
terzini decisero di rimanere nel Psi, traendo le dovute conseguenze sia dai
minoritari rapporti di forza e sia dalle posizioni estremistiche del Pcd’I:
Serrati usciva vincitore al congresso di Milano, ma lo strappo era avvenuto.
La
storia successiva segnala la vittoria del fascismo occorsa da lì a poco, un
evento che si rivelò da subito drammatico per il movimento operaio italiano:
Serrati dopo il congresso di Milano rimase chiuso nel suo storico immobilismo,
come ingabbiato tra i destri e la frazione centrista che in quel periodo
iniziava un reale processo di costruzione politica.
Una
situazione, questa, che produsse per un verso uno scollamento della base
massimalista e per l’altro un pericoloso slittamento dell’apparato
socialista verso l’Internazionale due e mezzo, come tra l’altro aveva già
previsto Zinove’v.
Sul
piano internazionale Levi tentava di capitalizzare la debolezza di Serrati,
chiedendo sempre più esplicitamente al dirigente massimalista di accentuare i
toni di rottura con l’IC, con l’obbiettivo di creare una tendenza di destra.
Serrati
non manifestò mai quel drastico allontanamento dall’IC operato da Levi: pur
rimanendo un profondo conflitto con l’IC (dalla questione agraria alla
scissione; dalla questione nazionale e coloniale alla tattica più in generale),
lanciava la costruzione di un fronte unico internazionale per contrastare il
montare della reazione in Europa.
L’indicazione
di un fronte internazionale, pur significando per Serrati il tentativo di un
recupero di un rapporto con l’IC, dovette però ancora una volta fare i conti
con il suo storico unitarismo, che lo vide a Francoforte quale delegato a fianco
dei rappresentanti dell’Internazionale due e mezzo e dello stesso Levi,
riunione alla quale non partecipava l’Internazionale Comunista.
Il
fallimento della Conferenza di Vienna – che avrebbe dovuto riunire le tre
internazionali, II, III e due e mezzo in un fronte unico – esplicitamente
causato dall’IC che perseguiva la frantumazione delle organizzazioni
socialdemocratiche, sortiva in Serrati un effetto opposto: ancora una volta
prigioniero del dogma dell’unità proponeva un “Comitato d’azione” con
Adler e Levi, una sorta di organismo vitale che avrebbe dovuto porsi tra
l’Internazionale di Vienna e l’IC ([22]).
Secondo
il dirigente socialista questo comitato internazionale avrebbe dovuto costituire
la cosiddetta internazionale “due e tre quarti”, finalizzata ad un processo
di riavvicinamento delle forze internazionali intermedie tra la socialdemocrazia
ed il bolscevismo, di cui tappa fondamentale doveva essere la confluenza della
comunità operaia di Levi nella Uspde, il ritorno di questa nella Spd e
l’assorbimento dell’Internazionale di Vienna in quella di Londra (II
Internazionale).
In
realtà all’epoca solo due alternative avrebbe potuto conoscere il movimento
operaio: o l’adesione all’Internazionale delle forze opportuniste, o
l’adesione alla III Internazionale bolscevica.
Tutti
i tentativi di costruire la II Internazionale due e mezzo a Vienna e la II
internazionale due e tre quarti, fallirono perché realisticamente tra le due
opzioni non vi era nulla di nuovo, a maggior ragione in un momento in cui il
fascismo rendeva impossibile la strategia unitaria di Serrati sferrando la
repressione verso le strutture del movimento operaio che costituivano le
fondamenta di quella strategia.
La
frazione terzina dopo il 28 gennaio del 1922, a seguito dell’esito del
consiglio nazionale del PSI, divenne gruppo massimalista per la III
internazionale, lanciando un manifesto nel quale si condannava l’incertezza
nel quale erano stati lasciati i lavoratori socialisti, costruendo così le basi
di una vera e propria frazione.
In
questo periodo nasceva, a sostegno della costruzione della frazione
internazionalista il settimanale Più Avanti, centro di divulgazione e
organizzazione del gruppo internazionalista. Un organo di propaganda sostenuto
anche con finanziamenti dell’IC, che ben sapeva di dover supportare l’area
del dissenso all’interno del Psi, anche in contrapposizione ai dirigenti del
Pcd’I.
Il
manifesto rappresentava sostanzialmente l’inizio della scissione: separazione
dai riformisti, lotta contro l’equivoco centrista, organizzazione attiva delle
masse e adesione alla III Internazionale.
Il
lavoro della frazione non si limitava, tuttavia, ad una battaglia interna al
partito, ma anche nel sindacato.
Tant’è
che al III Congresso del Sindacato Magistrale i terzini appoggiarono un ordine
del giorno presentato dai comunisti; e al Consiglio Nazionale della Camera
Generale del Lavoro tenutosi a Genova dal 3 al 5 luglio del 1922, la frazione
terzina si posizionava autonomamente, presentando un ordine del giorno di
critica all’apparato confederale e di valorizzazione dell’“Alleanza del
lavoro”, proponendo un fronte unico e l’adesione alla III Internazionale.
Si
può affermare che in questo periodo Lenin era più in sintonia con i terzini
che con il gruppo bordighista, il quale si limitava ad aderire tra il III e il
IV Congresso dell’IC ad un fronte unico sindacale, rifiutando decisamente
qualsiasi politica di fronte unico con altri partiti proletari.
Tutta
la tattica che la frazione terzina aveva sviluppato, a partire dal congresso di
Milano, isolare i massimalisti e predisporre una scissione maggioritaria, mutava
radicalmente quando Zinove’v per volontà dell’IC il 29 luglio del 1922
indirizzava una lettera a Maffi, Lazzari e Riboldi chiedendo un riaccostamento
con i massimalisti.
Questa
direttiva non era frutto di una scelta astratta, ma la presa d’atto della
sconfitta del movimento operaio contro il fascismo, il fallimento della sciopero
generale, che al di là delle divisioni interne nel partito vide uniti
massimalisti e terzini con l’Alleanza del Lavoro, malgrado il sabotaggio dei
riformisti.
Dopo
la marcia su Roma ad opera delle camicie nere, la riunificazione dei terzini con
i massimalisti e la fusione tra questi ed il Partito Comunista d’Italia,
divenne per l’IC la necessità storica del proletariato italiano.
La
nuova situazione lungi da costituire una nuova unità tra la tendenza
massimalista e quella terzina, scontava ancora caratteri di assoluta fluidità e
in taluni casi di vecchia acrimonia tra i dirigenti delle due tendenze.
Malgrado
questi fortissimi conflitti l’assise socialista conobbe due fasi nettamente
distinte: la prima affidata a Serrati era incentrata
sulla polemica con i riformisti; la seconda atteneva ai tratti distintivi del
nuovo partito.
Il
dato di straordinaria novità era costituito dall’entrata del tema relativo
alla fusione con i comunisti che pur non prospettato come necessità imminente,
si proponeva come l’obbiettivo di fondo da perseguire.
La
strategia fusionista andava di pari passo al processo di omogeneizzazione della
due tendenze e alla prospettiva della riunificazione con i comunisti che in quel
periodo avvenne a livello sindacale.
Il
Convegno delle “Sinistre Sindacali”, che ebbe luogo alla prima metà di
ottobre del 1922, rappresentò un primo reale processo di unificazione, mentre
sul terreno politico la direzione socialista procedeva a nominare Serrati,
Riboldi e Fiorini per il comitato paritetico con il Pcd’I ([23]).
La
situazione alla vigilia del IV congresso dell’IC nel 1923 rimaneva
senz’altro contraddittoria.
Esistevano
influenti settori in seno alla direzione massimalista che erano totalmente
contrari, anche dopo il congresso di Milano, all’allontanamento dei riformisti
e al fronte unico con il Pcd’I.
In
particolare Vella e Nenni, se pur con toni diversi, costituirono il nucleo
originario della tendenza antifusionista.
I
problemi non continuarono solo sul versante socialista, poiché l’orientamento
maggioritario del PCd’I non lasciava spazio a facili ottimismi.
Al
Comitato Centrale del Pcd’I tenutosi il 10 e 11 settembre del 1922 Umberto
Terracini asseriva: “siamo convinti che il partito massimalista verrà ancora
una volta valorizzato dalla presenza dei terzinternazionalisti, i quali varranno
a donargli quell’apparenza rivoluzionaria che di per sè non potrebbe
conservare. È la prosecuzione dell’equivoco contro il quale da due anni
usiamo il meglio delle nostre forze. La tattica dell’Internazionale ci riporrà
nella situazione di Livorno: due anni di lavoro indefesso sono stati
sprecati”. ([24])
Ma
il partito comunista non era più quello del 1921. L’intransigenza bordighista
veniva contrastata apertamente dalla destra di Tasca, il quale proponeva
esplicitamente di rivedere Livorno e di avviare una politica di recupero dei
socialisti.
Contraddizioni
profonde, che avevano completamente avviluppato i due partiti del proletariato
italiano rendendo miopi i
rispettivi stati maggiori rispetto al fascismo, al punto da manifestare una
grande sufficienza persino sulla grande adunanza tenuta a Napoli il 24 ottobre
nel 1922 da Mussolini, che rappresentava
la prova generale della marcia su Roma.
Non
è un caso che all’indomani dell’adunanza di Napoli correttamente Nenni
scrisse sull’Avanti: “la delegazione socialista con alla testa Serrati,
prendeva il treno per Mosca con l’assoluta certezza che non sarebbe successo
nulla” ([25]).
Ma
l’indifferenza rispetto ad un fenomeno così tragico per la classe operaia
italiana, finiva per ridimensionare e spesso travolgere le indicazioni del III e
IV congresso dell’IC legate alla tattica del “fronte unico”.
Il
gruppo dirigente massimalista, così come quello bordighista ancora egemone nel
Pcd’I, trovavano paradossalmente l’unico elemento di coesione
nell’incapacità di prevedere le nefaste conseguenze che il fascismo stava
preparando ([26]).
La
combinazione di tutti questi fattori, per quanto compositi e spesso scollegati
fra di loro, costrinsero Serrati ad operare importanti ripensamenti proprio sul
fascismo – anche a seguito di un’importante relazione di Radek – che come
vedremo lo ricollocarono sulla strada dell’Internazionale.
Il
dirigente massimalista indicava alcuni fattori topici del fascismo: lo sviluppo
a tappe dalla periferia al centro delle istituzioni statali; un doppio livello
organizzativo armato; la piccola borghesia quale base sociale originaria e la
dipendenza dalla grande borghesia industriale e agraria; la svolta politica
della borghesia italiana.
Un
documento, quello sul fascismo, preziosissimo, in quanto forniva, per la prima
volta, anche elementi autocritici sullo stesso biennio rosso, provocando
l’entrata di significativi quadri politici e sindacali, in gran parte
dell’area terzina, nel Partito Comunista.
Serrati
riprende la definizione leninista del fascismo quale “imperialismo
straccione”, che permetteva al dirigente socialista di cogliere alcuni
elementi di fondo: una politica estera con un forte programma imperialista che
faceva il paio con una forte politica antioperaia, l’avvio di una massiccia
immigrazione; la cessione all’industria privata di imprese statali; politiche
tributarie favorevoli a diverse branche del capitalismo privato. Sulla base di
queste considerazioni Serrati, a differenza di altri dirigenti comunisti e
socialisti, prevedeva un “consolidamento del fascismo” che avrebbe di lì a
poco legato al suo corso tutte le frazioni della borghesia ([27]).
Questa
profonda modificazione nel pensiero del dirigente socialista al congresso di
Roma produsse la definitiva scissione con l’ala riformista, costringendo così
il massimalismo italiano a
ricostruirsi dalle fondamenta scosso tra l’altro dalla separazione dalla Cgdl
Le
cifre congressuali: 32.106 voti venivano riportati dalla mozione scissionista
dei massimalisti e dei terzini e 29.119 voti dalla mozione unitaria dei
centristi e dei riformisti, registrando così una lieve flessione dei
massimalisti in parte confluiti nella frazione riformista e il raddoppio nella
corrente internazionalista.
Malgrado
questi risultati la situazione in Italia rimaneva ancora particolarmente
contraddittoria: se da un lato l’IC, confortata anche dalle posizioni di
Angelo Tasca, sferzava un duro attacco all’intransigenza bordighista,
dall’altro il tema della fusione avviava nel Psi un fenomeno disgregativo
acuendo così le tendenze liquidative sviluppatesi nel dopoguerra, al punto di
frenare bruscamente Serrati in merito alla fusione, malgrado la rottura con
l’ala riformista.
L’IC,
dal canto suo, cercava di accelerare il
processo fusionista disponendo 14 condizioni incentrate sostanzialmente sul
rilancio dell’adesione all’Internazionale rivoluzionaria, sulla lotta al
riformismo e sulla tattica del fronte unico.
Si
formava così una commissione per la fusione dei due partiti, della quale
facevano parte per il PSI Tonetti, Fabrizio Maffi, Serrati, per il Pcd’I
Gramsci, Scoccimarro e Tasca, che tenne le prime riunioni a Mosca sotto la
presidenza di Bucharin.
Già
dalla seconda riunione, malgrado il favore espresso da molti rappresentanti
terziniternazionalisti e gran parte dei massimalisti, giunsero forti opposizioni
alla tattica fusionista pregiudicando le stesse risoluzioni del IV congresso
dell’IC.
Mentre
la commissione per la fusione a Mosca continuava i suoi lavori decidendo le
forme e gli organismi direttivi che venivano approvati dal presidium
dell’Internazionale, in Italia si cominciava a delineare una tendenza
antifusionista supportata in particolare da Nenni, che utilizzando l’Avanti
aveva mano libera per l’assenza di Serrati e Maffi.
Nel
Psi si avviava a maturazione un grande scontro tra il comitato antifusionista e
quello fusionista. Mussolini sembrava l’unico, paradossalmente, a rendersi
conto dell’importanza che avrebbe avuto la fusione tra i due partiti del
proletariato italiano, tant’è che l’effetto fu l’arresto sistematico dei
comunisti e socialisti in prevalenza di orientamento fusionista.
La
campagna di repressione coinvolse anche Serrati, ma l’arresto del prestigioso
dirigente massimalista sollevò molte polemiche: vari dirigenti socialisti e
comunisti accusarono Nenni, neanche tanto velatamente, di connivenza con il
fascismo e addirittura di una segreta intesa con Mussolini per sventare la
realizzazione della fusione.
Si
può affermare sulla questione che sicuramente il fascismo per indebolire
ulteriormente il movimento operaio intervenne direttamente nel conflitto tra le
due opposte tendenze, dapprima impedendo il formarsi di un unico partito di
opposizione e rivoluzionario; e sul finire del 1923 dopo la vittoria della
tendenza di Nenni, con la repressione del gruppo terzinternazionalista che
rappresentava realmente l’ultima reale possibilità di unificazione.
Dopo
il 1923 l’IC seguendo nei fatti l’orientamento di Tasca indicava il blocco
della tattica fusionista e il riavvio di una politica di riconquista del Psi.
A
questa linea si opposero tenacemente Gramsci, Scoccimarro e Gennari che
viceversa indicando da subito la necessità di un’immediata fusione col gruppo
dei terzini, gettavano di fatto le basi per la costruzione del gruppo di centro,
che avrebbe, di lì a poco, conquistato il partito.
Anche
in questa circostanza il percorso di definitiva fusione tra il Pcd’I e i
terzini non fu immediato: si costruì un blocco di unità proletaria per
l’elezioni del rinnovo del parlamento italiano, il fronte unico tradotto nel
blocco elettorale come strumento che avrebbe contrapposto la base socialista ai
suoi capi.
In
particolare per i dirigenti comunisti il blocco elettorale ebbe senz’altro una
motivazione di carattere tattico: favorire lo sviluppo delle migliori condizioni
per la scissione della frazione terzina.
Lo
dichiarava esplicitamente lo stesso Humbert-Droz alla seduta del Comitato
Esecutivo comunista, raccomandandosi di non far trapelare che si era fatto di
tutto per evitare il blocco tra Psi e Pcd’I nel momento stesso in cui lo si
proponeva, puntando esclusivamente sulla fusione con i terzini ([28]).
La
fine delle trattative del blocco elettorale tra Pcd’I, Psi e Psu
(quest’ultimo nato con la scissione riformista dopo il congresso di Roma nel
1922) ([29]),
avrebbe segnato anche la terza scissione intervenuta nel Partito Socialista dopo
il 1921 a Livorno ([30]).
La
scissione dei terzini ebbe però delle caratteristiche inedite in quanto nel Psi
rimase comunque una tendenza legata all’IC che faceva capo all’anziano
dirigente Lazzari, che pur non avendo avuto la forza di abbandonare quel
partito, dimostrava che la rivoluzione del ‘17 fu realmente un fenomeno
dirompente per le miti tradizioni socialdemocratiche italiane.
La
fusione che i terzini operarono con il Psd’I rappresentava realmente un
fondamentale momento di costruzione intermedia del partito rivoluzionario, che
nel congresso di Livorno trovava un suo punto di concreta definizione.
Questo
fenomeno era da subito visibile fin dal risultato elettorale del 1924, così
come sostenne Humbert-Drotz nel rapporto all’Internazionale, ritenendo che
l’alleanza con i terzini diede modo di conquistare importanti settori delle
masse che fino a quel punto avevano seguito il Psi.
D’altronde
i risultati delle liste di unità proletaria mostreranno la conquista di
importanti settori centro meridionali (dal 8,5% del 1921 al 12,09% nel 1924).
La
destra di Tasca dopo la fusione con i terzini venne in buona sostanza
esautorata, ma al contempo la delimitazione a destra del partito poneva per il
gruppo di centro il problema della sinistra, con un gruppo dirigente
complessivamente ancora prigioniero del bordighismo.
Gramsci
comprese che per vincere definitivamente l’infantilismo originario
dell’estremismo, occorreva sviluppare una profonda azione politica, sia di
metodo che di analisi, su questioni fondamentali, tra le quali il fascismo
rappresentava senz’altro un fattore centrale.
L’analisi
del fascismo divenne da subito uno spartiacque con il bordighismo e con essa la
conquista di Tasca a una politica di centro, avrebbe consentito l’ulteriore
conquista dei terzini, permettendo a Gramsci di evitare l’unificazione tra
questi ultimi e la destra di Tasca. L’entrata dei terzini nel PCd’I nel 1924
ha rappresentato obiettivamente il consolidamento del gruppo di centro, da cui
derivarono la sconfitta del sinistrismo, l’attrazione dei terzini
nell’orbita del gruppo guidato da Gramsci
e la marginalizzazione della destra ne erano senz’altro i fattori
costitutivi.
In
un importante articolo comparso sull’Unità, (“Fare di uno due”)
del 17 luglio 1924, Gramsci
affermava: “(…) il partito comunista non vuole essere soltanto un’élite
organizzata della classe operaia, il partito tende a divenire tutta la classe
operaia; vuole avere con se la maggioranza del popolo lavoratore, per condurlo
alla lotta rivoluzionaria e alla conquista reale del potere politico”.
Tuttavia
questo processo non era assolutamente privo di contraddizioni che venivano sia
dalla destra che dal bordighismo.
Difatti,
a Milano e a Napoli, i terzini aderirono alla sinistra di Bordiga, riconfermando
i connotati storici dell’intransigenza del “socialismo italiano”; così
come lo stesso Tasca tentava di crearsi una base organizzativa vantando gli
storici legami con i terzini ai tempi della fusione.
Serrati
muore l’11 maggio del 1926 dopo il congresso di Lione mentre si recava ad una
riunione clandestina nelle Prealpi Lombarde, ma la sua maturazione politica
rappresentò un fattore sistematico, che rifletteva in definitiva l’evoluzione
della stessa tradizione del socialismo italiano.
Un’evoluzione,
quella di Serrati, piena di contraddizioni, che lo fece aderire del tutto
acriticamente ad un fenomeno come la bolscevizzazione ritenendo che fosse
realmente un valido correttivo contro i “vecchi malanni” del socialismo
italiano, e ribadiva: “ho errato profondamente, il nostro partito socialista
che per tanti anni aveva predicato la libertà e lo spirito critico era finito
nell’apologia di Noske”.
La
vicenda dei fatti e degli avvenimenti che attraversarono il movimento operaio
italiano dopo la rivoluzione bolscevica e come gli stessi influenzarono il
quadro sociale e la stessa nascita del Partito Comunista d’Italia,
rappresentano tanto più oggi un patrimonio politico essenziale e
imprescindibile per la rifondazione comunista.
Non
si tratta ovviamente di riproporre un legame storico e simbolico con una
tradizione, né tanto meno immaginarsi la storia imbrigliata nell’attendismo
rivoluzionario, ma molto più realisticamente sedimentare i tratti salienti
della costruzione del movimento comunista in rapporto con la sua capacità di
direzione del movimento operaio, nel tentativo di riattualizzare una
rifondazione comunista che si ponga l’obiettivo di dirigere le masse oppresse
nel processo rivoluzionario e non certamente di candidarsi come ieri con Noske,
oggi ad un nuovo compromesso con la borghesia dei Montezemolo in un futuro
governo Prodi.
[1] V.I.Lenin, Un passo avanti e due indietro, Roma, Editori Riuniti, 1972.
[2] Conosciuta anche come III Internazionale, fondata a Mosca in piena guerra civile il 4.3.1919.
[3] I socialisti espulsi per il loro interventismo (Bissolati, Bonomi, Treves, ecc.) fonderanno il Partito Socialista Riformista Italiano (Psri).
[4] A. Bordiga, Storia della sinistra comunista – Vol. I, Milano 1964, pag. 210
[5] In Germania nel 1917 subiva una scissione ad opera del partito socialdemocratico indipendente (USPD), sottraendo al Spd un terzo degli iscritti).
[6] Ma la reazione della socialdemocrazia, che ancora non smentiva il suo storico servilismo nei confronti dell’imperialismo,fu dirompente: ruppe la dinamica rivoluzionari fingendo di accettare le rivendicazioni operaie e nel gennaio 1919 il Ministro socialdemocratico Noske scatenava una controrivoluzione preventiva,avvalendosi dei “corpi franchi”, commissionava l’assassinio di Rosa Luxemburg e Karl Liebknecht decapitando il giovane partito spartachista. Finirono in un bagno di sangue anche la rivoluzione ungherese del 21 marzo e quella di Monaco di Baviera in cui i comunisti proclamarono eroicamente la Repubblica dei Consigli.
[7] E’ il caso di Torino in cui approda una vera sommossa popolare contro i pesci cani della guerra e la proclamazione dello sciopero generale. Ma anche dello sciopero a Milano in cui le donne proclamano spontaneamente un’astensione di massa dal lavoro.
[8] P. Spriano, Storia del Partito Comunista Italiano, Vol .I (Da Bordiga a Gramsci), Editori Riuniti pag 36
[9] L. Paggi, Gramsci e il moderno principe, vol. I pag. 134
In
questo ambito si inseriva la presa di posizione di Serrati a favore della
costituente, intesa come programma “immediato e d’agitazione”,
differenziandosi nella forma dall’ala riformista che vedeva in questa
parola d’ordine un indirizzo strategico “per un movimento operaio
contrapposto alla dittatura del proletariato”.
Questo programma immediato di riassetto democratico borghese, aveva per Serrati un valore politico centrale: in ultima analisi sarebbe servito, secondo il dirigente socialista, a superare l’eterno dualismo tra azione immediata e finalità socialista.
[11] S. Levrero, Bordiga alla vigilia del congresso di Livorno, cit. pag. 123. In Bordiga troviamo in questo periodo,a parte l’astensionismo,solo una più netta affermazione degli stessi principi e una richiesta di scissione che però non veniva posta pregiudizialmente:alla “battaglia rigorosa sui concetti rivoluzionari” ingaggiata da Bordiga corrispondeva un’incapacità del tutto simile a quella di Serrati di “dare alle lotte una strategia e una direzione che determinassero sia un effettivo processo rivoluzionario,sia un radicale rinnovamento e selezione nel partito
[12] V.I. Lenin, Opere Complete, Roma 1967 pag. 460 e 473
1 Mentre le masse operaie, scrisse Gramsci, difendevano a Torino i consigli di fabbrica, “a Milano si chiacchierava”, facendo fallire il cosiddetto “sciopero delle lancette” nell’aprile del 1920.
[14] T. Detti, Serrati e la formazione del partito comunista, pag. 13.
2 Il fallimento nel 1918 della collaborazione tra spartachisti e gli obleute (movimento rivoluzionario berlinese con una forte base operaia) ricondusse il movimento consiliare sul terreno democratico dell’USPD, alla sconfitta della linea luxemburghiana che indicava la necessità di staccare la maggioranza del proletariato dalla socialdemocrazia conquistando una base di potere reale da cui far scaturire un processo di radicalizzazione.
[16] Resoconto stenografico del XVII del PSI, cit. pag. 399. Il 18 gennaio 1921 così Dimitrov scriveva alla moglie dal congresso di Livorno:vi è una dura lotta tra i comunisti da un lato e i riformisti e i serratiani dall’altro. A parole sono tutti d’accordo con le condizioni dell’internazionale. In realtà sono opportunisti incorreggibili che si attengono all’umore delle masse. La scissione è inevitabile e sarà probabilmente proclamata domani. I veri comunisti sono un terzo ma in realtà saranno la maggioranza nel partito. La lettera di Dimitrov conferma che ancora a Livorno si era convinti che la base massimalista avrebbe abbandonato Serrati, aderendo dopo il congresso al nuovo partito.
[17] De Felice, Serrati Bordiga Gramsci, cit. pag 64.
[18] Avanti, 9 marzo 1921
[19] Lenin, Opere Complete, Roma 1968, pag.298.
[20] P. Spriano, Storia del Pci. pag. 128 vol. I°
[21] In particolare Gramsci faceva riferimento alla realtà milanese in cui la frazione internazionalista aveva oltre 1.000 aderenti nella classe operaia.
[22] Serrati - G. Valenti, 26/05/1922, in archivio Serrati 3/18.
[23] Per l’IC l’ungherese Rakosi divenuto uno dei più forti assertori del fronte unico sollecitò in questo senso i dirigenti socialisti e fece accettare da autorità al C.E. comunista la partecipazione al comitato dei due partiti.
[24]
Dal verbale della riunione del CC del Pcd’I, 10 e 11 Settembre 1922.
Ma
ancora: chiarisce l’ostilità dei dirigenti comunisti nei confronti del
massimalismo e della tattica dell’IC, la risoluzione sulla “questione”
socialista, e sull’ipotesi di fusione - la frazione massimalista del PSI,
anche se scissa dai collaborazionisti non soddisfa alle 21 condizioni
dell’IC, e il distacco dai riformisti dovuto alla loro decisa tattica
collaborazionista attuale, è un atto politico diversissimo dal distacco
chiesto nel 1920, da tutti coloro che negano il programma rivoluzionario
dell’IC e quindi anche dagli intransigenti parlamentari che sono contro la
dittatura del proletariato e l’uso della violenza rivoluzionaria
(risoluzione sulla questione del PSI del CC del PCd’I 10 settembre 1922).
[25] ) P. Nenni, Vent’anni di fascismo, Milano 1964, p.155
[26])
È degna di nota, come elemento di controtendenza, la reazione per quanto
epidermica e a tratti emotiva della base socialista, ma anche della tendenza
terzinternazionalista e della parte più rivoluzionaria dello massimalismo.
[27]) T. Detti, Serrati e la formazione del Pcd’I.
[28]
T. Detti, Op. cit., p 438.
[29] Il Partito Socialista Unitario nel 1930 durante il periodo dell’emigrazione degli antifascisti in Francia, si riunificherà al PSI.
[30] Come sopra avevamo accennato, la prima scissione che si verifica nella storia del Partito Socialista è quella ad opera di Bonomi, Bissolati e Treves, che nel 1912 a causa della loro posizione interventista nella guerra di Libia, verranno espulsi dal partito. Il gruppo darà vita al Partito Socialista Riformista Italiano (PSRI) che ben presto si scioglierà.