Marxismo rivoluzionario n. 5 – dossier usa / i tanti luoghi comuni sull'economia della principale potenza imperialista
LA LOCOMOTIVA E I VAGONI[1]
di
Alberto Airoldi
Gli
Usa “locomotiva dell’economia mondiale”, gli Usa “paese imperialistico
dominante”, gli Usa “epicentro della crisi attuale”. Si tratta di tre
affermazioni per nulla contraddittorie che, dialetticamente correlate,
forniscono una corretta interpretazione del ruolo degli Usa nel secondo
dopoguerra.
Prima di esaminare alcuni
passaggi fondamentali che hanno portato alla situazione attuale è tuttavia
necessario iniziare a sgomberare il campo da alcuni pregiudizi particolarmente
radicati.
Ci
si scordi anzitutto l’idea che le politiche di stampo keynesiano siano state
appannaggio delle amministrazioni democratiche e quelle deflazioniste delle
amministrazioni repubblicane. Si disgiunga la fuorviante sovrapposizione tra
“neoliberismo” e reaganismo. Si inizi piuttosto a guardare criticamente a
termini entrati di volta in volta in voga negli ultimi anni, e rapidamente
dimenticati, quali toyotismo, o purtroppo non ancora abbandonati quali
neoliberismo, postfordismo e globalizzazione.
Dall’età dell’oro alla
crisi
La storia del dopoguerra è
dominata, per quanto concerne l’imperialismo, dall’azione solidale e
conflittuale di tre potenze: gli Usa, il Giappone e la Germania. Cooperazione,
competizione e conflitto convivono perennemente. Si tratta di un concetto
incomprensibile ai più, che, normalmente, isolano le fasi solidali e quelle
conflittuali come se fossero rigidamente e schematicamente separabili. Tutte le
analisi borghesi ignorano il fatto che ogni cooperazione prepara un conflitto a
livello superiore, e ogni conflitto prepara una cooperazione a livello
superiore.
Nell’immediato dopoguerra, gli
Usa, dopo avere sepolto la Germania sotto il fuoco di Dresda e il Giappone sotto
due bombe atomiche, li hanno sommersi con un fiume di denaro. Sono gli anni
della ricostruzione, che si tramuteranno presto negli anni ruggenti del
capitalismo.
Il boom postbellico, l’età dell’oro, si iniziano a infrangere
nella seconda metà degli anni ’60, a causa di una progressiva riduzione dei
profitti. Nonostante si sia normalmente convinti che l’età dell’oro del
capitalismo postbellico sia stata una fase di auge delle politiche “keynesiane”,
bisogna piuttosto affermare il contrario: la forte crescita non necessitava
politiche di stimolo, e di keynesiano c’erano solo i modelli macroeconomici
che descrivevano le magnifiche e progressive sorti del capitalismo nell’età
dell’oro.
All’inizio degli anni ’70 la
perdita di competitività dell’economia statunitense spinge il paese
imperialistico dominante a mandare all’aria il sistema monetario varato con
gli accordi di Bretton Woods[2]
e procedere a una forte svalutazione del dollaro. Il Giappone, che aveva
prosperato in quegli anni come economia esportatrice, venne sprofondato in una
drammatica crisi. Le amministrazioni repubblicane Nixon prima e Ford poi
realizzarono la più consistente riduzione di tasse della storia statunitense e
vararono un programma tipicamente keynesiano di spesa in deficit che portò a
triplicare il rapporto deficit/Pnl rispetto al 1960. Incominciava una lunga
guerra per ristabilire il saggio di profitto, una guerra rivolta verso i
lavoratori, verso i paesi dipendenti e verso gli altri paesi imperialisti.
La crisi petrolifera della metà
degli anni ’70 non fu quindi la causa della più forte recessione del
dopoguerra. L’impennata del prezzo del greggio colpì proporzionalmente molto
più in profondità le economie di Germania e Giappone, completamente dipendenti
dal punto di vista energetico.
Da Carter a Reagan
Gli ultimi anni ’60 e gran
parte degli anni ’70 rappresentano il vero e proprio “decennio keynesiano”:
spesa pubblica in deficit, riduzione delle tasse. Le conseguenze sono: enorme
espansione della massa monetaria, crescita dell’inflazione in un contesto di
stagnazione, espansione senza precedenti del deficit pubblico e privato. Non
potendo deflagrare con tutta la potenza che richiederebbe, non potendo
distruggere tutte le unità di capitale in eccesso, la crisi di sovrapproduzione
si trascina così con conseguenze non particolarmente devastanti.
Alla politica di forti stimoli
messa in pratica dalle amministrazioni repubblicane seguono i primi decisi
attacchi ai lavoratori statunitensi, ai loro salari e ai loro diritti, a opera
dell’amministrazione democratica Carter. Giappone e Germania, dopo avere
sofferto la forte svalutazione del dollaro, riescono a beneficiare
dell’espansione artificiale della domanda negli Usa.
Una svolta significativa si
verifica dopo il 1980, con l’amministrazione Reagan. Gli attacchi contro i
lavoratori trovano un quadro ideologico di riferimento: il neoconservatorismo e
il monetarismo. Dopo aver piegato i controllori di volo in sciopero e proceduto
a smantellare un parte consistente dei diritti sindacali, l’amministrazione
repubblicana realizza una compressione salariale senza precedenti. Tra il 1979 e
il 1995 i salari reali del 40% inferiore della forza lavoro sono crollati del
12%. Se si considera il 60% inferiore la caduta è del 9,8%.
Contemporaneamente viene
condotta una politica monetaria estremamente restrittiva, che porterà nel
1982-83 a una nuova recessione, dopo quella sperimentata nei primi anni ‘70.
Un’altra delle conseguenze di questa politica è il forte rialzo dei tassi
d’interesse, che farà esplodere la crisi del debito. Le banche e le stesse
nazioni, inondate di liquidità a basso costo negli anni ’70, avevano concesso
enormi prestiti ai paesi del terzo mondo, i quali, improvvisamente, si trovano
indebitati a tassi assolutamente inarrivabili. Germania e Giappone possono
tornare a godere i vantaggi del dollaro forte e gli Usa si ritrovano, in piena
crisi, ad avviare una drastica ristrutturazione. Sono gli anni della cosiddetta
deindustrializzazione e della “terziarizzazione”. In realtà le industrie
non chiudono perché l’economia evolve “naturalmente” verso i servizi,
come vorrebbe la vulgata di economisti e sociologi, ma perché nell’industria
si concentra la sovrapproduzione di capitali. I servizi, in compenso, non si
espandono perché rappresentano il futuro, ma perché tendono ad assorbire, in
qualità di settore fondamentalmente a bassa produttività, la forza lavoro
liberata dall’industria. La produttività del lavoro nel settore non
manifatturiero nel periodo 1979-1990 è cresciuta dello 0,3%, contro il 2,6%
degli anni 1950-1973. Se consideriamo che sono questi gli anni in cui si
iniziano a introdurre massicciamente le tecnologie informatiche, si può
incominciare ad apprezzare quanto ci sia di mitologico nelle favole relative
alla “rivoluzione informatica” e alla “disoccupazione tecnologica”. Di
queste favole si parlerà più diffusamente affrontando gli anni ’90. In realtà
negli anni ’80 gioca molto anche l’espandersi di servizi dequalificati a
bassissima produttività e bassissimi salari: lavori spazzatura che trovavano un
enorme esercito di riserva pronto a ingrossare le loro schiere. Tra il 1982 e il
1990 lo stock netto di capitale è cresciuto del 2,9% contro il 3,4% del
1973-79 e il 4,3% del 1965-73. Il boom reaganiano non è mai esistito,
praticamente da tutti i punti di vista la performance economica è stata
inferiore a quella dei difficili anni ’70 (gli anni dei cosiddetti shock
petroliferi, dei conflitti di lavoro, della sconfitta nel Vietnam e in Iran).
Sarebbe un grande errore
considerare la cosiddetta Reaganomics
come un complesso coerente e alternativo al keynesismo. L’amministrazione
Reagan, anche per uscire dalla crisi del 1982-83, generò un gigantesco deficit,
il più alto deficit federale di tutti i tempi, attuando un keynesismo
selettivo, a favore della domanda in alcuni settori, come quello militare[3],
nonché un taglio record delle tasse, a favore dei redditi alti. Le tasse su
rendite e interessi passarono dal 70% al 50% nel 1981 e al 28% nel 1986. Le
tasse sui capital gains passarono dal
49% al 28% con Carter e al 20% con Reagan. Le tasse sulla sicurezza sociale, che
ricadono in particolare sulle famiglie dei lavoratori, crebbero del 25% nel
decennio. Oltre a questo si realizzò uno dei più grandi salvataggi della
storia economica degli Usa, quello delle casse di risparmio, destinate quasi
tutte al fallimento. Monetarismo e keynesismo produssero insieme una delle più
efficaci e coerenti politiche a favore dei profitti. Il deficit USA venne
compensato dal forte afflusso di capitali dall’estero, in particolare dal
Giappone, attirato dagli alti tassi d’interesse.
Gli anni ’80 sono, però,
anche gli anni della crescita della speculazione finanziaria. La deregulation dei mercati finanziari è un’altra delle misure
dell’amministrazione Reagan, forse la più importante. Questa politica diede
origine all’altra grande lettura ideologica dei mutamenti in atto: oltre alla
terziarizzazione, la finanziarizzazione dell’economia. Nel mercato della
speculazione finanziaria si gettavano le enormi masse monetarie create negli
anni ’70 prima e ’80 poi, incapaci di trovare delle possibilità di
valorizzazione nella produzione. Il problema è che nei mercati finanziari non
si crea valore, ma ci si impossessa di quote di plusvalore appartenenti ad altri
settori. Sotto l’apparenza di un’esistenza svincolata dalla produzione e
della generazione infinita di nuova ricchezza, si nasconde una continua rapina
reciproca, anzitutto a danno dei piccoli risparmiatori, il “parco buoi”, e
poi dei vari capitali l’uno contro l’altro. Questo fino allo scoppio della
bolla speculativa, che cancella in tempi rapidissimi gran parte della ricchezza
virtuale creata, ai danni di chi è rimasto col cerino acceso in mano. Il
capitale speculativo, per proliferare, esige una crescente liquidità, ma anche
bassi tassi d’interesse e un basso tasso d’inflazione, la penetrazione di
sempre nuovi mercati. Gli interessi di questa frazione del capitale[4]
(che rientra con le altre frazioni in quello che Lenin definiva capitale
finanziario, ed è pertanto largamente compenetrata col capitale industriale)
saranno sempre più determinanti nell’adozione delle politiche economiche e
nelle scelte degli organismi sovranazionali.
A metà degli anni ’80 il
dollaro forte aveva portato gli Usa a un deficit record, nonché a surplus
altrettanto da record di Giappone e Germania. Si rischiava un nuovo crollo, come
quelli del 1971-73 e del 1975-78. Si optò per una discesa pilotata, sancita
dagli accordi dell’Hotel Plaza nel settembre 1985. I tassi di interesse Usa
calarono relativamente a quelli degli altri paesi e il dollaro si deprezzò. Di
questa evoluzione beneficiarono in particolare i “4 draghi” dell’est
asiatico, caratterizzati tutti da valute legate al dollaro, e che, quindi, si
ritrovarono indirettamente svalutate rispetto allo yen. Tra il 1985 e il 1988 lo
yen si apprezzò del 93% rispetto al dollaro. I “draghi” (Hong Kong, Taiwan,
Singapore, Corea del Sud, a cui si aggiungeranno in seguito Cina, Malesia, e in
misura minore Thailandia, Filippine e Indonesia) invasero i mercati un tempo
giapponesi. Le multinazionali giapponesi, ovviamente, approfittarono della
situazione per invadere questi paesi coi propri investimenti diretti (Ide). Sono
gli anni del boom degli Ide. Il governo giapponese, nel tentativo di stimolare
un’economia in forte crisi e bisognosa di profonda ristrutturazione, abbassò
il tasso d’interesse e inondò il sistema bancario di liquidità. La mancanza
di investimenti produttivi a un saggio di profitto attraente fece sì, però,
che il flusso monetario si dirigesse verso i terreni, le case e la borsa: si creò
per questa via l’enorme bolla speculativa degli anni ’80.
Gli anni della new
economy
Gli anni 1990-96 sono stati, dal
punto di vista della produzione, degli investimenti, della produttività e della
crescita salariale, anche peggiori del decennio 1979-90. A partire dalla metà
degli anni ’90, tuttavia, iniziano a manifestarsi gli effetti positivi per i
profitti della prolungata e drammatica compressione salariale e della crescita
delle esportazioni dovuta al basso corso del dollaro relativamente al marco e
allo yen.
E’ interessante soffermarsi
sul fatto che la recessione di inizio anni ’90, che costò la presidenza a
Bush sr, venne affrontata dall’amministrazione Clinton in termini
rigorosamente monetaristi. La ricetta monetarista, predicata dalle
amministrazioni repubblicane e dai suoi ideologi, viene applicata coerentemente
dal primo governo democratico dopo oltre 10 anni.
Se
prendiamo in considerazione l’offerta di moneta nei seguenti paesi: Usa,
Canada, Gran Bretagna, Germania, Giappone, notiamo che essa è cresciuta a un
ritmo medio compreso tra il 12% e il 18% tra il 1973 e il 1979, tra il 7% e il
12% tra il 1982 e il 1990, tra il 2% e il 6% tra il 1992 e il 1997. La spesa
governativa in sostegno al consumo è caduta nei paesi del G7 dal 2,4% del
1973-79 al 2,2% del 1979-89. Tuttavia, mentre si verificava un crollo nei paesi
del G7 (- 57% in Germania, - 47% in Giappone, - 33% in Francia e Canada), negli
USA di Reagan si registrava un incremento del 50%. Tra il 1989 e il 1996,
invece, in un periodo quasi completamente governato dai democratici, si registra
una contrazione dello –0,1% annuo. Clinton ereditava il più grande deficit
della storia statunitense e fronteggiava il rischio reale della fuga dei
capitali giapponesi investiti in buoni del tesoro statunitensi. La Federal
Reserve, diversamente da quanto aveva sempre fatto, si rifiutò di ridurre i
tassi d’interesse per fronteggiare la recessione, procedendo, anzi, a elevarli
del 3% tra il 1994 e il 1995. Negli stessi anni continuò a contrarsi il già
bassissimo tasso di sindacalizzazione, l’incidenza di scioperi e i salari,
naturalmente, restarono fermi. Gli investimenti continuarono a ridursi, e così
pure il saggio di produttività. Sono questi, però, anche gli anni in cui nella
speculazione finanziaria si riversano masse monetarie senza precedenti. Questi
capitali apprezzano particolarmente la bassa crescita senza inflazione (un alto
tasso d’inflazione svaluta intollerabilmente i titoli). La deregolamentazione
dei mercati finanziari e l’enorme massa di capitali speculativi disponibile,
fanno proliferare nuove forme di speculazione. L’arbitraggio, cioè la vendita
e acquisto (o viceversa) quasi istantanei di titoli, opzioni, o contratti più
sofisticati, per lucrare un guadagno sulla variazione di prezzo, diventa una
delle forme principali della speculazione borsistica. Il valore dei titoli viene
spesso gonfiato ad arte, costruendo bilanci truccati, o utilizzando pratiche
come il riacquisto delle proprie azioni. Come sostenuto da Lenin a suo tempo, il
capitale speculativo non rappresenta qualcosa di distinto dal capitale
produttivo, se non per il suo utilizzo. Non esistono capitalisti esclusivamente
produttivi, come non esistono speculatori puri, anche se è molto comodo
costruire il cattivo di turno da incolpare dei crolli che via via si verificano
(nel 1997 il cattivo era George Soros). Oltre ai capitali detenuti dalle imprese
capitalistiche vi sono i fondi detenuti da banche, i fondi pensione, i fondi di
finanziarie specializzate, ecc., tutti alla ricerca di una valorizzazione che
prescinda dal momento produttivo. Si moltiplicano gli investimenti esteri a
breve: i capitali si dirigono verso paesi che, per particolari contingenze,
offrono garanzie di una rapida crescita. Al primo segnale di inversione di
tendenza, però, questi capitali sono pronti a ritirarsi e a puntare su altri
paesi, amplificando enormemente gli effetti della crisi. E’ il caso del
Messico, che nel 1994 e nel 1995 è protagonista di gigantesca una crisi
finanziaria.
La
politica del dollaro debole sta volgendo al termine. Nel 1995 lo yen raggiunge
un nuovo record, assolutamente insostenibile per un’economia agonizzante da
oltre un lustro. La crisi delle esportazioni, l’esplosione della bolla
speculativa, con relativa svalutazione dei terreni, la conseguente crisi di
tutto il sistema bancario, zeppo di crediti divenuti inesigibili, fanno del
Giappone un’economia capitalistica praticamente paralizzata.
La
sempre più sostenuta crescita del dollaro ha come conseguenza quasi immediata
il precipitare nella crisi dei paesi del sud est asiatico, nutritisi negli anni
precedenti dello yen forte e degli Ide provenienti dal Giappone. Inoltre, molti
imprenditori di questi paesi approfittavano per indebitarsi dei tassi
d’interesse giapponesi tenuti bassi nel continuo tentativo di stimolare
l’economia. Le valute di questi paesi, legate al dollaro, offrivano una base
sicura per prendere denaro a prestito a tassi molto bassi e compiere
investimenti e speculazioni. Il rapido apprezzamento del dollaro (e quindi il
calo dello yen) distruggeranno rapidamente questo sistema, imponendo lo
sganciamento delle valute del sud est asiatico e determinando, conseguentemente,
l’insolvibilità dei debitori in dollari.
I
capitali che prima si riversavano sulle aree “in via di sviluppo”, come il
sud est asiatico e alcuni paesi latino americani, iniziano a prendere la via
degli Usa, attratti dagli alti tassi e dal dollaro forte.
Il
paese fino a pochi anni prima più indebitato del mondo, che nei primi anni
’90 aveva adottato la medicina monetarista per ridurre il suo pauroso deficit,
inizia a venire investito da una marea di capitali che, a loro volta, spingono
il dollaro verso sempre nuove vette.
Gli
Usa vengono così a trovarsi nella condizione migliore per una decisa ripresa
senza inflazione: un mercato del lavoro caratterizzato da salari bassi,
bassissima conflittualità, uno sterminato esercito di riserva, costituito
fondamentalmente da latinos in fuga
dalla miseria dei loro paesi, materie prime a basso prezzo garantite dal dollaro
forte, grande afflusso di capitali, conseguente boom di borsa senza precedenti.
Inizia
qui la favola della new economy. Se il
monetarismo, l’economia dell’offerta e il neoconservatorismo avevano
rappresentato, su versanti distinti, la copertura ideologica dell’era Reagan,
la new economy e un nuovo edonismo
rappresentano l’ideologia del boom
clintoniano. Si teorizza la fine del ciclo economico: il futuro dell’economia
sarà un’ininterrotta espansione, garantita dalle nuove tecnologie. La
politica e le guerre “umanitarie” risolveranno le contraddizioni residue.
I
principali argomenti dei sostenitori di questa tesi sono: l’improvvisa
impennata del saggio di produttività, che aveva sonnecchiato per lungo tempo a
dispetto delle nuove tecnologie, e i continui record macinati da Wall
Street, in particolare per quanto riguarda i titoli tecnologici. Altri
elementi sono: il saggio di crescita avviato verso livelli paragonabili a quelli
dell’età dell’oro del capitalismo, l’assenza di inflazione e la sensibile
crescita dell’occupazione. La strana e assortita coppia Clinton-Greenspan
viene considerata rispettivamente come uno dei più grandi statisti e uno dei più
grandi banchieri di tutti i tempi. La modifica dei sistemi di rilevazione del
saggio di produttività, di inflazione e di disoccupazione aiutano
considerevolmente questa illusione collettiva, ma di questo si parlerà in
seguito.
Il
seguito della storia è abbastanza noto: nascono società nel settore della new
economy, vengono quotate in borsa, prima ancora di aver fatto un dollaro di
utile vedono il valore del loro titolo decuplicato, e così via. Una massa
monetaria senza precedenti, che prima circolava per il mondo, si muove ora
prevalentemente sugli Usa e si auto alimenta. I manager e gli stessi lavoratori
vengono in parte pagati con azioni, le pensioni private offrono rendimenti
stratosferici, i tassi d’interesse, continuamente ridotti, incoraggiano
l’indebitamento delle famiglie. Si determina un enorme effetto ricchezza:
tutti si sentono ricchi, possedendo titoli dal valore in crescita continua, e
quindi tutti spendono. La riduzione dei tassi d’interesse, lungi
dall’allontanare i capitali esteri, incoraggiando gli investimenti
speculativi, determina sempre nuovi record a Wall
Street, e quindi un costante afflusso di capitali, un progressivo
apprezzamento del dollaro, una riduzione del prezzo delle materie prime in
dollari e quindi un basso tasso d’inflazione (per le merci e i servizi,
ovviamente, perché la massa monetaria è largamente concentrata nel mercato
speculativo, dove, per l’appunto, si verifica una fortissima inflazione).
Il
brusco risveglio da questo sogno dorato è la grama eredità lasciata da Clinton
a Bush Jr.: il crollo della new economy,
l’enorme eccesso di capacità produttiva, i bilanci falsi, le gigantesche
truffe contabili, i crolli della borsa, l’indebitamento delle famiglie, delle
città, degli stati, del governo federale, un’economia che non si riprende
neppure coi tassi d’interesse più bassi del dopoguerra, un traballante
predominio mondiale da affermare con le bombe e le portaerei. Le dimensioni di
questa crisi di sovrapproduzione sono, citando solo alcuni esempi: un tasso di
utilizzo della capacità produttiva del 73,5% (-3,5% rispetto alla recessione
del 1990-91, -7,4% rispetto al periodo 1967-2001), 15% di eccesso di capacità
produttiva nel settore dei semiconduttori, 2 milioni di automobili prodotte in
eccesso (20 milioni a livello mondiale), 2,1 miliardi di dollari di
indebitamento del settore delle telecomunicazioni nel lustro 1996-2000, profitti
e investimenti ridotti al livello più basso dagli anni ’30.
Infine
il debito: nel 1980 il debito statale rappresentava il 162,3% del reddito
nazionale, nel 2003 è arrivato al 230,7%. Nello stesso periodo
l’indebitamento della famiglie è passato dal 69,4% del reddito nel al 114,5%.
Si tratta del risultato prevedibile della politica di tagli di tasse e di
incoraggiamento del credito al consumo adottata dall’amministrazione Bush: una
politica che, sebbene sia riuscita a traghettare gli Usa dalla recessione di
inizio secolo verso una blanda e discutibile ripresa, ha accumulato una quantità
di elementi potenzialmente esplosivi tale da fare agitare, da economisti di
orientamenti diversi, il fantasma di un possibile esito devastante.
Conclusioni
Questa
breve e necessariamente schematica ricostruzione permette di individuare alcuni
nodi teorici particolarmente interessanti.
Come
già accennato sono stati portati diversi elementi volti a sradicare un tipico
pregiudizio keynesiano-riformista, secondo cui il keynesismo sarebbe la politica
economica delle amministrazioni democratiche e il (neo)liberismo o il
monetarismo quella delle amministrazioni repubblicane. In realtà le politiche
di taglio alle spese sociali e di attacco al movimento dei lavoratori furono
iniziate da Carter e portate a compimento da Reagan, il quale, però, realizzò
anche la più imponente politica keynesiana della storia. I dettami monetaristi,
al contrario, furono coerentemente applicati dalla prima amministrazione Clinton.
Le stesse etichette neoliberismo, monetarismo, appaiono assai discutibili. Il
neoliberismo e il monetarismo hanno convissuto non solo con un’enorme spesa in
deficit, ma anche col salvataggio delle casse di risparmio nell’era Reagan,
col salvataggio di banche e del fondo Ltcm nell’era Clinton, con svariate
forme di protezionismo. Sarebbe probabilmente meglio parlare di politiche
neoconservatrici. Il keynesismo, al contrario, perenne ancora di salvezza dei
riformisti, non è necessariamente legato a una politica espansiva.
L’abbandono del keynesismo alla fine degli anni ’70 non è stata la
conseguenza della vittoria della destra, o della sconfitta del movimento
operaio, ma la conseguenza piuttosto del fallimento nella gestione keynesiana
della crisi. Il keynesismo, infatti, lungi dal rilanciare l’accumulazione, ha
mantenuto in vita i molti capitali in eccesso e ha contribuito a cronicizzare la
crisi, pur contenendone gli effetti.
Dopo
tante illusioni sul superamento delle crisi periodiche il capitalismo
internazionale si trova nel bel mezzo della più grave crisi dopo quella del
1929. La cadenza è sempre stata, approssimativamente, decennale:
1973-1982-1990-2001. Le conseguenze sono sempre le stesse: eccesso di capacità
produttiva, centralizzazione dei capitali. Sulle cause delle crisi, ovviamente,
non c’è il minimo accordo, tanto meno tra i marxisti.
Il
favoloso boom della produttività, al
pari della new economy, è stato
un’invenzione. Anzitutto bisogna avere chiaro che cosa le statistiche
intendano per produttività: di solito si tratta di indicatori diversi tra loro,
ma che non discriminano tra un aumento della produzione nell’unità di tempo
imputabile alle nuove tecnologie e un incremento dovuto all’incremento dei
ritmi di lavoro. Risulta abbastanza complicato valutare il saggio di plusvalore
a partire dalla produttività. Comunque sia la quasi totalità dell’aumento
della produttività riscontrato negli Usa dopo il 1996 era concentrato in un
settore: la microelettronica. Non la produzione di mezzi di produzione, non la
produzione di beni di largo consumo, non i servizi (il settore del futuro
secondo l’ideologia della terziarizzazione), ma il settore principe della new
economy, e quindi delle imprese comprese nel paniere di titoli che
compongono l’indice Nasdaq, il cosiddetto nuovo mercato. Guarda caso proprio nel 1996
l’amministrazione Clinton decise di modificare il sistema di rilevazione della
produttività, introducendo un elemento soggettivo, legato alla qualità del
prodotto commercializzato. In questo modo risultano estremamente sopravvalutate
le imprese con forte innovazione di prodotto. Negli altri settori, però, la
produttività manteneva lo stesso andamento degli anni precedenti: calma piatta,
o un leggero incremento tipico delle fasi di crescita economica. L’espansione
abnorme in quegli anni fa sì che oggi quel settore sia uno di quelli
maggiormente affetti da “eccesso di capacità produttiva”.
Tutte
le promesse dell’imperialismo dopo il crollo dell’Urss sono naufragate. I
conflitti si moltiplicano e sono arrivati a lambire il cuore dell’Europa. La
situazione dei paesi del cosiddetto terzo mondo continua a essere drammatica, in
moltissimi casi sempre più disperata. I cosiddetti paesi in via di sviluppo, i
“draghi” del sud est asiatico e dell’America Latina, sono miseramente
crollati. La risorsa fondamentale, l’acqua, è stata al centro di varie
conferenze internazionali: nel 1980 l’Assemblea Generale dell’Onu proclamò
il decennio 1981-90 “decennio internazionale dell’acqua potabile e del
risanamento”. Nel 1990 la Conferenza mondiale su acqua sicura e igiene
riproponeva gli obiettivi del decennio precedente. Nel 2002 a Johannesburg si
constatava il fallimento di questi progetti,
si fissavano nuovi e minimali obiettivi per i prossimi 10 anni, all’insegna
della richiesta di Nelson Mandela: “Un po’ di acqua per tutti”…
Nel
cuore dell’imperialismo i salari, come potere d’acquisto, sono retrocessi ai
livelli di 30 o più anni fa, il cosiddetto welfare
state viene quasi completamente smantellato, le stesse classi medie, illuse
dalle politiche anti operaie prima e dal boom della borsa poi, sperimentano un
processo classico di pauperizzazione e proletarizzazione. Le pensioni
privatizzate misurano il loro fallimento, lo stesso dicasi per molti servizi
privatizzati (dall’energia elettrica negli Usa alle ferrovie in Gran
Bretagna). Vari paesi sono ormai irrimediabilmente indebitati e si trovano in
una situazione prossima all’insolvenza (default).
Dall’inizio del 2000 lo sboom di
Wall Street ha bruciato 5.000 miliardi di dollari di ricchezza, l’indice
S&P 500 ha perso dal 2000 il 40% del suo valore.
Non
ci troviamo di fronte al fallimento del neoliberismo, ma al fallimento di tutte
le politiche economiche adottate per risollevare il capitalismo internazionale
dalla crisi di accumulazione sperimentata a partire dalla fine degli anni ’70.
Sono fallite le politiche keynesiane, quelle neoconservatrici
monetariste-keynesiane di Reagan, quelle monetariste di Clinton, sono falliti
gli esperimenti neo conservatori della Thatcher (anche se probabilmente la sua
è stata l’esperienza più dura e più efficace dal punto di vista del
capitale), il neoliberismo temperato dei Mitterand, Jospin, Schroeder, Prodi,
ecc. Di riforme socialdemocratiche nemmeno parlarne, nessun governo si è più
azzardato a promuovere una riforma a favore degli interessi dei lavoratori, con
buona pace dei partiti post comunisti, più o meno rifondati. Il capitalismo non
crea prosperità, non sviluppa le forze produttive (come qualcuno sosteneva
vedendo la terza rivoluzione tecnologica), ma genera sempre più miseria,
contraddizioni e guerre. Il carattere prevalente negli ultimi decenni è la
stagnazione, turbata da crisi locali che minacciano sempre più spesso di
generare una catena di fallimenti e insolvibilità a livello internazionale.
Finora queste crisi sono state arginate, gestite, orientate in conformità degli
interessi della potenza imperialista egemone (a pagarne i prezzi sono state, di
volta in volta, il sud est asiatico, il Giappone, la Russia, l’America Latina,
la Turchia).
Il
quadro macroeconomico che ci presenta oggi la potenza imperialista egemone pare,
però, particolarmente fragile: il debito totale in rapporto al Pil è cresciuto
dal 150% del 1982 al 300% del 2002. La tendenza è costante e riguarda anzitutto
il settore finanziario (quasi il 100% del Pil), ma anche quello produttivo e le
famiglie. Il credito al consumo nel 1992 rappresentava il 16% del reddito
personale spendibile, nel 2002 era giunto al 25%. Tutto ciò avviene in
un’economia ancora segnata da una bassa crescita (nonostante exploit
stagionali, spesso molto settoriali), da una basso livello di utilizzo della
capacità produttiva, da bassi profitti.
In
questo quadro, che nessuna commessa o (inesistente) dividendo di guerra ha
mutato, si deve sviluppare la riflessione dei marxisti rivoluzionari sui poli
imperialistici, sulla loro tendenza a ricorrere alla guerra, sulle forme che
assumerà nei prossimi decenni la guerra di classe contro i proletari al fine di
salvare un sistema sempre più fragile.
[1]
Nota
bibliografica:
Una
ricostruzione dell’evoluzione dell’economia statunitense nel dopoguerra,
utile pur non condividendone le tesi e l’impostazione, è contenuta in:
Robert Brenner, The
economics of global turbolence, New Left Review n.229, 5-6 1998, London.
Altre
informazioni, inserite in un quadro analitico marxista, sono contenute nel
paragrafo:
‘’La
crisi e le sue fasi’’, in Gianfranco Pala, Critica
del postfordismo: catene imperialistiche e crisi, Milano, 1998. Lo si può
trovare e scaricare liberamente al seguente indirizzo:
http://www.contraddizione.it/scritti.htm
Nei
seguenti siti si possono, infine, trovare numerosi articoli, di diversi
orientamenti, sull’argomento :
http://www.comw.org/poc/
http://www.leftbusinessobserver.com/
http://www.usemlab.com/html/home.php
[2]
Gli accordi di Bretton Woods
del 22 luglio 1944 imposero
un sistema di cambi ancorato all’oro e al dollaro (oltre che, per poco,
alla sterlina, valuta di una potenza ormai in declino). Fu così sancita la
predominanza degli Usa nel mercato mondiale dei capitali. Furono create le
istituzioni finanziarie internazionali (Fmi; Bm, ecc.), furono abbattute
parte delle barriere protezionistiche che caratterizzavano il capitalismo
d’anteguerra, gli investimenti diretti all’estero statunitensi (tra i
quali i più famosi furono quelli del piano Marshall) giocarono la parte del
leone nel processo di ricostruzione capitalistica. Questo sistema venne
abbandonato nel 1971 a causa dei forti problemi di liquidità
internazionale, conseguenza della crisi iniziata alla fine degli anni ’60.
[3]
Le spese militari crescono sotto l’amministrazione Reagan fino a
rappresentare il 7,4% del Pil
nel 1986, senza, tuttavia, raggiungere la media dell’11% che aveva
caratterizzato gli anni dopo la guerra di Corea.
[4]
Frazione non nel senso di una sua autonomia dal capitale produttivo, data
l’elevata compenetrazione dei capitali, ma nel senso che rappresenta una
forma specifica all’interno del capitale finanziario.