Marxismo rivoluzionario n. 5 – dossier usa / lotte popolari e di classe negli usa
STUFI DI BUSH, ANCORA
LEGATI AI DEMOCRATICI
di Peter Johnson
Il 29 agosto circa mezzo
milione di persone hanno manifestato a New York contro la guerra in Iraq e
contro le ricette di Bush in occasione della convention nazionale del Partito Repubblicano. La protesta ha messo
in luce i punti di forza e le debolezze delle lotte popolari e di classe oggi
negli Usa.
La manifestazione è stata imponente, più o meno della
stessa grandezza di quella del 15 febbraio del 2003, i partecipanti erano per la
maggior parte lavoratori e giovani. Vi erano anche piccoli ma significativi
gruppi di sindacalisti, gente di colore e famiglie dei soldati contrarie alla
guerra. I manifestanti erano arrabbiati, e una partecipazione così numerosa e
appassionata è la conferma del fatto che negli USA il movimento contro la
guerra si è nuovamente mobilitato, superando lo sgomento causato dall’aver
mancato lo scorso anno, nonostante le diffuse proteste, l’obiettivo di
impedire l’attacco americano all’Iraq.
D’altro canto, la manifestazione non ha avuto un
carattere proletario, in quanto pochi dei sindacati che avevano aderito hanno di
fatto mandato delegazioni e inoltre negli Usa non esistono partiti di massa dei
lavoratori. Ed era una manifestazione sproporzionatamente “bianca”,
soprattutto per la multirazziale New York.
La mobilitazione era stata promossa dalla United for Peace
and Justice (Ufpj), la più grande coalizione che si oppone alla guerra, sulla
base dello slogan ambiguo “il mondo dice no ai programmi di Bush”.
Formalmente non era a sostegno del Partito Democratico, anche se la maggior
parte dei manifestanti appoggia a malincuore John Kerry e John Edwards come il
“meno peggio” rispetto a George W. Bush e Dick Cheney. Molti fanno questo
pur sapendo che i Democratici sono al soldo del partito aziendale capitalista e
che Kerry ed Edwards sono ampiamente compromessi nell’occupazione di
Afghanistan, Iraq e Palestina, e impegnati nella cosiddetta “guerra al
terrorismo” e nel neoliberismo.
Sul fronte capitalista, anche i padroni sono indecisi.
Gradirebbero che proseguisse la politica di aggressione che l’amministrazione
Bush ha messo in atto dopo l’11 settembre 2001, ma sono preoccupati dal fatto
che essa ha generato troppi nemici. L’intensità della campagna elettorale
miliardaria per le presidenziali di quest’anno riflette il clima
d’incertezza che si respira su entrambi i fronti della divisione di classe.
La combinazione tra la resurrezione del movimento di
opposizione alla guerra e l’appoggio ai Democratici in quanto “meno
peggio” non è una sorpresa, dal momento che la forza dell’imperialismo
americano qui rallenta gli sviluppi politici. Nel complesso ci sono condizioni
abbastanza favorevoli per i marxisti rivoluzionari, per la presenza di
lavoratori e di giovani che riflettono ed agiscono.
Lo scopo di questo articolo è di fornire un breve sguardo
d’insieme sulla situazione politica ed economica negli Stati Uniti come base
per comprenderne le complessità e, direttamente o indirettamente, intervenire
in esse.
L’economia negli Usa
L’economia americana ha subito una fase di recessione
nel 1991-92, un ristagno a metà degli anni ’90, una crescita abbastanza
rapida alla fine degli anni ’90, un’altra fase di recessione nel 2000-2001 e
un ristagno tra il 2002 e il 2003. Il prodotto interno lordo è cresciuto ad un
tasso superiore al 4% dal secondo trimestre del 2003 al primo trimestre del
2004, sufficiente alla creazione di due milioni di nuovi posti di lavoro. Ma
l’espansione economica e la creazione di posti di lavoro esitava nel secondo
trimestre del 2004.
Lo scenario più verosimile per gli anni a venire sarà un
ristagno economico prolungato come nella metà degli anni 90 o probabilmente il
secondo picco di caduta di una fase di recessione con due punti di discesa come
nei primi anni 80. In ogni caso le grandi aziende cercheranno di mantenere i
propri tassi di profitto incrementando il ritmo di sfruttamento dei lavoratori e
abbassando il livello delle loro condizioni di lavoro e di vita.
La situazione economica americana è ad un tempo uguale e
diversa da quella del resto del mondo. Come accadde ovunque, anche negli Usa
l’economia conobbe una crescita abbastanza rapida durante gli anni 50 e 60 e
da allora si trova grossomodo in una fase di ristagno. All’inizio degli anni
70 le grandi imprese raggiunsero un’eccessiva espansione in quasi tutti i
settori, e così gli investimenti si indirizzarono principalmente
all’abbassamento dei costi anziché all’incremento della produzione.
L’unico modo per mantenere i propri margini di profitto era aumentare il
livello di sfruttamento della classe lavoratrice.
Ma nei primi anni 70 i lavoratori difesero con successo la
propria posizione economica e sociale e riuscirono anche ad ottenere alcune
conquiste. Gli anni 1974-75 rappresentarono il punto di svolta della fase di
recessione. Di lì in poi gli imprenditori iniziarono a ritirare molte delle
concessioni fatte nel corso dei 25 anni precedenti con l’intento di
assicurarsi la pace sociale.
Le imprese ridimensionarono, demotivarono,
automatizzarono, licenziarono i lavoratori, velocizzarono i ritmi di quelli
rimasti, sostituirono lavoratori full-time
fissi con lavoratori a tempo determinato e
part-time, istituirono una tabella base delle paghe a due ordini,
eliminarono le indennità stabilite in base al costo della vita, tagliarono le
pensioni, ed aumentarono i versamenti salariali per l’assicurazione sanitaria.
Chiesero che il governo riducesse le tasse, liberalizzasse, privatizzasse ed
eliminasse i provvedimenti sociali in favore dei disoccupati e dei poveri.
In tutti questi aspetti la politica economica americana è
del tutto simile a quella degli altri Paesi. Ma è anche profondamente diversa.
Gli USA hanno un’economia più avanzata e uno standard di vita più alto
rispetto agli Stati semi-coloniali dell’America Latina, dell’Africa e
dell’Asia o rispetto a quei Paesi dove il capitalismo è stato ripristinato o
è in via di restaurazione: la ex Unione Sovietica, l’Europa dell’Est, la
Cina, ecc. Ciò è in parte dovuto allo sviluppo precedente, e in parte è il
frutto del sovrasfruttamento, della dipendenza forzata e dello sfacciato
saccheggio operati dall’imperialismo.
Contrariamente agli anni ‘50 e ’60 gli USA stanno
facendo meglio dei loro rivali imperialisti: Giappone, Germania, Francia, Gran
Bretagna, Italia e le altre potenze capitaliste.
Gli USA hanno avuto una crescita economica più veloce
rispetto ai propri rivali per più di un decennio, anche se la differenza è
imputabile al fatto che la popolazione degli Stati Uniti cresce grazie
all’immigrazione, mentre negli altri Paesi a capitalismo avanzato le
popolazioni sono stabili o in calo. Il tasso di disoccupazione è più basso
rispetto all’Europa Occidentale, ma questa differenza è per lo più dovuta al
fatto che negli Stati Uniti ci sono due milioni di persone nell’esercito e due
milioni di persone in prigione che non vengono considerati fra i disoccupati.
Il relativo successo dell’economia americana in termini
capitalistici si deve in parte al fatto che le grandi aziende del Paese hanno
effettuato una ristrutturazione più efficace e spietata delle loro controparti
giapponesi o europee, aumentando più nettamente il tasso di sfruttamento; in
parte al fatto che gli Usa sono la potenza capitalista dominante, cosa che ha
permesso di trasferire il peso delle proprie difficoltà economiche non solo
sulle semi-colonie e sugli ex Stati operai, ma anche sugli altri Paesi a
capitalismo avanzato, a volte attraverso la coercizione, ma più spesso con il
consenso delle classi dominanti di tali Paesi.
Promuovendo un’immagine di sé come un rifugio sicuro in
un mondo instabile, gli Stati Uniti riescono ad attrarre masse di capitale che
gli consentono di gestire gli enormi buchi nella bilancia dei pagamenti. Tale
afflusso permette di finanziare sia gli investimenti sia il deficit di bilancio,
e per il momento stimola l’economia più di quanto il disavanzo
dell’industria la rallenti.
Gli USA non sono in grado di sostenere la bilancia dei
pagamenti e il deficit del bilancio di governo, ciascuno pari al 5% del Pil, e
questa situazione potrebbe condurre ad un collasso finanziario, se si
verificasse l’ipotesi per cui Giappone, Cina e i governi europei iniziassero a
rifiutare i dollari e il governo americano non riuscisse più a trovare
acquirenti per i bonds con i quali
finanzia il proprio deficit. Ma con tutta probabilità il disavanzo prolungato
porterà ad un aumento dei tassi d’interesse e delle tasse e ad un declino
degli investimenti industriali e delle spese dello Stato.
In ogni caso a questo punto l’allarme finanziario sembra
poco probabile, e i padroni hanno ancora spazi di manovra, lasciando calare il
dollaro rispetto allo yen giapponese e all’euro, forzandone il calo rispetto
allo yuan cinese, riducendo il deficit del bilancio attraverso tagli alle spese
sociali e, se necessario, aumentando le tasse e tagliando le spese militari.
Neoliberismo
Il sistema capitalistico mondiale ha conosciuto un periodo
di relativo equilibrio, a seguito di una fase di estremo squilibrio e crisi che
ha inizio con la prima guerra mondiale e comprende i postumi della secondagli
imprenditori sono sopravvissuti alla crisi principalmente grazie al fatto che il
proletariato non ha avuto una leadership internazionale dotata di un programma,
una prospettiva e un ascendente capaci di guidarlo alla presa del potere. Gli
stalinisti e i socialdemocratici hanno tradito, e i trotskisti erano troppo poco
numerosi. Il nuovo equilibrio ha consentito il boom economico negli Usa e nel
mondo negli anni ’50 e ’60.
L’equilibrio postbellico era sia politico sia economico.
Gli imprenditori investirono in modo massiccio nella ricostruzione, a seguito di
35 anni di distruzioni, e nello sfruttamento dei progressi tecnologici e sociali
del periodo precedente. Fecero concessioni a livello economico e politico ai
lavoratori e ai movimenti popolari, raggiunsero accordi con gli stalinisti, con
i socialdemocratici e con i leaders nazionalisti nella cornice della guerra
fredda, della decolonizzazione e del “welfare state”. Questo passaggio negli Usa venne mediato dal
Partito Democratico, dai leaders riformisti del sindacato e dai neri e gli altri
movimenti di base. Il risultato è stato una spirale crescente che ha sostenuto
se stessa per venti anni.
Dalla fine degli anni ’60 i lavoratori e gli oppressi
iniziarono a chiedere di più di quanto i padroni fossero disposti a concedere.
Il Movimento per i Diritti Civili, il Movimento contro la guerra del Vietnam, e
successivamente l’esplosione di una generale militanza giovanile, nei
sindacati, nell’esercito, tra le donne e gli omosessuali furono negli Stati
Uniti l’espressione netta di questo fermento.
Per tutta la prima metà degli anni ’70 i lavoratori
presero l’iniziativa e continuarono ad ottenere delle conquiste, ma alla fine
del decennio i padroni riguadagnarono il comando ed iniziarono a far arretrare
economicamente e politicamente i lavoratori. Negli Stati Uniti la svolta dal
punto vista economico fu la recessione degli anni 1974-75, mentre dal punto di
vista politico fu il governo di Jimmy Carter dal 1977 al 1981, anche se il
cambiamento è maggiormente associato all’amministrazione di Ronald Reagan dal
1981 al 1989.
I lavoratori continuarono a resistere nei primi anni del
governo Reagan, ma dalla metà degli anni ’80 negli Usa si è consumata una
“guerra di classe unilaterale”, citando un’espressione di Doug Fraser, un
presidente della United Auto Workers che ha fatto molto per smobilitare i
lavoratori. Dalla fine degli anni ‘80 fino alla metà degli anni ’90 il
modello è stato più quello di una pace sociale unilaterale – debole
resistenza da parte dei lavoratori e costanti “pacifici” ma spesso micidiali
abusi da parte dei padroni.
Nel corso degli anni ’80 Reagan subì una metamorfosi e
da paladino della guerra fredda e fracassa-sindacati divenne un benevolo
nonnino.
Un amico di Mikhail Gorbaciov. George Bush Sr. voleva
un’America “più mite e indulgente” e “un nuovo ordine mondiale” di
capitalismo e democrazia. Chiese l’approvazione delle Nazioni Unite per
bastonare l’Iraq, sostenendo che il suo scopo fosse la liberazione del Kuwait,
e non quello di consolidare il predominio degli Usa come “unica
superpotenza”.
Poi Bill Clinton, sensibile, mormorava “comprendo la
vostra sofferenza”, mentre rendeva questa sofferenza più intensa con il North
American Free Trade Agreement (Nafta), con i tagli alla spesa pubblica e gli
aumenti delle tasse per pareggiare il bilancio, con le controriforme per welfare,
immigrazione e diritto penale, e con la guerra in Yugoslavia.
Ovunque la politica capitalista era il neoliberismo,
ovverosia il lassaiz-faire dal punto
di vista economico in cui il governo interveniva solo occasionalmente e solo per
favorire i padroni. Il governo americano utilizzava ancora la coercizione,
giustificando la propria violenza ora con la “guerra alla droga”, ora con la
“guerra alla criminalità”, ora con un “intervento umanitario
dell’esercito”. Ma principalmente faceva in modo che i mercati rafforzassero
l’ordine capitalista, mascherando l’ormai antiquata tirannia del mercato con
il termine moderno “globalizzazione”.
Guerra
Il neoliberismo dissimulato dalla democrazia ha funzionato
fino al momento in cui i lavoratori e gli oppressi hanno accettato la massima di
Margaret Tatcher “non c’è alternativa”. Ma a metà degli anni ’90
lavoratori ed oppressi stavano cominciando a resistere.
Il capitalismo in circa vent’anni aveva sensibilmente
peggiorato le condizioni lavorative e il tenore di vita della classe lavoratrice
americana, pari all’80% della popolazione. Chi ne aveva risentito in misura
maggiore erano stati i poveri, colpiti dai licenziamenti e altre forme di
ristrutturazione, taglio dei salari reali, riduzione della copertura
assicurativa sanitaria e programmi sociali più punitivi. I più se la cavavano
solo grazie al fatto che in famiglia più persone avevano un lavoro, soprattutto
le donne. Un’intera generazione di giovani è cresciuta nella consapevolezza
di avere prospettive peggiori di quelle dei propri genitori.
Sempre più gente iniziava a dire “questa non è
un’alternativa”. Una serie di scioperi, il più eclatante quello dei
Teamsters alla Ups, ha reso la lotta di classe nuovamente bilaterale. I giovani
si ribellavano, come per i noti fatti di Seattle del 1999, quando lavoratori e
giovani protestarono contro l’Organizzazione Mondiale per il Commercio (Wto)
sostenendo gli uni le richieste degli altri. Lo sciopero del pubblico impiego in
Francia nel 1995 e le manifestazioni di Genova nel 2001 senz’altro andavano
oltre, ma anche negli Usa i tempi stavano cambiando.
Anche gli imprenditori come i lavoratori cominciavano a
non essere più soddisfatti del neoliberismo camuffato in democrazia. Man mano
che i lavoratori diventavano riluttanti nel dare ai padroni ciò che volevano,
tra questi ultimi si alzavano sempre più numerose voci che dicevano “allora
prenditelo”. L’elezione di George W. Bush nel 2000 è stata una vittoria di
misura per i rappresentanti politici della linea dura padronale.
La gang di Bush non aveva il mandato della classe
dominante americana, spaccata in due, ed ignorato dall’elettorato anch’esso
diviso a metà. Non ebbero modo di fare un granché nei primi otto mesi in
carica. Gli attacchi al Pentagono e al World Trade Center dell’11 settembre
2001 diedero loro l’occasione per perseguire la propria linea politica,
suffragata dalla necessità di combattere la “guerra al terrore”.
L’amministrazione Bush annunciò una politica
estremamente dura all’interno del Paese e all’estero. Ottenne rapidamente
l’approvazione bipartisan del Congresso per la “guerra al terrore” e per
l’attacco all’Afghanistan, il cui governo, guidato dai Talebani, era
accusato dallo stesso Bush di dare ospitalità ad Osama bin Laden ed Al Qaeda.
Ampliò le proprie facoltà repressive attraverso il Patrioct Act, aumentò
sensibilmente le spese militari, distribuì contratti lucrativi ai suoi
sostenitori, e ridusse le tasse, in misura modesta per la classe media, in
misura decisamente maggiore per le grandi imprese e i ricchi.
L’esercito americano ottenne una rapida vittoria in
Afghanistan, principalmente fornendo supporto aereo all’Alleanza del Nord e
ribaltando le sorti nella guerra dell’Alleanza contro i Talebani. Dopo aver
lasciato l’Afghanistan nelle mani dei signori della guerra preesistenti
all’avvento dei Talebani, l’amministrazione si preparava ad attaccare
l’Iraq. L’obiettivo era di agire sulla base della dottrina proclamata di
recente della preminenza militare e della guerra preventiva e di affermare il
dominio Usa sul mondo, in particolare il controllo sugli approvvigionamenti
mondiali di petrolio e gas naturale.
Il Partito Democratico, inclusi i senatori Kerry ed
Edwards, diede il proprio appoggio al governo per la guerra contro
l’Afghanistan, per il Patrioct Act, per la guerra contro l’Iraq, per molti
tagli alle tasse, e generalmente per la “guerra al terrore”. I media
corporativi ripetevano servilmente le bugie utilizzate per giustificare questa
politica. I burocrati del sindacato e i leaders della maggior parte delle più
grosse organizzazioni di neri, ispanici, donne, gay/lesbiche, ambientalisti, e
per la giustizia globale battevano in ritirata.
La posizione dell’amministrazione Bush non era poi così
forte come sembrava. Molti nella classe dominante erano ancora soddisfatti dal
neoliberismo mascherato dalla democrazia e scettici verso la politica aggressiva
del governo. L’atteggiamento della classe dominante era più o meno: “Prova.
Se ce la fai, ti sosterremo. Se fallisci, sarai abbandonato”.
L’isteria per la “sicurezza nazionale” non convinse
i lavoratori a sottomettersi alle richieste delle aziende, né gli immigrati ad
accettare le persecuzioni, o i giovani contro la globalizzazione e contro la
guerra a rimanere in silenzio. La contestazione al vertice del Fondo Monetario
Internazionale e alla Banca Mondiale a Washington nell’aprile 2002 attirò
decine di migliaia di manifestanti contro la guerra e contro la globalizzazione,
per i diritti degli immigrati e in solidarietà con la Palestina, compresi per
la prima volta numerosi palestinesi e arabi di altre nazionalità.
Il movimento contro la guerra crebbe rapidamente mentre
l’amministrazione Bush si preparava ad attaccare l’Iraq. Il movimento
antiglobalizzazione riprese vita e confluì nel movimento contro la guerra.
Molti sindacati approvarono risoluzioni contro la guerra e le sue conseguenze,
quali tagli alle spese sociali e attacchi ai diritti civili e ai diritti degli
immigrati. Centinaia di migliaia di persone manifestarono contro la guerra nel
2003, a Washington in gennaio e a New York il 15 febbraio.
L’esercito americano ha rapidamente sconfitto e disperso
l’esercito iracheno. Ma lì iniziarono i veri problemi per l’imperialismo
americano. L’amministrazione Bush si aspettava ingenuamente che la popolazione
irachena avrebbe dato il benvenuto ai propri “liberatori”. La maggioranza
degli iracheni aveva accolto con favore la caduta di Saddam Hussein, ma
rifiutava l’occupazione americana. La resistenza si organizzò inizialmente
tra i Sunniti, poi anche tra gli Sciiti. Gli Usa si sono ritrovati tirati dentro
una classica guerra coloniale, in cui la gran parte della popolazione, che
mostra simpatia verso la resistenza, è diventata il nemico.
Lotte popolari e di classe
La classe dominante ha tutti i motivi per essere
soddisfatta: dal punto di vista economico gli Usa si trovano in una situazione
relativamente buona rispetto alla maggior parte degli altri Paesi del mondo,
compresi i rivali imperialisti, e dal punto di vista militare non hanno rivali.
La classe lavoratrice americana è abbastanza tranquilla.
Proporzionalmente il numero di lavoratori iscritti al sindacato è il più basso
dai primi anni ’30. I sindacati raramente scioperano e ancor più di rado
ottengono qualcosa. Le contestazioni, anche quelle contro la guerra, sono
tendenzialmente di scarso rilievo, e quando sono grandi, tendono ad essere più
festose che militanti. Quasi tutti i lavoratori e i giovani percepiscono che i
loro pari non hanno la volontà di lottare, anche se loro stessi lo vorrebbero.
Il sistema bipartitico ancora serve bene il padronato.
Quest’anno 100 milioni di persone, quasi tutti lavoratori, voteranno i
candidati del capitale che appoggiano la “guerra al terrore”,
l’occupazione dell’Iraq e il neoliberismo, pur opponendosi in maggioranza a
queste politiche. Ralph Nader e Peter Camejo, che concorrono per le cariche
rispettivamente di presidente e vice-presidente contro Democratici e
Repubblicani, raccoglierà uno, due o tre milioni di voti, l’unica espressione
quantificabile di dissenso elettorale dall’unanime consenso
all’imperialismo.
Ma la classe dominante ha anche tutti i motivi per essere
preoccupata: l’esercito è intrappolato in una palude. Bush ha attaccato
l’Iraq con la metà delle truppe che suo padre aveva inviato lì nel 1991,
quando gli USA non stavano cercando di occupare il Paese, e con un quarto delle
truppe che Lyndon Johnson aveva inviato in Vietnam. La guerra è stata un
successo militare, ma l’occupazione si sta rivelando un fallimento. Bush,
ingenuamente, si immaginava di andare avanti di trionfo in trionfo, ma ora non
riesce a tirar fuori il suo esercito dall’Iraq per attaccare il prossimo
obiettivo, mentre Iran, Corea del Nord, Venezuela e Cuba lo sfidano. A livello
internazionale gli Stati Uniti non erano più stati così isolati dai tempi
della guerra del Vietnam.
La crescita economica americana è troppo lenta per
consentire allo stesso tempo il mantenimento dei profitti e l’innalzamento del
tenore di vita. Il 20% della popolazione, benestante, essenzialmente la classe
media e gli imprenditori, riceve adesso il 50% delle entrate e possiede l’80%
delle risorse. Questa disuguaglianza non può essere spinta oltre senza che
provochi una rivolta della classe lavoratrice. Gli imprenditori dovranno ridurre
anche la fetta destinata alla classe media, provocandone la polarizzazione e più
in là l’indebolimento del consenso al loro dominio.
Il numero degli iscritti al sindacato è basso, il che sta
obbligando la burocrazia sindacale ad un ripensamento. Nel 1995 la lista
“Nuova Voce” di John Sweeny rimpiazzò la vecchia guardia nella Afl-Cio ,
accusati di non organizzare efficacemente i nuovi iscritti. La gestione Sweeny
ha investito maggiori risorse ed energie nell’organizzazione, ma non è
riuscita a fermare il declino dell’Afl-Cio.
Oggi la Service Employees International Union (Seiu) e il
sindacato nato di recente dalla fusione dei lavoratori del settore tessile,
Unite, e quello dei lavoratori di alberghi e ristoranti, Here, si sono uniti
nella New Unity Partnership (Nup) per riorganizzare la Afl-Cio e i sindacati che
ne fanno parte al fine di essere più efficienti nel compito di reclutare e
offrire servizi ai lavoratori, e in questo processo probabilmente Sweeny sarà
sostituito.
La razionalizzazione burocratica della Nup fallirà,
proprio come ha fallito “New Voice”, ma la sua esistenza è sintomo del
malcontento della base. I giovani lavoratori sono irritati dai salari a doppio
ordine, i lavoratori e le famiglie sono irritati dall’insicurezza e dalle
riduzioni nell’assistenza sanitaria, chi lavora da più tempo è irritata
dalla perdita delle pensioni, i lavoratori non sindacalizzati e gli altri che
lavorano a salario ridotto sono irritati dalla loro esclusione. La tensione nei
posti di lavoro crea il potenziale per un’altra sollevazione della Cio come
negli anni ’30.
Organizzazioni locali si sono organizzate in tutto il
Paese per battersi per il salario di sussistenza, alloggi a basso costo, scuole
e servizi migliori, garanzie sociali e diritti per gli immigrati, e contro gli
aumenti dei prezzi degli affitti e dei servizi, gli sfratti, le esclusioni dai
servizi, il problema dei senzatetto, i pericoli per l’ambiente, e la brutalità
della polizia.
Nei campus dei college e in molte scuole superiori gli
studenti si sono mobilitati contro la guerra, in solidarietà con la Palestina,
Venezuela e Cuba, a sostegno delle lotte dei lavoratori, per la protezione
dell’ambiente, per i diritti civili e quelli degli immigrati, per
l’emancipazione dei neri, degli ispanici e delle donne, per un’istruzione a
basso costo, per aiuti economici e salari più alti per gli studenti lavoratori.
Le donne si sono organizzate, sia localmente che a livello
nazionale, in difesa del diritto all’aborto e per le pari opportunità di
accesso all’istruzione e al lavoro. In aprile, circa 800 mila persone hanno
manifestato “per le vite delle donne” nella città di Washington. Gay e
lesbiche si sono organizzati contro la discriminazione, per la parità di
diritti per le coppie omosessuali compreso il diritto al matrimonio, e contro i
tentativi di negare questi diritti.
I movimenti sociali interclassisti sono molto più deboli
dei sindacati, per il fatto che la mobilitazione avviene nei luoghi in cui la
gente vive o nei luoghi di socializzazione, piuttosto che nei luoghi di lavoro.
Ma un’alleanza tra i sindacati e i movimenti radicati nella società potrebbe
rafforzare notevolmente entrambi. Negli anni ’30 molti sindacati fecero
proprie le cause provenienti dalla società civile, come le esigenze dei
disoccupati, dei poveri, delle donne, dei neri e degli ispanici. Tale “ unità
sociale” favorì per un periodo la trasformazione della Cio da organizzazione
di lotta contro i datori di lavoro in particolare in una organizzazione per la
lotta di classe.
Il potenziale è evidente se si guarda ai collettivi di
lavoratori e alle alleanze tra studenti-lavoratori come Jobs for Justice, le
coalizioni per il salario minimo, le campagne salviamo le nostre scuole, le
organizzazioni dei lavoratori immigrati, quelle per i diritti sociali, le
coalizioni dei laboratori di solidarietà nei campus, la Us Labor against War (Uslaw),
e numerose altre formazioni.
Il sistema elettorale bipartitico sta perdendo efficacia,
la gente è sempre meno motivata ad esercitare il diritto di voto ed anche
coloro che lo fanno disprezzano i candidati che vanno a votare. Sorprendendo
tutti Ralph Nader, concorrendo per la carica di presidente nel 2000 contro
Democratici e Repubblicani, conquistò 2,8 milioni di voti. Quest’anno otterrà
uno, due, tre milioni di voti, nonostante la violenta campagna del Partito
Democratico “chiunque eccetto Bush”. Nader stesso non offre alternative di
classe ai partiti capitalisti, ma la sua campagna mostra le potenzialità di una
rottura di classe del sistema bipartitico.
Cosa si deve fare?
Al momento le lotte popolari e di classe negli Usa sono
poca cosa se confrontate alle situazioni di tante altre parti del mondo. Sono
contenute per la timidezza e in alcuni casi la corruzione delle burocrazie
sindacali e delle leadership dei movimenti sociali, che in linea di massima
accettano la cornice imperialista e appoggiano il Partito Democratico, chiedendo
in cambio soltanto riforme di poco conto per alleviare gli effetti del
neoliberismo.
Sono contenute anche a causa della mancanza di coscienza
di classe tra i lavoratori, che spesso sembrano essere addirittura a destra dei
propri leaders, cosa che quegli stessi leaders utilizzano per giustificare la
propria esitazione: “vorrei fare di più, ma la mia base non vuole andare
avanti”. Ma il conservatorismo dei leaders coincide con i loro interessi più
di quanto il conservatorismo dei lavoratori coincida con i propri. E’ naturale
che i lavoratori non vogliano mettere a rischio ciò che loro e le loro famiglie
possiedono, ma la pressione costante del capitalismo li sta spingendo oltre la
soglia.
I marxisti rivoluzionari non possono sapere quando negli
USA la rivolta della classe lavoratrice prevarrà sulle tattiche di contenimento
del capitalismo. L’esperienza storica qui e l’esperienza attuale in altri
Paesi ci dimostra che le tattiche di contenimento possono essere vinte, ma non
ci dice quando. Nel frattempo dobbiamo lavorare al meglio delle nostre
possibilità per alzare il livello della lotta e alla costruzione di un nucleo
intorno al quale possa formarsi un gruppo rivoluzionario di massa.
E’ semplice descrivere in astratto ciò che bisogna
fare: partecipare alle lotte in corso dei lavoratori, degli afroamericani, dei
latinos, delle donne, di gay e lesbiche e dei giovani, alle lotte in corso nei
luoghi di lavoro, nelle comunità, nei campus, contro la guerra, contro la
globalizzazione capitalista e contro tutte le ingiustizie perpetrate dal
capitalismo qui e all’estero.
Proporre una prospettiva socialista basata su un sistema
di programmi transitori che facciano da ponte tra i problemi percepiti e una
soluzione socialista. Costruire le lotte. Costruire comitati di quadri e quindi
consigli dei lavoratori. Costruire un partito rivoluzionario. Rovesciare il
capitalismo. Instaurare la democrazia proletaria, il dominio della classe
lavoratrice. Costruire il socialismo.
Ma come farlo concretamente in un Paese in cui
l’imperialismo domina pressoché incontrastato e una dozzina di organizzazioni
socialiste rivoluzionarie hanno tutte insieme appena poche migliaia di quadri?
Concluderò discutendo due problemi specifici: classe e razza.
Uno dei problemi chiave per la costruzione di
un’organizzazione rivoluzionaria dei lavoratori al giorno d’oggi negli Stati
Uniti è il fatto che le persone più sensibili al marxismo rivoluzionario sono
gli studenti dei colleges perché sia
i loro genitori e sia loro stessi, forse in modo ambivalente, vogliono farli
uscire o mantenerli fuori dal proletariato. Hanno la tendenza ad essere radicali
durante gli anni del college, poi fanno carriera, si formano una famiglia e
abbandonano l’attività politica. Quando mantengono posizioni radicali, hanno
la tendenza a trovare lavoro nelle università, nelle burocrazie sindacali e
nelle associazioni. Raramente lavorano o vivono in comunità dove possano
organizzare movimenti dal basso.
Questo problema verrà risolto soltanto quando la rivolta
della classe lavoratrice renderà più attraente guidare il proletariato
piuttosto che abbandonarlo. Per il momento bisogna incoraggiare gli studenti dei
colleges che reclutiamo a tornare
nella classe operaia e dare il nostro sostegno a chi decide di farlo.
Un secondo problema chiave è la profonda divisione
razziale che esiste nella società americana. La gente di colore costituisce
circa il 30% della popolazione. I gruppi più consistenti sono gli afroamericani
e gli ispanici, principalmente americani messicani, ciascuno circa il 13% della
popolazione. L’immigrazione legale e illegale fa aumentare costantemente la
percentuale degli ispanici ed ha già creato maggioranze non bianche in
California ed ora anche in Texas, i due Stati più popolosi. Inoltre la gente di
colore, oppressa dal razzismo quanto dal capitalismo, ha una maggiore tendenza
alla militanza rispetto ai bianchi.
Un’organizzazione della classe operaia negli Usa deve
essere multirazziale per avere successo. Le burocrazie sindacali hanno calcolato
questo e oggi quasi tutti i sindacati hanno funzionari neri e ispanici a tutti i
livelli tranne che ai più alti. Le organizzazioni di estrema sinistra, non
avendo le risorse per assumere uno staff multirazziale, tendenzialmente si
dividono seguendo le linee della società americana in organizzazioni di estrema
sinistra di bianchi e organizzazioni di estrema sinistra di afroamericani o
ispanici.
Di nuovo il problema sarà risolto soltanto attraverso la
rivolta della classe operaia che porterà a lottare fianco a fianco lavoratori
bianchi, neri e ispanici, costruirà organi multirazziali di lotta e spingerà
la sinistra rivoluzionaria al punto in cui essa stessa si trasformerà nella
leadership multirazziale di cui la classe operaia ha bisogno.
Per il momento dobbiamo impadronirci di ogni opportunità
per colmare il divario razziale battendoci per far sì che le organizzazioni a
maggioranza di bianchi sollevino questioni particolarmente importanti per gli
afroamericani e gli ispanici, come la brutalità della polizia, le prigioni, la
povertà, scuole e servizi pubblici nei quartieri poveri, i risarcimenti, i
diritti degli immigrati e la rappresentanza politica, e su queste basi costruire
alleanze trasversali alle divisioni razziali. E battendoci affinché le
organizzazioni a maggioranza di bianchi reclutino e costruiscano delle
leadership con la gente di colore, riconoscendo e combattendo le inevitabili
tendenze scioviniste presenti anche nelle organizzazioni rivoluzionarie.
La lotta è scoraggiante, ma l’obiettivo vale lo sforzo.
24 Settembre 2004