Marxismo rivoluzionario n. 2 - saggi / femminismo  

 

UN MOVIMENTO INTERNAZIONALE

Due secoli di idee, figure e lotte del movimento delle donne

 

 

di Nedda Petroni

 

 

Il grandioso movimento dell’illuminismo, che si sviluppa e si diffonde in Europa e in America del Nord nel XVIII secolo, rivendicando i diritti dell’individuo e quelli della critica e diffondendosi in tutto il mondo culturale, pone le basi per la formazione di una coscienza femminista a carattere internazionale. Ma furono le grandi rivoluzioni della seconda metà del secolo a mettere in moto l’azione politica. Le americane, che parteciparono alla guerra d’indipendenza, le francesi che lottarono per gli obiettivi rivoluzionari, capirono ben presto che i grandi principi delle costituzioni e i diritti solennemente dichiarati si arrestavano alle frontiere del sesso. Da quel momento il linguaggio delle donne diventò femminista e le loro rivendicazioni furono specifiche.

 

Olimpia de Gouges

Cominciò quell’Olimpia de Gouges, che pagò con la vita il suo coraggio di prima femminista. In piena Rivoluzione francese essa constatò che la proclamata eguaglianza della nuova costituzione repubblicana, inclusa quella solennemente istituita il 10 agosto 1793 (che per i repubblicani del secolo seguente diventò il simbolo della democrazia politica) riconosceva alle donne una mezza cittadinanza, per cui presentò all’Assemblea la “Dichiarazione dei diritti della donna”. Nell’art. 10, in nome del pieno coinvolgimento delle donne nel movimento rivoluzionario – fino alla morte – rivendicava: “La donna ha il diritto di salire sul patibolo; essa deve avere egualmente il diritto di salire sulla tribuna”. Aveva già organizzano club unicamente femminili, ma non ebbe il tempo di costruire un vero e proprio movimento politico. La Rivoluzione francese era il movimento con cui la borghesia conquistava la propria egemonia politica; in conseguenza, avanti a tutti i diritti rivendicati, poneva la proprietà, che dichiarava sacra.

Gli stessi giacobini, che pur costituirono la punta più democratica della rivoluzione, rappresentavano un ceto di piccoli artigiani, proprietari di botteghe, che, nella Francia da poco industrializzata, era ancora dominante ed aspirava ad una società di piccoli proprietari. Ma la stessa pulsione, che spinge a recingere le terre, a schia­viz­zare i deboli, ad espropriare i produttori dei loro strumenti del lavoro, produce anche il rapporto univoco di possesso tra l’uomo e la donna: i rivoluzionari borghesi che proclamarono il primo principio d’eguaglianza, furono costretti dalla stessa natura della loro rivoluzione ad imporre limiti a questo principio. Pensavano che la donna potesse servire la rivoluzione come moglie e come madre. Perciò, come esclusero il principio d’eguaglianza dalla sfera sociale, così negarono alla donna l’eguaglianza politica. Olimpia, che per la prima volta nella storia si era opposta ad un ordine centrato sull’uomo, il 4 novembre 1793, in piena Convenzione monta­gnarda, salì il patibolo.

 

Mary Wollstonecraft: Vindication

Però la parola d’ordine era stata gettata e, un anno prima della morte di Olimpia, era già stata raccolta in Inghilterra. Qui Mary Wollstonecraft nel 1792 pubblicò La rivendicazione dei diritti delle donne, un saggio femminista, in cui insorgeva contro la dottrina russoviana delle inclinazioni naturali, secondo la quale la donna sarebbe spontaneamente condotta a rivestire il ruolo domestico e ad essere di conforto allo sposo. Perciò criticava il costume, vigente in tutti i paesi, che negava alle bambine l’educazione scientifica e denunciava con forza quella che le destinava al matrimonio come realizzazione naturale, preparandole affinché diventassero “oggetti seducenti” per il piacere dell’uomo. Identificandosi con tutte le donne, considerate come gruppo (“Io parlo in nome del mio sesso, non di me stessa”) lancia loro questo messaggio: “E’ giunto il tempo di effettuare una rivoluzione dei costumi femminili, di restituire alle donne la loro dignità perduta e di farle contribuire, come membri della specie umana, alla riforma del mondo.

Tuttavia la tradizione maschilista fu più forte del suo istinto di donna, sì che le sembrava impossibile che le donne delle classi subalterne potessero godere dei diritti democratici e, più in generale, negava che le donne stesse potessero diventare autrici della propria emancipazione. L’appartenenza di classe le impedì di capire che la lotta per l’abbattimento di un sistema oppressivo trova la sua base necessaria nel movimento degli stessi oppressi. Perciò Vindication, che viene spesso indicato come l’origine del femminismo britannico, si colloca invece nell’ambito più ristretto del femminismo borghese, nella fase in cui rimane ancora a livello di esortazione morale, cioè prima che si delineasse un movimento radicale dal basso, al quale le femministe rivoluzionarie potessero far riferimento; fosse anche quello delle suffragette, cioè di donne privilegiate, che rivendicavano diritti uguali a quelli dei borghesi maschi.

 

Altre protofemministe

Presto però in Inghilterra e in Francia si produssero manifestazioni spontanee di donne. Gli ideologi e i politici borghesi le avevano ricacciate tra le mura domestiche, ma proprio qui le donne trovarono il loro terreno di lotta. Poiché era loro compito provvedere alla quotidiana e difficile alimentazione familiare, esse parteciparono in gran numero alle sommosse per il pane o contro la tassa sul grano, addirittura spesso se ne posero alla guida. Negli Stati Uniti un gruppo di operaie che lavoravano in un mulino, lottarono insieme contro le condizioni del loro lavoro, l’insufficienza dei salari, il pagamento in natura e pubblicarono un loro giornale.

Mediante queste rivolte le donne fecero l’esperienza delle azioni collettive, impararono a pensare in termini di movimento sociale e a difendere il loro sesso in quanto gruppo discriminato, elaborando una problematica che andavo oltre l’interesse immediato.

 

Socialismo utopistico

Il movimento socialista pose subito attenzione alla questione femminista. Si diffusero, soprattutto in America, comunità ispirate alle dottrine del socialismo utopistico e, in particolare, i falansteri, secondo il modello di Fourier. Tuttavia i discepoli di Saint-Simon e di Fourier non erano molto avanzati nei riguardi dell’emancipazione femminile. I sainsimonisti non volevano abolire la “santa legge del matrimonio proclamata dal cristianesimo” e, se Fourier intendeva dare alle ragazze un’educazione pari a quella dei ragazzi, né voleva escludere le donne da alcuna funzione, i suoi discepoli furono molto più prudenti: Cabet non accordava l’eguaglianza alle donne e le escludeva dalle funzioni pubbliche.

Nella seconda metà del secolo XIX il capitalismo, che, privo di qualsiasi correttivo, fu chiamato selvaggio, mediante il colonialismo venne esportato negli altri continenti e diventò mondiale: la concorrenza si aggravò e si tradusse in crisi cicliche: l’“esercito di riserva”, sempre foltissimo, permetteva di mantenere il salario a puro livello di sussistenza e condannava coloro che erano costretti a vendere la propria forza lavoro ad una vita che non andava oltre i quarant’anni: le leggi sociali, che cominceranno a proteggere il lavoro, saranno strappate con le lacrime alle classi dominanti. Perciò la questione del lavoro femminile si pose in primo piano e suscitò l’opposizione congiunta degli operai e dei sindacati, entrambi intesi a difendere il lavoro maschile dalla concorrenza. In Francia pensatori sociali tradizionali come Frédéric Le Play e de Bonald s’incontrarono con il socialista Proudhon nel difendere l’ideologia della donna come angelo del focolare. Pertanto era necessario unificare la rivendicazione delle donne con quella che tutto il proletariato conduceva contro la schiavitù del lavoro ed era anche necessario che le donne stesse se ne rendessero conto. Però, durante tutta la prima metà del secolo XIX, il socialismo era ancora proiettato in un futuro utopistico. Non si era ancora elaborato l’idea del rapporto necessario tra l’emancipazione di una classe o di un gruppo e la lotta che i componenti di quella stessa classe o gruppo avrebbero potuto essi stessi condurre in prima persona: proprio questa fu la grande novità che Marx ed Engels apportarono nella storia delle idee e dei movimenti: la loro esortazione al proletariato, perché prendesse coscienza della sua forza e si organizzasse in vista della propria emancipazione.

Tuttavia per entrambi la liberazione della donna rimase un problema marginale, subordinato all’emancipazione del proletariato. Essi apportarono bensì un grande contributo alla liberazione della donna in quanto essere umano, alla comprensione della specifica situazione femminile, sia sotto l’aspetto antropologico sia sotto quello economico, ma non produssero un piano di lotta a livello politico. Nemmeno Engels, che pur seppe individuare la specifica oppressione della donna nell’ambito del rapporto di coppia, paragonando la donna al proletariato e l’uomo alla borghesia, non riuscì a dare alcuna interpretazione in cui la descrizione della donna potesse essere ricondotta al concetto di soggetto politico, secondo il significato che il concetto assume negli scritti di Marx. Di conseguenza non formulò alcuna proposta d’azione per la lotta delle donne ai fini della loro emancipazione.

 

Flora Tristan

Ma, cinque anni prima della pubblicazione del Manifesto, una donna aveva già affermato con forza il principio che l’emancipazione dei lavoratori non può che essere opera dei lavoratori stessi e aveva legato strettamente l’emancipazione della donna a quella di tutto il proletariato. Fu l’operaia francese Flora Tristan, che si batté per la formazione di una classe operaia solida e indivisibile e nella sua opera L’union ouvrière pubblicata nel 1843, espose uno dei primi progetti di un’Internazionale operaia di portata mondiale. Vi descriveva la condizione delle donne operaie con una drammaticità ed un realismo quali nessuno aveva mai raggiunto, collegando la conduzione della donna operaia a quella del proletariato, reclamava il diritto al lavoro per tutti e per tutte, chiedeva un’istruzione morale intellettuale e professionale per le donne del popolo e il riconoscimento del principio di eguaglianza dell’uomo e della donna come l’unico mezzo per costruire la ‘unità umana’. Naturalmente questo programma incontrò l’opposizione generale, sì che Flora scrisse: “Ho quasi tutti contro di me, gli uomini perché mi batto per l’emancipazione femminile, i proprietari perché reclamo l’emancipazione dei salariati”. Ma gli operai le volevano bene e al suo funerale essi stessi portarono il feretro, rifiutando l’intervento di persone a pagamento e aprirono una sottoscrizione per un monumento funebre. Il suo ricordo durò a lungo nel movimento rivoluzionario. Il 23 ottobre 1848, l’anniversario della sua morte, parecchie migliaia di persone si riunirono attorno alla sua tomba per celebrarne il ricordo. Gli operai cantavano Occorre una tomba per Flora Tristan, una canzone che si udì per molti anni nelle officine. Con lei si produsse l’alleanza teorica tra il femminismo e il socialismo rivoluzionario.

 

Il 1848 e Napoleone III

Nelle giornate del febbraio parigino le donne affluirono numerose e combatterono insieme agli uomini. Nelle giornate seguenti le femministe parteciparono vivacemente ed in gran numero al movimento, dispiegando un’attività che si svolgeva in varie direzioni. Crearono giornali, mediante i quali richiedevano il diritto di voto e quello di eleggibilità, ma contemporaneamente parlavano dei loro diritti economici, chiedevano la riduzione dell’orario di lavoro, la creazione di asili per bambini presso le fabbriche e l’organizzazione di un insegnamento professionale per le stesse operaie. Ma, nonostante la presenza di un operaio e di un socialista nella sua compagine, il governo provvisorio rimaneva borghese. Perciò l’Assemblea nazionale rifiutò ancora una volta il riconoscimento dei diritti politici alle donne, anzi con un atto legislativo proibì loro di partecipare alle riunioni dei club. Ancor più che nel 1793, la borghesia, abituata a considerare le donne come forza lavoro sottopagata, non perdonava loro le denunce delle ingiustizie economiche che esse subivano, il cui risarcimento avrebbe provocato grave danno ai suoi privilegi. Ottennero almeno una vittoria: il diritto al lavoro, che era stato l’oggetto principale della rivendicazione di Flora, venne riconosciuto dal governo provvisorio della repubblica come un diritto fondamentale di tutti i cittadini: nonostante Proudhon avesse stigmatizzato la condizione della donna mediante il dilemma: “casalinga o puttana”. Ma la femminista Jeanne Déroin assieme a Pauline Roland, cercò di realizzare il completamento del progetto di Flora, fondando una “Federazione delle associazioni operaie”, per lottare contro le ingiustizie che colpivano i lavoratori e le lavoratrici: era un piano grandioso e ricevette l’adesione di centoquattro associazioni. Ma questo era troppo per i borghesi repubblicani: alla riunione per la costituenda federazione i convenuti e le convenute vennero arrestati e trascinati in giudizio, Jeanne Déroin e Pauline Roland furono condannate. Era l’atteggiamento tipico della borghesia, che si serve delle donne per la conquista della libertà e dei diritti formali, ma le condanna quando la protesta invade il campo sostanziale dei diritti sociali e attacca i privilegi borghesi.

In Inghilterra le donne lottarono con gli uomini nel movimento cartista e occuparono funzioni di leader nelle trade unions e di guida nello svolgimento degli scioperi operai nel 1843-44.

In America le operaie di un mulino pubblicarono un giornale, denunciando la durata del lavoro, i bassi salari, i ritmi troppo veloci e il pagamento in natura.

Ciò indica che già prima del 1848 si era stabilito un legame tra la rivoluzione sociale e l’emancipazione delle donne. Ma in Francia la stretta repressiva del neobonapartismo colpì il movimento associazionistico di entrambi i sessi, in primo luogo quello femminile: negli anni cinqunata, eliminate tante femministe perché condannate, proscritte o deportate, le donne furono escluse per legge dalle associazioni politiche di qualsiasi tipo.

Solo nel 1869 un nuovo sciopero delle cucitrici avrebbe rimesso in moto il movimento operaio, mentre l’attività della radicale Déraismes e della socialista Leo avrebbero riportato il discorso sui diritti politici; difficile da farsi sotto un governo autoritario quale era quello di Napoleone III. Ma tutti gli aspetti della condizione femminile erano in quel tempo difficili e drammatici.

Tuttavia, in questa situazione segnata da una crisi economica, si apre un periodo intenso di sindacalizzazione femminile: l’inchiesta di Blanqui sulle setaiole, il cui orario andava dalle 12 alle 17 ore, sensibilizzò l’opinione pubblica. La ripresa femminista, che collegava le rivendicazioni delle donne con quelle dell’Internazionale socialista, si manifestò nel 1868 – due anni prima della guerra e della fine del regime napoleonico – con la pubblicazione del saggio Le droit de la femme che si concludeva con un manifesto.

 

La Prima Internazionale

Ma nel 1848 Marx ed Engels avevano pubblicato il Manifesto del partito comunista, che apparve a Parigi il 24 febbraio e segnò l’inizio di una nuova storia. Da quel momento il movimento operaio si legò definitivamente al marxismo e quello femminista acquistò consapevolezza della propria dimensione internazionalista.

Tuttavia, anche in questo nuovo ambiente politico, le femministe trovarono resistenza sessista: i gruppi operai e i personaggi che convennero alla fondazione della Prima Internazionale, che si riunì a Londra il 28 settembre 1864, non erano monadi senza porte e senza finestre, sì che le donne non vi furono ammesse, per l’opposizione di numerosi gruppi aderenti. Vi si dibatterono acquisizioni politiche e culturali nuove, ma riaffiorarono anche pregiudizi antichi, ancora presenti tra questi primi esponenti della classe operaia europea.

Marx ed Engels sostennero bensì con convinzione, nei sindacati e nei vari congressi di questa Prima Internazionale, i diritti economici e politici delle donne contro il viscerale antifemminismo piccolo-borghese, rappresentato in Francia da Proudhon e in Germania da Lassalle. Però non giunsero ad indicare nelle lotte specifiche delle donne il mezzo con cui questa metà del genere umano, che la storia aveva escluso dalle organizzazioni civili e politiche, avrebbe potuto costituirsi come nuovo soggetto politico nella lotta contro l’oppressione, quindi contro il capitalismo, ed ottenere perciò, con il riconoscimento dei propri diritti, una profonda trasformazione sociale in senso egualitario. Tuttavia, non solo singole lavoratrici ma intere società femminili si orientarono verso l’Internazionale, ove la questione femminile provocò differenziazioni politiche tra Proudhon, ostile al lavoro della donna nelle fabbriche, e Verlin, promotore di una “società di lavoratrici”.

 

Successivi congressi

Nel congresso di Ginevra, che si svolse dal 3 all’8 settembre 1866, l’argomento intitolato Lavoro delle donne e dei fanciulli dette origine ad uno scontro tra i delegati presenti. Proudhon era morto, ma c’erano i suoi seguaci e il delegato francese, ostile anch’esso visceralmente al lavoro extra-domestico delle donne, si alzò per condannare la prostituzione della strada, ma anche della fabbrica; la posizione naturale e dignitosa per la donna, secondo questi delegati, restava il lavoro casalingo. Fu presentata una mozione in questo senso, cui si oppose la mozione di Verlin e dell’inglese Lawrence. Questi era delegato di un paese dove la necessità di cambiare la condizione di vita nelle fabbriche, sia per gli uomini che per le donne, magari cominciando proprio dalle donne, era stata avvertita fin dalle prime inchieste di ispettori nelle fabbriche e dalle prime leggi di riforma. Ma la vittoria dei proudhoniani fu assoluta.

Nel congresso dell’anno successivo, che si tenne a Losanna nel 1867, il dibattito si svolse sulla quinta questione, riguardante “il ruolo dell’uomo e della donna nella società. Marx ed Engels ed anche Verlin erano assenti, per cui vi fu ancora una volta una vittoria incontrastata dei proudhoniani. Si fece un’esaltazione della famiglia, portando in quest’assemblea operaia le stesse idee che un anno prima, su questo argomento, Pio IX aveva esposto nel Sillabo: erano quelle stesse concezioni contro cui un secolo prima l’illuminista Beccaria aveva difeso i diritti dei singoli, indipendenti dall’istituzione familiare. “Trovate un’istituzione più grande e più bella? Nell’antichità la matrona romana comandava a tutti rispetto e venerazione; nel medioevo il cattolicesimo piazzò sugli altari una madre col suo bambino in braccio; noi, nipoti del sec. XVII ed uomini del XIX, avremo dunque, meno del medioevo, meno dell’antichità, il sentimento della dignità della madre? Non possiamo crederlo.” Si parlò anche dell’istruzione, affermando che quella dei fanciulli poteva essere affidata alle donne fino a sette anni, ma dopo quest’età era necessario un istruttore maschio. Erano tutti anarchici o comunisti, tutti intesi a migliorare la sorte degli oppressi, ma sul piano del rapporto tra i sessi rinnegavano il principio di eguaglianza. Scorgevano il modo di migliorare la sorte delle donne migliorando quella dell’uomo, da cui esse dipendevano economicamente – e dovevano continuare a dipendere. La conclusione in cui sintetizzarono il loro pensiero sembra inconcepibile da parte di un’Internazionale socialista: “Diciamo dunque, per terminare, che noi attendiamo l’emancipazione dell’operaio e che per noi questa emancipazione consiste in questo: strappare la donna all’industria per farne una massaia, strapparla alla prostituzione per farne una sposa e una madre, strapparla all’ignoranza e alla superstizione per farne un’educatrice dell’infanzia. Ogni altra emancipazione, tal quale la iniziarono alcune scuole socialiste, ripugna la dignità del lavoratore”.

 

Sindacati

L’antifemminismo allignava anche nei sindacati, preoccupati soprattutto di impedire alle donne l’accesso al mercato del lavoro, per limitare la concorrenza che esse potevano fare agli uomini. La prima questione posta ai sindacati dagli operai era proprio la soppressione del lavoro femminile: spesso essi facevano sciopero quando venivano assunte donne. Questo avveniva in tutti i paesi durante quella prima industrializzazione, quando i lavoratori, privi di ogni legge protettiva, erano abbandonati all’arbitrio selvaggio del mercato e la disoccupazione era l’incubo costante, che significava miseria e fame. Allora i sindacati si fecero apostoli di leggi “protettive” per le donne, non per difendere i diritti derivanti dalla loro specifica condizione, ma per limitare il loro diritto al lavoro, in modo da ridurre il danno per i lavoratori maschi. Apertamente e cinicamente nel 1879 si pronunciarono gli operai dell’industria del sigaro negli Usa: “Noi non possiamo cacciare le donne dalla professione, ma possiamo limitare la durata del lavoro con una legislazione appropriata. Nessuna ragazza che abbia meno di 18 anni dovrà lavorare più di otto ore al giorno e le ore supplementari dovranno essere loro proibite; nessuna donna sposata dovrà metter piede in una fabbrica durante le sei settimane seguenti il parto”. Ma le donne non si lasciarono vincere dal sessismo degli operai e dei sindacalisti: le operaie della Nuova Inghilterra crearono la Female Labour Association e, fin dal 1850, le operaie americane organizzarono proprie branche all’interno dei sindacati maschili, dalle quali emersero eroine leggendarie: Ella Woggins, chansonnière, Ella Wheeler, uccisa durante una manifestazione, Mother Jones, organizzatrice dei minatori per cinquant’anni, ed altre.

 

L’Associazione internazionale delle donne

Questo era l’ambiente culturale in cui si muovevano le prime femministe, che dovevano lottare contro pregiudizi antichi di millenni, persino là dove militavano le menti più coraggiose dell’epoca. Perciò erano fatte oggetto dell’ostilità di tutti, come aveva già detto Flora Tristan. Per questo i primi movimenti specificatamente femministi non poterono essere autonomi: nascevano all’interno di altri, che prestavano loro i canali organizzativi. Nel 1867 la ginevrina Maria Goegg, appartenente alla Lega per la pace e la libertà, a sua volta collegata con il giornale “Les Etats Units d’Europe”, rielaborò le istanze tipiche della Lega – l’abolizione dell’esercito permanente e la mobilitazione dell’opinione pubblica contro i rischi di una guerra – dal punto di vista della situazione femminile, in modo da farne il punto di partenza di un’organizzazione mirante all’organizzazione femminile e, poiché era da tempo convinta che bisognasse legare il movimento femminista con quello dei lavoratori, dette subito carattere politico al movimento, proponendo apertamente di fondare una Associazione internazionale delle donne, collegata con la Lega per la pace e la libertà. La lotta per la pace avrebbe coinvolto collettivamente le donne in un movimento che diventasse “acquisizione di coscienza civica e consapevolezza che non esistevano questioni estranee alle donne”. Anch’essa naturalmente andò incontro all’ostilità generale. Il vescovo di Orléans condannò questa Lega insieme con le Scuole professionali per giovinette e altre iniziative laiche fondate da Elisa Lémonnier, quali le Libere conferenze e la Scuola di medicina, indicandole complessivamente come “il grande partito dell’empietà” (si era in piena campagna elettorale). Maria Goegg rispose spiegando come l’ostilità che l’idea dell’emancipazione femminile incontrava dappertutto nascondesse un’altra ostilità, più difficile da confessare, quella contro qualsiasi forma di eguaglianza sociale e collegò la dimensione internazionale dell’associazione con il carattere universale dell’oppressione delle donne e la necessità di una conseguente loro liberazione, che non avrebbe dovuto avere distinzione né di razze, né di classi, né di nazioni. In Germania ebbe come collaboratrice Rosalia Schonwasser che, affrontando il tema dell’emancipazione religiosa, criticava la borghesia democratica per aver lasciato l’educazione delle donne e anche dei lavoratori alle autorità tradizionali e, in particolare, al clero e mostrava una chiara coscienza del legame tra l’emancipazione operaia e quella femminile. La stessa ferma convinzione è presente in André Leo, moglie del socialista Benedetto Malon, con il quale poi sarà comunarda. In un suo articolo, pubblicato sul giornale “Stati Uniti d’Europa”, essa, riallacciandosi a Con­dorcet, la cui voce nel 1793 si era levata isolata a difendere la parità dei diritti dell’uomo e della donna in nome della comune appartenenza al genere umano, denunciava la volontà politica di lasciare la donna esclusa dalle condizioni necessarie alla dignità e alla moralità, affermando l’universalità dei principi democratici “invocati da tutti gli oppressi”. In loro nome essa chiedeva con forza l’emancipazione dei lavoratori, dei negri, delle donne: “La democrazia”, proclamava, non è un partito, è una legge morale, una religione nuova”.

Collegata alla Lega per la pace e la libertà fu la napoletana Anna Mazzoni che non vi appartenne in prima persona, ma partecipò alle sue iniziative, tenendosi in contatto con i suoi concittadini che ne facevano parte. Per prima in Italia sostenne l’emancipazione della donne e già nel 1864 pubblicò un saggio intitolato ai rapporti sociali tra i sessi. Sì che nel settembre del 1868, quando si tenne il secondo congresso della società ginevrina della Lega per la pace e la libertà, l’Associazione internazionale delle donne era già un organismo politico. Se ne rese conto la stessa Associazione internazionale dei lavoratori che, nel dibattito condotto intorno alla guerra, dovette discutere l’atteggiamento da prendere in rapporto al congresso che la Lega aveva organizzato, subito dopo quello dell’Internazionale, a Ginevra nel 1867 e a Berna nel 1868. Nelle discussioni si intrecciarono due problemi: l’autonomia operaia dell’Associazione internazionale dei lavoratori nei confronti della Lega e il fatto che in questa associazione l’elemento predominante era l’ala progressista liberale, per cui si sospettava che non avesse “l’intenzione di combattere le vere cause della guerra”. Prevalse l’autonomia operaia: il congresso di Bruxelles invitò la Lega ad aderire all’Internazionale, ma l’invito non venne accettato.

Questa Lega ebbe indubbiamente dei limiti, dovuti al fatto che affrontò per prima una vera e propria campagna per l’emancipazione femminile per cui, trovando ancora intatti i pregiudizi accumulati nei millenni, dovette fare alcune concessioni alla cultura del tempo e talvolta fece ricorso anche al motivo della diversa vocazione naturale dell’uomo e della donna. Tuttavia svolse anche una funzione positiva, poiché si oppose al diffuso antifemminismo e controbilanciò quello stesso dell’Associazione internazionale dei lavoratori, ove trovava consensi anche nel movimento operaio organizzato.

 

La Comune

Nonostante la diffusa ostilità nei loro riguardi, le donne parteciparono attivamente alla lotta e combatterono con coraggio, quando si trattò di passare all’azione per rimuovere le strutture politiche e sociali oppressive; le donne russe, alleate ai narodniki, parteciparono alle azioni terroristiche, per il rovesciamento dell’autocrazia zarista.

Quando nel 1871 si organizzò, nella Parigi insorta, quella Comune, in cui Marx scorse la realizzazione della sua preconizzata dittatura del proletariato, le donne, di cui la rappresentante più illustre fu Louise Michel, parteciparono attivamente al rinnovamento sociale dapprima e poi alla resistenza contro l’esercito del Thiers. Per incitamento di Elisabetta Dimitrieff, amica di Marx, e di Louise Michel (una maestra di scuola elementare con al suo attivo anni di cospirazione antibonapartista) venne fondata l’Union des Femmes (Unione delle donne), che si costituì come sezione femminile dell’Internazionale, con l’obiettivo di organizzare il lavoro delle donne e di raccogliere fondi per la costruzione di cannoni. Esse lottarono su di un duplice fronte: da un lato parteciparono alla resistenza antitedesca e all’esperimento di autogoverno popolare, dall’altro rifiutarono i tentativi fatti dagli stessi comunardi di tenerle fuori dalla vita politica, in ottemperanza alle idee di Proudhon che, pur essendo morto nel 1864, restava ancora per tutti l’ispiratore ideologico per eccellenza. Si aprirono numerosi club femminili, che chiedevano la laicità dell’insegnamento, la creazione di nuove scuole per l’istruzione delle bambine, che, fino a quel momento, erano state trascurate. Per facilitare il loro lavoro, le donne crearono asili per custodire i figli: dovevano avere giardini, voliere piene di uccelli, giocattoli ed alberi. André Leo, nel giornale “Le Social”, critica il governo di Versailles ma anche la Comune, per la sua indisciplina e il suo antifemminismo: “Se la democrazia è stata vinta fino ad ora, ciò è avvenuto perché i democratici non hanno mai tenuto conto delle donne”. Durante la settimana di sangue, le donne combatterono sulle barricate, a fianco degli uomini. Vennero massacrate, gettate in prigione in attesa di giudizio, deportate. Anche Louise Michel venne condotta davanti al Consiglio di guerra e condannata alla deportazione.

Le lotte femminili e femministe durante la Comune riunirono donne delle classi agiate e medie con quelle di ambiente popolare.

 

Il femminismo nell’Associazione internazionale dei lavoratori e nella Lega

La vicenda epica di questo primo esperimento di governo operaio, la selvaggia repressione che ne seguì – furono fucilate 17.000 persone – suscitò una tempesta nell’opinione pubblica, che ne addossò la responsabilità a Marx, il quale, invece, l’aveva sconsigliata. Nella critica alla Associazione internazionale dei lavoratori fu coinvolta anche l’Associazione Internazionale delle donne che, con la qualifica con cui si era definita, con la palesata aspirazione a collegare la lotta per l’emancipazione delle donne con quella del movimento operaio, aveva messo in luce la sua simpatia per la più vasta associazione dei lavoratori. Perciò l’attività dell’Associazione conobbe una pausa. La Lega tuttavia convocò subito un congresso il 1° luglio 1871, immediatamente a ridosso della grande repressione che si era abbattuta sui comunardi. Esso fu ospitato logicamente in una città svizzera, Losanna per la precisione. Il dibattito si accentrò sul rapporto tra Lega e Associazione internazionale dei lavoratori, tanto che gli argomenti all’ordine del giorno divennero una specie di appendice. La questione femminile si inserì improvvisamente nel dibattito ad opera di un’intelligente delegata polacca, Paulin Mink, che si dichiarò orgogliosa di appartenere all’Associazione internazionale dei lavoratori. Essa affermò che “l’Internazionale ormai si estende al mondo intero”, però subito dopo fece notare il disinteresse di quest’associazione per il problema della donna, concludendo che “è possibile che si debba a questa carenza verso la donna il fatto che l’Internazionale non abbia prosperato più rapidamente all’origine”. Fra i congressisti c’era anche Maria Goegg, che fece un accurato resoconto dell’attività pacifista della sua associazione, dal 1869 fino a quel momento, e mise in luce l’attività del gruppo italiano della Pieromaldi, che aveva diffuso un appello ispirato al concetto di “guerra alla guerra” e un appassionato intervento contro il patriottismo, animato da una volontà internazionalista. La rivendicazione femminista venne poi ripresa dal francese Fribourg il quale, superando il principio proudhoniano, collegò l’emancipazione degli operai con quella delle donne. Anche all’Associazione internazionale dei lavoratori la questione femminista fu posta bruscamente sul piano organizzativo il 19 settembre 1871, nel corso della terza seduta di una sua conferenza, con un intervento di Marx, in cui si chiedeva “la fondazione di sezioni puramente femminili”. La proposta passò all’unanimità.

Però, nel settembre 1872 si riunì all’Aja il congresso che mise fine alla vita dell’Associazione internazionale dei lavoratori Marx motivò questa risoluzione con lo scopo di fare una ricognizione, paese per paese, del grado di sviluppo del movimento socialista; vi erano da una parte zone minoritarie del femminismo mondiale che potevano spostare la battaglia su terreni diversi rispetto ai quelli propri dell’Associazione internazionale dei lavoratori, cioè dell’organizzazione dei lavoratori, che aveva come suo unico scopo la lotta dei lavoratori contro lo sfruttamento capitalistico: dall’altra persistevano tuttora nella classe operaia pregiudizi antifemministi.

In Europa la Lega per la pace e la libertà, costituì ancora per qualche anno il terreno sul quale la campagna di emancipazione femminile poté continuare le sue iniziative internazionali. Essa organizzava i suoi comitati locali, che si erano costituiti in Germania, Francia, Italia, Belgio, rivolgendo la sua attenzione in varie direzioni: i problemi delle lavoratrici, l’ammissione delle donne all’università, la laicizzazione della legislazione, in particolare la battaglia per il lavoro femminile e la battaglia suffragista, centrale negli Usa e in Inghilterra. Ma già al congresso che si tenne a Lugano, a partire dal 10 luglio 1872, si avverte un clima diverso rispetto al quello dei suoi primi incontri: voci ironiche investirono quelle speranze di pace e di libertà su cui all’inizio tutti concordavano. A questo congresso partecipava anche Maria Goegg, intervenuta come vicepresidente di una società femminista a nome Solidarité. In un suo intervento essa riaffermò che, per quanto riguardava i diritti delle donne, aveva la ferma intenzione di continuarne la difesa.

 

La Seconda Internazionale

Con la fondazione della Seconda Internazionale si apre una nuova fase del movimento femminista, che da questo momento diventa parte integrante di un’organizzazione poggiante sul materialismo dialettico. Militavano in essa comuniste formatesi sul pensiero marxista ed educate dalla loro lunga militanza ad un profondo sentimento egualitario ed internazionalista. Però i partiti che la componevano, provenienti ciascuno da una diversa cultura nazionale, erano altrettanto sessisti quanto i sindacati. Ne fece prova il rifiuto opposto dal Partito socialdemocratico tedesco alla proposta di Augusto Bebel di iscrivere nel proprio programma la lotta per il voto alla donne; fu allora che, per perorare la causa delle donne, Bebel pubblicò La donna e il socialismo. Ma in questo partito militava anche Clara Zetkin, che già dirigeva il giornale L’uguaglianza, nel quale si espresse, fino al 1916, il femminismo socialista. Essa fondò la sezione femminile del Partito socialdemocratico tedesco, che era ben organizzata ed aveva una funzionaria pagata. Fu per suo intervento che nel 1891 il Partito socialdemocratico tedesco accettò di iscrivere nel suo programma il principio di uguaglianza dei diritti degli uomini e delle donne. Nell’agosto del 1907, per iniziativa di Clara Zetkin, si svolse la prima conferenza delle donne della Seconda Internazionale, a cui parteciparono delegazioni di tutti i paesi europei e anche della Lega delle donne progressiste degli Usa e del Canada.

Essa precedette di pochi giorni il congresso di Stoccarda della Seconda Internazionale, la cui quinta commissione fu dedicata appunto al massimo problema femminista del tempo, il suffragio alle donne. C’erano tutte le donne che andavano costruendo la politica femminista dell’Internazionale, dalla Zetkin alla Popp alla Kollontaj e che tanta parte avrebbero avuto negli anni successivi nello sviluppo delle lotte per la pace e per il suffragio. La Kollontaj nella conferenza si era opposta alle femministe borghesi, rimproverando alle suffragiste di non portare fino in fondo la critica all’istituto della famiglia, la Zetkin invece era più possibilista.

Ma la risoluzione presentata dalla quinta commissione fu unitaria: respingeva il diritto di voto limitato, di cui in alcuni paesi si avanzava la proposta, affermava di lottare per il suffragio universale accordato a tutte le donne e imponeva come dovere a tutti i paesi socialisti di combattere energicamente per la realizzazione di questa meta concreta di eguaglianza politica. Venne dato a Clara Zetkin il compito di redigere la relazione. Il documento che ne risultò fu una delle sue cose migliori. Essa rivendicava la parità dei diritti in nome del nuovo ruolo ora assunto dalle donne che, diventate lavoratrici, si trovavano a vivere in un ambiente ostile pari a quello degli uomini e perciò avevano bisogno dei diritti completi per potersi difendere: il diritto di voto era il naturale corollario della raggiunta autonomia economica. Metteva in evidenza la necessità di collegare la lotta delle donne proletarie con quella di tutti gli sfruttati, infine rilevava che sarebbe stato utile al movimento socialista avere a fianco compagne che lottavano per il loro stesso scopo. Affermava con forza che bisognava lottare contro l’ipotesi che veniva avanzata di concedere un suffragio limitato, che sarebbe andato a vantaggio solo delle donne benestanti, concludeva che doveva essere impegno di tutti i partiti socialisti il lottare per il suffragio universale.

 

Il congresso di Stoccarda

Il congresso di Stoccarda fu il più ricco di motivi umani e di indicazioni politiche della Seconda Internazionale, realizzato in un tempo in cui c’era la consapevolezza di dover fronteggiare la degenerazione della società europea, che si manifestava nella preparazione alla guerra. Si affermò con chiarezza che la guerra non è un destino fatale dell’umanità, ma opera dei contrastanti interessi delle nazioni e che contro di essa era possibile agire con l’azione dell’intera classe operaia. Purtroppo questa presa di posizione contro l’inevitabilità della guerra non aveva ancora una robustezza e una maturità tali da impedirla sul serio, tuttavia rimane l’importanza di questa affermazione di principio: il congresso risultò essere un movimento popolare contro la guerra, con la prospettiva del socialismo e attraverso la sua organizzazione internazionale. Si discusse sull’opportunità o meno di fissare lo sciopero generale come mezzo estremo di azione nel caso di una dichiarazione di guerra.

Jaurès si dichiarò per lo sciopero, perché l’azione parlamentare non era sufficiente e il proletariato doveva usare tutti i mezzi d’azione che il genio operaio aveva creato: azione parlamentare, manifestazioni popolari, sciopero dei cittadini e del proletariato: “il capitalismo non è un dio chiuso nel suo santuario ed è possibile colpirlo in tutte le sue manifestazioni”, affermò con decisione. Il rappresentante tedesco Volleman badò nei suoi interventi ad evitare che i tedeschi si trovassero con le mani legate da impegni pacifisti e negò la necessità di tracciare una qualsiasi linea programmatica contro la guerra. Adler assunse una posizione agnostica: “Noi non possiamo giurare che faremo lo sciopero di massa per la pace; ma non possiamo nemmeno giurare che lo faremo solo per il suffragio universale”. Bebel era ottimista, poiché pensava che il peso disumano di una guerra e il massacro che ne sarebbe seguito avrebbe dissuaso i governanti dal progetto (ma da buon socialista avrebbe dovuto sapere che i fabbricanti di cannoni sono interessati alle commesse governative molto più che al peso della guerra e ai suoi esiti); riteneva poi che, nel caso fosse scoppiata, la stessa società capitalistica si sarebbe convertita al socialismo: era il mito dell’ultima guerra ed insieme la posizione attendista e catastrofista dominante nella Seconda Internazionale. Affermava che non c’era bisogno di una nuova risoluzione: alle minacce bastava opporre la crescente forza parlamentare dei partiti, che la mozione dello sciopero generale avrebbe messo in situazione di inferiorità. Ma il suo vero obiettivo, in realtà, era di garantire la continuità della Seconda Internazionale nel caso fosse scoppiata la guerra, piuttosto che cogliere l’occasione per portare a fondo la battaglia per il socialismo.

Chi combatté questa posizione agnostica fu Rosa Luxemburg, la sola che disse una parola semplice e chiara, che andavo oltre il congresso e già guardava al futuro, stabilendo quella posizione che poi orientò, tra il 1914 e il 1917, la protesta dei nemici della guerra. “La propaganda in caso di guerra, affermò, non deve avere di mira sola la fine della guerra, ma si deve approfittare del momento di guerra per effettuare la sconfitta del capitalismo”. Già da questa sua battaglia congressuale si intuiscono i motivi per cui la polizia guglielmina e quella sopravvissuta nel periodo di Weimar individuarono in lei l’avversario più pericoloso: durante la monarchia di Guglielmo II era stata bensì perseguitata e incarcerata per lunghi mesi ed anni, ma aveva avuto salva la vita; la repubblica di Weimar, quando il partito per cui aveva militato per tanti anni si trovava al potere, la ucciderà a sangue freddo.

Partecipava a questo congresso Lenin, giovane e poco conosciuto. Quando sentì l’intervento di Rosa Luxemburg si alzò e, a nome della sua delegazione, rimise il suo mandato “nelle mani della cittadina Luxemburg”. Si formò così il trio Lenin, Luxemburg, Martov che ingaggiò una battaglia contro le posizioni dell’Internazionale rispetto alla guerra.

 

La II Conferenza internazionale delle donne

Nel 1910 si tenne a Copenaghen la seconda Conferenza internazionale delle donne socialiste, in cui, su iniziativa di Clara Zetkin, fu elaborata la risoluzione che istituiva l’8 marzo come giornata internazionale delle donne lavoratrici. Ma le delegate tedesche orientarono tutta la conferenza sul tema della protezione della maternità. Era l’influenza della cultura guglielmina che presentava la maternità come un dovere, determinato dalla necessità della riproduzione della specie; già da tempo la destra gugliel­mina mirava a questo obiettivo razzista, che la Zetkin, facendo la relazione nel suo giornale che raggiungeva le 82.000 copie, controbilanciò, parlando nel suo articolo di suffragismo e eguaglianza economica. Il congresso che si tenne a Copenaghen negli stessi giorni, si svolgeva con la drammatica convinzione di una situazione europea peggiorata rispetto al precedente congresso: gli armamenti si erano fatti massicci, le contraddizioni imperialistiche si facevano sempre più minacciose, la cultura europea era dominata dal nazionalismo. Nel 1909 il Manifesto del Futurismo proclamava: “Noi vogliamo glorificare la guerra, sola igiene del mondo, il militarismo, il gesto distruttore dei libertari, le belle idee per cui si muore e il disprezzo per la donna”. La risoluzione presentata dal francese Hardie dichiarava che se fosse scoppiata la guerra i socialisti avevano “il dovere di operare per farla cessare prontamente e di utilizzare con tutte le loro forze la crisi economica e politica creata dalla guerra per muovere gli strati popolari più profondi ed affrettare la caduta del regime capitalistico”. Per garantire la realizzazione di queste misure il congresso invitò il Bureau Socialiste International a “promuovere … l’intesa per un’azione comune, al fine di impedire la guerra”. Ma i delegati tedeschi, affermando che bisognava “distinguere caso per caso” tenendo conto delle specifiche situazioni internazionali, respinsero la risoluzione. Così fu dichiarata la necessità di aggiornarsi, rimandando al futuro la decisione dei provvedimenti da prendere, quando fosse scoppiata la guerra.

 

Verso la guerra

C’era ormai in tutti la convinzione che la guerra sarebbe scoppiata: una specie di fatalismo portava l’umanità ad accettare la guerra come processo necessario delle cose. Già l’annessione della Bosnia e dell’Erzegovina da parte dell’Impero asburgico nel 1908 aveva costituito una pericolosa avvisaglia contro le prospettive di pace; la risoluzione della prima e della seconda crisi marocchina, mediante un arbitrato fra potenze, a cui non era stata estranea l’iniziativa operaia, sembrò restituire la speranza. Ma la guerra coloniale del 1911, intrapresa dell’Italia contro la Turchia per la conquista della Libia, apriva il fronte balcanico, mentre rimaneva irresolubile, se non con la forza, il contrasto per l’Alsazia-Lorena. Un congresso internazionale dei pacifisti che si tenne a Ginevra nel settembre del 1912 si concludeva con un Appello ai popoli e ai governi che conteneva questa affermazione: “Il pacifismo chiama responsabile lo sciovinismo delle eventuali guerre che si vanno preparando” e l’Appello ai popoli per la pace del comitato centrale della Lega ginevrina nel marzo seguente sembrerà addirittura un’estrema direttiva ai suoi soci nell’imminenza del pericolo: compito di ogni membro della Società per la pace sarà di fare ogni sforzo per la soluzione pacifica delle controversie fra stati, anche se all’occorrenza dovrà “difendere il suo paese e le sue libertà”. C’era convergenza tra queste posizioni e quelle che la Seconda Internazionale andava elaborando. Rosa Luxemburg si batteva con tutte le sue forze contro il militarismo: in un suo discorso del settembre 1913 rifiutò “l’arma dell’assassinio contro i nostri fratelli francesi e di altri paesi stranieri”. Fu accusata di aver incitato all’insubordinazione.

Il congresso internazionale socialista del 1912, che si tenne a Basilea, era terminato anch’esso con un appello drammatico: “Il congresso fa appello a voi tutti, proletari e socialisti di tutti i paesi, perché in quest’ora decisiva facciate sentire la vostra voce e affermiate la vostra volontà in tutte le forme e dappertutto. Levate con tutta la vostra forza la vostra protesta unanime nei parlamenti, unitevi in manifestazioni e azioni di massa, utilizzate tutti i mezzi che l’organizzazione e la forza del proletariato mette nelle vostre mani, in modo che i governi sentano costantemente di fronte a loro la volontà attenta e attiva di una classe operaia decisa alla pace. Opponete così al mondo capitalista dello sfruttamento e dell’assassinio la massa del mondo proletario della pace e dell’unione dei popoli”.

L’intervento della Zetkin, che ribadì la necessità dello sciopero generale, indica anche nel contempo come la campagna per la pace fosse sentita come lo sfondo ideale del movimento femminista. Nel complesso tuttavia questa riunione fu piuttosto una dichiarazione di intenti che un congresso vero e proprio con i suoi dibattiti. Mancavano solo due anni alla grande conflagrazione.

 

La guerra

Alla fine prevalse in tutti l’opportunismo patriottico. Il 1° agosto 1914 i deputati tedeschi e successivamente quelli degli altri paesi votarono a favore dei crediti di guerra e i proletari che si erano chiamati fratelli, uniti in un’unica lotta, partirono per opposti fronti, per massacrarsi a vicenda. Fu la tragica irrimediabile sconfitta della Seconda Internazionale. Rosa Luxemburg si ritrovò in prigione e vi rimase fino alla rivoluzione tedesca del novembre del 1918. Clara Zetkin continuò clandestinamente nella sua missione a favore del socialismo e della pace, fino a che, in seguito alla nascita dell’Uspd, che si era staccato dalla Socialdemocrazia, fu licenziata dal giornale che dirigeva dal 1892.

 

La Terza Internazionale

Autorinnegatasi la Seconda Internazionale, la guida del movimento operaio e femminista passò alla Terza, che venne istituita per iniziativa di Lenin a Mosca nel 1919. Fin dall’inizio, quando, conquistato il potere, si formò il Consiglio dei commissari del popolo e venne eletto un Comitato esecutivo centrale panrusso, il nuovo organismo prestò attenzione ai problemi dell’emancipazione femminile. Si distinse in questa attività Alessandra Kollontaj a cui fu assegnata la carica di Commissaria del popolo all’assistenza sociale: fu la prima donna della storia eletta ad un’alta carica governativa. Nonostante la situazione militare ed economica fosse estremamente tesa, a causa del conflitto mondiale, della guerra civile, dell’intervento straniero e del boicottaggio economico, si crearono importanti istituzioni sociali a vantaggio delle donne. Già nel novembre 1918 fu organizzato il Congresso panrusso delle lavoratrici e delle contadine a cui si presentarono 1.147 donne, in rappresentanza di più di un milione di lavoratrici. Sulla base di una risoluzione del congresso venne istituita una sezione femminile del cosiddetto Shenoldel. Nel luglio 1920 venne organizzata la prima conferenza internazionale delle donne comuniste. Negli anni successivi si organizzarono settimanalmente assemblee di delegate, corsi per operaie e contadine, varie attività finalizzate a combattere l’analfabetismo e innalzare il livello culturale, con lo scopo anche di sottrarre le donne alla sfera domestica, particolarmente arretrata nelle campagne. Lenin appoggiava con convinzione queste iniziative e fissò una retribuzione, sia pur modesta, per le delegate. Venne anche istituito un Segretariato femminile con sede a Berlino. Clara Zetkin, in uno dei suoi colloqui con Lenin, di cui era diventata amica, gli propose nel 1920 di organizzare una conferenza internazionale delle donne ed egli ne fu entusiasta, per l’eterogeneità di formazione, di cultura, di religione delle donne che vi sarebbero convenute e per il conseguente dialogo di tanti femminismi. Purtroppo il progetto andò a monte, poiché le femministe tedesche vi si opposero e dopo non vi fu più occasione per riproporre la conferenza.

Sul piano legislativo la donna ottenne la completa equiparazione, che in nessun paese del mondo era ancora stata raggiunta. Il 18 dicembre 1917 fu varato un decreto per l’equiparazione giuridica della donna, che Lenin definì l’inizio della sua liberazione da un’oppressione che la rendeva “schiava di casa”, assorbita “dalle piccole attività dell’economia domestica che la incatena alla cucina e alla cura dei bambini e le fa sprecare le sue capacità creative in un lavoro barbaramente improduttivo, meschino, snervante, ottuso e opprimente”. Riteneva che la concreta liberazione della donna fosse realizzabile soltanto attraverso la trasformazione delle attività domestiche in un’economia socializzata, cioè attraverso la creazione di cucine comuni e refettori pubblici, di lavanderie-sartorie, asili e nidi d’infanzia, collegi e istituti scolastici di vario tipo. Era anche consapevole che l’uguaglianza tra l’uomo e la donna fosse raggiungibile solo attraverso un lavoro di formazione degli uomini, ancorati al vecchio concetto che il lavoro di casa è un “lavoro da donne” che “offende il diritto e la dignità dell’uomo”. In tal modo, egli sperava, si sarebbe riusciti a politicizzare le donne, a farle entrare in massa nel partito e nei sindacati, a farle partecipare agli affari dello Stato in posizione paritaria. Anche la maternità, considerata funzione sociale, doveva essere protetta dallo stato. Perciò la Kollontaj, in qualità di commissaria del popolo, fondò un centro per l’assistenza delle madri e dei bambini e trasformò tutte le cliniche ostetriche in luoghi di assistenza gratuita per le puerpere e i neonati. Alle madri vennero concessi quattro mesi di permesso a salario pieno, la garanzia del posto di lavoro, supplementi per l’alimentazione. La nuova legislazione sulla famiglia e sul matrimonio equiparava la donna all’uomo e la separazione della coppia era gratuita senza discussioni della colpa, senza complicazioni, anche su richiesta di una sola delle parti. I figli illegittimi vennero equiparati a quelli legittimi e, negli anni seguenti, si discusse sulla separazione dei beni, l’obbligo del sostentamento reciproco e il diritto agli alimenti. In numero sempre maggiore le donne, anche contadine, combatterono nell’Armata rossa. Infine venne legalizzato l’aborto (1920).

 

La restaurazione staliniana

Tutte queste conquiste, che portarono d’un tratto l’Urss alla guida del femminismo, vennero progressivamente cancellate. Nel 1925 il segretariato di Berlino venne trasferito a Mosca e fu interrotta la rivista. Nel 1926 il plenum del Comitato esecutivo proibì le organizzazioni separate, proibendo in questo modo l’organizzazione del femminismo. La parola stessa “femminismo” aveva assunto significato dispregiativo ed era diventata sinonimo di anticomunismo. Le date sono significative: Lenin era morto, già si era formato un apparato burocratico, l’ascesa di Stalin aveva reso impossibile la formazione di correnti, di tendenze, di organizzazioni di donne. Il trionfo di questa contro­rivo­luzione fu l’antefatto di un veloce movimento repressivo: venne proibito l’aborto, criminalizzata l’omosessualità, il divorzio venne reso difficile, si abolì l’educazione mista, si riammise il concetto di illegittimità, si esaltò la “madre dotata di molta prole”: a riprova che il progresso della democrazia e lo sviluppo della politica di genere vanno di pari passo. La restaurazione sovietica facilitò i regimi di tutto il mondo a mantenere la donna in una condizione di ine­guaglianza giuridica. Nei paesi fascisti si impose uno spiri­to di caserma, che fu assunto come principio di riorga­nizzazione della società. Su questa base si attuò la reazione contro il movimento operaio e si operò per riportare la donna alla posizione di dipendenza ritenuta naturale, esaltandola nel contempo come “madre di eroi”. Scomparve qualsiasi movimento internazionale.

 

Il Sessantotto e gli anni settanta

Nel dopoguerra, essendosi nuovamente profilata la prospettiva di una trasformazione del mondo, la reazione, per impedirla, si servì di istituzioni conservatrici. L’Italia rimase per decenni sotto il dominio democristiano, che arrestò il processo di liberazione avviatosi con il movimento partigiano, ispirando la cultura popolare a modelli arcaici. La guerra fredda, che divise il mondo in due blocchi, agì negativamente sui rapporti tra le persone e le rivendicazioni di genere.

L’insoddisfazione generale esplose dapprima negli Usa e si manifestò nella lotta per i diritti civili, nei movimenti in nome delle negritudine e per il ritiro delle truppe dal Vietnam. Esplose dapprima come sensibilità antiautoritaria e pacifista, spirito comunitario, domanda di libertà e di diritti individuali; insieme rinacque lo spirito femminista con un’ondata pari a quella che si era diffusa tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo. Questa nuova sinistra americana giunse anche in Europa e in Italia, portando con sé la pratica inusuale di tipo psicanalitico e la “differenza” come rivendicazione di alterità; le lotte operaie del 1968-69 vi portarono l’elemento classista e gli studenti la radicalità e l’elaborazione teorica. A partire dal 1970 si diffonde anche in Italia una specie di terapia analitica di gruppo, che Carla Lanzi, che ne aveva tracciato il manifesto con il suo scritto Sputiamo su Hegel, chiamò auto­co­scienza. Nacquero piccoli gruppi frammentati ed auto­sufficienti, per il fatto che ciascuno faceva riferimento a se stesso, senza peraltro che tra le componenti vi fossero le competenze adeguate per praticare quello scavo interiore da cui doveva scaturire la liberazione della femminilità. In realtà, come fenomeno di massa, somigliava molto all’antica tradizione delle donne di confidarsi a vicenda, parlando degli uomini e dei loro comportamenti privati, perciò sembravano del tutto inefficaci sul piano sociale. Ma era tanta la volontà di liberazione da cui erano mossi, la forza di pressione che esercitarono sulla società, che finirono per incidere fortemente sul costume: gli anni settanta furono quelli delle grandi conquiste femministe. In Italia vennero conquistati il divorzio, la legalizzazione dell’aborto e l’emancipazione giuridica, contro la quale invano i conservatori tentarono di fare resistenza; si aprirono alle donne tutte le carriere e l’accesso a tutti gli studi. Nel 1975 si riformò il diritto di famiglia, eliminando le feudali istituzioni della potestà maritale e della patria potestà. Il 1975 è una data storica per tutte le donne dell’Occidente, perché a quell’epoca il processo di emancipazione politica e giuridica era compiuto per tutte.

 

E’ ancora necessario?

Perciò si sente spesso ripetere, anche da parte delle donne, che il femminismo ha vinto la sua battaglia e non ha più niente da dire alle donne di oggi: esse si muovono ormai tranquillamente in una società, che non è più quella degli uomini, ma è diventata società degli uomini e delle donne. A proclamarsi femministe si rischia di esser guardate come le reduci sopravvissute di una battaglia, sia pure eroica, ma che ormai ha avuto il suo tempo. Ma è proprio così?

Prima di tutto dobbiamo dire che l’Occidente non è il mondo: il mercato è diventato globale, ma non per questo ha portato ovunque la civiltà. Esistono ancora vaste zone in cui sulle leggi, sia pure modernizzate, prevalgono i feroci costumi di religioni, per le quali la donna è strumento dell’uomo: in certe zone interne dell’India ancora si pratica, nonostante le leggi, la pratica feroce del rogo della moglie assieme al cadavere del marito. Per non parlare delle donne dei paesi islamici, ove è la stessa religione a stabilire le leggi, che nel loro integralismo fanatico spesso le sottopongono a condizioni disumane. In quest’ultima guerra le abbiamo viste lungo le vie dolorose dell’esilio camminare impacciate dal loro avvolgente mantello, spesso con il loro bambino in braccio. E che dire della civilissima e opulenta Italia, ove ancora si combatte per far riconoscere la personalità giuridica dell’embrione, attaccando per questa via la famosa legge 194 (che, per quanto imperfetta e frutto di un compromesso, rimane per l’Italia cattolica un conquista di libertà)? O degli Usa, centro del mondo, ove il cieco fanatismo giunge ad uccidere i medici coraggiosi che sfidano l’opinione pubblica? Questo sistema economico mondiale, sostenuto da processi militari e tecniche insieme micidiali e sofisticatissime, poggiante su largo consenso sociale, è un pericolo per le donne e per gli uomini, ma di più per le donne, su cui cade sempre in maniera più pesante la controriforma; in Italia il welfare è già stato in parte smantellato e, se passerà l’abolizione dell’art. 18 dello Statuto dei lavoratori, le donne, che già ora nei momenti di crisi dell’azienda sono le prime ad essere licenziate, saranno le prime a pagare.

Vi sono ancora tradizionali forme di discriminazione, non è scomparso il patriarcato, a cui si sono aggiunte forme nuove di dominio maschile, connesse con le forme moderne del capitalismo, si susseguono le migrazioni di popolazioni oppresse che allargano l’esercito di riserva, i processi di identità etniche che sfociano in esplosioni violente; ma sono tutte sostenute dal sistema economico mondiale che le alimenta e le legittima.

Anche le forme di oppressione dei regimi islamici non sono residuo del passato, ma trovano la loro causa nel nuovo assetto mondiale imposto dal dominio capitalistico e da quello stato che se ne è fatto il difensore assoluto; la stessa prostituzione dilagante, anche se con facile slogan si dice che è il mestiere più antico del mondo, oggi trova spiegazione nell’accrescersi della miseria e della disuguaglianza ed insieme nei falsi bisogni, che derivano da quest’ordine, di cui il mercato è il principio primo.

La necessità di controllare le materie prime e le risorse primarie, la produzione e il consumo fa sì che la guerra sia oggi strumento normale della politica e mezzo di dominio, ma anche legittimazione di quel mercato globale che oggi viene identificato con i diritti umani e perciò imposto a chi tenta di sottrarvisi, in nome di una missione di civiltà. Così siamo giunti ad una guerra ininterrotta, di cui le donne sono le prime vittime, poiché quando si muovono gli eserciti si scatena la logica del branco e si torna alla barbarie pura, ove le donne sono cercate come preda ambita ed esibite come segno di conquista personale, mentre i bambini sempre più spesso muoiono per la guerra, ma anche di fame, malattie, miseria. La loro condizione peggiora non solo nei paesi più disgraziati che l’imperialismo riduce alla fame, ma anche nei paesi occidentali, ove l’avidità capitalistica li mette al lavoro, nonostante l’elevata disoccupazione adulta, come ai tempi del capitalismo selvaggio: niente muta nel modo di pensare capitalistico, ove l’unica strategia degli individui e degli stati rimane il profitto.

 

Aspetto soggettivo dell’antifemminismo

Questo è l’aspetto oggettivo, che ha determinato la crisi del movimento operaio e di quello femminista; vi si è aggiunta anche la crisi del sindacato di classe, che per le donne è indubbiamente un pericolo.

Ma c’è anche un aspetto soggettivo di cui le donne devono tener conto per ottenere una vera e totale liberazione. L’emancipazione politica e giuridica non è ancora la liberazione dal potere maschile, che è subdolo e insinuante. Ora che la legislazione è stata equiparata, esso continua ad esercitarsi, nelle istituzioni e nella società civile. Viene dal di dentro, cioè da quel complesso di relazioni che uomini e donne hanno intrecciato tra di loro lungo tutto il corso della storia, da cui è derivata una reciproca socia­lizzazione. Ne sono derivati quegli schemi, forme mentali, criteri di giudizio che sono la matrice di ogni nostra percezione, cioè gli strumenti della nostra conoscenza; una specie di forme a priori kantiane, ma di origine storica.

Tra questi strumenti di conoscenza c’è l’idea dell’inferiorità femminile, che è la lente attraverso cui il sesso maschile guarda al mondo e a se stesso e si giudica forte e destinato a comandare. Ma le donne non hanno strumenti di conoscenza diversi da quelli dell’uomo, poiché anche i loro sono derivati appunto da quella socializzazione reciproca, che nel corso della storia, attraverso percorsi irriproducibili, ha formato contemporaneamente la mente e la sensibilità maschile e quella femminile; per cui anche le donne guardano a se stesse e al mondo attraverso la stessa lente, si giudicano inferiori e destinate ad obbedire e si impegnano a dar prova di possedere proprio quei caratteri e comportamenti che l’uomo attribuisce loro e che indica a segno della loro inferiorità: la praticità contrapposta alla capacità di astrazione, l’estrosità contrapposta al rigore logico, la capacità di adattamento contrapposta allo spirito di iniziativa. Prese nel cerchio del potere maschile, ne ribadiscono la chiusura. C’è una complicità tra dominante e dominato: è un meccanismo che si manifesta fra tutti i gruppi chiusi; si è parlato persino di una complicità tra i prigionieri nei lager tedeschi e i loro carcerieri.

Per questo, la conquista della libertà è molto più difficile per la donna della sua stessa emancipazione, che pur le è costata millenni di storia e di cultura: la disposizione a sottomettersi ha origini antiche, sfugge al controllo della volontà, perciò va oltre l’emancipazione. Basterebbe osservare che le donne elettrici sono in numero maggiore rispetto agli uomini, eppure sono in numero di gran lunga inferiore fra le elette, cioè partecipanti al potere; il che dipende dall’arroganza degli uomini durante le competizioni elettorali, dal prestigio che ad essi deriva dall’essere uomini, ma anche da quella attitudine delle donne a sottrarsi ai luoghi pubblici, che esse chiamano vocazione alla riservatezza. La liberazione dalla donna non sarà possibile, fino a che non si realizzi una nuova storicità, ove agiscano strutture atte a formare attitudini alla libertà.

Ma quale società è più diversa da una società liberata di questa attuale? Basata su sfruttamento e oppressione, essa genera continuamente violenza e crea disposizioni che rendono sensibili al potere, inducono ad ammirarlo, rispettarlo, persino venerarlo; quindi provoca attitudini a sottomettersi.

Oggi il sistema ha provocato una sanguinosa rivolta ed è sembrata un’Apocalisse, “Dio è con noi” ha esclamato Bush, nel dare inizio alla sua vendetta, che, alla ricerca di un uomo costantemente sfuggito, ha distrutto villaggi e città, cioè ucciso donne, bambini e uomini, con l’arma disumana che opera incolume dal cielo: alla potenza smisurata, il sistema aggiunge il fascino terrificante di un dio che, offeso, distrugge col fuoco Sodoma e Gomorra. Ma questa, che tuttora si sta combattendo, nonostante la resa totale dei combattenti, non è veramente una guerra, ma una contesa all’ultimo sangue tra cordate economiche rivali per il controllo nel mercato mondiale del petrolio e degli stupefacenti, condotta in un ambiente ove nessun colpo è proibito: è la barbarie del capitalismo.

Che cosa possono fare le donne in questo sfrenarsi di violenza, che abbatte ogni limite opposto da diritti e valori un tempo pattuiti e condivisi?

Pur mantenendo e sottolineando la specificità del loro movimento, devono unire il loro movimento di liberazione a quello di tutti gli oppressi del mondo, recuperando quel carattere internazionalista che già un tempo cercarono di conferirgli: per quanto vari la fenomenologia sociale e si manifesti in modo diverso la lotta di classe, il fulcro della lotta è sempre la contraddizione capitale-lavoro, che determina anche il permanere dell’oppressione femminile.

Nel passato il movimento operaio organizzato seppe unire alla rivendicazione dei bisogni il ruolo pedagogico dell’intellettuale collettivo, che seppe recepire e diffondere le acquisizioni più alte della cultura: la rivoluzione femminista è indubbiamente un fatto centrale della cultura del XX secolo, di cui tutto il movimento operaio – uomini e donne uniti – si deve far carico, perché venga trasmesso e continuato nel secolo presente. Già si concretizzano aspirazioni e tendenze: la Marcia delle donne si è realizzata come manifestazione veramente internazionale e multirazziale e importante è stata in essa la presenza di uomini, che ha indicato la necessaria unificazione dei due generi nella lotta contro un sistema, che opprime egualmente uomini e donne, non solo, ma anche gli animali, l’ambiente, persino mira alla conquista dello spazio, nel suo delirio di onni­po­tenza. Il movimento di Genova, in cui sono confluiti insieme ragazzi e ragazze, uomini e donne di ogni parte del mondo, è stato un altro segnale di rifiuto del sistema e di volontà di trasformazione: anche se la mancanza di un progetto non ha reso possibile la trasformazione del movimento in un nuovo soggetto politico.

Un nuovo compito si profila al movimento femminista per i prossimi decenni: alimentare il movimento internazionale delle donne e condurlo a camminare di pari passo con quello di tutto il proletariato, affinché si profili sempre più chiara in tutti la coscienza che senza comunismo non c’è libertà.             

[Febbraio 2000]