Marxismo rivoluzionario n. 5 – saggio / il travagliato processo della nascita del comunismo italiano

 

GRAMSCI, BORDIGA, SERRATI: TRE LINEE A CONFRONTO

 

 

di Ruggero Mantovani

 

Come spesso accade per il gruppo dirigente maggioritario del Prc, le ricorrenze sono l’occasione per celebrare rotture con la tradizione novecentesca del movimento operaio e comunista, arrivando persino a rimuovere Gramsci e la strategia rivoluzionaria del Partito comunista come avanguardia del proletariato (Per dirla con Lenin “il movimento cosciente che dirige il movimento non cosciente”[1]), che ha posto fin dal suo nascere l’obbiettivo di condurre le masse oppresse alla trasformazione socialista dello stato borghese e dell’intera società.

Gramsci, secondo gli strafalcioni teorici e politici della maggioranza del Prc, diventa semplicemente un intellettuale sardo, che, trasferitosi a Torino, nel tempo libero faceva, oltre al giornalista dell’Ordine Nuovo, anche il comunista; e di conseguenza, non c’è più traccia del vero Gramsci, cioè il marxista conseguente, il dirigente comunista, il tribuno del popolo, che ha dato un contributo significativo al tentativo di unificazione del proletariato sotto la bandiera del bolscevismo, della dittatura proletaria e del potere dei Soviet. 

La storiografia di sinistra, da sempre, riporta la vicenda del Partito Comunista d’Italia (PCd’I) e delle lotte di tendenza, in modo del tutto frammentario, disorganico, schematico, rispetto alla vicenda del movimento operaio italiano e internazionale, suggerendo semmai un’interpretazione piuttosto approssimativa 0e superficiale degli avvenimenti, e della tenace lotta di idee, che ha visto protagonisti diretti Gramsci, Bordiga, Togliatti, Serrati, ecc. dentro e fuori il Pcd’I e il Psi, in rapporto alle vicende che man mano attraversarono la III Internazionale.

A questa pratica non è stato immune sia il Pci del dopoguerra (per ovvie ragioni di interesse opportunista), sia il Prc, che a oltre settant’anni di distanza liquida sbrigativamente quell’esperienza.

Quello che è mancato, e manca tuttora, è un’analisi storica autenticamente materialista, applicata in questo caso alle vicende dei partiti. Non si può studiare la storia del partiti come semplice storia delle loro idee; ma quelle idee devono doverosamente essere studiate in rapporto alla storia della lotta politica, della lotta di classe, e alla storia in generale.

In questo senso assume un significato fondamentale la nascita del PCd’I, tracciata non nell’astratto processo identitario, ma nella sua funzione materiale esercitata nel movimento operaio italiano e internazionale, nel rapporto con la società civile e con le principali istituzioni di dominazione borghese.

Un’analisi che assume il dato dei fatti come precondizione essenziale per ricostruire la memoria del movimento comunista, offre a distanza di decenni elementi analitici fondamentali per un’autentica rifondazione comunista.

 

1921: nasceva il Partito Comunista d’Italia

Il 21 gennaio del 1921, mentre si celebrava a Livorno il XVII congresso del Partito Socialista Italiano presso il teatro Goldoni, una minoranza dei delegati abbandonava l’assise congressuale  per  dirigersi al teatro S. Marco.

In  una struttura  quasi irreale lacera dal primo conflitto bellico, in penombra per l’assenza di luci e con la pioggia che entrava dal tetto, nasceva il PCd’I, sezione italiana della III Internazionale.

Le motivazioni della formazione del partito comunista erano inscritte in una pluralità di fattori e il loro svilupparsi, come vedremo, fortemente condizionò il dibattito dell’Internazionale comunista ([2]), costituendo il terreno preparatorio per ulteriori svolte del movimento operaio.

L’origine della scissione deve senz’altro essere ricollocata nella necessità di staccare e selezionare le avanguardie operaie dalle paludi del riformismo e del centrismo, per creare anche in Italia il partito del proletariato rivoluzionario. Ma la nascita del PCd’I era inscritta anche nelle condizione obiettive maturate nella società italiana: tra il 1919 e il 1920 sono in particolare Gramsci e la corrente degli “ordinovisti” a comprendere che l’Italia viveva una situazione “peculiarmente rivoluzionaria”.

L’analisi gramsciana di quegl’anni è organica, inequivoca e senza oscillazioni, caratteristiche che misurarono tutta la loro dirompenza nei confronti del riformismo che ascriveva le precipitazioni capitalistiche alle involuzioni soggettive della borghesia, con l’intento malcelato di predisporre nuovi ambiti di collaborazione con individualità più “capaci e democratiche”.

Malgrado nel Psi fossero maturate divisioni insanabili, così come dimostra il consolidarsi di correnti rivoluzionarie, il  Pcd’I fu tra gli ultimi a formarsi in Europa.

La ragione di questo ritardo deve essere sindacata nella storia  del Psi e nel suo ben radicato antibellicismo: opponendosi alle spinte opportunistiche del patriottismo socialdemocratico, sviluppò reali rotture con il riformismo che costituirono l’embrione di quelle tendenze rivoluzionarie che furono il presupposto materiale per la scissione operata a Livorno. Un antibellicismo già fortemente espresso al Congresso di Reggio Emilia nel 1912, in cui la corrente che aveva sostenuto la guerra in Libia venne espulsa ([3]). Ancora allo scoppio della prima guerra mondiale il Psi non si limitava all’opposizione contro il governo Salandra e la monarchia – che auspicavano di scendere in guerra a fianco delle grandi potenze dell’Intesa – ma espulse l’allora direttore dell’Avanti Benito Mussolini per essersi espresso a favore dell’intervento bellico.

Un pacifismo sincero quello del socialismo italiano, con radici e motivazioni antiche: il motto “nè aderire nè sabotare” si trasformava con lo svilupparsi della corrente massimalista nel rigido “non aderire”, prodromo di un profondo contrasto con l’ala riformista che venne accusata di “concedere una tregua alla guerra borghese” ([4]).

L’avversione nei confronti della I guerra mondiale portava il Psi a svolgere un  ruolo di prim’ordine anche nell’organizzazione delle conferenze pacifiste di Zimmerward (1915), di Kienthal (1916) e di Stoccolma (1917), in palese ostilità con la socialdemocrazia Europea che, tradendo il proletariato, votava i crediti di guerra.

Una collocazione antibellicistica che se da un lato fece maturare la corrente massimalista di Serrati, dall’altro produsse un obbiettivo rallentamento della costruzione del partito rivoluzionario, proprio in un momento in cui si mostravano profondi i processi di disarticolazione che pervadevano la socialdemocrazia europea ([5]).

Malgrado il Psi esprimesse un sincero pacifismo, che rompeva le maglie del compromesso riformista, sancendo già al XVI congresso a Bologna l’adesione all’IC, non produsse, però, una reale trasformazione attestandosi in un confuso massimalismo.

L’inconcludenza del massimalismo italiano rispetto alla dinamica del biennio rosso, il rifiuto di aderire alle 21 condizioni disposte dall’I.C. per dare maggiore compiutezza teorica e pratica ai partiti e tendenze che fino a quel momento si riconoscevano nello stato dei soviet, aprirono inevitabilmente la strada alla scissione, che nel gennaio del 1921 portò via dal PSI 60.000 iscritti su 216.000 per dare vita  PCd’I.

Un processo convulso e spesso contraddittorio quello sul finire degli anni dieci, che però vide svilupparsi nel 1918 in Germania e nell’Impero austro-ungarico reali processi rivoluzionari, al punto da indurre Lenin a sospendere i trattati di Brest-Litovsk con la Germania, ritenendo iniziata la rivoluzione in Europa  occidentale ([6]).

La rivoluzione in Europa falliva perché uccisa dalla repressione borghese e per l’ennesimo tradimento della socialdemocrazia, ma la storia ben mise in evidenza un grande assente nelle rivolte del 1918: il partito bolscevico.

In questo quadro politico e sociale il Pcd’I nel 1921 nasce in ritardo: il conflitto sociale accusava una radicale inversione di tendenza; il padronato riorganizzava la propria forza attraverso le squadracce fasciste che divennero da lì a poco la nuova guardia pretoriana del capitalismo italiano.

Non solo: il partito comunista nasce col vizio infantile  dell’estremismo, non comprendendo che la parabola discendente del conflitto di massa avrebbe dovuto incontrare un mutamento della tattica, come l’IC indicava al III e IV congresso.

Il primo gruppo dirigente guidato da Amadeo Bordiga già nei primi momenti della formazione del partito, manifestava una decisa ostilità verso le elaborazioni sviluppate dall’IC.

Il II congresso del Pcd’I tenutosi a Roma nel Marzo 1922 ribadiva l’opposizione di fondo sia alla concezione del “fronte unico” che del “governo operaio”, ritenendole cedimenti al riformismo.

In sintesi: malgrado la nascita del partito comunista fosse stata una necessità storica per isolare l’opportunismo riformista di Turati, completamente omologato al sistema capitalista e al cretinismo parlamentare, per dare una direzione rivoluzionaria al movimento operaio, l’infantilismo originario non riusciva nei primi anni venti a capitalizzare un fertile quadro sociale.

 

La genesi del Pcd’I: il  Psi di Serrati e il dibattito nell’IC

La I guerra mondiale, che aveva fatto precipitare la società italiana in una profonda crisi sociale – disperazione per i lutti, povertà, condizioni di lavoro massacranti a causa dell’aumento della produzione bellica – fece da detonatore all’avvio di importanti mobilitazione popolari che, in particolare nelle città più industrializzate del paese incontrarono una classe operaia che dimostrava di essere molto sensibile agli echi della rivoluzione bolscevica ([7]). La vitalità del nuovo quadro sociale incise inevitabilmente sulle contraddizioni e l’inadeguatezza del gruppo dirigente riformista del Psi, facendo sempre più maturare la necessità della rivoluzione: “così come era accaduto in Russia”.

Pochi giorni dopo la vittoria dei bolscevichi, presso l’abitazione dell’avvocato socialista Mario Trozzi a Firenze, si riunirono clandestinamente una ventina di delegati dalle più importanti federazioni del PSI, esponenti della corrente “intransigente – rivoluzionaria”, detta anche massimalista, che richiamava l’etimologia politica del bolscevismo.

A quella riunione erano presenti, tra gli altri, anche i giovani Amadeo Bordiga ed Antonio Gramsci, che insieme al direttore dell’Avanti Giacinto Menotti Serrati caratterizzeranno una fase cruciale della storia del PSI fino alla scissione dei comunisti avvenuta nel 1921.  

Questa riunione diede i natali al massimalismo italiano che al XV congresso socialista tenutosi a Roma nel settembre del 1918 trionfava con il 70% dei suffragi, ponendo la necessità storica di una scissione con l’ala riformista di Turati.

La corrente dei massimalisti aveva un consistente collegamento con la sinistra europea di Rosa Luxemburg e Karl Liebknecht, con le minoranze sindacaliste e rivoluzionarie operanti in Francia, con alcuni esponenti del movimento laburista inglese, stabilendo inoltre contatti con personalità come Trotskij e Radek. Una coalizione che tendeva a formare, intorno al movimento bolscevico e a Lenin, nuove forze in radicale contrapposizione all’esperienza socialdemocratica ([8]). In seno al massimalismo italiano si svilupparono altre correnti.

Quella degli astensionisti, guidata da Bordiga che si era mossa su un terreno scissionistico fin dal suo nascere, ben radicata a Napoli tra gli operai, i ferrovieri, i postelegrafonici, fornita di una testata nazionale, Il Soviet che gli garantiva una visibilità consistente nel  movimento operaio italiano.

Meno strutturata era la corrente che si era formata con la rivista L’Ordine Nuovo ad opera di Gramsci,  Tasca, Togliatti, e Terracini.

Questa corrente si contraddistinse per la profonda battaglia teorica contro l’economicismo e il determinismo, dando inizio ad un reale distacco dalle posizioni politiche dall’intransigentismo serratiano, producendo una corrosiva critica che, sopratutto per opera di Gramsci, formulava la costruzione dei “consigli di fabbrica” quale base di una nuova concezione dell’organizzazione e della lotta rivoluzionaria ([9]). In questo periodo Serrati tentava di riconnettere le peculiarità del socialismo italiano nelle più ampie dimensioni del movimento rivoluzionario internazionale: un tentativo “unitario” che ha caratterizzato gran parte dei suoi errori impedendo lo sviluppo di un partito bolscevico in Italia.([10]).

L’approccio di Serrati, come vedremo, si dimostrava tutto interno alla tradizione della II internazionale. L’idea della rivoluzione quale processo i cui cardini essenziali erano la lotta di classe attraverso le strutture tradizionali del movimento operaio, non rispondeva più all’esigenze dell’epoca nuova, alla straordinaria esperienza consiliare del biennio rosso che rendeva pressoché improponibile il tentativo di investire la socialdemocrazia italiana nella prospettiva rivoluzionaria della III internazionale.

Con l’adesione all’IC del Psi al congresso di Bologna si espresse più concretamente l’influenza del bolscevismo sul movimento operaio italiano.

In realtà tutte le aperture e i tentativi dei massimalisti, e in particolar modo di Serrati, di dislocare la storia del movimento socialista nel quadro internazionale rivoluzionario, non mutava grandemente la tradizione riformista del Psi.

Ancora una volta si mostravano tutti i limiti del massimalismo: l’incapacità ad analizzare i rapporti di classe, le forme e gli strumenti della lotta rivoluzionaria, anzitutto dei consigli di fabbrica, che incontravano la cecità intransigente del massimalismo e persino della frazione bordighista ([11]).

Per Gramsci e più in genere per gli ordinovisti, i consigli rappresentavano il nuovo strumento per superare i limiti corporativi delle organizzazioni tradizionali: essi divenivano la sede materiale della unità politica ed economica della classe operaia e soprattutto rendevano possibile l’inquadramento di masse disorganizzate.

Il dibattito nel Psi, a partite dai consigli, andava di pari passo con il dibattito nell’IC: è Lenin a definire i consigli operai “organismi del processo rivoluzionario” e “governo rivoluzionario in embrione”. 

Lenin affermava che “il corso generale della rivoluzione proletaria era identico in tutto il mondo” ([12]), prendendo spunto dal successo degli organismi di autogoverno operaio, non solo nell’arretrata Russia, ma anche nel cuore del capitalismo mondiale in Germania e Inghilterra.

In definitiva il rifiuto dei consigli da parte del massimalismo e del bordighismo, produceva la negazione più profonda della politica delle alleanze tra la classe operaia tradizionalmente organizzata nei sindacati, le masse disorganizzate e quei settori di piccola borghesia in crisi sospinta su un terreno anticapitalista.

La battaglia che Serrati nei confronti dei consigli (che definì “opera di faciloneria”), altro non era che il tentativo di depotenziare il patrimonio rivoluzionario internazionale, tentando un’improbabile sostituzione con le vecchie cooperative  e le mutue, puntando dunque sulla tradizionale unità economicistica del movimento operaio.

Questa impostazione ha rappresentato il portato storico della socialdemocrazia, che costruiva il partito quale “coordinatore-educatore” delle coscienze, nella prospettiva “mitica dello sviluppo delle forze produttive”, rimanendo così estranea la prassi della rottura rivoluzionaria  e dello strappo dal capitalismo.

Anche lo scontro tra Lenin e Serrati in seno all’IC risentiva delle contraddizioni del massimalismo italiano: Serrati mosso da uno storico settarismo di partito e da un corporativismo sindacale, come avversò i consigli per valorizzare astrattamente le strutture tradizionali del movimento operaio, finiva per osteggiare – in merito alla questione coloniale – l’appoggio ai movimenti di liberazione nazionale.

Queste concezioni sancirono il distacco da Lenin, il quale asseriva: “il suo discorso è come quelli che noi sentivamo anche nella II internazionale..”.

Preso atto dell’impossibilità di un rinnovamento della politica rivoluzionaria basata sui consigli, della mancata espulsione dei riformisti dal partito e dell’influenza del gruppo di Radek e quello degli ungheresi ([13]), Gramsci e Terracini, malgrado la differente impostazione sulla politica delle alleanze, si riavvicinavano a Bordiga per preparare la scissione del 1921.

 

Le scissioni in Europa e l’Internazionale Comunista

La nascita della III internazionale nel marzo 1919, riscosse grande successo poiché del tutto naturalmente si proclamava, ed era riconosciuta, quale erede del movimento zimmerwaldiano: segnando definitivamente l’allontanamento dalla socialdemocrazia e dal revisionismo, avanzava “l’alternativa rivoluzionaria quale rottura con l’ordine capitalista nel punto di sua massima crisi” ([14]) .

In Europa, in quegli anni, ancora mancava un reale partito bolscevico e i raggruppamenti di sinistra non riuscivano a superare politicamente e organizzativamente la II internazionale.

L’unico gruppo a porsi realmente la necessità della costruzione del partito rivoluzionario era quello Spartachista, che, pur potendo vantare una grande credibilità agli occhi del movimento pacifista, aveva il grande limite di non essersi collegato alle organizzazioni consiliari per conquistarne l’egemonia  ([15]).

Le gravi mancanze in seno al gruppo Spartachista si ripercossero inevitabilmente sulla rivoluzione tedesca: Eberlein all’interno del partito comunista tedesco (Kpd), più volte spiegò che quel fallimento dipendeva dalla mancata formazione di un partito rivoluzionario e dallo sviluppo di massa delle strutture consiliari.

La rivoluzione tedesca riproponeva al movimento operaio internazionale la questione di fondo: la dialettica leninista direzione-spontaneità, partito-masse.

La sconfitta dei moti rivoluzionari tedeschi, ungheresi e di Monaco di Baviera, indusse Lenin, per riattivare il processo rivoluzionario, a costituire una rete di partiti comunisti aderenti all’Internazionale.

La posizione di Lenin, in questo periodo, si differenziava sia dalle tendenze legate a Levi (KPD) – della rivoluzione quale processo di lungo periodo basata sull’idea dell’immaturità delle masse – e sia dalla tendenza di sinistra di Radek, che contrapponendosi a Levi sosteneva con Bela Kun il proseguimento dell’offensiva rivoluzionaria.

Pur contrastando decisamente le posizioni estremistiche, Lenin al II congresso si trovava sostanzialmente isolato tra la destra e la sinistra dell’internazionale: un quadro politico questo che influenzò fortemente la stessa scissione di Livorno in Italia.

La scissione nel Psi venne preceduta in Germania ed in Francia da scissioni maggioritarie: in Germania la fusione ad  Halle tra la Kpd e la maggioranza di sinistra della Uspd, e a Tours in Francia con una scissione che tra forti polemiche reclutava adesioni anche tra gli ex interventisti.

Le due scissioni provocarono nella destra indipendente tedesca e nella minoranza socialista francese la nascita dell’Internazionale di Vienna, organizzazione delle tendenze centriste, conosciuta anche come “Internazionale due e mezzo”.

Le scissioni di Halle e a Tours, però, erano strettamente connesse allo spostamento a sinistra della base operaia, che in particolare in Germania, dopo putsch di Kapp, rendeva evidente il fallimento della funzione mediatrice della socialdemocrazia, tra la reazione militare della borghesia e la rivoluzione bolscevica.

Il valore della fusione intervenuta ad Halle era soprattutto inscritto nel mutato quadro sociale, che produsse ad opera di Radek e Levi la tattica della “Lettera aperta ai partiti tedeschi”, che in definitiva venne assunta da Lenin e meglio sistematizzata al III congresso dell’IC nella concezione del “fronte unico.”

In particolare con la concezione della “Lettera aperta”, per Levi bisognava realizzare scissioni maggioritarie per puntare alla costruzioni di partiti comunisti di massa, legati ai sindacati tradizionali.

La posizione di Levi però non si costruiva essenzialmente come proposta tattica, ma era più in generale l’espressione della formazione di una tendenza di “destra” in seno all’IC, per molti versi simile a quella espressa da Serrati.

Il quadro delle posizioni che si agitavano in seno all’ IC erano così riassumibili: Lenin e Zinov’ev puntavano in Italia ad una scissione maggioritaria, mentre il delegato tedesco Levi (della KPD) aveva una posizione più moderata (di lungo periodo), Kabakeev e Rakosi erano i più ferrei sostenitori della scissione a Livorno anche se minoritaria ([16]). Gli anni a venire dimostrarono che tra Levi e Serrati vi era stata un’unitaria posizione di carattere contingente: mentre Levi acuirà progressivamente il suo distacco dall’Internazionale, Serrati malgrado gli aspri contrasti avvierà un difficile riavvicinamento nelle file del Partito Comunista ([17]). Levi considerava estremamente grave la rottura avvenuta a Livorno giudicando “un’illusione che in Italia ci fosse un partito comunista”, ma soprattutto pensava, così come la direzione del Kpd, che senza Serrati gran parte delle masse socialiste venivano spinte nelle mani dell’Internazionale due e mezzo.

I rapporti tra il Partito Socialista di Serrati e il KPD di Levi si fecero così stretti al punto che Gejer della direzione e a nome del Kpd, inoltrò il ricorso all’Internazionale per le decisioni prese a Livorno.

Da questa apparente “fusione” tra gli apparati della Kpd e del Psi prese le distanze Clara Zetkin, che pur confermando le critiche per la scissione, nonché per i metodi di alcuni dirigenti dell’IC, non risparmiava un giudizio negativo anche verso lo stesso Serrati ([18]).

La questione della scissione di Livorno tornava di nuovo all’ordine del giorno nel Kpd, su sollecitazioni di Rakosi a cui si unirono tutte le tendenze di sinistra, votando un ordine del giorno contrario a quello precedente formulato da Levi.      

La votazione del nuovo ordine del giorno vide la vittoria delle tendenze di sinistra del Kpd, che anzi sostenevano la necessità della formazione di partiti ristretti e l’attualità dell’attacco frontale con la borghesia (teoria dell’offensiva).

Questo produsse al III congresso dell’IC un riposizionamento delle tendenze di sinistra, attraendo anche a sé il giovane partito italiano e quello ungherese, oltre a raggruppamenti minori.

Al polo opposto si collocava la destra di Levi e in una posizione intermedia Clara Zetkin, mentre Zinov’ev, Bucharin e Radek guardavano fortemente alla costituenda tendenza di sinistra.

Lenin e Trotskij assunsero una posizione che la tendenza di sinistra giudicava in modo critico, come una svolta verso le posizioni di Levi, poiché i due dirigenti rivoluzionari ritenevano positiva “la lettera aperta”, pur considerando sbagliata la tattica di Levi nei confronti di Serrati, ma ormai Levi era già stato espulso dal Kpd e tra l’altro proprio in quel periodo scriveva un opuscolo contro tutta l’IC.

Lenin, dal canto suo, era fortemente convinto della bontà della tattica della “lettera aperta”, così come era radicata in lui la convinzione che solo “la conquista della maggioranza” della classe operaia avrebbe aperto la porta alla rivoluzione; e  recriminava “(…) si dovevano espellere dall’IC non più tardi da un mese dopo il III  congresso, tutti coloro che non avevano capito la necessità della tattica della lettera aperta” ([19]).

In particolare Lenin rimproverava a Serrati, così come a Levi,  “di non avere espulso i riformisti”, ma al contempo ammoniva i comunisti italiani che dovevano convincere della necessità della scissione gli operai serratiani, ammonendoli  con parole più dure di quelle indirizzate alla destra: “non fate i gradassi, non giocate al sinistrismo”.

Queste critiche incontrarono anche le posizioni di Clara Zetkin, che ripeté più volte a Levi che erano le masse che contavano e che non bisognava alienarle “con gli spropositi di sinistra e le timidezze di destra”.

Noi – continuava la Zetkin – “conquisteremo  le masse se agiremo sempre nelle piccole come nelle grandi questioni da comunisti conseguenti”.

Le impostazioni di Lenin, Trotskij e della Zetkin, costituirono la porta aperta del III congresso dell’IC agli ex indipendenti tedeschi e ai terzini italiani, pur permanendo un non secondario conflitto tra Lenin e Serrati sulla questione dell’espulsione dei riformisti di Turati.

 

I terzini e la fusione con il Pcd’I

Il conflitto che era maturato a seguito della richiesta di  espulsione dei riformisti provocava importanti conseguenza all’interno del Psi: si formava la frazione dei terzini che predispose la successiva  rottura con l’unitarismo di Serrati.

Il III congresso dell’IC iniziava proprio con la questiona italiana, per un ricorso contro l’esclusione del PSI portato da Costantino Lazzari, Fabrizio Maffi ed Ezio Riboldi – denominati i pellegrini – che costituirono la cellula originaria della frazione terzina.

Il dibattito all’interno dell’IC sulla questione del PSI registrava posizioni spesso contrapposte: la Zetkin, ad esempio, ancora una volta levava una voce critica, denunciando che la questione delle masse proletarie italiane non potevano essere ridotte al caso Serrati.

Ma le giuste critiche della Zetkin, per come l’Internazionale affrontava la questione italiana, tendevano ad una giustificazione complessiva di Serrati, avallando una sorta di luxemburghiana immaturità delle masse, che non avendo espresso nel biennio rosso una reale coscienza, non permisero al partito di dirigere la rivoluzione.

Questa impostazione veniva fortemente criticata sia dall’IC – in particolare ad opera di Zinove’v e Radek – ma soprattutto dai comunisti italiani, che nel difendere la necessità della scissione assumevano quale obiettivo prioritario lo sgretolamento del Psi ([20]).

Dal canto loro gli inviati socialisti al III Congresso dell’IC, pur tentando di rilanciare  nuove relazioni, presero sostanzialmente le difese di Serrati, utilizzando in tal senso la famosa espressione di Frossard, “nè subordinazione, nè indipendenza assoluta”, proponendo in ultima analisi una improbabile unità che andava a ricomprendere anche l’ala riformista di Turati.

Ma chi diede una svolta decisiva al congresso dell’IC fu sicuramente Lenin, il quale pur rimarcando di nuovo le critiche alla tattica di Serrati, ancora prigioniero di un pericoloso unitarismo, dichiarava senza esitazioni che occorreva giungere al superamento delle rispettive posizioni, per riavviare una unità di tipo nuovo sul piano della lotta rivoluzionaria.

A tal proposito Lenin ammoniva – ancora una volta – la necessità della “rottura definitiva, assoluta con la corrente menscevica italiana, che da oltre 20 anni era maturata al solo fine di collaborare con il governo borghese”.

A Bari il dirigente Di Tullio anticipava la richiesta di eliminare la destra, di aderire alla III Internazionale e di fondersi con le forze comuniste in Italia.

Serrati dal canto suo con lo svilupparsi della tendenza terzina tra il 1921 ed il 1922 tendeva a spostarsi sempre più a destra – segnando un ulteriore strappo dall’IC –, incoraggiando così l’avanzare dell’ala riformista e spingendo le correnti centriste legate al massimalismo italiano a costituirsi in settori di estrema sinistra.

Una geografia politica particolarmente contraddittoria quella del Psi, che faceva il paio con il riflusso delle lotte operaie, la polemica con i comunisti e l’isolamento internazionale.

Gli effetti della debolezza della direzione di Serrati non si fecero attendere: l’area dei pellegrini in particolare Riboldi (non Lazzari e Maffi che rimasero oscillanti) proponeva esplicitamente la formazione di una frazione internazionalista, ponendo le basi per la riunificazione di tutte le forze di estrema sinistra che erano entrate in rotta di collisione con il massimalismo.

La storia dimostrerà che in effetti il risultato elettorale dei terzini sarà ancor più modesto delle previsioni, ma la frazione terzinternazionalista aveva gettato le basi della successiva fusione con il Pci.

Alla vigilia del congresso di Milano coesistevano due posizioni all’interno della tendenza terzina: la più apparentemente moderata faceva capo a Lazzari ed era senz’altro prevalente; mentre quella filo-bolscevica  faceva capo a Riboldi ed al nucleo dei terzini napoletani. Al di là dei differenti orientamenti i terzini formarono una vera e propria frazione internazionalista, che si contrappose duramente alla direzione di Serrati.

Questo positivo processo di maturazione all’interno del Psi era testimoniato dalla presenza della Zetkin fin dalla prima riunione della formazione della frazione. Questa presenza non rappresentò solo il sostegno alla frazione internazionalista, ma il tentativo di condizionamento su Serrati per produrre l’espulsione dei riformisti e tentare di ricondurre il grosso della corrente massimalista nell’alveo dell’IC.

Ma fu proprio la Zetkin in un rapporto all’esecutivo internazionale a sostenere che: “ era impossibile trattenere il PSI nell’IC... nessuna tattica prudente e nessuna fine azione diplomatica avrebbe potuto cambiare qualcosa in questa direzione per l’unità”

I terzini dal canto loro pur convinti della necessità di rompere l’unità imposta da Serrati e riportare il PSI nella III Internazionale, erano al contempo coscienti di essere una piccola minoranza e di avere a disposizione poco più di 5.000 militanti che li avrebbero seguiti. Le loro incertezze non impedirono loro di dare battaglia duramente, giungendo sino al punto di boicottare l’intervento del rappresentante dell’Internazionale due e mezzo Fritz Adler.

La Zetkin aveva ritenuto che l’azione dei terzini avrebbe attratto il proletariato italiano più significativo su posizioni rivoluzionarie, proiettando questo processo in una successiva fusione con il Pcd’I.

L’estremismo di Bordiga non si fece attendere: Terracini e Gennari erano per “ignorare” l’esistenza della frazione, proprio in un momento in cui il Pcd’I avrebbe dovuto attrarre a se il grosso del massimalismo italiano.

Anche Gramsci usa parole dure nei confronti della frazione terzina accusandola di  “una mancanza di coraggio morale”.

La sua acrimonia era nella sostanza opposta a quella di Bordiga, poiché riteneva che i terzini avrebbero dovuto fare di più: dovevano rendere più profonda la spaccatura tra i settori significativi del proletariato italiano e la direzione di Serrati ([21]).

I terzini decisero di rimanere nel Psi, traendo le dovute conseguenze sia dai minoritari rapporti di forza e sia dalle posizioni estremistiche del Pcd’I: Serrati usciva vincitore al congresso di Milano, ma lo strappo era avvenuto.

La storia successiva segnala la vittoria del fascismo occorsa da lì a poco, un evento che si rivelò da subito drammatico per il movimento operaio italiano: Serrati dopo il congresso di Milano rimase chiuso nel suo storico immobilismo, come ingabbiato tra i destri e la frazione centrista che in quel periodo iniziava un reale processo di costruzione politica.

Una situazione, questa, che produsse per un verso uno scollamento della base massimalista e per l’altro un pericoloso slittamento dell’apparato socialista verso l’Internazionale due e mezzo, come tra l’altro aveva già previsto Zinove’v.

Sul piano internazionale Levi tentava di capitalizzare la debolezza di Serrati, chiedendo sempre più esplicitamente al dirigente massimalista di accentuare i toni di rottura con l’IC, con l’obbiettivo di creare una tendenza di destra.

Serrati non manifestò mai quel drastico allontanamento dall’IC operato da Levi: pur rimanendo un profondo conflitto con l’IC (dalla questione agraria alla scissione; dalla questione nazionale e coloniale alla tattica più in generale), lanciava la costruzione di un fronte unico internazionale per contrastare il montare della reazione in Europa.

L’indicazione di un fronte internazionale, pur significando per Serrati il tentativo di un recupero di un rapporto con l’IC, dovette però ancora una volta fare i conti con il suo storico unitarismo, che lo vide a Francoforte quale delegato a fianco dei rappresentanti dell’Internazionale due e mezzo e dello stesso Levi, riunione alla quale non partecipava l’Internazionale Comunista.

Il fallimento della Conferenza di Vienna – che avrebbe dovuto riunire le tre internazionali, II, III e due e mezzo in un fronte unico – esplicitamente causato dall’IC che perseguiva la frantumazione delle organizzazioni socialdemocratiche, sortiva in Serrati un effetto opposto: ancora una volta prigioniero del dogma dell’unità proponeva un “Comitato d’azione” con Adler e Levi, una sorta di organismo vitale che avrebbe dovuto porsi tra l’Internazionale di Vienna e l’IC ([22]).

Secondo il dirigente socialista questo comitato internazionale avrebbe dovuto costituire la cosiddetta internazionale “due e tre quarti”, finalizzata ad un processo di riavvicinamento delle forze internazionali intermedie tra la socialdemocrazia ed il bolscevismo, di cui tappa fondamentale doveva essere la confluenza della comunità operaia di Levi nella Uspde, il ritorno di questa nella Spd e l’assorbimento dell’Internazionale di Vienna in quella di Londra (II Internazionale).

In realtà all’epoca solo due alternative avrebbe potuto conoscere il movimento operaio: o l’adesione all’Internazionale delle forze opportuniste, o l’adesione alla III Internazionale bolscevica.

Tutti i tentativi di costruire la II Internazionale due e mezzo a Vienna e la II internazionale due e tre quarti, fallirono perché realisticamente tra le due opzioni non vi era nulla di nuovo, a maggior ragione in un momento in cui il fascismo rendeva impossibile la strategia unitaria di Serrati sferrando la repressione verso le strutture del movimento operaio che costituivano le fondamenta di quella strategia.

La frazione terzina dopo il 28 gennaio del 1922, a seguito dell’esito del consiglio nazionale del PSI, divenne gruppo massimalista per la III internazionale, lanciando un manifesto nel quale si condannava l’incertezza nel quale erano stati lasciati i lavoratori socialisti, costruendo così le basi di una vera e propria frazione.

In questo periodo nasceva, a sostegno della costruzione della frazione internazionalista il settimanale Più Avanti, centro di divulgazione e organizzazione del gruppo internazionalista. Un organo di propaganda sostenuto anche con finanziamenti dell’IC, che ben sapeva di dover supportare l’area del dissenso all’interno del Psi, anche in contrapposizione ai dirigenti del Pcd’I.

Il manifesto rappresentava sostanzialmente l’inizio della scissione: separazione dai riformisti, lotta contro l’equivoco centrista, organizzazione attiva delle masse e adesione alla III Internazionale.

Il lavoro della frazione non si limitava, tuttavia, ad una battaglia interna al partito, ma anche nel sindacato.

Tant’è che al III Congresso del Sindacato Magistrale i terzini appoggiarono un ordine del giorno presentato dai comunisti; e al Consiglio Nazionale della Camera Generale del Lavoro tenutosi a Genova dal 3 al 5 luglio del 1922, la frazione terzina si posizionava autonomamente, presentando un ordine del giorno di critica all’apparato confederale e di valorizzazione dell’“Alleanza del lavoro”, proponendo un fronte unico e l’adesione alla III Internazionale.

Si può affermare che in questo periodo Lenin era più in sintonia con i terzini che con il gruppo bordighista, il quale si limitava ad aderire tra il III e il IV Congresso dell’IC ad un fronte unico sindacale, rifiutando decisamente qualsiasi politica di fronte unico con altri partiti proletari.

Tutta la tattica che la frazione terzina aveva sviluppato, a partire dal congresso di Milano, isolare i massimalisti e predisporre una scissione maggioritaria, mutava radicalmente quando Zinove’v per volontà dell’IC il 29 luglio del 1922 indirizzava una lettera a Maffi, Lazzari e Riboldi chiedendo un riaccostamento con i massimalisti.

Questa direttiva non era frutto di una scelta astratta, ma la presa d’atto della sconfitta del movimento operaio contro il fascismo, il fallimento della sciopero generale, che al di là delle divisioni interne nel partito vide uniti massimalisti e terzini con l’Alleanza del Lavoro, malgrado il sabotaggio dei riformisti.

Dopo la marcia su Roma ad opera delle camicie nere, la riunificazione dei terzini con i massimalisti e la fusione tra questi ed il Partito Comunista d’Italia, divenne per l’IC la necessità storica del proletariato italiano.

La nuova situazione lungi da costituire una nuova unità tra la tendenza massimalista e quella terzina, scontava ancora caratteri di assoluta fluidità e in taluni casi di vecchia acrimonia tra i dirigenti delle due tendenze.

Malgrado questi fortissimi conflitti l’assise socialista conobbe due fasi nettamente distinte: la prima affidata a Serrati era  incentrata sulla polemica con i riformisti; la seconda atteneva ai tratti distintivi del nuovo partito.

Il dato di straordinaria novità era costituito dall’entrata del tema relativo alla fusione con i comunisti che pur non prospettato come necessità imminente, si proponeva come l’obbiettivo di fondo da perseguire.

La strategia fusionista andava di pari passo al processo di omogeneizzazione della due tendenze e alla prospettiva della riunificazione con i comunisti che in quel periodo avvenne a livello sindacale.

Il Convegno delle “Sinistre Sindacali”, che ebbe luogo alla prima metà di ottobre del 1922, rappresentò un primo reale processo di unificazione, mentre sul terreno politico la direzione socialista procedeva a nominare Serrati, Riboldi e Fiorini per il comitato paritetico con il Pcd’I ([23]).

La situazione alla vigilia del IV congresso dell’IC nel 1923 rimaneva senz’altro contraddittoria.

Esistevano influenti settori in seno alla direzione massimalista che erano totalmente contrari, anche dopo il congresso di Milano, all’allontanamento dei riformisti e al fronte unico con il Pcd’I.

In particolare Vella e Nenni, se pur con toni diversi, costituirono il nucleo originario della tendenza antifusionista.

I problemi non continuarono solo sul versante socialista, poiché l’orientamento maggioritario del PCd’I non lasciava spazio a facili ottimismi.

Al Comitato Centrale del Pcd’I tenutosi il 10 e 11 settembre del 1922 Umberto Terracini asseriva: “siamo convinti che il partito massimalista verrà ancora una volta valorizzato dalla presenza dei terzinternazionalisti, i quali varranno a donargli quell’apparenza rivoluzionaria che di per sè non potrebbe conservare. È la prosecuzione dell’equivoco contro il quale da due anni usiamo il meglio delle nostre forze. La tattica dell’Internazionale ci riporrà nella situazione di Livorno: due anni di lavoro indefesso sono stati sprecati”. ([24])

Ma il partito comunista non era più quello del 1921. L’intransigenza bordighista veniva contrastata apertamente dalla destra di Tasca, il quale proponeva esplicitamente di rivedere Livorno e di avviare una politica di recupero dei socialisti.

Contraddizioni profonde, che avevano completamente avviluppato i due partiti del proletariato italiano rendendo  miopi i rispettivi stati maggiori rispetto al fascismo, al punto da manifestare una grande sufficienza persino sulla grande adunanza tenuta a Napoli il 24 ottobre nel 1922 da Mussolini, che  rappresentava la prova generale della marcia su Roma.

Non è un caso che all’indomani dell’adunanza di Napoli correttamente Nenni scrisse sull’Avanti: “la delegazione socialista con alla testa Serrati, prendeva il treno per Mosca con l’assoluta certezza che non sarebbe successo nulla” ([25]).

Ma l’indifferenza rispetto ad un fenomeno così tragico per la classe operaia italiana, finiva per ridimensionare e spesso travolgere le indicazioni del III e IV congresso dell’IC legate alla tattica del “fronte unico”.

Il gruppo dirigente massimalista, così come quello bordighista ancora egemone nel Pcd’I, trovavano paradossalmente l’unico elemento di coesione nell’incapacità di prevedere le nefaste conseguenze che il fascismo stava preparando ([26]).

La combinazione di tutti questi fattori, per quanto compositi e spesso scollegati fra di loro, costrinsero Serrati ad operare importanti ripensamenti proprio sul fascismo – anche a seguito di un’importante relazione di Radek – che come vedremo lo ricollocarono sulla strada dell’Internazionale.

Il dirigente massimalista indicava alcuni fattori topici del fascismo: lo sviluppo a tappe dalla periferia al centro delle istituzioni statali; un doppio livello organizzativo armato; la piccola borghesia quale base sociale originaria e la dipendenza dalla grande borghesia industriale e agraria; la svolta politica della borghesia italiana.                  

Un documento, quello sul fascismo, preziosissimo, in quanto forniva, per la prima volta, anche elementi autocritici sullo stesso biennio rosso, provocando l’entrata di significativi quadri politici e sindacali, in gran parte dell’area terzina, nel Partito Comunista.

Serrati riprende la definizione leninista del fascismo quale “imperialismo straccione”, che permetteva al dirigente socialista di cogliere alcuni elementi di fondo: una politica estera con un forte programma imperialista che faceva il paio con una forte politica antioperaia, l’avvio di una massiccia immigrazione; la cessione all’industria privata di imprese statali; politiche tributarie favorevoli a diverse branche del capitalismo privato. Sulla base di queste considerazioni Serrati, a differenza di altri dirigenti comunisti e socialisti, prevedeva un “consolidamento del fascismo” che avrebbe di lì a poco legato al suo corso tutte le frazioni della borghesia ([27]).

Questa profonda modificazione nel pensiero del dirigente socialista al congresso di Roma produsse la definitiva scissione con l’ala riformista, costringendo così il  massimalismo italiano a ricostruirsi dalle fondamenta scosso tra l’altro dalla separazione dalla Cgdl

Le cifre congressuali: 32.106 voti venivano riportati dalla mozione scissionista dei massimalisti e dei terzini e 29.119 voti dalla mozione unitaria dei centristi e dei riformisti, registrando così una lieve flessione dei massimalisti in parte confluiti nella frazione riformista e il raddoppio nella corrente internazionalista.

Malgrado questi risultati la situazione in Italia rimaneva ancora particolarmente contraddittoria: se da un lato l’IC, confortata anche dalle posizioni di Angelo Tasca, sferzava un duro attacco all’intransigenza bordighista, dall’altro il tema della fusione avviava nel Psi un fenomeno disgregativo acuendo così le tendenze liquidative sviluppatesi nel dopoguerra, al punto di frenare bruscamente Serrati in merito alla fusione, malgrado la rottura con l’ala riformista.

L’IC, dal canto suo, cercava di accelerare  il processo fusionista disponendo 14 condizioni incentrate sostanzialmente sul rilancio dell’adesione all’Internazionale rivoluzionaria, sulla lotta al riformismo e sulla tattica del fronte unico.

Si formava così una commissione per la fusione dei due partiti, della quale facevano parte per il PSI Tonetti, Fabrizio Maffi, Serrati, per il Pcd’I Gramsci, Scoccimarro e Tasca, che tenne le prime riunioni a Mosca sotto la presidenza di Bucharin.

Già dalla seconda riunione, malgrado il favore espresso da molti rappresentanti terziniternazionalisti e gran parte dei massimalisti, giunsero forti opposizioni alla tattica fusionista pregiudicando le stesse risoluzioni del IV congresso dell’IC.

Mentre la commissione per la fusione a Mosca continuava i suoi lavori decidendo le forme e gli organismi direttivi che venivano approvati dal presidium dell’Internazionale, in Italia si cominciava a delineare una tendenza antifusionista supportata in particolare da Nenni, che utilizzando l’Avanti aveva mano libera per l’assenza di Serrati e Maffi.

Nel Psi si avviava a maturazione un grande scontro tra il comitato antifusionista e quello fusionista. Mussolini sembrava l’unico, paradossalmente, a rendersi conto dell’importanza che avrebbe avuto la fusione tra i due partiti del proletariato italiano, tant’è che l’effetto fu l’arresto sistematico dei comunisti e socialisti in prevalenza di orientamento fusionista.

La campagna di repressione coinvolse anche Serrati, ma l’arresto del prestigioso dirigente massimalista sollevò molte polemiche: vari dirigenti socialisti e comunisti accusarono Nenni, neanche tanto velatamente, di connivenza con il fascismo e addirittura di una segreta intesa con Mussolini per sventare la realizzazione della fusione.

Si può affermare sulla questione che sicuramente il fascismo per indebolire ulteriormente il movimento operaio intervenne direttamente nel conflitto tra le due opposte tendenze, dapprima impedendo il formarsi di un unico partito di opposizione e rivoluzionario; e sul finire del 1923 dopo la vittoria della tendenza di Nenni, con la repressione del gruppo terzinternazionalista che rappresentava realmente l’ultima reale possibilità di unificazione.

Dopo il 1923 l’IC seguendo nei fatti l’orientamento di Tasca indicava il blocco della tattica fusionista e il riavvio di una politica di riconquista del Psi.

A questa linea si opposero tenacemente Gramsci, Scoccimarro e Gennari che viceversa indicando da subito la necessità di un’immediata fusione col gruppo dei terzini, gettavano di fatto le basi per la costruzione del gruppo di centro, che avrebbe, di lì a poco, conquistato il partito.

Anche in questa circostanza il percorso di definitiva fusione tra il Pcd’I e i terzini non fu immediato: si costruì un blocco di unità proletaria per l’elezioni del rinnovo del parlamento italiano, il fronte unico tradotto nel blocco elettorale come strumento che avrebbe contrapposto la base socialista ai suoi capi.

In particolare per i dirigenti comunisti il blocco elettorale ebbe senz’altro una motivazione di carattere tattico: favorire lo sviluppo delle migliori condizioni per la scissione della frazione terzina.

Lo dichiarava esplicitamente lo stesso Humbert-Droz alla seduta del Comitato Esecutivo comunista, raccomandandosi di non far trapelare che si era fatto di tutto per evitare il blocco tra Psi e Pcd’I nel momento stesso in cui lo si proponeva, puntando esclusivamente sulla fusione con i terzini ([28]).

La fine delle trattative del blocco elettorale tra Pcd’I, Psi e Psu (quest’ultimo nato con la scissione riformista dopo il congresso di Roma nel 1922) ([29]), avrebbe segnato anche la terza scissione intervenuta nel Partito Socialista dopo il 1921 a Livorno ([30]).

La scissione dei terzini ebbe però delle caratteristiche inedite in quanto nel Psi rimase comunque una tendenza legata all’IC che faceva capo all’anziano dirigente Lazzari, che pur non avendo avuto la forza di abbandonare quel partito, dimostrava che la rivoluzione del ‘17 fu realmente un fenomeno dirompente per le miti tradizioni socialdemocratiche italiane.

La fusione che i terzini operarono con il Psd’I rappresentava realmente un fondamentale momento di costruzione intermedia del partito rivoluzionario, che nel congresso di Livorno trovava un suo punto di concreta definizione.

Questo fenomeno era da subito visibile fin dal risultato elettorale del 1924, così come sostenne Humbert-Drotz nel rapporto all’Internazionale, ritenendo che l’alleanza con i terzini diede modo di conquistare importanti settori delle masse che fino a quel punto avevano seguito il Psi.

D’altronde i risultati delle liste di unità proletaria mostreranno la conquista di importanti settori centro meridionali (dal 8,5% del 1921 al 12,09% nel 1924).

La destra di Tasca dopo la fusione con i terzini venne in buona sostanza esautorata, ma al contempo la delimitazione a destra del partito poneva per il gruppo di centro il problema della sinistra, con un gruppo dirigente complessivamente ancora prigioniero del bordighismo.

Gramsci comprese che per vincere definitivamente l’infantilismo originario dell’estremismo, occorreva sviluppare una profonda azione politica, sia di metodo che di analisi, su questioni fondamentali, tra le quali il fascismo rappresentava senz’altro un fattore centrale.

L’analisi del fascismo divenne da subito uno spartiacque con il bordighismo e con essa la conquista di Tasca a una politica di centro, avrebbe consentito l’ulteriore conquista dei terzini, permettendo a Gramsci di evitare l’unificazione tra questi ultimi e la destra di Tasca. L’entrata dei terzini nel PCd’I nel 1924 ha rappresentato obiettivamente il consolidamento del gruppo di centro, da cui derivarono la sconfitta del sinistrismo, l’attrazione dei terzini nell’orbita del gruppo guidato da Gramsci  e la marginalizzazione della destra ne erano senz’altro i fattori costitutivi.

In un importante articolo comparso sull’Unità, (“Fare di uno due”) del  17 luglio 1924, Gramsci affermava: “(…) il partito comunista non vuole essere soltanto un’élite organizzata della classe operaia, il partito tende a divenire tutta la classe operaia; vuole avere con se la maggioranza del popolo lavoratore, per condurlo alla lotta rivoluzionaria e alla conquista reale del potere politico”.

Tuttavia questo processo non era assolutamente privo di contraddizioni che venivano sia dalla destra che dal bordighismo.

Difatti, a Milano e a Napoli, i terzini aderirono alla sinistra di Bordiga, riconfermando i connotati storici dell’intransigenza del “socialismo italiano”; così come lo stesso Tasca tentava di crearsi una base organizzativa vantando gli storici legami con i terzini ai tempi della fusione.

Serrati muore l’11 maggio del 1926 dopo il congresso di Lione mentre si recava ad una riunione clandestina nelle Prealpi Lombarde, ma la sua maturazione politica rappresentò un fattore sistematico, che rifletteva in definitiva l’evoluzione della stessa tradizione del socialismo italiano. 

Un’evoluzione, quella di Serrati, piena di contraddizioni, che lo fece aderire del tutto acriticamente ad un fenomeno come la bolscevizzazione ritenendo che fosse realmente un valido correttivo contro i “vecchi malanni” del socialismo italiano, e ribadiva: “ho errato profondamente, il nostro partito socialista che per tanti anni aveva predicato la libertà e lo spirito critico era finito nell’apologia di Noske”.

La vicenda dei fatti e degli avvenimenti che attraversarono il movimento operaio italiano dopo la rivoluzione bolscevica e come gli stessi influenzarono il quadro sociale e la stessa nascita del Partito Comunista d’Italia, rappresentano tanto più oggi un patrimonio politico essenziale e imprescindibile per la rifondazione comunista.

Non si tratta ovviamente di riproporre un legame storico e simbolico con una tradizione, né tanto meno immaginarsi la storia imbrigliata nell’attendismo rivoluzionario, ma molto più realisticamente sedimentare i tratti salienti della costruzione del movimento comunista in rapporto con la sua capacità di direzione del movimento operaio, nel tentativo di riattualizzare una rifondazione comunista che si ponga l’obiettivo di dirigere le masse oppresse nel processo rivoluzionario e non certamente di candidarsi come ieri con Noske, oggi ad un nuovo compromesso con la borghesia dei Montezemolo in un futuro governo Prodi.       

 



[1] V.I.Lenin, Un passo avanti e due indietro, Roma, Editori Riuniti, 1972.

[2] Conosciuta anche come III Internazionale, fondata a Mosca in piena guerra civile il 4.3.1919.

[3] I socialisti espulsi per il loro interventismo (Bissolati, Bonomi, Treves, ecc.) fonderanno il Partito Socialista Riformista Italiano (Psri).

[4]  A. Bordiga,  Storia della sinistra comunista – Vol. I, Milano 1964,  pag. 210

[5] In Germania nel 1917 subiva una scissione ad opera del partito socialdemocratico indipendente (USPD),  sottraendo al Spd  un terzo degli  iscritti).

[6] Ma la reazione della socialdemocrazia, che  ancora non smentiva il suo storico servilismo nei confronti dell’imperialismo,fu dirompente: ruppe la dinamica rivoluzionari fingendo di accettare le rivendicazioni operaie e nel gennaio 1919 il Ministro socialdemocratico Noske scatenava una controrivoluzione preventiva,avvalendosi dei “corpi franchi”, commissionava l’assassinio di Rosa Luxemburg e Karl Liebknecht  decapitando il giovane partito spartachista. Finirono  in un bagno di sangue anche la rivoluzione ungherese del 21 marzo e quella di Monaco di Baviera  in cui i comunisti proclamarono eroicamente la Repubblica dei Consigli.  

[7] E’ il caso di Torino in cui  approda una vera sommossa popolare contro i pesci cani della guerra e la proclamazione dello sciopero generale. Ma anche dello sciopero a Milano in cui le donne proclamano spontaneamente un’astensione di massa dal lavoro. 

[8]  P. Spriano, Storia del Partito Comunista Italiano, Vol .I (Da Bordiga a Gramsci), Editori Riuniti pag 36

[9]  L. Paggi, Gramsci e il moderno principe, vol. I pag. 134

In questo ambito si inseriva la presa di posizione di Serrati a favore della costituente, intesa come programma “immediato e d’agitazione”, differenziandosi nella forma dall’ala riformista che vedeva in questa parola d’ordine un indirizzo strategico “per un movimento operaio contrapposto alla dittatura del proletariato”.

Questo programma immediato di riassetto democratico borghese, aveva per Serrati un valore politico centrale: in ultima analisi sarebbe servito, secondo il dirigente socialista, a superare l’eterno dualismo tra azione immediata e finalità socialista.

[11] S. Levrero, Bordiga alla vigilia del congresso di Livorno, cit. pag. 123.  In Bordiga troviamo in questo periodo,a parte l’astensionismo,solo una più netta affermazione degli stessi principi e una richiesta di scissione che però non veniva posta pregiudizialmente:alla “battaglia rigorosa sui concetti rivoluzionari” ingaggiata da Bordiga corrispondeva un’incapacità del tutto simile a quella di Serrati di “dare alle lotte una strategia e una direzione che determinassero sia un effettivo processo rivoluzionario,sia  un radicale rinnovamento e selezione nel partito  

[12] V.I. Lenin, Opere Complete, Roma 1967 pag. 460 e 473

1 Mentre le masse operaie, scrisse Gramsci, difendevano a Torino i consigli di fabbrica, “a Milano si chiacchierava”, facendo fallire il cosiddetto “sciopero delle lancette” nell’aprile del 1920.

[14] T. Detti, Serrati e la formazione del partito comunista, pag. 13.

2 Il fallimento nel 1918 della collaborazione tra spartachisti e gli obleute (movimento rivoluzionario berlinese con una forte base operaia) ricondusse il movimento consiliare sul terreno democratico dell’USPD, alla sconfitta della linea luxemburghiana che indicava la necessità di staccare la maggioranza del proletariato dalla socialdemocrazia conquistando una base di potere reale da cui far scaturire un processo di radicalizzazione. 

[16] Resoconto stenografico del XVII del PSI, cit. pag. 399. Il 18 gennaio 1921 così Dimitrov scriveva alla moglie dal congresso di Livorno:vi è una dura lotta tra i comunisti da un lato e i riformisti e i serratiani dall’altro. A parole sono tutti d’accordo con le condizioni dell’internazionale. In realtà sono opportunisti incorreggibili che si attengono all’umore delle masse. La scissione è inevitabile e sarà probabilmente proclamata domani. I veri comunisti sono un terzo ma in realtà saranno la maggioranza nel partito. La lettera di Dimitrov conferma che ancora a Livorno si era convinti che la base massimalista avrebbe abbandonato Serrati, aderendo dopo il congresso al nuovo partito.    

[17] De Felice,  Serrati Bordiga Gramsci, cit. pag 64.

[18] Avanti, 9 marzo 1921

[19] Lenin, Opere Complete, Roma 1968, pag.298.  

[20] P. Spriano, Storia del Pci. pag. 128  vol. I°

[21] In particolare Gramsci faceva  riferimento alla realtà milanese in cui la frazione internazionalista aveva oltre 1.000 aderenti nella classe operaia.

[22]  Serrati - G. Valenti, 26/05/1922, in archivio Serrati 3/18. 

[23] Per l’IC l’ungherese Rakosi divenuto uno dei più forti assertori del fronte unico sollecitò in questo senso i dirigenti socialisti e fece  accettare da autorità al  C.E. comunista la partecipazione al comitato dei due partiti.

[24] Dal verbale della riunione del CC del Pcd’I, 10 e 11 Settembre  1922.

Ma ancora: chiarisce l’ostilità dei dirigenti comunisti nei confronti del massimalismo e della tattica dell’IC, la risoluzione sulla “questione” socialista, e sull’ipotesi di fusione - la frazione massimalista del PSI, anche se scissa dai collaborazionisti non soddisfa alle 21 condizioni dell’IC, e il distacco dai riformisti dovuto alla loro decisa tattica collaborazionista attuale, è un atto politico diversissimo dal distacco chiesto nel 1920, da tutti coloro che negano il programma rivoluzionario dell’IC e quindi anche dagli intransigenti parlamentari che sono contro la dittatura del proletariato e l’uso della violenza rivoluzionaria (risoluzione sulla questione del PSI del CC del PCd’I 10 settembre 1922).

 

[25] ) P. Nenni, Vent’anni di fascismo, Milano 1964, p.155

[26]) È degna di nota, come elemento di controtendenza, la reazione per quanto epidermica e a tratti emotiva della base socialista, ma anche della tendenza terzinternazionalista e della parte più rivoluzionaria dello massimalismo.

 

[27]) T. Detti,  Serrati e la formazione del Pcd’I.

[28] T. Detti, Op. cit., p 438.

 

[29] Il Partito Socialista Unitario  nel 1930 durante il periodo dell’emigrazione degli antifascisti in Francia, si riunificherà al PSI.

[30] Come sopra avevamo accennato, la prima scissione che si verifica nella storia del Partito Socialista è quella ad opera di Bonomi, Bissolati e Treves, che nel 1912 a causa della loro posizione interventista nella guerra di Libia, verranno espulsi dal partito. Il gruppo darà vita al Partito Socialista Riformista Italiano (PSRI) che ben presto si scioglierà.