Marxismo
rivoluzionario n. 2 - saggi / femminismo
UN
MOVIMENTO INTERNAZIONALE
Due
secoli di idee, figure e lotte del movimento delle donne
di Nedda
Petroni
Il grandioso movimento dell’illuminismo, che si sviluppa e
si diffonde in Europa e in America del Nord nel XVIII secolo, rivendicando i
diritti dell’individuo e quelli della critica e diffondendosi in tutto il
mondo culturale, pone le basi per la formazione di una coscienza femminista a
carattere internazionale. Ma furono le grandi rivoluzioni della seconda metà
del secolo a mettere in moto l’azione politica. Le americane, che
parteciparono alla guerra d’indipendenza, le francesi che lottarono per gli
obiettivi rivoluzionari, capirono ben presto che i grandi principi delle
costituzioni e i diritti solennemente dichiarati si arrestavano alle frontiere
del sesso. Da quel momento il linguaggio delle donne diventò femminista e le
loro rivendicazioni furono specifiche.
Olimpia
de Gouges
Cominciò
quell’Olimpia de Gouges, che pagò con la vita il suo coraggio di prima
femminista. In piena Rivoluzione francese essa constatò che la proclamata
eguaglianza della nuova costituzione repubblicana, inclusa quella solennemente
istituita il 10 agosto 1793 (che per i repubblicani del secolo seguente diventò
il simbolo della democrazia politica) riconosceva alle donne una mezza
cittadinanza, per cui presentò all’Assemblea la “Dichiarazione dei diritti
della donna”. Nell’art. 10, in nome del pieno coinvolgimento delle donne nel
movimento rivoluzionario – fino alla morte – rivendicava: “La donna ha
il diritto di salire sul patibolo; essa deve avere egualmente il diritto di
salire sulla tribuna”. Aveva già organizzano club unicamente femminili,
ma non ebbe il tempo di costruire un vero e proprio movimento politico. La
Rivoluzione francese era il movimento con cui la borghesia conquistava la
propria egemonia politica; in conseguenza, avanti a tutti i diritti rivendicati,
poneva la proprietà, che dichiarava sacra.
Gli
stessi giacobini, che pur costituirono la punta più democratica della
rivoluzione, rappresentavano un ceto di piccoli artigiani, proprietari di
botteghe, che, nella Francia da poco industrializzata, era ancora dominante ed
aspirava ad una società di piccoli proprietari. Ma la stessa pulsione, che
spinge a recingere le terre, a schiavizzare i deboli, ad espropriare i
produttori dei loro strumenti del lavoro, produce anche il rapporto univoco di
possesso tra l’uomo e la donna: i rivoluzionari borghesi che proclamarono il
primo principio d’eguaglianza, furono costretti dalla stessa natura della loro
rivoluzione ad imporre limiti a questo principio. Pensavano che la donna potesse
servire la rivoluzione come moglie e come madre. Perciò, come esclusero il
principio d’eguaglianza dalla sfera sociale, così negarono alla donna
l’eguaglianza politica. Olimpia, che per la prima volta nella storia si era
opposta ad un ordine centrato sull’uomo, il 4 novembre 1793, in piena
Convenzione montagnarda, salì il patibolo.
Mary
Wollstonecraft: Vindication
Però la
parola d’ordine era stata gettata e, un anno prima della morte di Olimpia, era
già stata raccolta in Inghilterra. Qui Mary Wollstonecraft nel 1792 pubblicò La
rivendicazione dei diritti delle donne, un saggio femminista, in cui
insorgeva contro la dottrina russoviana delle inclinazioni naturali, secondo la
quale la donna sarebbe spontaneamente condotta a rivestire il ruolo domestico e
ad essere di conforto allo sposo. Perciò criticava il costume, vigente in tutti
i paesi, che negava alle bambine l’educazione scientifica e denunciava con
forza quella che le destinava al matrimonio come realizzazione naturale,
preparandole affinché diventassero “oggetti seducenti” per il piacere
dell’uomo. Identificandosi con tutte le donne, considerate come gruppo (“Io
parlo in nome del mio sesso, non di me stessa”) lancia loro questo
messaggio: “E’ giunto il tempo di effettuare una rivoluzione dei costumi
femminili, di restituire alle donne la loro dignità perduta e di farle
contribuire, come membri della specie umana, alla riforma del mondo.”
Tuttavia
la tradizione maschilista fu più forte del suo istinto di donna, sì che le
sembrava impossibile che le donne delle classi subalterne potessero godere dei
diritti democratici e, più in generale, negava che le donne stesse potessero
diventare autrici della propria emancipazione. L’appartenenza di classe le
impedì di capire che la lotta per l’abbattimento di un sistema oppressivo
trova la sua base necessaria nel movimento degli stessi oppressi. Perciò Vindication,
che viene spesso indicato come l’origine del femminismo britannico, si colloca
invece nell’ambito più ristretto del femminismo borghese, nella fase in cui
rimane ancora a livello di esortazione morale, cioè prima che si delineasse un
movimento radicale dal basso, al quale le femministe rivoluzionarie potessero
far riferimento; fosse anche quello delle suffragette, cioè di donne
privilegiate, che rivendicavano diritti uguali a quelli dei borghesi maschi.
Altre
protofemministe
Presto
però in Inghilterra e in Francia si produssero manifestazioni spontanee di
donne. Gli ideologi e i politici borghesi le avevano ricacciate tra le mura
domestiche, ma proprio qui le donne trovarono il loro terreno di lotta. Poiché
era loro compito provvedere alla quotidiana e difficile alimentazione familiare,
esse parteciparono in gran numero alle sommosse per il pane o contro la tassa
sul grano, addirittura spesso se ne posero alla guida. Negli Stati Uniti un
gruppo di operaie che lavoravano in un mulino, lottarono insieme contro le
condizioni del loro lavoro, l’insufficienza dei salari, il pagamento in natura
e pubblicarono un loro giornale.
Mediante
queste rivolte le donne fecero l’esperienza delle azioni collettive,
impararono a pensare in termini di movimento sociale e a difendere il loro sesso
in quanto gruppo discriminato, elaborando una problematica che andavo oltre
l’interesse immediato.
Socialismo
utopistico
Il
movimento socialista pose subito attenzione alla questione femminista. Si
diffusero, soprattutto in America, comunità ispirate alle dottrine del
socialismo utopistico e, in particolare, i falansteri, secondo il modello di
Fourier. Tuttavia i discepoli di Saint-Simon e di Fourier non erano molto
avanzati nei riguardi dell’emancipazione femminile. I sainsimonisti non
volevano abolire la “santa legge del matrimonio proclamata dal
cristianesimo” e, se Fourier intendeva dare alle ragazze un’educazione
pari a quella dei ragazzi, né voleva escludere le donne da alcuna funzione, i
suoi discepoli furono molto più prudenti: Cabet non accordava l’eguaglianza
alle donne e le escludeva dalle funzioni pubbliche.
Nella
seconda metà del secolo XIX il capitalismo, che, privo di qualsiasi correttivo,
fu chiamato selvaggio, mediante il colonialismo venne esportato negli altri
continenti e diventò mondiale: la concorrenza si aggravò e si tradusse in
crisi cicliche: l’“esercito di riserva”, sempre foltissimo, permetteva di
mantenere il salario a puro livello di sussistenza e condannava coloro che erano
costretti a vendere la propria forza lavoro ad una vita che non andava oltre i
quarant’anni: le leggi sociali, che cominceranno a proteggere il lavoro,
saranno strappate con le lacrime alle classi dominanti. Perciò la questione del
lavoro femminile si pose in primo piano e suscitò l’opposizione congiunta
degli operai e dei sindacati, entrambi intesi a difendere il lavoro maschile
dalla concorrenza. In Francia pensatori sociali tradizionali come Frédéric Le
Play e de Bonald s’incontrarono con il socialista Proudhon nel difendere
l’ideologia della donna come angelo del focolare. Pertanto era necessario
unificare la rivendicazione delle donne con quella che tutto il proletariato
conduceva contro la schiavitù del lavoro ed era anche necessario che le donne
stesse se ne rendessero conto. Però, durante tutta la prima metà del secolo
XIX, il socialismo era ancora proiettato in un futuro utopistico. Non si era
ancora elaborato l’idea del rapporto necessario tra l’emancipazione di una
classe o di un gruppo e la lotta che i componenti di quella stessa classe o
gruppo avrebbero potuto essi stessi condurre in prima persona: proprio questa fu
la grande novità che Marx ed Engels apportarono nella storia delle idee e dei
movimenti: la loro esortazione al proletariato, perché prendesse coscienza
della sua forza e si organizzasse in vista della propria emancipazione.
Tuttavia
per entrambi la liberazione della donna rimase un problema marginale,
subordinato all’emancipazione del proletariato. Essi apportarono bensì un
grande contributo alla liberazione della donna in quanto essere umano, alla
comprensione della specifica situazione femminile, sia sotto l’aspetto
antropologico sia sotto quello economico, ma non produssero un piano di lotta a
livello politico. Nemmeno Engels, che pur seppe individuare la specifica
oppressione della donna nell’ambito del rapporto di coppia, paragonando la
donna al proletariato e l’uomo alla borghesia, non riuscì a dare alcuna
interpretazione in cui la descrizione della donna potesse essere ricondotta al
concetto di soggetto politico, secondo il significato che il concetto assume
negli scritti di Marx. Di conseguenza non formulò alcuna proposta d’azione
per la lotta delle donne ai fini della loro emancipazione.
Flora
Tristan
Ma,
cinque anni prima della pubblicazione del Manifesto, una donna aveva già
affermato con forza il principio che l’emancipazione dei lavoratori non può
che essere opera dei lavoratori stessi e aveva legato strettamente
l’emancipazione della donna a quella di tutto il proletariato. Fu l’operaia
francese Flora Tristan, che si batté per la formazione di una classe operaia
solida e indivisibile e nella sua opera L’union ouvrière pubblicata
nel 1843, espose uno dei primi progetti di un’Internazionale operaia di
portata mondiale. Vi descriveva la condizione delle donne operaie con una
drammaticità ed un realismo quali nessuno aveva mai raggiunto, collegando la
conduzione della donna operaia a quella del proletariato, reclamava il diritto
al lavoro per tutti e per tutte, chiedeva un’istruzione morale intellettuale e
professionale per le donne del popolo e il riconoscimento del principio di
eguaglianza dell’uomo e della donna come l’unico mezzo per costruire la
‘unità umana’. Naturalmente questo programma incontrò l’opposizione
generale, sì che Flora scrisse: “Ho quasi tutti contro di me, gli uomini
perché mi batto per l’emancipazione femminile, i proprietari perché reclamo
l’emancipazione dei salariati”. Ma gli operai le volevano bene e al suo
funerale essi stessi portarono il feretro, rifiutando l’intervento di persone
a pagamento e aprirono una sottoscrizione per un monumento funebre. Il suo
ricordo durò a lungo nel movimento rivoluzionario. Il 23 ottobre 1848,
l’anniversario della sua morte, parecchie migliaia di persone si riunirono
attorno alla sua tomba per celebrarne il ricordo. Gli operai cantavano Occorre
una tomba per Flora Tristan, una canzone che si udì per molti anni nelle
officine. Con lei si produsse l’alleanza teorica tra il femminismo e il
socialismo rivoluzionario.
Il
1848 e Napoleone III
Nelle
giornate del febbraio parigino le donne affluirono numerose e combatterono
insieme agli uomini. Nelle giornate seguenti le femministe parteciparono
vivacemente ed in gran numero al movimento, dispiegando un’attività che si
svolgeva in varie direzioni. Crearono giornali, mediante i quali richiedevano il
diritto di voto e quello di eleggibilità, ma contemporaneamente parlavano dei
loro diritti economici, chiedevano la riduzione dell’orario di lavoro, la
creazione di asili per bambini presso le fabbriche e l’organizzazione di un
insegnamento professionale per le stesse operaie. Ma, nonostante la presenza di
un operaio e di un socialista nella sua compagine, il governo provvisorio
rimaneva borghese. Perciò l’Assemblea nazionale rifiutò ancora una volta il
riconoscimento dei diritti politici alle donne, anzi con un atto legislativo
proibì loro di partecipare alle riunioni dei club. Ancor più che nel 1793, la
borghesia, abituata a considerare le donne come forza lavoro sottopagata, non
perdonava loro le denunce delle ingiustizie economiche che esse subivano, il cui
risarcimento avrebbe provocato grave danno ai suoi privilegi. Ottennero almeno
una vittoria: il diritto al lavoro, che era stato l’oggetto principale della
rivendicazione di Flora, venne riconosciuto dal governo provvisorio della
repubblica come un diritto fondamentale di tutti i cittadini: nonostante
Proudhon avesse stigmatizzato la condizione della donna mediante il dilemma:
“casalinga o puttana”. Ma la femminista Jeanne Déroin assieme a Pauline
Roland, cercò di realizzare il completamento del progetto di Flora, fondando
una “Federazione delle associazioni operaie”, per lottare contro le
ingiustizie che colpivano i lavoratori e le lavoratrici: era un piano grandioso
e ricevette l’adesione di centoquattro associazioni. Ma questo era troppo per
i borghesi repubblicani: alla riunione per la costituenda federazione i
convenuti e le convenute vennero arrestati e trascinati in giudizio, Jeanne Déroin
e Pauline Roland furono condannate. Era l’atteggiamento tipico della
borghesia, che si serve delle donne per la conquista della libertà e dei
diritti formali, ma le condanna quando la protesta invade il campo sostanziale
dei diritti sociali e attacca i privilegi borghesi.
In
Inghilterra le donne lottarono con gli uomini nel movimento cartista e
occuparono funzioni di leader nelle trade unions e di guida nello
svolgimento degli scioperi operai nel 1843-44.
In
America le operaie di un mulino pubblicarono un giornale, denunciando la durata
del lavoro, i bassi salari, i ritmi troppo veloci e il pagamento in natura.
Ciò
indica che già prima del 1848 si era stabilito un legame tra la rivoluzione
sociale e l’emancipazione delle donne. Ma in Francia la stretta repressiva del
neobonapartismo colpì il movimento associazionistico di entrambi i sessi, in
primo luogo quello femminile: negli anni cinqunata, eliminate tante femministe
perché condannate, proscritte o deportate, le donne furono escluse per legge
dalle associazioni politiche di qualsiasi tipo.
Solo nel
1869 un nuovo sciopero delle cucitrici avrebbe rimesso in moto il movimento
operaio, mentre l’attività della radicale Déraismes e della socialista Leo
avrebbero riportato il discorso sui diritti politici; difficile da farsi sotto
un governo autoritario quale era quello di Napoleone III. Ma tutti gli aspetti
della condizione femminile erano in quel tempo difficili e drammatici.
Tuttavia,
in questa situazione segnata da una crisi economica, si apre un periodo intenso
di sindacalizzazione femminile: l’inchiesta di Blanqui sulle setaiole, il cui
orario andava dalle 12 alle 17 ore, sensibilizzò l’opinione pubblica. La
ripresa femminista, che collegava le rivendicazioni delle donne con quelle
dell’Internazionale socialista, si manifestò nel 1868 – due anni prima
della guerra e della fine del regime napoleonico – con la pubblicazione del
saggio Le droit de la femme che si concludeva con un manifesto.
La
Prima Internazionale
Ma nel
1848 Marx ed Engels avevano pubblicato il Manifesto del partito comunista,
che apparve a Parigi il 24 febbraio e segnò l’inizio di una nuova storia. Da
quel momento il movimento operaio si legò definitivamente al marxismo e quello
femminista acquistò consapevolezza della propria dimensione internazionalista.
Tuttavia,
anche in questo nuovo ambiente politico, le femministe trovarono resistenza
sessista: i gruppi operai e i personaggi che convennero alla fondazione della
Prima Internazionale, che si riunì a Londra il 28 settembre 1864, non erano
monadi senza porte e senza finestre, sì che le donne non vi furono ammesse, per
l’opposizione di numerosi gruppi aderenti. Vi si dibatterono acquisizioni
politiche e culturali nuove, ma riaffiorarono anche pregiudizi antichi, ancora
presenti tra questi primi esponenti della classe operaia europea.
Marx ed
Engels sostennero bensì con convinzione, nei sindacati e nei vari congressi di
questa Prima Internazionale, i diritti economici e politici delle donne contro
il viscerale antifemminismo piccolo-borghese, rappresentato in Francia da
Proudhon e in Germania da Lassalle. Però non giunsero ad indicare nelle lotte
specifiche delle donne il mezzo con cui questa metà del genere umano, che la
storia aveva escluso dalle organizzazioni civili e politiche, avrebbe potuto
costituirsi come nuovo soggetto politico nella lotta contro l’oppressione,
quindi contro il capitalismo, ed ottenere perciò, con il riconoscimento dei
propri diritti, una profonda trasformazione sociale in senso egualitario.
Tuttavia, non solo singole lavoratrici ma intere società femminili si
orientarono verso l’Internazionale, ove la questione femminile provocò
differenziazioni politiche tra Proudhon, ostile al lavoro della donna nelle
fabbriche, e Verlin, promotore di una “società di lavoratrici”.
Successivi
congressi
Nel
congresso di Ginevra, che si svolse dal 3 all’8 settembre 1866, l’argomento
intitolato Lavoro delle donne e dei fanciulli dette origine ad uno
scontro tra i delegati presenti. Proudhon era morto, ma c’erano i suoi seguaci
e il delegato francese, ostile anch’esso visceralmente al lavoro
extra-domestico delle donne, si alzò per condannare la prostituzione della
strada, ma anche della fabbrica; la posizione naturale e dignitosa per la donna,
secondo questi delegati, restava il lavoro casalingo. Fu presentata una mozione
in questo senso, cui si oppose la mozione di Verlin e dell’inglese Lawrence.
Questi era delegato di un paese dove la necessità di cambiare la condizione di
vita nelle fabbriche, sia per gli uomini che per le donne, magari cominciando
proprio dalle donne, era stata avvertita fin dalle prime inchieste di ispettori
nelle fabbriche e dalle prime leggi di riforma. Ma la vittoria dei proudhoniani
fu assoluta.
Nel
congresso dell’anno successivo, che si tenne a Losanna nel 1867, il dibattito
si svolse sulla quinta questione, riguardante “il ruolo dell’uomo e della
donna nella società”. Marx ed Engels ed anche Verlin erano assenti,
per cui vi fu ancora una volta una vittoria incontrastata dei proudhoniani. Si
fece un’esaltazione della famiglia, portando in quest’assemblea operaia le
stesse idee che un anno prima, su questo argomento, Pio IX aveva esposto nel Sillabo:
erano quelle stesse concezioni contro cui un secolo prima l’illuminista
Beccaria aveva difeso i diritti dei singoli, indipendenti dall’istituzione
familiare. “Trovate un’istituzione più grande e più bella?
Nell’antichità la matrona romana comandava a tutti rispetto e venerazione;
nel medioevo il cattolicesimo piazzò sugli altari una madre col suo bambino in
braccio; noi, nipoti del sec. XVII ed uomini del XIX, avremo dunque, meno del
medioevo, meno dell’antichità, il sentimento della dignità della madre? Non
possiamo crederlo.” Si parlò anche dell’istruzione, affermando che
quella dei fanciulli poteva essere affidata alle donne fino a sette anni, ma
dopo quest’età era necessario un istruttore maschio. Erano tutti anarchici o
comunisti, tutti intesi a migliorare la sorte degli oppressi, ma sul piano del
rapporto tra i sessi rinnegavano il principio di eguaglianza. Scorgevano il modo
di migliorare la sorte delle donne migliorando quella dell’uomo, da cui esse
dipendevano economicamente – e dovevano continuare a dipendere. La conclusione
in cui sintetizzarono il loro pensiero sembra inconcepibile da parte di
un’Internazionale socialista: “Diciamo dunque, per terminare, che noi
attendiamo l’emancipazione dell’operaio e che per noi questa emancipazione
consiste in questo: strappare la donna all’industria per farne una massaia,
strapparla alla prostituzione per farne una sposa e una madre, strapparla
all’ignoranza e alla superstizione per farne un’educatrice dell’infanzia.
Ogni altra emancipazione, tal quale la iniziarono alcune scuole socialiste,
ripugna la dignità del lavoratore”.
Sindacati
L’antifemminismo
allignava anche nei sindacati, preoccupati soprattutto di impedire alle donne
l’accesso al mercato del lavoro, per limitare la concorrenza che esse potevano
fare agli uomini. La prima questione posta ai sindacati dagli operai era proprio
la soppressione del lavoro femminile: spesso essi facevano sciopero quando
venivano assunte donne. Questo avveniva in tutti i paesi durante quella prima
industrializzazione, quando i lavoratori, privi di ogni legge protettiva, erano
abbandonati all’arbitrio selvaggio del mercato e la disoccupazione era
l’incubo costante, che significava miseria e fame. Allora i sindacati si
fecero apostoli di leggi “protettive” per le donne, non per difendere i
diritti derivanti dalla loro specifica condizione, ma per limitare il loro
diritto al lavoro, in modo da ridurre il danno per i lavoratori maschi.
Apertamente e cinicamente nel 1879 si pronunciarono gli operai dell’industria
del sigaro negli Usa: “Noi non possiamo cacciare le donne dalla
professione, ma possiamo limitare la durata del lavoro con una legislazione
appropriata. Nessuna ragazza che abbia meno di 18 anni dovrà lavorare più di
otto ore al giorno e le ore supplementari dovranno essere loro proibite; nessuna
donna sposata dovrà metter piede in una fabbrica durante le sei settimane
seguenti il parto”. Ma le donne non si lasciarono vincere dal sessismo
degli operai e dei sindacalisti: le operaie della Nuova Inghilterra crearono la
Female Labour Association e, fin dal 1850, le operaie americane organizzarono
proprie branche all’interno dei sindacati maschili, dalle quali emersero
eroine leggendarie: Ella Woggins, chansonnière, Ella Wheeler, uccisa durante
una manifestazione, Mother Jones, organizzatrice dei minatori per
cinquant’anni, ed altre.
L’Associazione
internazionale delle donne
Questo
era l’ambiente culturale in cui si muovevano le prime femministe, che dovevano
lottare contro pregiudizi antichi di millenni, persino là dove militavano le
menti più coraggiose dell’epoca. Perciò erano fatte oggetto dell’ostilità
di tutti, come aveva già detto Flora Tristan. Per questo i primi movimenti
specificatamente femministi non poterono essere autonomi: nascevano
all’interno di altri, che prestavano loro i canali organizzativi. Nel 1867 la
ginevrina Maria Goegg, appartenente alla Lega per la pace e la libertà, a sua
volta collegata con il giornale “Les Etats Units d’Europe”, rielaborò le
istanze tipiche della Lega – l’abolizione dell’esercito permanente e la
mobilitazione dell’opinione pubblica contro i rischi di una guerra – dal
punto di vista della situazione femminile, in modo da farne il punto di partenza
di un’organizzazione mirante all’organizzazione femminile e, poiché era da
tempo convinta che bisognasse legare il movimento femminista con quello dei
lavoratori, dette subito carattere politico al movimento, proponendo apertamente
di fondare una Associazione internazionale delle donne, collegata con la Lega
per la pace e la libertà. La lotta per la pace avrebbe coinvolto
collettivamente le donne in un movimento che diventasse “acquisizione di
coscienza civica e consapevolezza che non esistevano questioni estranee alle
donne”. Anch’essa naturalmente andò incontro all’ostilità generale. Il
vescovo di Orléans condannò questa Lega insieme con le Scuole professionali
per giovinette e altre iniziative laiche fondate da Elisa Lémonnier, quali le
Libere conferenze e la Scuola di medicina, indicandole complessivamente come “il
grande partito dell’empietà” (si era in piena campagna elettorale).
Maria Goegg rispose spiegando come l’ostilità che l’idea
dell’emancipazione femminile incontrava dappertutto nascondesse un’altra
ostilità, più difficile da confessare, quella contro qualsiasi forma di
eguaglianza sociale e collegò la dimensione internazionale dell’associazione
con il carattere universale dell’oppressione delle donne e la necessità di
una conseguente loro liberazione, che non avrebbe dovuto avere distinzione né
di razze, né di classi, né di nazioni. In Germania ebbe come collaboratrice
Rosalia Schonwasser che, affrontando il tema dell’emancipazione religiosa,
criticava la borghesia democratica per aver lasciato l’educazione delle donne
e anche dei lavoratori alle autorità tradizionali e, in particolare, al clero e
mostrava una chiara coscienza del legame tra l’emancipazione operaia e quella
femminile. La stessa ferma convinzione è presente in André Leo, moglie del
socialista Benedetto Malon, con il quale poi sarà comunarda. In un suo
articolo, pubblicato sul giornale “Stati Uniti d’Europa”, essa,
riallacciandosi a Condorcet, la cui voce nel 1793 si era levata isolata a
difendere la parità dei diritti dell’uomo e della donna in nome della comune
appartenenza al genere umano, denunciava la volontà politica di lasciare la
donna esclusa dalle condizioni necessarie alla dignità e alla moralità,
affermando l’universalità dei principi democratici “invocati da tutti gli
oppressi”. In loro nome essa chiedeva con forza l’emancipazione dei
lavoratori, dei negri, delle donne: “La democrazia”, proclamava, “non
è un partito, è una legge morale, una religione nuova”.
Collegata
alla Lega per la pace e la libertà fu la napoletana Anna Mazzoni che non vi
appartenne in prima persona, ma partecipò alle sue iniziative, tenendosi in
contatto con i suoi concittadini che ne facevano parte. Per prima in Italia
sostenne l’emancipazione della donne e già nel 1864 pubblicò un saggio
intitolato ai rapporti sociali tra i sessi. Sì che nel settembre del 1868,
quando si tenne il secondo congresso della società ginevrina della Lega per la
pace e la libertà, l’Associazione internazionale delle donne era già un
organismo politico. Se ne rese conto la stessa Associazione internazionale dei
lavoratori che, nel dibattito condotto intorno alla guerra, dovette discutere
l’atteggiamento da prendere in rapporto al congresso che la Lega aveva
organizzato, subito dopo quello dell’Internazionale, a Ginevra nel 1867 e a
Berna nel 1868. Nelle discussioni si intrecciarono due problemi: l’autonomia
operaia dell’Associazione internazionale dei lavoratori nei confronti della
Lega e il fatto che in questa associazione l’elemento predominante era l’ala
progressista liberale, per cui si sospettava che non avesse “l’intenzione
di combattere le vere cause della guerra”. Prevalse l’autonomia operaia:
il congresso di Bruxelles invitò la Lega ad aderire all’Internazionale, ma
l’invito non venne accettato.
Questa
Lega ebbe indubbiamente dei limiti, dovuti al fatto che affrontò per prima una
vera e propria campagna per l’emancipazione femminile per cui, trovando ancora
intatti i pregiudizi accumulati nei millenni, dovette fare alcune concessioni
alla cultura del tempo e talvolta fece ricorso anche al motivo della diversa
vocazione naturale dell’uomo e della donna. Tuttavia svolse anche una funzione
positiva, poiché si oppose al diffuso antifemminismo e controbilanciò quello
stesso dell’Associazione internazionale dei lavoratori, ove trovava consensi
anche nel movimento operaio organizzato.
La
Comune
Nonostante
la diffusa ostilità nei loro riguardi, le donne parteciparono attivamente alla
lotta e combatterono con coraggio, quando si trattò di passare all’azione per
rimuovere le strutture politiche e sociali oppressive; le donne russe, alleate
ai narodniki, parteciparono alle azioni terroristiche, per il rovesciamento
dell’autocrazia zarista.
Quando
nel 1871 si organizzò, nella Parigi insorta, quella Comune, in cui Marx scorse
la realizzazione della sua preconizzata dittatura del proletariato, le donne, di
cui la rappresentante più illustre fu Louise Michel, parteciparono attivamente
al rinnovamento sociale dapprima e poi alla resistenza contro l’esercito del
Thiers. Per incitamento di Elisabetta Dimitrieff, amica di Marx, e di Louise
Michel (una maestra di scuola elementare con al suo attivo anni di cospirazione
antibonapartista) venne fondata l’Union des Femmes (Unione delle donne), che
si costituì come sezione femminile dell’Internazionale, con l’obiettivo di
organizzare il lavoro delle donne e di raccogliere fondi per la costruzione di
cannoni. Esse lottarono su di un duplice fronte: da un lato parteciparono alla
resistenza antitedesca e all’esperimento di autogoverno popolare, dall’altro
rifiutarono i tentativi fatti dagli stessi comunardi di tenerle fuori dalla vita
politica, in ottemperanza alle idee di Proudhon che, pur essendo morto nel 1864,
restava ancora per tutti l’ispiratore ideologico per eccellenza. Si aprirono
numerosi club femminili, che chiedevano la laicità dell’insegnamento, la
creazione di nuove scuole per l’istruzione delle bambine, che, fino a quel
momento, erano state trascurate. Per facilitare il loro lavoro, le donne
crearono asili per custodire i figli: dovevano avere giardini, voliere piene di
uccelli, giocattoli ed alberi. André Leo, nel giornale “Le Social”,
critica il governo di Versailles ma anche la Comune, per la sua indisciplina e
il suo antifemminismo: “Se la democrazia è stata vinta fino ad ora, ciò
è avvenuto perché i democratici non hanno mai tenuto conto delle donne”.
Durante la settimana di sangue, le donne combatterono sulle barricate, a fianco
degli uomini. Vennero massacrate, gettate in prigione in attesa di giudizio,
deportate. Anche Louise Michel venne condotta davanti al Consiglio di guerra e
condannata alla deportazione.
Le lotte
femminili e femministe durante la Comune riunirono donne delle classi agiate e
medie con quelle di ambiente popolare.
Il
femminismo nell’Associazione internazionale dei lavoratori e nella Lega
La
vicenda epica di questo primo esperimento di governo operaio, la selvaggia
repressione che ne seguì – furono fucilate 17.000 persone – suscitò una
tempesta nell’opinione pubblica, che ne addossò la responsabilità a Marx, il
quale, invece, l’aveva sconsigliata. Nella critica alla Associazione
internazionale dei lavoratori fu coinvolta anche l’Associazione Internazionale
delle donne che, con la qualifica con cui si era definita, con la palesata
aspirazione a collegare la lotta per l’emancipazione delle donne con quella
del movimento operaio, aveva messo in luce la sua simpatia per la più vasta
associazione dei lavoratori. Perciò l’attività dell’Associazione conobbe
una pausa. La Lega tuttavia convocò subito un congresso il 1° luglio 1871,
immediatamente a ridosso della grande repressione che si era abbattuta sui
comunardi. Esso fu ospitato logicamente in una città svizzera, Losanna per la
precisione. Il dibattito si accentrò sul rapporto tra Lega e Associazione
internazionale dei lavoratori, tanto che gli argomenti all’ordine del giorno
divennero una specie di appendice. La questione femminile si inserì
improvvisamente nel dibattito ad opera di un’intelligente delegata polacca,
Paulin Mink, che si dichiarò orgogliosa di appartenere all’Associazione
internazionale dei lavoratori. Essa affermò che “l’Internazionale ormai
si estende al mondo intero”, però subito dopo fece notare il disinteresse
di quest’associazione per il problema della donna, concludendo che “è
possibile che si debba a questa carenza verso la donna il fatto che
l’Internazionale non abbia prosperato più rapidamente all’origine”.
Fra i congressisti c’era anche Maria Goegg, che fece un accurato resoconto
dell’attività pacifista della sua associazione, dal 1869 fino a quel momento,
e mise in luce l’attività del gruppo italiano della Pieromaldi, che aveva
diffuso un appello ispirato al concetto di “guerra alla guerra” e un
appassionato intervento contro il patriottismo, animato da una volontà
internazionalista. La rivendicazione femminista venne poi ripresa dal francese
Fribourg il quale, superando il principio proudhoniano, collegò
l’emancipazione degli operai con quella delle donne. Anche all’Associazione
internazionale dei lavoratori la questione femminista fu posta bruscamente sul
piano organizzativo il 19 settembre 1871, nel corso della terza seduta di una
sua conferenza, con un intervento di Marx, in cui si chiedeva “la
fondazione di sezioni puramente femminili”. La proposta passò
all’unanimità.
Però,
nel settembre 1872 si riunì all’Aja il congresso che mise fine alla vita
dell’Associazione internazionale dei lavoratori Marx motivò questa
risoluzione con lo scopo di fare una ricognizione, paese per paese, del grado di
sviluppo del movimento socialista; vi erano da una parte zone minoritarie del
femminismo mondiale che potevano spostare la battaglia su terreni diversi
rispetto ai quelli propri dell’Associazione internazionale dei lavoratori, cioè
dell’organizzazione dei lavoratori, che aveva come suo unico scopo la lotta
dei lavoratori contro lo sfruttamento capitalistico: dall’altra persistevano
tuttora nella classe operaia pregiudizi antifemministi.
In
Europa la Lega per la pace e la libertà, costituì ancora per qualche anno il
terreno sul quale la campagna di emancipazione femminile poté continuare le sue
iniziative internazionali. Essa organizzava i suoi comitati locali, che si erano
costituiti in Germania, Francia, Italia, Belgio, rivolgendo la sua attenzione in
varie direzioni: i problemi delle lavoratrici, l’ammissione delle donne
all’università, la laicizzazione della legislazione, in particolare la
battaglia per il lavoro femminile e la battaglia suffragista, centrale negli Usa
e in Inghilterra. Ma già al congresso che si tenne a Lugano, a partire dal 10
luglio 1872, si avverte un clima diverso rispetto al quello dei suoi primi
incontri: voci ironiche investirono quelle speranze di pace e di libertà su cui
all’inizio tutti concordavano. A questo congresso partecipava anche Maria
Goegg, intervenuta come vicepresidente di una società femminista a nome
Solidarité. In un suo intervento essa riaffermò che, per quanto riguardava i
diritti delle donne, aveva la ferma intenzione di continuarne la difesa.
La
Seconda Internazionale
Con la
fondazione della Seconda Internazionale si apre una nuova fase del movimento
femminista, che da questo momento diventa parte integrante di
un’organizzazione poggiante sul materialismo dialettico. Militavano in essa
comuniste formatesi sul pensiero marxista ed educate dalla loro lunga militanza
ad un profondo sentimento egualitario ed internazionalista. Però i partiti che
la componevano, provenienti ciascuno da una diversa cultura nazionale, erano
altrettanto sessisti quanto i sindacati. Ne fece prova il rifiuto opposto dal
Partito socialdemocratico tedesco alla proposta di Augusto Bebel di iscrivere
nel proprio programma la lotta per il voto alla donne; fu allora che, per
perorare la causa delle donne, Bebel pubblicò La donna e il socialismo.
Ma in questo partito militava anche Clara Zetkin, che già dirigeva il giornale L’uguaglianza,
nel quale si espresse, fino al 1916, il femminismo socialista. Essa fondò la
sezione femminile del Partito socialdemocratico tedesco, che era ben organizzata
ed aveva una funzionaria pagata. Fu per suo intervento che nel 1891 il Partito
socialdemocratico tedesco accettò di iscrivere nel suo programma il principio
di uguaglianza dei diritti degli uomini e delle donne. Nell’agosto del 1907,
per iniziativa di Clara Zetkin, si svolse la prima conferenza delle donne della
Seconda Internazionale, a cui parteciparono delegazioni di tutti i paesi europei
e anche della Lega delle donne progressiste degli Usa e del Canada.
Essa
precedette di pochi giorni il congresso di Stoccarda della Seconda
Internazionale, la cui quinta commissione fu dedicata appunto al massimo
problema femminista del tempo, il suffragio alle donne. C’erano tutte le donne
che andavano costruendo la politica femminista dell’Internazionale, dalla
Zetkin alla Popp alla Kollontaj e che tanta parte avrebbero avuto negli anni
successivi nello sviluppo delle lotte per la pace e per il suffragio. La
Kollontaj nella conferenza si era opposta alle femministe borghesi,
rimproverando alle suffragiste di non portare fino in fondo la critica
all’istituto della famiglia, la Zetkin invece era più possibilista.
Ma la
risoluzione presentata dalla quinta commissione fu unitaria: respingeva il
diritto di voto limitato, di cui in alcuni paesi si avanzava la proposta,
affermava di lottare per il suffragio universale accordato a tutte le donne e
imponeva come dovere a tutti i paesi socialisti di combattere energicamente per
la realizzazione di questa meta concreta di eguaglianza politica. Venne dato a
Clara Zetkin il compito di redigere la relazione. Il documento che ne risultò
fu una delle sue cose migliori. Essa rivendicava la parità dei diritti in nome
del nuovo ruolo ora assunto dalle donne che, diventate lavoratrici, si trovavano
a vivere in un ambiente ostile pari a quello degli uomini e perciò avevano
bisogno dei diritti completi per potersi difendere: il diritto di voto era il
naturale corollario della raggiunta autonomia economica. Metteva in evidenza la
necessità di collegare la lotta delle donne proletarie con quella di tutti gli
sfruttati, infine rilevava che sarebbe stato utile al movimento socialista avere
a fianco compagne che lottavano per il loro stesso scopo. Affermava con forza
che bisognava lottare contro l’ipotesi che veniva avanzata di concedere un
suffragio limitato, che sarebbe andato a vantaggio solo delle donne benestanti,
concludeva che doveva essere impegno di tutti i partiti socialisti il lottare
per il suffragio universale.
Il
congresso di Stoccarda
Il
congresso di Stoccarda fu il più ricco di motivi umani e di indicazioni
politiche della Seconda Internazionale, realizzato in un tempo in cui c’era la
consapevolezza di dover fronteggiare la degenerazione della società europea,
che si manifestava nella preparazione alla guerra. Si affermò con chiarezza che
la guerra non è un destino fatale dell’umanità, ma opera dei contrastanti
interessi delle nazioni e che contro di essa era possibile agire con l’azione
dell’intera classe operaia. Purtroppo questa presa di posizione contro
l’inevitabilità della guerra non aveva ancora una robustezza e una maturità
tali da impedirla sul serio, tuttavia rimane l’importanza di questa
affermazione di principio: il congresso risultò essere un movimento popolare
contro la guerra, con la prospettiva del socialismo e attraverso la sua
organizzazione internazionale. Si discusse sull’opportunità o meno di fissare
lo sciopero generale come mezzo estremo di azione nel caso di una dichiarazione
di guerra.
Jaurès
si dichiarò per lo sciopero, perché l’azione parlamentare non era
sufficiente e il proletariato doveva usare tutti i mezzi d’azione che il genio
operaio aveva creato: azione parlamentare, manifestazioni popolari, sciopero dei
cittadini e del proletariato: “il capitalismo non è un dio chiuso nel suo
santuario ed è possibile colpirlo in tutte le sue manifestazioni”, affermò
con decisione. Il rappresentante tedesco Volleman badò nei suoi interventi ad
evitare che i tedeschi si trovassero con le mani legate da impegni pacifisti e
negò la necessità di tracciare una qualsiasi linea programmatica contro la
guerra. Adler assunse una posizione agnostica: “Noi non possiamo giurare
che faremo lo sciopero di massa per la pace; ma non possiamo nemmeno giurare che
lo faremo solo per il suffragio universale”. Bebel era ottimista, poiché
pensava che il peso disumano di una guerra e il massacro che ne sarebbe seguito
avrebbe dissuaso i governanti dal progetto (ma da buon socialista avrebbe dovuto
sapere che i fabbricanti di cannoni sono interessati alle commesse governative
molto più che al peso della guerra e ai suoi esiti); riteneva poi che, nel caso
fosse scoppiata, la stessa società capitalistica si sarebbe convertita al
socialismo: era il mito dell’ultima guerra ed insieme la posizione attendista
e catastrofista dominante nella Seconda Internazionale. Affermava che non
c’era bisogno di una nuova risoluzione: alle minacce bastava opporre la
crescente forza parlamentare dei partiti, che la mozione dello sciopero generale
avrebbe messo in situazione di inferiorità. Ma il suo vero obiettivo, in realtà,
era di garantire la continuità della Seconda Internazionale nel caso fosse
scoppiata la guerra, piuttosto che cogliere l’occasione per portare a fondo la
battaglia per il socialismo.
Chi
combatté questa posizione agnostica fu Rosa Luxemburg, la sola che disse una
parola semplice e chiara, che andavo oltre il congresso e già guardava al
futuro, stabilendo quella posizione che poi orientò, tra il 1914 e il 1917, la
protesta dei nemici della guerra. “La propaganda in caso di guerra, affermò,
non deve avere di mira sola la fine della guerra, ma si deve approfittare del
momento di guerra per effettuare la sconfitta del capitalismo”. Già da
questa sua battaglia congressuale si intuiscono i motivi per cui la polizia
guglielmina e quella sopravvissuta nel periodo di Weimar individuarono in lei
l’avversario più pericoloso: durante la monarchia di Guglielmo II era stata
bensì perseguitata e incarcerata per lunghi mesi ed anni, ma aveva avuto salva
la vita; la repubblica di Weimar, quando il partito per cui aveva militato per
tanti anni si trovava al potere, la ucciderà a sangue freddo.
Partecipava
a questo congresso Lenin, giovane e poco conosciuto. Quando sentì
l’intervento di Rosa Luxemburg si alzò e, a nome della sua delegazione,
rimise il suo mandato “nelle mani della cittadina Luxemburg”. Si formò
così il trio Lenin, Luxemburg, Martov che ingaggiò una battaglia contro le
posizioni dell’Internazionale rispetto alla guerra.
La
II Conferenza internazionale delle donne
Nel 1910
si tenne a Copenaghen la seconda Conferenza internazionale delle donne
socialiste, in cui, su iniziativa di Clara Zetkin, fu elaborata la risoluzione
che istituiva l’8 marzo come giornata internazionale delle donne lavoratrici.
Ma le delegate tedesche orientarono tutta la conferenza sul tema della
protezione della maternità. Era l’influenza della cultura guglielmina che
presentava la maternità come un dovere, determinato dalla necessità della
riproduzione della specie; già da tempo la destra guglielmina mirava a questo
obiettivo razzista, che la Zetkin, facendo la relazione nel suo giornale che
raggiungeva le 82.000 copie, controbilanciò, parlando nel suo articolo di
suffragismo e eguaglianza economica. Il congresso che si tenne a Copenaghen
negli stessi giorni, si svolgeva con la drammatica convinzione di una situazione
europea peggiorata rispetto al precedente congresso: gli armamenti si erano
fatti massicci, le contraddizioni imperialistiche si facevano sempre più
minacciose, la cultura europea era dominata dal nazionalismo. Nel 1909 il Manifesto
del Futurismo proclamava: “Noi vogliamo glorificare la guerra, sola
igiene del mondo, il militarismo, il gesto distruttore dei libertari, le belle
idee per cui si muore e il disprezzo per la donna”. La risoluzione
presentata dal francese Hardie dichiarava che se fosse scoppiata la guerra i
socialisti avevano “il dovere di operare per farla cessare prontamente e di
utilizzare con tutte le loro forze la crisi economica e politica creata dalla
guerra per muovere gli strati popolari più profondi ed affrettare la caduta del
regime capitalistico”. Per garantire la realizzazione di queste misure il
congresso invitò il Bureau Socialiste International a “promuovere …
l’intesa per un’azione comune, al fine di impedire la guerra”. Ma i
delegati tedeschi, affermando che bisognava “distinguere caso per caso”
tenendo conto delle specifiche situazioni internazionali, respinsero la
risoluzione. Così fu dichiarata la necessità di aggiornarsi, rimandando al
futuro la decisione dei provvedimenti da prendere, quando fosse scoppiata la
guerra.
Verso
la guerra
C’era
ormai in tutti la convinzione che la guerra sarebbe scoppiata: una specie di
fatalismo portava l’umanità ad accettare la guerra come processo necessario
delle cose. Già l’annessione della Bosnia e dell’Erzegovina da parte
dell’Impero asburgico nel 1908 aveva costituito una pericolosa avvisaglia
contro le prospettive di pace; la risoluzione della prima e della seconda crisi
marocchina, mediante un arbitrato fra potenze, a cui non era stata estranea
l’iniziativa operaia, sembrò restituire la speranza. Ma la guerra coloniale
del 1911, intrapresa dell’Italia contro la Turchia per la conquista della
Libia, apriva il fronte balcanico, mentre rimaneva irresolubile, se non con la
forza, il contrasto per l’Alsazia-Lorena. Un congresso internazionale dei
pacifisti che si tenne a Ginevra nel settembre del 1912 si concludeva con un Appello
ai popoli e ai governi che conteneva questa affermazione: “Il pacifismo
chiama responsabile lo sciovinismo delle eventuali guerre che si vanno
preparando” e l’Appello ai popoli per la pace del comitato
centrale della Lega ginevrina nel marzo seguente sembrerà addirittura
un’estrema direttiva ai suoi soci nell’imminenza del pericolo: compito di
ogni membro della Società per la pace sarà di fare ogni sforzo per la
soluzione pacifica delle controversie fra stati, anche se all’occorrenza dovrà
“difendere il suo paese e le sue libertà”. C’era convergenza tra
queste posizioni e quelle che la Seconda Internazionale andava elaborando. Rosa
Luxemburg si batteva con tutte le sue forze contro il militarismo: in un suo
discorso del settembre 1913 rifiutò “l’arma dell’assassinio contro i
nostri fratelli francesi e di altri paesi stranieri”. Fu accusata di aver
incitato all’insubordinazione.
Il
congresso internazionale socialista del 1912, che si tenne a Basilea, era
terminato anch’esso con un appello drammatico: “Il congresso fa appello a
voi tutti, proletari e socialisti di tutti i paesi, perché in quest’ora
decisiva facciate sentire la vostra voce e affermiate la vostra volontà in
tutte le forme e dappertutto. Levate con tutta la vostra forza la vostra
protesta unanime nei parlamenti, unitevi in manifestazioni e azioni di massa,
utilizzate tutti i mezzi che l’organizzazione e la forza del proletariato
mette nelle vostre mani, in modo che i governi sentano costantemente di fronte a
loro la volontà attenta e attiva di una classe operaia decisa alla pace.
Opponete così al mondo capitalista dello sfruttamento e dell’assassinio la
massa del mondo proletario della pace e dell’unione dei popoli”.
L’intervento
della Zetkin, che ribadì la necessità dello sciopero generale, indica anche
nel contempo come la campagna per la pace fosse sentita come lo sfondo ideale
del movimento femminista. Nel complesso tuttavia questa riunione fu piuttosto
una dichiarazione di intenti che un congresso vero e proprio con i suoi
dibattiti. Mancavano solo due anni alla grande conflagrazione.
La
guerra
Alla
fine prevalse in tutti l’opportunismo patriottico. Il 1° agosto 1914 i
deputati tedeschi e successivamente quelli degli altri paesi votarono a favore
dei crediti di guerra e i proletari che si erano chiamati fratelli, uniti in
un’unica lotta, partirono per opposti fronti, per massacrarsi a vicenda. Fu la
tragica irrimediabile sconfitta della Seconda Internazionale. Rosa Luxemburg si
ritrovò in prigione e vi rimase fino alla rivoluzione tedesca del novembre del
1918. Clara Zetkin continuò clandestinamente nella sua missione a favore del
socialismo e della pace, fino a che, in seguito alla nascita dell’Uspd, che si
era staccato dalla Socialdemocrazia, fu licenziata dal giornale che dirigeva dal
1892.
La
Terza Internazionale
Autorinnegatasi
la Seconda Internazionale, la guida del movimento operaio e femminista passò
alla Terza, che venne istituita per iniziativa di Lenin a Mosca nel 1919. Fin
dall’inizio, quando, conquistato il potere, si formò il Consiglio dei
commissari del popolo e venne eletto un Comitato esecutivo centrale panrusso, il
nuovo organismo prestò attenzione ai problemi dell’emancipazione femminile.
Si distinse in questa attività Alessandra Kollontaj a cui fu assegnata la
carica di Commissaria del popolo all’assistenza sociale: fu la prima donna
della storia eletta ad un’alta carica governativa. Nonostante la situazione
militare ed economica fosse estremamente tesa, a causa del conflitto mondiale,
della guerra civile, dell’intervento straniero e del boicottaggio economico,
si crearono importanti istituzioni sociali a vantaggio delle donne. Già nel
novembre 1918 fu organizzato il Congresso panrusso delle lavoratrici e delle
contadine a cui si presentarono 1.147 donne, in rappresentanza di più di un
milione di lavoratrici. Sulla base di una risoluzione del congresso venne
istituita una sezione femminile del cosiddetto Shenoldel. Nel luglio 1920 venne
organizzata la prima conferenza internazionale delle donne comuniste. Negli anni
successivi si organizzarono settimanalmente assemblee di delegate, corsi per
operaie e contadine, varie attività finalizzate a combattere l’analfabetismo
e innalzare il livello culturale, con lo scopo anche di sottrarre le donne alla
sfera domestica, particolarmente arretrata nelle campagne. Lenin appoggiava con
convinzione queste iniziative e fissò una retribuzione, sia pur modesta, per le
delegate. Venne anche istituito un Segretariato femminile con sede a Berlino.
Clara Zetkin, in uno dei suoi colloqui con Lenin, di cui era diventata amica,
gli propose nel 1920 di organizzare una conferenza internazionale delle donne ed
egli ne fu entusiasta, per l’eterogeneità di formazione, di cultura, di
religione delle donne che vi sarebbero convenute e per il conseguente dialogo di
tanti femminismi. Purtroppo il progetto andò a monte, poiché le femministe
tedesche vi si opposero e dopo non vi fu più occasione per riproporre la
conferenza.
Sul
piano legislativo la donna ottenne la completa equiparazione, che in nessun
paese del mondo era ancora stata raggiunta. Il 18 dicembre 1917 fu varato un
decreto per l’equiparazione giuridica della donna, che Lenin definì
l’inizio della sua liberazione da un’oppressione che la rendeva “schiava
di casa”, assorbita “dalle piccole attività dell’economia domestica
che la incatena alla cucina e alla cura dei bambini e le fa sprecare le sue
capacità creative in un lavoro barbaramente improduttivo, meschino, snervante,
ottuso e opprimente”. Riteneva che la concreta liberazione della donna
fosse realizzabile soltanto attraverso la trasformazione delle attività
domestiche in un’economia socializzata, cioè attraverso la creazione di
cucine comuni e refettori pubblici, di lavanderie-sartorie, asili e nidi
d’infanzia, collegi e istituti scolastici di vario tipo. Era anche consapevole
che l’uguaglianza tra l’uomo e la donna fosse raggiungibile solo attraverso
un lavoro di formazione degli uomini, ancorati al vecchio concetto che il lavoro
di casa è un “lavoro da donne” che “offende il diritto e la dignità
dell’uomo”. In tal modo, egli sperava, si sarebbe riusciti a politicizzare
le donne, a farle entrare in massa nel partito e nei sindacati, a farle
partecipare agli affari dello Stato in posizione paritaria. Anche la maternità,
considerata funzione sociale, doveva essere protetta dallo stato. Perciò la
Kollontaj, in qualità di commissaria del popolo, fondò un centro per
l’assistenza delle madri e dei bambini e trasformò tutte le cliniche
ostetriche in luoghi di assistenza gratuita per le puerpere e i neonati. Alle
madri vennero concessi quattro mesi di permesso a salario pieno, la garanzia del
posto di lavoro, supplementi per l’alimentazione. La nuova legislazione sulla
famiglia e sul matrimonio equiparava la donna all’uomo e la separazione della
coppia era gratuita senza discussioni della colpa, senza complicazioni, anche su
richiesta di una sola delle parti. I figli illegittimi vennero equiparati a
quelli legittimi e, negli anni seguenti, si discusse sulla separazione dei beni,
l’obbligo del sostentamento reciproco e il diritto agli alimenti. In numero
sempre maggiore le donne, anche contadine, combatterono nell’Armata rossa.
Infine venne legalizzato l’aborto (1920).
La
restaurazione staliniana
Tutte
queste conquiste, che portarono d’un tratto l’Urss alla guida del
femminismo, vennero progressivamente cancellate. Nel 1925 il segretariato di
Berlino venne trasferito a Mosca e fu interrotta la rivista. Nel 1926 il plenum
del Comitato esecutivo proibì le organizzazioni separate, proibendo in questo
modo l’organizzazione del femminismo. La parola stessa “femminismo” aveva
assunto significato dispregiativo ed era diventata sinonimo di anticomunismo. Le
date sono significative: Lenin era morto, già si era formato un apparato
burocratico, l’ascesa di Stalin aveva reso impossibile la formazione di
correnti, di tendenze, di organizzazioni di donne. Il trionfo di questa controrivoluzione
fu l’antefatto di un veloce movimento repressivo: venne proibito l’aborto,
criminalizzata l’omosessualità, il divorzio venne reso difficile, si abolì
l’educazione mista, si riammise il concetto di illegittimità, si esaltò la
“madre dotata di molta prole”: a riprova che il progresso della democrazia e
lo sviluppo della politica di genere vanno di pari passo. La restaurazione
sovietica facilitò i regimi di tutto il mondo a mantenere la donna in una
condizione di ineguaglianza giuridica. Nei paesi fascisti si impose uno spirito
di caserma, che fu assunto come principio di riorganizzazione della società.
Su questa base si attuò la reazione contro il movimento operaio e si operò per
riportare la donna alla posizione di dipendenza ritenuta naturale, esaltandola
nel contempo come “madre di eroi”. Scomparve qualsiasi movimento
internazionale.
Il
Sessantotto e gli anni settanta
Nel
dopoguerra, essendosi nuovamente profilata la prospettiva di una trasformazione
del mondo, la reazione, per impedirla, si servì di istituzioni conservatrici.
L’Italia rimase per decenni sotto il dominio democristiano, che arrestò il
processo di liberazione avviatosi con il movimento partigiano, ispirando la
cultura popolare a modelli arcaici. La guerra fredda, che divise il mondo in due
blocchi, agì negativamente sui rapporti tra le persone e le rivendicazioni di
genere.
L’insoddisfazione
generale esplose dapprima negli Usa e si manifestò nella lotta per i diritti
civili, nei movimenti in nome delle negritudine e per il ritiro delle truppe dal
Vietnam. Esplose dapprima come sensibilità antiautoritaria e pacifista, spirito
comunitario, domanda di libertà e di diritti individuali; insieme rinacque lo
spirito femminista con un’ondata pari a quella che si era diffusa tra la fine
del XIX e l’inizio del XX secolo. Questa nuova sinistra americana giunse anche
in Europa e in Italia, portando con sé la pratica inusuale di tipo
psicanalitico e la “differenza” come rivendicazione di alterità; le lotte
operaie del 1968-69 vi portarono l’elemento classista e gli studenti la
radicalità e l’elaborazione teorica. A partire dal 1970 si diffonde anche in
Italia una specie di terapia analitica di gruppo, che Carla Lanzi, che ne aveva
tracciato il manifesto con il suo scritto Sputiamo su Hegel, chiamò autocoscienza.
Nacquero piccoli gruppi frammentati ed autosufficienti, per il fatto che
ciascuno faceva riferimento a se stesso, senza peraltro che tra le componenti vi
fossero le competenze adeguate per praticare quello scavo interiore da cui
doveva scaturire la liberazione della femminilità. In realtà, come fenomeno di
massa, somigliava molto all’antica tradizione delle donne di confidarsi a
vicenda, parlando degli uomini e dei loro comportamenti privati, perciò
sembravano del tutto inefficaci sul piano sociale. Ma era tanta la volontà di
liberazione da cui erano mossi, la forza di pressione che esercitarono sulla
società, che finirono per incidere fortemente sul costume: gli anni settanta
furono quelli delle grandi conquiste femministe. In Italia vennero conquistati
il divorzio, la legalizzazione dell’aborto e l’emancipazione giuridica,
contro la quale invano i conservatori tentarono di fare resistenza; si aprirono
alle donne tutte le carriere e l’accesso a tutti gli studi. Nel 1975 si riformò
il diritto di famiglia, eliminando le feudali istituzioni della potestà
maritale e della patria potestà. Il 1975 è una data storica per tutte le donne
dell’Occidente, perché a quell’epoca il processo di emancipazione politica
e giuridica era compiuto per tutte.
E’
ancora necessario?
Perciò
si sente spesso ripetere, anche da parte delle donne, che il femminismo ha vinto
la sua battaglia e non ha più niente da dire alle donne di oggi: esse si
muovono ormai tranquillamente in una società, che non è più quella degli
uomini, ma è diventata società degli uomini e delle donne. A proclamarsi
femministe si rischia di esser guardate come le reduci sopravvissute di una
battaglia, sia pure eroica, ma che ormai ha avuto il suo tempo. Ma è proprio
così?
Prima di
tutto dobbiamo dire che l’Occidente non è il mondo: il mercato è diventato
globale, ma non per questo ha portato ovunque la civiltà. Esistono ancora vaste
zone in cui sulle leggi, sia pure modernizzate, prevalgono i feroci costumi di
religioni, per le quali la donna è strumento dell’uomo: in certe zone interne
dell’India ancora si pratica, nonostante le leggi, la pratica feroce del rogo
della moglie assieme al cadavere del marito. Per non parlare delle donne dei
paesi islamici, ove è la stessa religione a stabilire le leggi, che nel loro
integralismo fanatico spesso le sottopongono a condizioni disumane. In
quest’ultima guerra le abbiamo viste lungo le vie dolorose dell’esilio
camminare impacciate dal loro avvolgente mantello, spesso con il loro bambino in
braccio. E che dire della civilissima e opulenta Italia, ove ancora si combatte
per far riconoscere la personalità giuridica dell’embrione, attaccando per
questa via la famosa legge 194 (che, per quanto imperfetta e frutto di un
compromesso, rimane per l’Italia cattolica un conquista di libertà)? O degli
Usa, centro del mondo, ove il cieco fanatismo giunge ad uccidere i medici
coraggiosi che sfidano l’opinione pubblica? Questo sistema economico mondiale,
sostenuto da processi militari e tecniche insieme micidiali e sofisticatissime,
poggiante su largo consenso sociale, è un pericolo per le donne e per gli
uomini, ma di più per le donne, su cui cade sempre in maniera più pesante la
controriforma; in Italia il welfare è già stato in parte smantellato e,
se passerà l’abolizione dell’art. 18 dello Statuto dei lavoratori, le
donne, che già ora nei momenti di crisi dell’azienda sono le prime ad essere
licenziate, saranno le prime a pagare.
Vi sono
ancora tradizionali forme di discriminazione, non è scomparso il patriarcato, a
cui si sono aggiunte forme nuove di dominio maschile, connesse con le forme
moderne del capitalismo, si susseguono le migrazioni di popolazioni oppresse che
allargano l’esercito di riserva, i processi di identità etniche che sfociano
in esplosioni violente; ma sono tutte sostenute dal sistema economico mondiale
che le alimenta e le legittima.
Anche le
forme di oppressione dei regimi islamici non sono residuo del passato, ma
trovano la loro causa nel nuovo assetto mondiale imposto dal dominio
capitalistico e da quello stato che se ne è fatto il difensore assoluto; la
stessa prostituzione dilagante, anche se con facile slogan si dice che è il
mestiere più antico del mondo, oggi trova spiegazione nell’accrescersi della
miseria e della disuguaglianza ed insieme nei falsi bisogni, che derivano da
quest’ordine, di cui il mercato è il principio primo.
La
necessità di controllare le materie prime e le risorse primarie, la produzione
e il consumo fa sì che la guerra sia oggi strumento normale della politica e
mezzo di dominio, ma anche legittimazione di quel mercato globale che oggi viene
identificato con i diritti umani e perciò imposto a chi tenta di sottrarvisi,
in nome di una missione di civiltà. Così siamo giunti ad una guerra
ininterrotta, di cui le donne sono le prime vittime, poiché quando si muovono
gli eserciti si scatena la logica del branco e si torna alla barbarie pura, ove
le donne sono cercate come preda ambita ed esibite come segno di conquista
personale, mentre i bambini sempre più spesso muoiono per la guerra, ma anche
di fame, malattie, miseria. La loro condizione peggiora non solo nei paesi più
disgraziati che l’imperialismo riduce alla fame, ma anche nei paesi
occidentali, ove l’avidità capitalistica li mette al lavoro, nonostante
l’elevata disoccupazione adulta, come ai tempi del capitalismo selvaggio:
niente muta nel modo di pensare capitalistico, ove l’unica strategia degli
individui e degli stati rimane il profitto.
Aspetto
soggettivo dell’antifemminismo
Questo
è l’aspetto oggettivo, che ha determinato la crisi del movimento operaio e di
quello femminista; vi si è aggiunta anche la crisi del sindacato di classe, che
per le donne è indubbiamente un pericolo.
Ma c’è
anche un aspetto soggettivo di cui le donne devono tener conto per ottenere una
vera e totale liberazione. L’emancipazione politica e giuridica non è ancora
la liberazione dal potere maschile, che è subdolo e insinuante. Ora che la
legislazione è stata equiparata, esso continua ad esercitarsi, nelle
istituzioni e nella società civile. Viene dal di dentro, cioè da quel
complesso di relazioni che uomini e donne hanno intrecciato tra di loro lungo
tutto il corso della storia, da cui è derivata una reciproca socializzazione.
Ne sono derivati quegli schemi, forme mentali, criteri di giudizio che sono la
matrice di ogni nostra percezione, cioè gli strumenti della nostra conoscenza;
una specie di forme a priori kantiane, ma di origine storica.
Tra
questi strumenti di conoscenza c’è l’idea dell’inferiorità femminile,
che è la lente attraverso cui il sesso maschile guarda al mondo e a se stesso e
si giudica forte e destinato a comandare. Ma le donne non hanno strumenti di
conoscenza diversi da quelli dell’uomo, poiché anche i loro sono derivati
appunto da quella socializzazione reciproca, che nel corso della storia,
attraverso percorsi irriproducibili, ha formato contemporaneamente la mente e la
sensibilità maschile e quella femminile; per cui anche le donne guardano a se
stesse e al mondo attraverso la stessa lente, si giudicano inferiori e destinate
ad obbedire e si impegnano a dar prova di possedere proprio quei caratteri e
comportamenti che l’uomo attribuisce loro e che indica a segno della loro
inferiorità: la praticità contrapposta alla capacità di astrazione,
l’estrosità contrapposta al rigore logico, la capacità di adattamento
contrapposta allo spirito di iniziativa. Prese nel cerchio del potere maschile,
ne ribadiscono la chiusura. C’è una complicità tra dominante e dominato: è
un meccanismo che si manifesta fra tutti i gruppi chiusi; si è parlato persino
di una complicità tra i prigionieri nei lager tedeschi e i loro carcerieri.
Per questo, la conquista della libertà è molto più
difficile per la donna della sua stessa emancipazione, che pur le è costata
millenni di storia e di cultura: la disposizione a sottomettersi ha origini
antiche, sfugge al controllo della volontà, perciò va oltre l’emancipazione.
Basterebbe osservare che le donne elettrici sono in numero maggiore rispetto
agli uomini, eppure sono in numero di gran lunga inferiore fra le elette, cioè
partecipanti al potere; il che dipende dall’arroganza degli uomini durante le
competizioni elettorali, dal prestigio che ad essi deriva dall’essere uomini,
ma anche da quella attitudine delle donne a sottrarsi ai luoghi pubblici, che
esse chiamano vocazione alla riservatezza. La liberazione dalla donna non sarà
possibile, fino a che non si realizzi una nuova storicità, ove agiscano
strutture atte a formare attitudini alla libertà.
Ma quale società è più diversa da una società liberata di
questa attuale? Basata su sfruttamento e oppressione, essa genera continuamente
violenza e crea disposizioni che rendono sensibili al potere, inducono ad
ammirarlo, rispettarlo, persino venerarlo; quindi provoca attitudini a
sottomettersi.
Oggi il sistema ha provocato una sanguinosa rivolta ed è
sembrata un’Apocalisse, “Dio è con noi” ha esclamato Bush, nel
dare inizio alla sua vendetta, che, alla ricerca di un uomo costantemente
sfuggito, ha distrutto villaggi e città, cioè ucciso donne, bambini e uomini,
con l’arma disumana che opera incolume dal cielo: alla potenza smisurata, il
sistema aggiunge il fascino terrificante di un dio che, offeso, distrugge col
fuoco Sodoma e Gomorra. Ma questa, che tuttora si sta combattendo, nonostante la
resa totale dei combattenti, non è veramente una guerra, ma una contesa
all’ultimo sangue tra cordate economiche rivali per il controllo nel mercato
mondiale del petrolio e degli stupefacenti, condotta in un ambiente ove nessun
colpo è proibito: è la barbarie del capitalismo.
Che cosa possono fare le donne in questo sfrenarsi di
violenza, che abbatte ogni limite opposto da diritti e valori un tempo pattuiti
e condivisi?
Pur mantenendo e sottolineando la specificità del loro
movimento, devono unire il loro movimento di liberazione a quello di tutti gli
oppressi del mondo, recuperando quel carattere internazionalista che già un
tempo cercarono di conferirgli: per quanto vari la fenomenologia sociale e si
manifesti in modo diverso la lotta di classe, il fulcro della lotta è sempre la
contraddizione capitale-lavoro, che determina anche il permanere
dell’oppressione femminile.
Nel passato il movimento operaio organizzato seppe unire alla
rivendicazione dei bisogni il ruolo pedagogico dell’intellettuale collettivo,
che seppe recepire e diffondere le acquisizioni più alte della cultura: la
rivoluzione femminista è indubbiamente un fatto centrale della cultura del XX
secolo, di cui tutto il movimento operaio – uomini e donne uniti – si deve
far carico, perché venga trasmesso e continuato nel secolo presente. Già si
concretizzano aspirazioni e tendenze: la Marcia delle donne si è realizzata
come manifestazione veramente internazionale e multirazziale e importante è
stata in essa la presenza di uomini, che ha indicato la necessaria unificazione
dei due generi nella lotta contro un sistema, che opprime egualmente uomini e
donne, non solo, ma anche gli animali, l’ambiente, persino mira alla conquista
dello spazio, nel suo delirio di onnipotenza. Il movimento di Genova, in cui
sono confluiti insieme ragazzi e ragazze, uomini e donne di ogni parte del
mondo, è stato un altro segnale di rifiuto del sistema e di volontà di
trasformazione: anche se la mancanza di un progetto non ha reso possibile la
trasformazione del movimento in un nuovo soggetto politico.
Un nuovo compito si profila al movimento femminista per i
prossimi decenni: alimentare il movimento internazionale delle donne e condurlo
a camminare di pari passo con quello di tutto il proletariato, affinché si
profili sempre più chiara in tutti la coscienza che senza comunismo non c’è
libertà.
[Febbraio 2000]