Marxismo rivoluzionario n. 5 – recensioni / un contributo alla demistificazione della vulgata sulla II guerra mondiale

 

IL MITO DELLA GUERRA BUONA

 

 

di Alberto Airoldi

 

La recente visita in Italia del presidente Bush, in occasione del sessantesimo anniversario della “liberazione” di Roma, ha riproposto il solito stucchevole dibattito sul debito di riconoscenza europeo verso gli Usa nel corso della II guerra mondiale. Uno dei tratti culturali caratteristici della mutazione dei Ds da partito socialdemocratico in partito liberale è la totale rimozione della categoria di imperialismo e, quindi, la piena accettazione di tutta la favolistica relativa alla missione democratizzatrice degli Usa. E’ pertanto comprensibile che in un panorama culturale sconfortante, dominato dai revisionismi  della destra e dei liberali, non si sia levata praticamente nessuna voce critica in grado di mettere in dubbio la “liberazione” e di denunciare il ruolo genocida degli Usa nel secondo conflitto mondiale.

Temo che, però, il mito della liberazione vada ben oltre i confini della sinistra liberale, non solo per l’incertezza e l’ambiguità delle categorie interpretative utilizzate dalla cosiddetta sinistra antagonista, ma anche perché si tratta di uno di quei temi sui quali più insiste l’indottrinamento scolastico. La storia della II guerra mondiale è poco studiata a scuola, approfondita solo in alcuni suoi episodi e, per lo più, affidata a una serie di luoghi comuni consolidati.

Il libro di J.R. Pauwels [1] risulta quindi particolarmente utile per formarsi una chiara idea delle forze in campo e dei loro moventi. Non si tratta di una ricerca svolta su fonti primarie, che ci illumina su aspetti ancora oscuri di quella vicenda, ma di un compendio dei risultati di varie ricerche controcorrente.

 

Gli alleati e la lotta contro il fascismo

Il primo assunto messo in discussione è quello relativo all’antifascismo degli Usa. La II guerra mondiale viene spesso presentata come uno scontro tra fascismo e antifascismo, tra civiltà e barbarie,  in ultima analisi tra bene e male. A questa mitologia è necessario, anzitutto, contrapporre le dimostrazioni di favore, se non di vero e proprio entusiasmo, per il fascismo italiano e per il nazismo tedesco nei primi anni dopo la presa del potere.  Avendo annientato gli oppositori, cancellato i sindacati, compresso i salari e fatto lievitare i profitti, Hitler era diventato una sorta di paladino di una borghesia  provata dalla crisi economica e terrorizzata dalla rivoluzione Bolscevica, come quella statunitense.[2] Alcuni passarono dalla simpatia all’azione: la Du Pont iniziò a finanziare delle organizzazioni fasciste negli Usa. Henry Ford pubblicò un libro antisemita dal titolo: Internazionale ebraica, che gli valse una decorazione in Germania. Un’analoga simpatia caratterizzava la borghesia inglese, che sperava che Hitler potesse vincere una guerra rivolta a est.  Questi orientamenti si tradussero nella politica dell’Appeasement:  riconoscimento immediato dell’annessione dell’Austria, accordo di Monaco per permettere l’occupazione della Cecoslovacchia. Fu solo con l’invasione della Polonia che i governi inglese e francese si resero conto del pericolo incombente e mutarono politica nei confronti del III Reich. Anche negli Usa gli umori filofascisti iniziavano a raffreddarsi, sebbene circoli molto influenti, come il movimento America First, continuassero a sostenere una politica isolazionista e fiduciosa nell’imminente crociata antisovietica di Hitler.

 

Guerra e affari

La guerra si rivelò, comunque, un ottimo affare per gli Usa. All’inizio essi pretesero il pagamento in contanti per le forniture all’alleato inglese, memori dell’esperienza della I Guerra Mondiale, quando furono costretti a intervenire anche perché rischiavano di veder svanire i propri crediti a causa della sconfitta dei propri alleati.  Solo successivamente Roosvelt, nell’ambito della politica keynesiana di spesa in deficit (e in omaggio alla propria frazione borghese di riferimento), riuscì a ottenere che le forniture avvenissero sotto forma di prestito (con un  credito illimitato). La Gran Bretagna si impegnava, finita la guerra, a smantellare tutte le protezioni doganali verso gli Usa. Le esportazioni statunitensi aumentarono vigorosamente. Fu solo in questi anni che l’economia statunitense si riprese sul serio dalla crisi del 1929, con buona pace della sinistra infatuata di Roosvelt e di Keynes. I disoccupati passarono da 8 milioni nel 1940 a 670.000 nel 1944 (dal 15% all’1,2%). I guadagni delle imprese aumentarono in media del 41%. 

Solo dopo la spettacolare crescita economica garantita dalle esportazioni verso la Gran Bretagna gli Usa iniziarono a temere una vittoria della Germania e, quindi, anche una vittoria dei nazisti nell’attacco all’Urss. Tuttavia questo non significa che gli affari statunitensi fossero esclusivamente con la Gran Bretagna: al contrario, senza i carburanti forniti dagli Usa alla Germania attraverso la Spagna, i nazisti non avrebbero potuto penetrare a fondo nel territorio sovietico.

D’altronde le stesse filiali delle multinazionali statunitensi in Germania non furono espropriate. Lo stabilimento Opel di Brandeburgo (della General Motors), per esempio, fu convertito nel 1939 in fabbrica di carri armati. Ford e General Motors arrivarono a produrre la metà dei carri armati dell’esercito nazista. Solo con la guerra i manager statunitensi tornarono in patria, ma il management tedesco fu libero di operare con grande autonomia. In alcuni casi venne nominato un custode fiduciario, ma senza i poteri dell’amministratore delegato e subordinato al consiglio di amministrazione. La sua funzione era di paravento e permetteva alle multinazionali statunitensi, a volte, come la ITT,  fondamentali per il loro apporto tecnologico, di continuare a fare affari col nemico. I profitti in teoria avrebbero dovuto essere trasformati in crediti esigibili a fine conflitto, ma spesso questo congelamento venne superato con “trasformazioni contabili” e complicati “scambi internazionali esentasse”, o con il reinvestimento degli utili in Germania.

 

Il secondo fronte in Europa

Lo sbarco in Normandia viene presentato come il momento decisivo della guerra: una grande e generoso sacrificio umano che ha segnato l’inizio della fine del nazismo. In realtà la chiave di volta della guerra è stata rappresentata dalla resistenza di Stalingrado. Essa non dipese dagli aiuti statunitensi, che non arrivarono mai a rappresentare oltre il 5% della produzione sovietica, ma dal sacrificio di un popolo (che resistette nonostante gli errori e le sciagurate scelte iniziali della burocrazia staliniana nella conduzione della guerra). Alla fine della guerra le vittime anglo americane furono 600.000, quelle sovietiche 13 milioni.

I sovietici avevano più volte sollecitato l’apertura di un fronte in Europa, ma gli Usa temporeggiavano. Pauwels cita un episodio poco conosciuto: il tentativo suicida di sbarcare a Dieppe in Francia il 19/8/1942, che vide qualche migliaio di soldati (prevalentemente canadesi) mandati allo sbaraglio in un punto dove le difese tedesche erano particolarmente forti. Successivamente si preferì condurre una guerra aerea, con bombardamenti “chirugici”, che causarono 300.000 morti civili in Germania e accrebbero il consenso verso il regime nazista.

Dopo Stalingrado gli alleati iniziarono a temere due scenari: un’avanzata trionfale dell’Urss in tutta Europa o un’alleanza tra l’Urss e la Germania.

La riluttanza ad aprire un secondo fronte nel Nord Europa, privilegiando la ‘’strategia del sud’’ (guerra in Africa e poi sbarco in Italia, con l’annessa difficoltosa risalita di un paese fortemente montuoso), iniziava a mostrare tutti i suoi limiti.

Venne pertanto stabilito che lo sbarco in Normandia, l’operazione Overlord, non era più rinviabile. Pochi giorni dopo il D Day i sovietici lanciarono a loro volta un’offensiva che li portò alle porte di Varsavia. Si trattò di un’azione determinante ai fini della buona riuscita dell’operazione Overlord, come ammesso dallo stesso Eisenhower, ma che riproponeva il drammatico problema di chi avrebbe liberato Berlino. Gli alleati, infatti, erano ancora bloccati nel loro progetto di penetrazione attraverso l’Olanda (Operazione Market Garden).

Fu in questo contesto che gli alleati proposero nell’autunno del 1944 delle conversazioni a Londra, nelle quali si decise la spartizione della Germania (e di Berlino) in 3 aree di influenza.

 

La spartizione dell’Europa

La lettura data da Pauwels degli accordi di Londra e di quelli, successivi, di Yalta, è opposta a quella generalmente data dagli storici. Gli alleati si presentavano con alle spalle una situazione molto difficile dal punto di vista militare e con nulla da perdere. L’esito delle conferenze, lungi dal rappresentare una vittoria sovietica imputabile alla grande opera di seduzione di Stalin, fu un successo insperato per gli alleati. Stalin puntò, infatti, soprattutto sulle riparazioni di guerra e accettò le proposte di spartizione avanzate dagli alleati. Questo significava sacrificare i movimenti di liberazione in Grecia, Yugoslavia, Italia e Francia, come avvenne puntualmente (con l’eccezione della Yugoslavia) e con notevoli spargimenti di sangue di partigiani comunisti. Tra l’altro, mentre nei territori liberati dai sovietici non veniva imposta la nazionalizzazione dei mezzi di produzione e l’occupazione dello stato da parte di un partito filo sovietico, nei paesi liberati dagli alleati venivano creati regimi fantoccio, spesso con la riabilitazione di elementi fascisti (Italia e Grecia) e con l’estromissione, quando non la repressione,  dei movimenti di liberazione. In Francia gli Usa puntarono sul Petainista Darlan, e dovettero ricorrere a De Gaulle, che rappresentava, peraltro,  un’esigua minoranza dei partigiani, solo dopo l’uccisione del loro interlocutore in un attentato.  A guidare Stalin era evidentemente (anche se Pauwels non lo dice esplicitamente) la preoccupazione per l’autoconservazione del potere della burocrazia sovietica, piuttosto che il desiderio di estendere la lotta al capitalismo. Inoltre pare che temesse un capovolgimento delle alleanze, piano a cui sembrava lavorare Goebbels.

 

Dresda e Hiroshima: contro chi?

Un altro aspetto importante affrontato dal libro è quello relativo ai genocidi perpetrati dagli alleati. Anzitutto la devastazione di Dresda, una città di scarsa importanza dal punto di vista produttivo. L’unico motivo plausibile per mettere in atto un massacro simile, che provocò con 750.000 bombe incendiarie la morte di oltre 200.000 persone, fu l’ansia di mostrare a Stalin la potenza aerea degli alleati. Il bombardamento avrebbe dovuto, infatti, essere realizzato subito prima dell’inizio della Conferenza di Yalta e fu rinviato solo per le condizioni atmosferiche sfavorevoli.

Analogamente anche il ricorso alle due bombe atomiche fu motivato dalla volontà di mandare un potente messaggio all’Urss, piuttosto che dalla necessità di piegare un paese già prostrato e sull’orlo della resa. L’Urss, infatti, aveva deciso di entrare in guerra contro il Giappone e di aprire così quel  fronte Orientale che veniva da anni sollecitato dalle potenze alleate.  Il governo giapponese non capì subito dopo la prima bomba che cosa fosse accaduto; gli Usa ritennero necessario sganciare una seconda bomba per affrettare la resa giapponese e non dare così tempo ai sovietici di penetrare in Asia.

L’effetto della diplomazia nucleare fu, secondo Pauwels, per altri versi controproducente. Stalin capì che una politica di concessioni in Europa avrebbe solo generato un’escalation di richieste, sostenute dalla minaccia atomica. Decise inoltre che sarebbe stato più prudente dislocare l’Armata Rossa a ridosso dei confini dei paesi capitalisti, dove sarebbe stato impossibile scatenare una guerra nucleare. Questa scelta comportò la trasformazione della natura sociale dei paesi confinanti, che nel corso degli anni di occupazione sovietica 1944 e 1945 non era stata modificata.

 

Il saccheggio intellettuale della Germania nazista

La sconfitta della Germania, come è noto, non venne sancita da una resa ufficiale davanti alle potenze vincitrici. Vi furono diversi incontri tra nazisti e alleati, come per esempio quello di Berna, e diverse capitolazioni locali. Poiché non era pensabile una capitolazione solo davanti agli alleati, venne organizzata una cerimonia nel quartier generale di Eisenhower, il 7/4/1945 a Reims, con la presenza anche di un ufficiale sovietico. In realtà, però, il cessate il fuoco in Europa si realizzò solo due giorni dopo. In questi due giorni si moltiplicarono episodi di fuga sul fronte orientale di soldati tedeschi dietro le linee alleate, per sfuggire ai sovietici. Fenomeni di rese individuali si erano più volte verificati nella primavera del 1945 e nella maggior parte dei casi gli alleati si erano limitati a isolare questi soldati senza neppure disarmarli: sarebbero potuti tornare utili in caso di un capovolgimento delle alleanze.

Subito dopo la fine della guerra iniziò il cosiddetto “saccheggio intellettuale”: molti scienziati tedeschi furono fatti fuggire per lavorare negli Usa, vennero confiscate tecnologie, piani, brevetti, spesso realizzati grazie agli esperimenti condotti nei campi di concentramento.

 

Le tesi di Pauwels

La lettura proposta da Pauwels del dopoguerra e dell’inizio della guerra fredda è molto influenzata dalla ben nota teoria del complesso militare-industriale. L’autore, infatti, dopo avere documentato il successo economico statunitense dovuto alla guerra e la crescita di una coscienza di classe tra gli operai statunitensi come conseguenza delle lotte sindacali degli anni ’40, giunge alla conclusione che i settori vincenti della borghesia Usa avevano bisogno di prolungare una condizione di guerra. La guerra fredda determinò l’estensione del sistema economico sovietico anche ai paesi dell’est Europa, impedendo che lì si realizzasse una soluzione all’austriaca o alla finlandese, che forse l’Urss avrebbe preferito. Allo stesso modo venne impedita la riunificazione della Germania: una Germania unita ed economicamente forte avrebbe potuto garantire il pagamento di tutti i danni di guerra. La borghesia statunitense (l’elite, come viene chiamata, nell’accezione propria di Wright Millls) secondo l’autore optò per la Guerra Fredda e il Maccartismo al fine di prolungare la felice parentesi a base di lauti profitti delle industrie militari e mettere in atto la repressione della classe operaia.

La tesi di fondo proposta in questo libro è assolutamente condivisibile e, anzi, per dei marxisti dovrebbe essere scontata: l’intervento nella II guerra mondiale ha rappresentato un gigantesco affare per gli Usa. Se la ricaduta è stata, tra l’altro, la liberazione dell’Europa dal nazi fascismo, questo è stato dovuto alla natura dei regimi fascisti, alla loro incapacità di convivere con gli altri imperialismi, e non certo a un’avversione da parte di questi ultimi. Nell’ambito dell’argomentazione risulta debole l’analisi dell’Urss staliniana, vista alternativamente come una dittatura e come parte debole, capace di compiere scelte di grande astuzia e valore. Tra queste anche, pur nelle sue contraddizioni, il Patto Ribbentropp-Molotov. L’assenza di una teoria sulla natura del potere sovietico finisce sempre per generare in autori di sinistra un rapporto di odio e amore nei confronti di Stalin.  Deludente, allo stesso modo, la riproposizione della tesi del complesso militare-industriale, che viene presentato come deus ex machina dell’economia e della politica statunitensi, vero fattore della lunga durata delle scelte dell’imperialismo americano, dalla II guerra mondiale alla II guerra del Golfo. Si tratta di un’interpretazione molto facile, facilmente accettabile, ma, disgraziatamente, smentita dai dati sul peso di tale complesso sull’economia Usa nel corso del tempo[3].

 

Luglio 2004



[1] J.R. Pauwels, Il mito della guerra buona, Datanews, Roma, 2003

[2] La Coca Cola, per esempio, aveva un ottimo motivo per vedere con favore Hitler: nel 1934 vendeva in Germania 243.000 casse, nel 1939 era arrivata a 4 milioni.

[3] L’idea di individuare nella centralità del complesso militare-industriale l’elemento di lunga durata della storia statunitense a partire dalla II Guerra Mondiale è suggestiva, ma non regge alla prova dei fatti. Il rapporto tra spese militari e Pil era l’11,7% nel 1968 e il 3,7% nel 2000.  Nel 2003, nonostante la politica guerrafondaia dell’amministrazione Bush, si era arrivati al 4,54%. Con questo non si vuole negare l’importanza di tale complesso, ma escluderne la centralità. Non pare, inoltre, che esistano studi in grado di associare incrementi significativi delle spese militari con momenti di forte crescita economica (guerra mondiale a parte).