Governo,
sindacati, lotte
La nostra proposta oltre il 24 ottobre
di Marco Veruggio
Come preannunciato la riforma
delle pensioni si sta rivelando la questione centrale della stagione politica
2003-2004 nello scontro tra i movimenti e il governo. Non a caso dico tra
movimenti e governo, perché è lampante che qui ciò che è in ballo non è
tanto la questione sociale o le compatibilità finanziarie quanto i futuri
assetti politici all’interno dei due poli e, di conseguenza, la lotta per
assicurarsi un ruolo di rappresentanza degli interessi padronali nel Paese in
vista delle elezioni politiche del 2006.
Il sistema maggioritario e il
bipolarismo in Italia hanno chiaramente dimostrato di aver fallito l’obiettivo
di assicurare maggioranze di governo stabili, a differenza di quanto sta
accadendo in altri Paesi occidentali. Dal punto di vista padronale, quindi, si
pone il problema di cercare di trovare un rimedio all’ “anomalia
italiana”. In questo quadro si inserisce il tentativo di ricostruire una forza
moderata, radicata socialmente e politicamente affidabile, in grado di
assicurare la governabilità e il controllo sociale dei movimenti, svolgendo il
ruolo che la vecchia Dc si assunse nella cosiddetta Prima Repubblica. La corsa
al centro che ne è derivata ha avuto effetti visibili sia nel Centrodestra sia
nel Centrosinistra.
L’asse Fini-Follini-Casini, in
polemica con quello Berlusconi-Bossi-Tremonti, approfitta della crisi di
rapporto tra governo e poteri forti per lanciare messaggi ai settori a egemonia
centrista (Bankitalia, Cisl, Cei) e accreditarsi come nuovo riferimento moderato
nella Casa delle Libertà in preparazione del dopo Berlusconi.
Margherita e maggioranza Ds si
pongono su un terreno direttamente concorrenziale, portando in dote la loro
capacità di contenimento delle spinte centrifughe rappresentate in questi
ultimi due anni da organizzazioni sindacali (Cgil, Fiom), settori di movimento
(no global, girotondi) e forze politiche come il Prc. Di qui tutta
l’operazione lista unica e partito riformista.
In questo quadro il problema
dell’egemonia sul sindacato confederale è centrale. An e Udc si giocano la
possibilità di recuperare e consolidare un rapporto con Cisl e Uil, che
l’anno scorso aveva prodotto il Patto per l’Italia e l’accordo separato di
Fim e Uilm, ma oggi sembra compromesso dalla stessa crisi del governo.
Margherita e DS cercano di approfittare dell’allentarsi di questo rapporto per
rilanciare l’unità sindacale sotto la propria egemonia.
Tutto quanto è accaduto negli
ultimi mesi si spiega a partire da questo quadro interpretativo.
Lo sciopero del 24 ottobre, che
ha dimostrato ancora una volta la capacità di Cgil-Cisl-Uil di mobilitare i
lavoratori (trascinandosi dietro anche settori di sindacalismo autonomo e di
base e pezzi di sindacalismo di destra come l'Ugl) è stato salutato come un
fatto positivo da tutto il centrosinistra. Contestualmente però il centro
liberale dell’Ulivo ha assunto pubblicamente posizioni che facevano capire il
significato assolutamente tattico di quel sostegno (vedi le aperture dell’area
dalemiana sulla riforma Moratti e la politica fiscale di Tremonti e
l’intervista di Fassino il 26 ottobre: “Andiamo oltre i no. E’ l’ora del
nuovo welfare”).
Nel centrodestra mentre Maroni e
Berlusconi sembrano intenzionati a spingere sull’acceleratore della riforma
(sia pure con cautela), Alemanno e Baldassarre, Follini e D’Antoni premono per
il “dialogo” con le organizzazioni sindacali, sia pure scontrandosi, fino al
momento in cui sto scrivendo, con la freddezza di Cisl e Uil, oltre che della
Cgil. Entrambe le ali del Polo poi lavorano unite nel tentativo di rompere
l’unità sindacale sia con le sparate sulla contiguità tra Cgil e nuovo
terrorismo, sia con i tentativi di intimidazione rispetto alle mobilitazione
della Fiom per i pre-contratti in Emilia Romagna, godendo su questo terreno di
un appoggio da parte della tecnocrazia europea (vedi Padoa Schioppa).
Dentro la Cgil il quadro è
altrettanto complicato. Da una parte a Epifani è chiaro che, visti anche i
risultati non confortanti del suo predecessore, non può fare le barricate
troppo a lungo. L’esperienza del ’94 non è ripetibile perché nel
centrosinistra non c’è alcuna volontà di far cadere il governo, almeno finché
gli assetti per il dopo Berlusconi non siano definiti. D’altra parte la
radicalizzazione dello scontro sociale ha determinato una radicalizzazione degli
iscritti e la Cgil è costretta a percorrere il doppio binario: da una parte
lanciando messaggi rassicuranti al padronato e al centrosinistra (Patto per lo
Sviluppo, unità d’azione con Pezzotta e Angeletti), dall’altra premendo per
arrivare a uno sciopero generale di 8 ore sulle pensioni e “tollerando”
l’iniziativa della Fiom che in Emilia Romagna (zoccolo duro e più moderato e
interclassista dei Ds) sta portando avanti con forza una campagna sui
precontratti che preoccupa il padronato: preoccupazione che nasce -a mio parere-
non tanto dai risultati che le vertenze potrebbero strappare, quanto dalle
modalità “dure” degli scioperi (picchetti, blocco delle portinerie e delle
merci) che fanno temere un possibile contagio, soprattutto se avranno qualche
successo. A questo si aggiunge l’ulteriore complicazione (per noi)
rappresentata dalle ambiguità della maggioranza del gruppo dirigente di Fiom e
Lavoro e Società, che non nasconde ambizioni di garantirsi un ruolo in Cgil
accreditandosi come alleato di Epifani contro la destra interna (legata ai
dalemiani e spesso in combutta coi cofferatiani: vedi il referendum
sull’articolo 18) e cercandosi una sponda politica (vedi Salvi e rottami del
defunto Correntone) e un ruolo nei meandri della erigenda “sinistra
d’alternativa”.
Quale sarà la risultante di
questo groviglio di forze contrastanti è difficile dirlo. Presento due ipotesi.
La prima, sostenuta subito dopo lo sciopero del 24 dal Riformista, è che si vada verso un congelamento dello scontro,
congelamento che toglierebbe le castagne dal fuoco a tutti: al governo, in
evidente difficoltà, ai sindacati e alla Cgil in particolare, a un
centrosinistra dilaniato dalle contraddizioni tra l’ala “riformista” e
quella “antagonista”. La discussione sulla Finanziaria e il Decretone e la
necessità di chiudere l’iter legislativo della Legge Gasparri potrebbero
procrastinare l’approvazione definitiva della delega previdenziale a gennaio.
A quel punto il probabile rimpasto di maggioranza e la vicinanza con le elezioni
amministrative sconsiglierebbero vivamente di andare muro contro muro. E’
un’ipotesi interessante e che coglie -a mio avviso- alcuni aspetti reali. Non
a caso infatti l’ipotesi di un’eventuale sciopero generale di 8 ore avanzata
in qualche modo da Epifani e non esclusa da Pezzotta è stata messa nel
congelatore fino a gennaio, cioè appunto fino alla fine della Presidenza
italiana del’UE.
La seconda, che mi sembra più
probabile e non è del tutto incompatibile con la prima, è che, probabilmente
proprio a ridosso di gennaio e a seconda di come procederà la vicenda interna
alla maggioranza, si ricerchi una qualche mediazione tra governo e opposizione,
tipo quella avanzata dal viceministro Baldassarri a fine ottobre (maggiore
gradualità nell’aumento dell’età pensionabile e dei requisiti
contributivi, magari anticipandone la data).
Ciò che spinge a ritenere più
probabile questa seconda ipotesi è l’osservazione che molti degli attori che
in questo teatrino recitano la parte degli avversari abbiano, per ragioni
diverse, un interesse materiale e coincidente a far giungere in porto la riforma
in tempi brevi. Per il governo ciò significherebbe superare un ostacolo
importante, tanto più a fronte delle tensioni interne, e poter rivendicare in
Italia e davanti ai partner europei di avere portato a compimento due riforme
strutturali, mercato del lavoro e previdenza. Al contempo Berlusconi metterebbe
in saccoccia altri due risultati: mettere sotto la Cgil e l’ala
“antagonista” del centrosinistra contribuendo a rendere problematico il suo
rapporto col centro liberale dell’Ulivo. Non a caso Maroni, la settimana dopo
lo sciopero del 24, ha schiacciato il piede sull’acceleratore dicendo che
secondo lui la delega può essere approvata entro la fine dell’anno. Il
Presidente del Consiglio non è lo sprovveduto beota che viene dipinto dalla
sinistra, ha consiglieri navigati e ha teso una trappola efficace a Fassino
& c. proponendo l’entrata a regime della riforma previdenziale nel 2008.
Se sarà confermato a capo del governo quando arriverà la mazzata potrà dire,
forte di un successo elettorale a spese del centrosinistra, che non c’è nulla
di diverso da ciò che aveva annunciato cinque anni prima, se invece al governo
ci sarà il centrosinistra sarà Prodi a dover applicare e gestire la riforma
fatta dal “nemico” oppure a dover spiegare a Confindustria un’eventuale e
assolutamente improbabile passo indietro. Per questo anche il centro liberale
dell’Ulivo ha interesse ad una mediazione col governo e per un duplice motivo.
Primo: sottrarsi alla trappola, facendo in modo che la riforma delle pensioni
passi col proprio contributo ma col marchio della destra, cioè dovendola
“subire” piuttosto che attuare in prima persona. Secondo: mettere in riga la
Cgil e i riottosi di sinistra, ponendoli nella condizione di scegliere di
rompere e assumere una posizione di sinistra (cosa che non hanno nessuna
intenzione di fare) oppure di accodarsi e subire l’egemonia del centro,
imprimendo così un’accelerazione al processo di consolidamento dell’area
riformista. Una dinamica che ci riguarda da vicino perché è chiaro che il
fatto che il Prc veleggi verso l’accordo di governo col centrosinistra fa sì
che rischiamo di essere risucchiati con armi e bagagli dentro questo meccanismo
perverso.
Il punto è allora cosa fare. Il
potere di ricatto che Berlusconi esercita su Fassino e Rutelli e che questi a
loro volta scaricano sulle spalle di chi è alla loro sinistra è basato sulla
logica bipolare. Berlusconi ricatta Fassino e Rutelli perché sa che, al posto
suo, non farebbero nulla di diverso, a loro volta Fassino e Rutelli ricattano la
sinistra perché sanno che questa ha la prospettiva di doversi alleare con loro.
L’unico modo di uscire da questo circolo vizioso è quello di tagliare i ponti
con quella logica e quindi di porre con forza il problema di una rottura col
centro liberale e coi poteri forti, che è esattamente ciò che abbiamo
sintetizzato dicendo che bisogna battere Berlusconi facendo leva non sulle
ragioni dei banchieri e del capitale finanziario ma su quelle dei lavoratori e
dei movimenti. Per battere non soltanto Berlusconi ma anche le sue politiche la
sinistra non ha altra strada che rompere col centro liberale dell’Ulivo,
denunciandone la collaborazione col governo delle destre e riconoscendo
l’immutabilità della sua natura. Questa proposta va avanzata con coraggio nei
dibattiti della sinistra d’alternativa e va fatta vivere nelle lotte dei
lavoratori e dei movimenti.
In secondo luogo all’unità
coi liberali va contrapposta l’unità della sinistra coi movimenti e coi
propri settori sociali di riferimento. Ciò presuppone il consolidamento di un
blocco sociale tra il movimento operaio e gli altri movimenti, attraverso il
rilancio di una vertenza generale che metta insieme difesa del salario (e del
suo potere d’acquisto) e dello stato sociale, blocco delle privatizzazioni,
abbattimento della spesa militare e lotta contro l’imperialismo americano ed
europeo, controllo dei lavoratori e degli utenti sulla produzione, sui servizi,
sui prezzi.
E’ un’impresa difficile, ma mai abbiamo avuto davanti
tante occasioni di dibattito e, soprattutto, un’attenzione alta come in questo
momento. In politica le occasioni non si presentano due volte. Quando arrivano
non bisogna lasciarsele sfuggire!