Marxismo rivoluzionario n. 2 - nel mondo / il brasile di lula

 

Origini e percorso di una degenerazione riformista

IL PT E LA SUA SINISTRA

 

 

 

di Franco Grisolia

 

 

La politica del governo Lula manifesta sempre più apertamente il suo carattere neoliberale. Di ciò abbiamo dato conto in vari articoli sia su “Proposta” che su “Progetto comunista” e torniamo a parlare in questo stesso numero di “Marxismo rivoluzionario”.

Molte le domande che questa realtà può provocare. Tra esse certamente: Perchè un partito di classe come il Partito dei lavoratori (PT), presentato sovente negli anni passati come un esempio di unità combattiva e democratica di tutte le tendenze legittime del movimento operaio è così degenerato? Quale il ruolo di una figura che ha suscitato grande entusiasmo o almeno rispetto nella sinistra mondiale come Lula in questo processo? Quali sono le posizioni e l’azione dei settori critici di sinistra del PT? Quale il ruolo di Democrazia socialista (DS), la sezione brasiliana del cosiddetto Segretariato Unificato della Quarta Internazionale, che partecipa centralmente al governo con il ministro della riforma agraria Rossetto e di cui tuttavia fa parte anche la senatrice Heloisa Helena, oggi minacciata di esclusione per le sue posizioni critiche?.

Su diversi aspetti di queste domande abbiamo scritto appunto nei surricordati articoli di “Progetto comunista” e “Proposta”. Scopo del presente articolo è quello di dare ad esse una risposta più complessiva ed organica.

 

Le origini del PT

Il PT nasce nel 1980, sulla base delle grandi mobilitazioni operaie che aprono l’ultima fase del regime militare (1964-84). A partire dal 1978, infatti si sviluppò una grande mobilitazione della classe operaia industriale che ebbe il suo punto centrale nel proletariato metalmec­canico della grande periferia di San Paolo (il cosiddetto Abc dalle iniziali dei nomi delle sue principali municipalità). Tale lotta, basata su rivendicazioni in origine salariali, acquistò rapidamente un carattere politico di fronte ad una dittatura militare in crisi e ad una borghesia che cercava le modalità di una transizione pacifica e controllata per il ritorno alla democrazia borghese. In questo quadro di scontro sociale alcuni dirigenti sindacali, con l’appoggio di settori di sinistra della chiesa cattolica (quelli della cosiddetta “teologia della liberazione”) specialmente di base, lanciarono l’appello per costituire un partito che rappresentasse in maniera indipendente il mondo i lavoratori e le loro istanze. Tra di essi vi erano militanti indipendente, di estrema sinistra generica, cattolici di base, trotskisti. Assente e contrapposto invece il Partito comunista, impegnato in una strategia di collaborazione di classe con i settori borghesi “democratici” (1). E ugualmente il Partito comunista del Brasile (PcdB) mao-stalinista, anche lui contrario all’indipendenza di classe su cui appariva costituirsi il PT, in nome della stategia, nel suo caso più teorica che reale, di alleanza con la borghesia “progressista e antimperialista”. In effetti per i settori militanti d’avanguardia il nuovo partito appariva come la risposta unitaria classista al fallimento e all’opportunismo dello stalinismo brasiliano in tutte le sue forme.

 

Luis Iñacio Da Silva (Lula)

La figura centrale tra coloro che lanciavano il nuovo partito era quello di Luis Iñacio Da Silva, detto Lula (calamaro). Era il presidente del sindacato metalmeccanico dell’Abc. Come dirigente del movimento di scioperi del 1978 era stato, sia pur per breve tempo, arrestato dai militari. Questo gli aveva creato una grande popolarità che, congiuntamente con le sue indubbie capacità (certamente visibili anche oggi nel suo ruolo di statista neo liberale) ne facevano dall’inizio il carismatico leader del nuovo partito.

In realtà la storia sindacale di Lula era alquanto ambigua, anche se la sua situazione in quel momento portava le masse, come spesso accade, purtroppo, a dimenticare o non porsi il problema di conoscere. Per capire tale storia è necessario inquadrarla nella realtà della dittatura militare brasiliana. Rispetto ad esse e ad altre analoghe prevale nella sinistra italiana (diverso il caso di paesi dove la tradizioni teorica marxista rivoluzionaria è più profonda) la concezione che si tratti di regimi “fascisti” (2). Se per “fascismo” si intende indicare il carattere repressivo e sanguinario di un regime, il termine sarebbe ovviamente del tutto appropriato. Ma per il marxismo non di questo si tratta quando si deve dare una definizione scientifica. Quello che caratterizza la specificità di un regime di tipo fascista è il suo carattere totalitario. Al di là del grado di repressività, sempre ovviamente tremendo, ma in alcuni casi non immediatamente legato ad assassinii di massa, regimi come quello mussoliniano, prototipo storico, sono caratterizzati dalla unicità di presenza e controllo in tutti i gangli della vita politica e sociale: partito unico, sindacato unico di regime controllato dal partito, ecc. Ogni minimo elemento di autonomia è cancellato. Così è stato nella Germania hitleriana e nella Spagna franchista (nonostante il fatto che in quest’ultimo caso l’origine delle forze controrivoluzionarie fosse plurale e assai diversificato, dai fascisti puri, ai mo­narchici tradizionali, ai cattolici reazionari, ai militari, per consolidare il regime in termini fascisti si dovette creare il partito unico della Falange, che non a caso manteneva il vecchio nome del piccolo partito organicamente fascista) (3).

 

Il regime brasiliano

In Brasile quello che esisteva era un regime dittatoriale di tipo “bonapartista di destra” (“gorilla” era l’appropriato termine usato dalla sinistra latinoamericana). Una delle espressioni di questo carattere non puramente fascista era l’esistenza, sulla base delle leggi organiche di regime, di due partiti politici: uno governativo (Arena) e uno di opposizione borghese controllata (MdB). Questa situazione poteva avere scarsissima importanza nei primi anni della dittatura ma ebbe importanza negli anni settanta. Fu infatti a partire da un (inattesa) successo alle elezioni del 1974 da parte del MdB, che si aprì il lungo processo che portò alla fine del regime(una transizione naturalmente controllata dalla grande borghesia e dall’imperialismo e incanalata con “gradualità” dai settori “reazionari moderati” dell’esercito, rappresentati dal presidente generale Geisel, che utilizzarono i risultati del 1974 per avere la meglio sul settore più duro, semifascista dell’esercito, i cosiddetti “nazionalisti” che erano stati egemoni nel periodo 1967-73 ).

Uno dei terreni in cui si manifestava questo carattere “bonapartista” e non organicamente “fascista” del regime e che ci riporta a Lula, era quello sindacale. Nella dittatura i sindacati non furono sciolti e, eventualmente, sostituiti da uno unico e di tipo ideologico, come nell’Italia di Mussolini o nella Germania di Hitler, ma mantenuti – sia pure, dopo la repressione e l’incarcerazione di moltissimi dirigenti, in particolare comunisti o classisti, con la presenza opprimente di controllori militari – e realizzavano ogni quattro anni le loro elezioni interne, in cui, naturalmente in situazioni difficile si presentavano, di fronte ai burocrati collaborazionisti, popolarmente definiti spregiativamente “pelegos”, liste di opposizione, formate da attivisti di sinistra (che ovviamente non si qualificavano apertamente come tali) (4).

 

L’ascesa sindacale di Lula

Fu così che iniziò l’avventura sindacale del giovane Lula, operaio in una fabbrica di ascensori della grande Abc, che nel 1968 fu uno dei candidati della lista di opposizione di sinistra all’elezione del gruppo dirigente del sindacato metalmeccanici di quella zona, il più importante di tutto il Brasile per quella categoria (5). Nel quadro della situazione tale lista fu ovviamente sconfitta. Ma il presidente “pelego” del sindacato aveva notato quell’intelligentissimo e capace giovane componente della lista di opposizione e gli offrì quindi di passare dalla sua parte come proprio vice. Così nel 1972, nel pieno del periodo peggiore della dittatura Lula veniva eletto vicepresidente del sindacato nell’ambito della lista della maggioranza collaborazionista, contro i suoi vecchi compagni, diventando così anche lui un sindacalista “pelego”. E la sua scaltrezza e intelligenza era tale, che nell’ambito dei collaborazionisti, riuscì a scalzare il suo mentore, presidente del sindacato. Così nel 1976 Lula venne eletto presidente del sindacato a capo della lista collaborazionista.

Ma, come abbiamo indicato, il clima stava cambiando. Era iniziata la lenta transizione verso il ritorno alla democrazia borghese. Lula comprese ovviamente il momento e le possibilità che esso offriva. Così, invece di contrastare la spinta sempre più forte dei lavoratori del suo sindacato, come di quelli brasiliani in generale, per una forte azione rivendicativa dopo anni di arretramento su tutti gli aspetti, si pose alla testa del grandioso sciopero del 1978 dei meccanici dell’Abc, che fu un punto centrale nell’ondata di mobilita­zioni operaie di quegli anni, che avevano una forte valenza politica contro la dittatura.

Il regime militare reagì al “tradimento” del suo collaboratore Lula, incarcerandolo per sciopero illegale, sia pure per un periodo di pochi mesi. Il risultato fu l’apoteosi di Lula, che assurse a simbolo della nuova ondata di lotta di classe, dimentichi tutti del suo recente passato. Ciò che, a bilancio storico, dimostra al contempo la grande intelligenza e la totale mancanza di principi, politici ed etici, di Lula, con cui ovviamente, la sua azione presente ha un rapporto.

 

Il mito del “PT delle origini”

Il primo PT, come detto, raggruppava l’avanguardia attiva nelle grandi mobilitazioni del 1978-79 di diverse origini politiche: attivisti classisti indipendenti nati politicamente nelle lotte di quel periodo, militanti trotskisti delle diverse organizzazioni presenti, settori legati al cattolicesimo di base radicale (pastorale del lavoro), piccoli e variegati settori centristi a matrice stalinista, maoista e castrista, incapaci di adeguarsi allo sfacciato riformismo dei due partiti comunisti, il filosovietico e ufficiale Pcb (prima della sua trasformazione in Pps) e il filocinese PcdB. Il nuovo partito, organizzazione molto variegata nella struttura, trovava la sua base nella avanguardia operaia (6)

Sulla base di queste caratteristiche di largo fronte unitario il PT è stato presentato come un esempio di organizzazione nell’avanguardia mondiale. Questo è stato in primo luogo il caso del cosiddetto Segretariato unificato della Quarta Internazionale (Suqi, rappresentato in Italia da “Bandiera rossa”) ma anche di altre forze marxiste rivoluzionarie (con formule tipo “il partito che raccoglie tutte le tendenze legittime del movimento operaio in contrappo­sizione a socialdemocrazia e stalini­smo”). Anche nella sinistra del PT, e in certa misura persino fuori di essa, rimane il riferimento al “PT delle origini”.

Come argomentano giustamente i nostri compagni del Partito della causa operaia (Pco) si tratta di una favola. Il PT è certo nato dalla convergenza delle forze sociali e politiche di cui abbiamo detto, ma non come partito com­piutamente e programma­ticamente clas­sista, se per questo si intende un partito che abbia una compiuta, fosse pure confusa, prospettiva di potere dei lavoratori e trasformazione rivoluzionaria della società in senso socialista.

Fin dalle sue origini la maggioranza del partito, intorno alla figura carismatica di Lula e coinvolgendo i settori cattolici e molte personalità indipendenti con influenza locale, ha costruito il partito in un ottica riformista, sia pure, in quel momento, verbalmente radicale. Per questo settore, il PT doveva essere lo strumento per una rappresentaza della classe operaia e dei settori popolari sul terreno istituzionale, per concordare su quel terreno una serie di riforme con i settori “progressisti” della borghesia. Nulla di più. Non fu mai considerata invece l’ipotesi di fare del PT lo strumento di centraliz­za­zione politica delle mobilitazioni operaie e popolari (ovviamente senza negare anche la presentazione sul terreno elettorale).

E’ il concetto stesso di “raggruppamento in partito di tutte le forze legittime del movimento operaio” che è teoricamente falsa. E’ vero che accanto ai marxisti rivoluzionari conseguenti (rispetto ai quali si tratta ovunque di lottare per la unità in un solo partito) possono esistere altre forze che possono accompagnare un processo di rivoluzione socialista (forze di tipo “centrista di sinistra” o, in rari casi, ultra­sini­stre). Ma, in primo luogo, in tale processo il ruolo centrale non potrebbe che essere svolto da un partito marxista rivoluzionario (7). E, in ogni caso nulla a che vedere con forze a carattere rifor­mista come quelle che contribui­rono con funzione dirigente, accanto ai trotski­sti ed ad altri militanti realmente “classisti”, alla nascita del PT.

Per quanto riguarda il concetto, diverso, di “struttura politica di fronte unico del movimento operaio”, non si può escludere in astratto che una struttura di questo tipo possa essere uno strumento di un processo rivoluzionario. Ma, anche in questo caso, la condizione sarebbe una egemonia di un partito o organizzazione marxista rivoluzionario su di esso. Quello di cui vogliamo parlare è una struttura di un vero partito del lavoro che raggruppi diverse forze politiche e si basi sui sindacati operai e altre organizzazioni proletarie, con un confronto interno basato su una reale democrazia operaia.

 

La degerazione riformista

La storia ha del resto dimostrato che tali formazioni tendono immediatamente a degenerare, in mancanza di una egemonia marxista, verso il riformismo, perchè le burocrazie esistenti o quelle che vengono a formarsi tendono ad essere risucchiate nell’ambito dello stato borghese, che, nei periodi “normali”, ha grande capacità di cooptazione. Insomma solo un ruolo egemonico, per lo meno sul terreno programmatico, può rendere ipotizzabile, in condizioni particolari, la nascita di un partito espressione del fronte unico della classe, che possa perdurare come strumento anticapita­listico. In ogni caso, questa non era la situazione del PT al suo sorgere. Quel miscuglio di “burocrati sindacali progressisti”, cattolici di sinistra (la loro maggioranza, alcuni, soprattutto nel terreno contadino, erano e sono più radicali), politici di sinistra locali ed ex guerriglieri (8), che costituì fin da allora la componente strettamente “lulista” del nuovo partito era fin dalle origini sul terreno di una prospettiva riformista, sebbene allora più radicale, anche a causa della diversa situazione oggettiva.

Una delle caratteristiche determinanti di questa natura fu anche il rifiuto di basare il nuovo partito sulle avanguardie nei luoghi di lavoro e nelle strutture sindacali classiste. In real­tà solo i nostri compagni del gruppo di “Causa operaia” fecero una battaglia su questo terreno, battaglia che erano troppo deboli per vincere. All’epoca e anche successivamente altre correnti che si richiamano al trotskismo, in primo luogo la sezione brasiliana del Segre­ta­riato unificato, Democrazia socialista, accusò i nostri compagni di formalismo, di rifarsi cioè alle posizioni dei classici senza considerare la concretezza della situazione presente. In realtà la storia successiva ha mostrato chiaramente che quella scelta (pur senza pensare che la scelta contraria sarebbe stata determinante per il futuro) era certamente espressione della volontà di sviluppare un partito elettoralista e che una battaglia su questo terreno sarebbe stata importante per le posizioni compiuta­mente classiste e rivoluzionarie nel partito. Il PT si organizzò dunque su base essenzialmente territoriale.

Questa situazione peggiorò ancora negli anni successivi. Paradossalmente fu la creazione della Centrale unica dei lavoratori (Cut) che venne presa a pretesto dal gruppo dirigente del PT per un ulteriore salto a negativo sulla questione della struttura del partito. La Cut nacque ufficialmente nel 1983, proprio alla fine del periodo della dittatura militare, con la partecipazione di tutti i vari sindacati conquistati dai militanti e sostenitori del PT (con un passato di opposizione di sinistra o analogo a quello di Lula, ma soprattutto arrivati alla loro testa nelle grandi lotte del 1978-79). Ad esso aderivano anche le opposizioni di sinistra dei sindacati rimasti nella centrale collaborazionista Cgt (che si dividerà ulteriormente tra Cgt e Cgt-Forza Sindical). Essa divenne rapidamente la principale centrale sindacale brasiliana. Ebbene, fu argomentando dal fatto che la nascita della Cut copriva il terreno delle fabbriche e delle aziende che il PT decise lo scioglimento di tutte le sue poche strutture di base nei luoghi di lavoro, per strutturarsi esclusivamente su base territoriale. Sottolineava così la prospettiva elettoral-riformista, sia pure, all’epoca, ancora “radicale”.

 

Il PT negli anni ottanta

Così nella prima metà degli anni ottanta si andava strutturando il PT come partito rifor­mista di sinistra, con un linguaggio e un’immagine radicale, basato sul sostegno del proletariato, sia dell’industria che dei servizi e del pubblico impiego(più tardi dei contadini senza terra) con una forte presenza al suo interno di correnti “rivoluzionarie”, in primo luogo trotskiste (in realtà, nella maggior parte dei casi su posizioni inconseguenti, di tipo centrista) e di settori legati alla teologia della liberazione.

Questo partito godeva di un sostegno elettorale diretto di circa il 15-20% e aveva in Lula il proprio leader carismatico, la cui influenza nella società brasiliana andava al di là del sostegno elettorale del partito.

Questo carattere “bonapartista” della struttura del partito fu rafforzata da una mancanza di chiare regole di democrazia. Si pensi solo al fatto che il PT ebbe il suo primo congresso solo dodici anni dopo la sua costituzione, nel 1992. Fino ad allora la base di vita centrale del partito furono delle conferenze nazionali.

 

Le tendenze interne

In esse si strutturò il quadro organizzato interno del partito, che vedeva da un lato quella maggioranza lulista stretta di cui abbiamo parlato e che ha assunto il nome di tendenza di Articolazione.

A sinistra di essa una variegata area di correnti, forti sempre nelle conferenze del partito di più del 40% del sostegno dei delegati, con una predominanza di quelle trotskiste (25-30% dei voti).

Sostanzialmente l’area trotskista si articolava intorno a quattro correnti, due maggiori, Convergenza socialista (CS), più del 10% dei voti, “morenista” (9), e Democrazia socialista (10), circa il 10%, e due minori “O Trabajo” (dal nome del suo giornale, di orientamento “lam­bertista” (11), e “Causa Operaria” (CO, dal nome del giornale e legata al Partido Obrero argen­tino).

Per quanto riguarda il resto della sinistra, di origine maoista, stalinista di sinistra, centrista varia o locale, tra le molteplici correnti se ne sono sviluppate due, la Tendenza marxista (TM), e (però prevalentemente negli ultimi anni, anche grazie al fatto di gestire la municipalità della grande città amazzonica di Belem, in ha sviluppato una politica più a sinistra della collaborazione di classe dei pablisti di DS a Porto Alegre, col loro “bilancio partecipativo”) Forza socialista, derivata da un gruppo maoista nato negli anni della dittatura.

Ad esse, come vedremo si aggiungerà poi, per scissione dalla corrente lulista, Articolazione di sinistra (AI).

Elemento caratteristico e negativo era, negli anni ottanta (vedremo poi successivamente) che l’insieme di questo variegato settore di sinistra, se sfidava “ideologicamente”, con posizioni centriste varie, su vari aspetti teorici e tattici, la corrente lulista, non poneva effettivamente in questione il ruolo di Lula e la sua strategia, sempre in nome del carattere “clas­sista e unitario” del PT. Non poneva insomma la reale alternativa politica di fronte agli attivisti del partito: o trasformazione program­matita del PT in senso rivoluzionario, e in questo senso sconfitta politica del lulismo e fine del ruolo di caudillo di Lula stesso (anche scontando su ciò una scissione), o progressiva deriva verso un riformismo sempre più mode­rato.

Sola eccezione in questo quadro i nostri compagni di Causa Operaria, che ponevano apertamente il problema della battaglia per un programma rivoluzionario, ma che erano troppo deboli quantitativamente per influenzare sullo sviluppo politico complessivo del partito. La loro coerenza gli procurò del resto una sempre più netta ostilità dei vari raggruppamenti della sinistra centrista.

 

L’opportunismo della sinistra “centrista”

Tipico dell’atteggiamento della sinistra cen­trista è che essi accettarono nel 1987 un regolamento delle tendenze interne al partito che, se da un lato apparentemente formalizzava i loro diritti, dall’altro li limitava su diversi aspetti, in particolare sul terreno della possibilità di propaganda e agitazione politica propria all’esterno del partito, lasciando alla burocrazia riformista un arma che in futuro non mancherà di usare. Ancora una volta solo Causa operaia si battè contro questa modifica negativa della situazione precedente.

Un esempio che mostra bene come, anche nei momenti “eroici” dei primi anni del PT, esso sviluppasse una prospettiva opportunista è indicato dal congresso della Cut del 1988. Come detto, questa è la principale base di massa del PT, da esso diretta e in cui le varie correnti del partito hanno un ulteriore momento di confronto. Abbiamo già ricordato come esso fosse composto sia dai sindacati ufficialmente affiliati, sia dalle opposizioni dei sindacati affiliati, per decisione maggioritaria, più o meno democratica, alle centrali sindacali reazionarie. Ebbene in quell’anno – anche lì senza una opposizione conseguente della sinistra, ad eccezione di Causa operaia – fu deciso che queste opposizioni si disaffiliassero dalla Cut, che rimane da allora formata dai soli sindacati ufficialmente aderenti. Era un segnale di adattamento alle regole “ufficiali” dello Stato e, crediamo un passaggio nella preparazione dell’importantissima campagna elettorale presidenziale del 1989.

In quell’anno, infatti, Lula si scontrò, per le presidenziali, con il “berlusconi” locale, il candidato neo liberista del centrodestra Collor de Mello, giovane proprietario della più importante catena televisiva del Brasile, Rede Globo. Per tale elezione, sul cui risultato, dato anche il carattere affaristico e “impolitico” di Collor, le speranze nel PT erano grandi, il partito costituì una alleanza con il nome di Frente Brasil Popular. Benchè in esso fossero coinvolti solo gli stalinisti (PcdB e Pcb) e un partito piccolo borghese populista (Partito socialista brasiliano, Psb), in realtà fin dal nome il gruppo dirigente lulista, ancora una volta non sfidato dalla sinistra centrista, cercava di indicare che, in caso di successo, il PT si sarebbe mantenuto nell’ambito di una politica “popolare” e non classista e anticapitalistica (benchè lo scenario neoliberale attuale fosse allora ancora lontano dall’orizzonte del PT).

 

Riallineamenti interni ed espulsioni

Lula arrivò al ballottaggio con Collor e superò largamente il 40% dei voti, ma fu sconfitto. Tale sconfitta che, come abbiamo detto frustrava le speranza dei militanti della sinistra, provocò una crisi all’interno del PT. La corrente lulista impostò una svolta teorica e, nella misura del possibile, pratica verso destra, aprendo più chiaramente a forze borghesi populiste, quali il Partito democratico del lavoro (Pdt) ma con attenzione alla borghesia in quanto tale; mentre la Cut, diretta da un blocco tra lulisti e stalinisti del PcdB arrivava a proporre un patto di “concertazione” al governo Collor.

In reazione a tale svolta, si sviluppò nella stessa Articolazione un’area critica di sinistra, a carattere centrista, che avrebbe poi dato vita, con il sostegno di circa il 15% del partito alla corrente di Articolazione di sinisistra (AI). Così le aree della sinistra centrista, considerate tutte insieme, compresa quest’ultima ancora formalmente interna ad Articolazione lulista, diventavamo maggioranza, sia pure di poco, nel partito. Il problema è che i centristi, anche quelli di origine trotskista, non avevano una vera politica alternativa, una politica conseguentemente marxista e rivoluzionaria da contrapporre al lulismo, in particolare sul terreno della contrapposizione al frontepopulismo e al ruolo carismatico di Lula.

Non è un caso che proprio in questa fase si verifica la prima epurazione nel partito. L’unica corrente che aveva cercato di sottolineare la deriva del gruppo dirigente effettivo del partito, i suoi inaccettabili compromessi con forze borghesi a livello locale, compreso quello degli stati della federazione, il significato di collaborazione di classe del fronte popolare, era stata Causa Operaria. Proprio per questo, utilizzando artatamente questioni minori e una qualche mancanza di “diplomazia” da parte dei nostri compagni, essi furono accusati di essere una forza estranea e ostile al PT ed esclusi dal partito nel 1991.

La sinistra centrista, a parte qualche intellettuale e qualche marxista rivoluzionario indipendente, non solo non difese Causa Operaria, ma partecipò pienamente alla campagna per la sua esclusione. Basti pensare che la commissione speciale che pronunciò la sentenza era presieduta dal principale dirigente di Democrazia socialista. Esclusi dal PT, i nostri compagni costituirono la prima organizzazione indipendente alla sua sinistra, il Partito da Causa Operaria (Pco) (12).

Poco dopo, si sviluppa la seconda grande esclusione dal partito, quella di Convergenza socialista. Nel 1992 vengono alla luce una serie di scandali che coinvolgono il presidente Collor. Cresce nel paese la volontà di cacciarlo. CS propone all’interno del partito di lanciare la parola d’ordine, del tutto corretta e corrispondente alla situazione, di “Via Collor”. Lula, e dietro di lui la maggioranza del partito, si oppongono. Secondo Lula questa parola d’ordine è extraparlamentare, quindi “non democratica”. Collor va battuto solo nell’arena elettorale. CS decide di passare oltre alla proibizione della maggioranza e lancia una campagna pubblica sul tema tra i lavoratori. Sulla base del regolamento delle tendenze cui abbiamo fatto riferimento, la direzione del PT apre una campagna contro CS. Ancora una volta la sinistra, sia pure con atteggiamenti diversi e meno netti che nel caso di CO due anni prima, non difende unitariamente e coerentemente CS.

Il bello è che subito dopo, a partire dalla mobilitazione di base di vasti settori della società e della base della sinistra si sviluppa un grande movimento di massa cui, alla fine, anche il PT in quanto tale è costretto a partecipare. E tale movimento extraistitu­zionale obbliga effettivamente, alla fine del 1992, Collor alle dimissioni (con la presidenza provvisoria del centrista Itamar Franco, in attesa di nuove elezioni presidenziali). Poco dopo, con accuse varie di indisciplina, CS viene esclusa dal partito.

 

Convergencia Socialista

L’espulsione vergognosa di CS esprimeva manifestamente la reale natura profondamente riformista del PT, ma vanno precisati alcuni aspetti di quell’avvenimento che hanno una importanza politica.

In realtà la stessa CS non sviluppò una battaglia netta contro la propria espulsione. Convergenza socialista aveva deciso, a maggioranza, che era giunto il momento di abbandonare il PT. Realizzato un significativo rafforzamento organizzativo e un profondo radica­mento sindacale (l’area di CS nella Cut aveva raggiunto il 10% circa del sostegno nei congressi e ha mantenuto tale forza successivamente come forza indipendente, avendo presente nell’esecutivo della confederazione uno dei suoi principali dirigenti, l’operaio metal­mec­canico Zè Maria, che sarà candidato presidenziale nel 1998 e nel 2002) CS riteneva ormai inutile restare nel PT, e visto la sua deriva pensava possibile raccogliere un sostegno tra le masse in nome del (fasullo) richiamo al “PT delle origini” (sulle cui ambiguità politiche abbiamo detto prima). Per questo cercò di favorire l’epulsione col il suo comportamento concreto e non fece una battaglia centrale contro di essa.

Si è trattato, a nostro giudizio, di un grave errore di valutazione. Una confusione, sempre possibile per i militanti rivoluzionari, tra i livelli di comprensione dell’avanguardia politica attiva e quelli non solo delle grandi masse, ma anche dell’avanguardia larga del movimento operaio. Per questa, fin tanto che il PT restava all’opposizione dei vari governi borghesi, per le masse operaie e il popolo di sinistra il PT restava il proprio legittimo partito classista. Era, ed è quindi oggi, quella del governo la prova decisiva. Dal punto di vista politico sarrebbe stato corretto porre oggi il problema della rottura e della costruzione di una nuova forza politica indipendente.

Naturalmente si tratta qui di un ragionamento generale. Nessuno può sapere se con altro approccio CS avrebbe potuto evitare di essere esclusa allora o negli anni successivi. Causa Operaria, come visto, era stata esclusa due anni prima e a nulla era valsa la sua battaglia contro questa decisione, nè sui principi è possibile transigere per dei marxisti rivoluzionari conseguenti. Convergenza socialista era però assai più forte di CO e quindi la battaglia potenzialmente più complicata per la burocrazia riformista. Certo se, come appare oggettivamente improbabile, la corrente di CS fosse riuscita a restare dentro il PT (o a rientrarvi successivamente) si sarebbe trovata in grado di dirigere una ampia rottura del PT e, con l’evoluzione politica successiva cui accenneremo, la costruzione di un partito di massa di opposizione si sarebbe trovata in condizioni molto più positive di quelle attuali, dove la direzione del processo di rottura è in mano a dei centristi organici come i deputati Babà e Luciana Genro, provenienti dalla minoranza di CS, che rifiutò la strada della rottura nel 1993.

 

La nascita del Pstu

Del resto, malgrado la rottura, Convergencia Socialista restava ancorata ad un approccio centrista di sinistra e non conseguentemente trotskista. Essa fece appello ad un raggruppamento delle forze rivoluzionarie, ma rifiutò la richiesta di Causa Operaria di parteciparvi. Da tale raggruppamento nacque, nel 1994, il Partito socialista dei lavoratori unificato (Pstu), che però era sostanzialmente la vecchia CS (ovviamente senza il settore rimasto nel PT con Babà) più pochi altri, quindi con le sue forze significative, come detto in primo luogo nel sindacato, ma senza alcun salto qualitativo. I permanenti limiti centristi del Pstu si eviden­ziarono in una sua iniziale adesione al Frente Brasil Popular, cioè alla già ricordata struttura di potenziale collaborazione di classe del PT. Fu solo nel ’96, anche in relazione al dibattito interno alla Lit (vedi nota 9), che il Pstu compì una positiva svolta politica, ruppe con il Frente e sviluppò finalmente una politica compiu­tamente contrapposta a quella del PT, rompendo nei fatti col passato centrista e ponendosi, finalmente sul terreno generale del trotskismo conseguente (13).

Nel 1998 e nel 2002 il Pstu si presenterà alle elezioni, raccogliendo rispettivamente circa 300 e 450 mila voti, cifra ovviamente non insignificante, ma inferiore all’1% dell’elettorato complessivo, segno di una mancata maturazione di massa della reale natura della politica del PT.

Con l’esclusione di CS il PT e la sua struttu­razione interna acquistò la strutturazione che ha sostanzialmente mantenuto in questi ultimi dieci anni. A destra la corrente lulista di Articolazione, forte di circa il 55% del partito, basata sulla maggioranza dei rappresentanti istituzionali, sulla burocrazia sindacale mag­gio­ritaria della Cut, sulla maggioranza del cattolicesimo di base e dell’associazionismo progressista. Tale area, il cui gruppo dirigente si portava sempre più sul terreno del social-liberalismo, era costretta in parte a mascherare questa sua politica, a causa della presenza al governo del centrodestra moderato, guidato da Ferdinando Enrique Cardoso (per esempio criticando progetti di legge sulla riforma previdenziale o scelte sul terreno finanziario che il governo Lula sta oggi applicando e in forma anche peggiorata). In riferimento a questo, per un periodo si staccò da Articolazione una corrente di destra Democrazia radicale che in realtà propugnava apertamente quello che i lulisti ufficiali dovevano mascherare.

A sinistra una galassia di correnti (sostenute da circa il 35% del partito), con cinque forze essenziali. Due trotskiste: la molto moderata e lambertista “O Trabaio” e la Corrente socialista dei lavoratori (Cst) diretta da Babà (con la successiva divisione del Movimento della sinistra socialista (Mis) di Luciana Genro). Due di matrice stalinista o semistalinista, la Tendenza marxista, più moderata e Forza socialista, più radicale. Infine la corrente più ampia di tutte, Articolazione di sinistra (quasi il 15% del partito), che sotto la guida di uno dei tre vicepresidenti del PT, Valter Pomar, si spostava a sinistra e, per una fase, appariva la corrente più avanzata della sinistra del PT.

 

La degenerazione di Democrazia socialista

Infine, formalmente di “sinistra”, ma nei fatti intermedia, tra i lulisti e la sinistra, la corrente “pablista” di Democrazia socialista, (con circa il 10% del sostegno nei congressi e conferenze del partito). Essa si pone come copertura a sinistra dei riformisti, in particolare separandosi dal blocco di sinistra e offrendo sponda ai lulisti, anche in funzione di supporto nei momenti in cui essi sono privi di una maggioranza assoluta nel partito, a causa della rottura formale sulla destra della corrente di Democrazia radicale.

C­­ome è possibile che una forza che si richiama al trotskismo sia giunta ad un tale livello di abbandono di ogni approccio marxista all’azione politica? Le ragioni sono complesse. In primo luogo, come sanno i militanti e simpatizzanti della nostra Amr e i lettori della nostra stampa (e come ricordiamo alla nota 10) da molti decenni la corrente di cui fa parte Democrazia socialista (e nel Prc l’associazione Bandiera rossa) ha abbandonato il trotskismo conseguente e il richiamo al marxismo rivoluzionario rimane per essa sostanzialmente formale (pur se alcuni militanti e settori credono di partecipare ad una internazionale rivoluzionaria).

Tale abbandono progressivo si è accentuato nell’ultima fase storica, in particolare in riferimento al crollo dell’Urss, da cui il Segretariato unificato pablista ha tratto la conclusione aperta della chiusura, per un’intera fase storica, di ogni prospettiva di rivoluzione socialista, sostituita dalla prospettiva utopistica e piccolo-borghese di una pretesa “democrazia radicale”. In secondo luogo l’assurda mitologia del PT come “partito di tutte le correnti legittime del movimento operaio”, soluzione trovata rispetto alla difficolta di costruzione di un partito marxista rivoluzionario – in breve quel rifiuto del leninismo che caratterizzò dall’inizio l’insieme della sinistra del PT, ad eccezione di Causa Operaria – fu vissuto più intensamente e compiutamente da DS, anche per le sue posizioni politico-program­matiche generali. Così la prospettiva strategica di DS divenne quella di realizzare una nuova maggioranza di centrosinistra comprendente un’Articolazione depurata dei suoi settori più moderati (non solo quelli usciti con Democrazia radicale), la stessa DS ed eventualmente un settore della sinistra del partito spostato su posizioni più moderate. Il tutto con Lula mantenuto come figura carismatica e con la prospettiva di un suo governo, basato su un progetto riformista di natura keynesiana.

Questa politica di DS esprimeva due realtà diverse. Da un lato l’orientamento di alcuni dirigenti – in primo luogo il principale esponen­te, in particolare sul piano internazionale, Joao Machado – passati ideologicamente su posizioni sempre più centriste di destra, ma onestamente convinti della bontà della prospettiva per i lavoratori di una strategia “a tappe” di tipo menscevico; dall’altro la “struttura reale” di DS, cioè i rappresentati istituzionali, in particolare a Porto Alegre e nello Stato di cui questa città è capitale, il Rio Grande do Sul. Qui, dall’inizio degli anni novanta, dirigenti di DS, come Miguel Rossetto, attuale ministro della riforma agraria, o Raul Pont, erano diventati rispettivamente sindaco e vicegovernatore dello Stato (lo stesso governatore Olivio Dutra è un simpatizzante di DS) e altri pablisti con loro avevano assunto vari incarichi istituzionali. Nelle loro cariche di governo essi avevano espresso una piena collaborazione di classe con la borghesia locale, un piatto riformismo senza riforme, una contrapposizione aperta ai lavoratori e alle loro lotte, il tutto coperto dalle stupidaggini demagogiche sul “bilancio parte­cipativo” (14). Per questi signori la linea opportunista di DS non era che l’espressione della materialità dei loro interessi e legami, che si sono poi espressi nell’ingresso nel governo Lula e nel sostegno alla sua politica neoliberale.

 

Le ultime conseguenze

Come ricordato, la vittoria elettorale di Lula e la politica neoliberale del suo governo sono stati oggetto di vari articoli su “Proposta”, “Progetto comunista” e “Marxismo rivoluzionario”. Non è scopo di questo articolo ritornarvi. Ci interessa invece trattare le conseguenze che questa situazione ha avuto sulla sinistra del PT.

Per quanto riguarda DS la nascita del nuovo governo ha portato alla logica conclusione la sua degenerazione politica. Miguel Rossetto è divento ministro dello sviluppo agrario. In questo quadro sta tentando di sviluppare un rapporto concertativo con i latifondisti e si è distinto per le denunce contro la “antidemo­craticità” delle occupazioni di terra da parte del Movimento Sem Terra (Mst), dando così una copertura ideologica alla azione squadri­stisca di costoro, che hanno continuato im­pu­nemente a uccidere i contadini occupanti (15).

Alcune figure importanti si sono opposte a questa linea. All’interno dell’organizzazione, Machado, che, appunto, a partire dal suo onesto moderato centrismo, si è trovato di fronte alla realtà realizzata sul piano nazionale di collaborazione di classe riformista, in forma neo-liberale. Tuttavia, segno della natura reale di DS, si è trovato in assoluta minoranza a battersi contro la partecipazione al governo.

All’esterno dell’organizzazione si è sviluppata l’aperta opposizione della senatrice Heloisa Helena, che è anzi diventata un punto di riferimento pubblico per i settori di massa (in primo luogo i lavoratori pubblici) in conflitto con la politica del governo Lula.

In realtà Heloisa Helena costituisce una figura molto particolare all’interno di DS. Già lavoratrice della sanità, legata ai settori più radicali del cattolicesimo di base, figura di massa: questo era il suo ruolo e non quello di espressione organica sul terreno istituzionale di DS e della sua politica. DS ha condannato in una risoluzione pubblica il suo atteggiamento. Quanto a Helena a definito pubblicamente “codardi” i deputati di DS che hanno votato a favore della contro­riforma pensionistica del governo.

Per quanto riguarda la sinistra vera e le sue varie correnti, essa ha evidenziato in pieno tutti i suoi limiti centristi. Quasi tutte le correnti, dichiarata la loro critica alla politica del governo, si sono affrettate ad inserirsi nel suo ambito o ad indicare la necessita di non opporvisi. Così è stato per la Tendenza mar­xista, per “O Trabajo”, per Forza socialista e per Articolazione di sinistra. Per ingabbiare quest’ultima, il governo è giunto al ridicolo di creare a bell’apposta un ministero della pesca, che come struttura autonoma non era mai esistito, per inserirvi come ministro un suo esponente.

L’unica eccezione in questo sconfortante panorama è stato rappresentato dalle due correnti “gemelle” della Convergenza socialista dei lavoratori e del Movimento della sinistra socialista. I loro rispettivi dirigenti, Babà e Luciana Genro, deputati al parlamento nazionale, dopo alcune tergiversazioni, legate all’iniziale volontà di evitare la rottura col PT, hanno infine votato – insieme ad un terzo deputato della sinistra PT, senza corrente, Joao Fontes –, contro la legge di riforma pensio­nistica. Questo ha provocato il deferimento dei tre deputati agli organismi dirigenti del partito con la prospettiva dell’espulsione. Ugualmente sono stati deferiti gli otto che si sono astenuti e che presumibilmente rischiano solo una sospensione.

Deferita è anche la senatrice Helena, che per prima e più radicalmente si era espressa contro la politica del partito. Tuttavia la situazione non è del tutto uguale: Babà e la Genro, pur dirigendo significative correnti organizzate, non hanno il prestigio pubblico che si è guadagnata Heloisa Helena. Inoltre, nel gruppo dei deputati del PT la sinistra contraria alle sanzioni disciplinari conta circa 30 presenze su 90 (il che mostra, tra l’altro, che la loro mag­gioranza ha votato a favore della contro­riforma previdenziale), mentre tra i senatori nove su quattordici si sono pronunciati contro le sanzioni a Helena. Tuttavia le ultime informazioni danno per probabili per il 24 ottobre, data di riunione della direzione del partito, l’espulsione di tutti e quattro i dissidenti.

In questo quadro si è aperto un ampio dibattito che ha coinvolto la sinistra più radicale del PT, il Pstu, i settori sindacali piu radicali – tra cui il sindacato dei professori universitari (Andes), il cui vicepresidente nazionale è il compagno Osvaldo Coggiola, ben conosciuto da molti nostri lettori per i suoi articoli sulla nostra stampa e per le varie conferenze in Italia, dirigente del Partido Obrero argentino, che da molti anni risiede in Brasile per lavoro (16). L’Mst ha pure partecipato a queste riunioni, ma tenendo, nonostante la sua iniziale rottura col governo nell’aprile scorso, un atteggiamento di cautela (17). Anche il Partito della causa operaria ha partecipato come osservatore a queste iniziative.

 

Verso un nuovo partito operaio

La necessità di una rottura col PT e del raggruppamento di una avanguardia politica e di classe in un nuovo partito è una palese evidenza ed opportunità. Lo scollamento tra un settore, ancora minoritario, ma crescente, delle masse e il governo Lula e il PT rende plausibile e necessaria questa prospettiva (il che non toglie nulla alla possibilità di una campagna nei confronti del partito o dello stessa Lula perchè rompa con borghesia, latifondisti e Fmi; tesa a smascherare nei settori più larghi possibili, ancora succubi dell’immagine del “presidente operaio” o del “partito dei lavoratori” la vera natura dei riformisti brasiliani e della loro politica).

Le forze trotskiste conseguenti, non solo il nostro partito fratello Pco, ma anche il ben più grande Pstu, non sono, allo stato, in grado di captare direttamente le grandi possibilità esistenti. Ma questo non vuol dire che il raggruppamento di per sè sia la soluzione dei problemi. Proprio gli avvenimenti brasiliani dimostrano come le prospettive di classe siano legate allo sviluppo di un conseguente partito marxista rivoluzionario. Il raggruppamento è un terreno troppo importante per non essere agito. Ma deve al contempo essere un terreno di battaglia dei troskisti conseguenti per il partito autenticamente rivoluzionario.

Poche settimane fà i tre deputati in procinto di essere espulsi, Babà, Genro e Fontes, hanno annunciato che una volta che Il PT avrà deliberato tale misura essi daranno vita ad un nuovo partito, che avrà il nome di Partito dei lavoratori socialista (Pts). Hanno fatto anzi appello a Heloisa Helena a raggiungerlo e ad essere la sua candidata per le elezioni presidenziali del 2006 (le ultime informazioni indicano che effettivamente appena esclusa Helena romperà ufficialmente con DS e raggiungerà il partito in costruzione). Hanno anche annunciato che nel nuovo partito si raggrupperanno deputati e senatori dissidenti provenienti dalla sinistra PT, ma anche dal PcdB (dove quattro deputati, su undici, hanno votato contro riforma previdenziale), dal Psb e dal Pdt, che è l’unico partito che si è pronunciato contro la riforma. Prospettando così un gruppo parlamentare di forse 20 deputati e una mezza decina di senatori per lo stesso 2006.

In una fase come questa non è, in sè, scorretto prospettare, in particolare in un paese dipendente come il Brasile, l’unificazione anche con settori che rompano realmente col populismo borghese o piccolo borghese. Ma una costruzione come quella ipotizzata dai tre deputati della sinistra radicale appare centrata tutta su un’ipotesi elettoralistica e verticistica: conquistare delle “personalità” per farne il centro del futuro sviluppo di una nuova forza prevalentemente elettorale. Non a caso l’iniziativa dei tre deputati radicali ha bypassato il quadro di dibattito tra le forze di sinistra su ricordato.

Ma soprattutto è l’aspetto programmatico che costituisce il più grande limite dell’iniziativa. I tre dirigenti hanno infatti dichiarato che il programma del nuovo partito è molto semplice da comprendere, essendo “lo stesso programma che il PT ha portato avanti per venti anni” (sic!). Si può pensare che in questa affermazione ci sia un qualche elemento di demagogica strumentalità, ma ciò non annulla, nel metodo e nel merito, il carattere opportunista del progetto di nuovo partito. Si rischia così che invece di una nuova forza rivoluzionaria, fosse ancora inizialmente confusa, si costruisca alla sinistra del PT una formazione rifor­mista di sinistra o al massimo “centrista consolidata”, che potrebbe diventare un nuovo ostacolo, invece di una potenziale opportunità nella strada della costruzione del partito rivoluzionario.

Il Pstu ha risposto alla proposta dei tre deputati con una dichiarazione del suo presidente Zè Maria che riteniamo corretta politicamente ma problematica sul piano organizzativo. Zè Maria ha sottolineato i limiti opportunistici della posizione di Babà, Luciana Genro e Fontes (il loro elettoralismo e le loro gravi ambiguità programmatiche). Nel contempo la sua proposta organizzativa, a nome del Pstu, e stata di questo tipo: “invece di costruire un nuovo partito proponiamo di costituire un qualcosa di più fluido, un movimento in cui aderiscano le varie forze, politiche e sociali, di opposizione di sinistra a Lula; confrontiamo in esso le nostre varie opzioni strategiche; se le troveremo convergenti formeremo il nuovo partito, se no potremo dare vita ad un fronte elettorale”.

Ci pare che il ragionamento dovrebbe essere diverso. Oggi c’è una potenzialità crescente di dissenso almeno di un’avanguardia larga del movimento operaio e popolare. I marxisti rivoluzionari conseguenti non sono oggi in grado di captare direttamente la maggioranza di questo dissenso, anche perchè fuori dal PT nel momento in cui elementi della sua sinistra, dopo molte esitazioni, si pongono alla testa del processo di formazione di un nuovo partito. E’ fondamentale essere parte attiva di questo processo. D’altro canto, il carattere centrista delle posizioni di Baba, Luciana Genro, ecc. (al di là del loro richiamarsi al trotskismo, cosa che pure ha la sua importanza per l’immagine pubblica della nuova forza politica) è evidente, in passato e oggi; nè è realistico, allo stato, pensare ad una loro evoluzione. Una discussione programmatica in un quadro organizza­tivo fluido, tenderebbe a trasformarsi in una sorta di discussione “intergruppi”, largamente limitata ai gruppi dirigenti, oggi su posizioni strategicamente diverse e perciò su questo terreno incompatibili. Il rischio di tutto ciò sarebbe quello di rafforzare i centristi, consegnando al loro nuovo partito la maggioranza delle forze in rottura col lulismo (18).

 

La costruzione del partito rivoluzionario

Ci sembra invece che la logica politica vorrebbe che i trotskisti conseguenti accettassero la sfida della costruzione del nuovo partito, conbattendo nel contempo apertamente le posizioni dei centristi, in primo luogo tra la base della nuova formazione, ponendosi come alternativa programmatica, strategica e di direzione ai Babà, Genro e ai loro alleati. Ci sembra questa, sulla base della nostra attuale comprensione della realtà della sinistra brasiliana, la via da seguire e per quanto ci riguarda auspi­chiamo che sia il Pstu, sia il nostro partito fratello Pco, sia gli intelletuali troskisti come Cog­giola e altri agiscano, possibilmente unitaria­mente, su questo terreno. Che certamente resta complicato esattamente perché i settori centristi radicali in rottura col PT cercheranno probabilmente di escludere i trotskisti conseguenti dalla partecipazione al nuovo partito.

Ci pare di aver risposto alle questioni di fondo che abbiamo avanzato all’inizio di questo testo. Per due decenni la sinistra centrista (e in primo luogo i revisionisti pablisti del Segre­tariato unificato) e riformista di sinistra ha presentato in tutto il mondo il PT come un esempio da seguire, come la forma realizzata dell’unità classista. Hanno mitizzato Lula, come leader carismatico, indiscusso e indiscutibile, anche quando avanzavano qualche moderato distinguo rispetto alle sue posizioni.

Hanno presentato come grandi conquiste rivoluzionarie forme di integrazione nello Stato borghese delle masse (“bilancio partecipativo”) in un quadro di collaborazione di classe. Se il Brasile fosse stato un paese con un regime parlamentare e non presidenziale (quindi semibo­napartista e da rigettare), con un PT presumi­bilmente stabile sul 20% e all’opposizione, avrebbero continuato a raccontarci questa favola (almeno fino al possibile successo di un qualche governo di fronte popolare). La vittoria di Lula alle presidenziali ha svelato la realtà. E ora queste forze sono in difficoltà, mentre la maggioranza dei loro omologhi brasiliani o si traformano in riformisti controrivolu­zionari (Rossetto e compagnia) o si adattano alla situazione, magari in cambio di un… ministero della pesca.

Ancora una volta la lezione brasiliana mostra che non c’è altra via per il proletariato e la sua avanguardia rivoluzionaria per avanzare verso la liberazione dallo sfruttamento e verso il socialismo, che dotarsi di quello che è passato alla storia come “partito leninista”: chiaro sui principi programmatici, la strategia e le tattiche corrispondenti e sulla struttura organizza­tiva, basata su un vero centralismo democratico, senza piccoli o grandi leader supremi (Lenin non lo fu mai).

La sua costruzione è un processo complicato e sulle sue fasi è necessario essere flessibili (come affermava Trotsky: “Un partito marxista durante il processo della sua formazione può a volte agire come frazione di un partito centrista o anche riformista) ma l’obbiettivo deve essere chiaro e chiaramente perseguito, perché al di fuori di esso non c’è politica rivoluzionaria. In Brasile. come in Italia. è questa la strada su cui può e deve avanzare l’avanguardia marxista rivoluzionaria, tra molte difficoltà, ma con potenzialità certamente superiori a quelle del passato, anche recente.

 

 

Note

 

(1) Il piccolo Partito comunista brasiliano (Pcb), che esiste tutt’og­gi e fa parte della coalizione di Lula, non è che il minimo residuo del vecchio Pcb che, a larghissima maggioranza, ha compiuto una svolta analoga a quella dei DS portandola anzi più compiutamente a ter­mi­­­ne senza “corrento­ni” o strutture analoghe e senza problemi rispetto al movimento sindacale in cui è praticamente assente. Ha infatti dato vita al Partito popolare socialista, bor­ghese di centro, il cui rappresentante più significativo è Ciro Gomes, più volte candidato alla presidenza della repubblica, in con­trapposizione a Lula, con risultati attorno al 15% dell’elettorato (anche se oggi anche il Pps fa parte del governo). Quanto al Partito comunista del Brasile (PcdB), cui fanno spesso riferimento i settori neostalinisti italiani, compresi quelli interni al Prc, si tratto del vecchio partito maoista ortodosso, equivalente brasiliano del Pcd’I(m-l) italiano degli anni sessanta-settanta. E’ anch’esso oggi parte del governo, dopo aver sviluppato in questi ultimi decenni politiche alla destra di quelle del PT.

(2) Tipico il fatto che la stampa non solo italiana di alcuni partiti comunisti utilizzava questo concetto indicando poi come referente i partiti comunisti di que­sti paesi, che in alcuni casi (Uruguay e Argentina) giungevano all’abominio di cercare all’interno delle giunte dittatoriali e assassine sedicenti settori “democratici e progressisti” con cui sarebbe stato possibile dialogo e addirittura sostegno da parte del movimento operaio.

(3) Qui stiamo parlando di “regime fascista”. Il discorso sulle specificità del fascismo come movimento di massa a base piccolo-borghese utilizzato, in generale come risorsa estrema dalla grande borghesia contro il proletariato e le sue conquiste, riguardano appunto il “movimento”. Se in Italia negli anni venti o in Germania negli anni trenta il rapporto tra movimento e regime fascista è stato organico, anche se in Italia dal 1922 al 1926 la tra­sformazione in regime compiutamente totalitario non era ancora compiuta (e infatti il Pcd’I gramsciano, così come gli altri partiti, era represso ma legale e presente in parlamento). Il caso spagnolo, come già indicato, era più complesso per l’origine diversificata delle componenti del golpe franchista, che in ogni caso diedero da subito origine ad un regime totalitario e quindi di tipo fascista. In alcuni casi poi il rapporto diretto manca quasi del tutto. E’ questo il caso del “regime dei colonnelli” nella Grecia del 1967-74. A causa della mancanza di un preesi­stente movimento pic­co­lo borghese di massa, alcuni teorici di tradizione marxista rivoluzionaria, come in primo luogo l’allora principale esponente del cosiddetto segretariato unificato, Ernest Mandel, si ri­fiutarono di qualificare come “fascista” tale regime, definendolo “bonapartista” come le giunte militari latino­americane. Per chi scrive, come per altri mar­xisti rivoluzionari, questa analisi è falsa. Il re­­gi­me greco aveva infatti creata una società totalmente controllata e quindi totalitaria. Ciò che conta evidentemente per la classe o­pe­raia è questo. Ogni regime totalitario al ser­­vizio del grande capitale è un regime di ti­po fascista, quali che siano le sue origini particolari. Parzialmente diversi i regimi tipo quel­li sudamericani de­­gli anni sessanta-ot­tanta che per i pur li­­mitatissimi spazi lasciati sul terreno politico e/o sindacale furono classificati dall’insieme dei teorici e delle correnti marxiste rivolu­zio­­­narie come “bona­par­tisti di destra”, ter­mi­ne a cui chi scrive, come altri, ritiene che, almeno per i più re­pres­sivi vada aggiunto quello di “semifascisti”. Queste distinzioni a prima lettura possono sembrare di lana ca­pri­na. Invece hanno avu­to, come si vide proprio nell’esempio brasiliano una loro importanza.

(4) La struttura sindacale brasiliana era già prima della dittatura ir­regimentata (e rimane, almeno formalmente, largamente tutt’ora) in leggi organiche elaborate all’epoca del pre­sidente Vargas. Questi era un demagogo populista che realizzò una pretesa “rivoluzione” a base militar-piccolo borghese contro il vecchio regime conservatore nel 1930 (che inizialmente manteneva formalmente parlamento e pluralità di partiti), dando più tardi vita ad un regime semi­fascista. Costretto alle dimissioni nel 1945, si riciclò come “democratico” e sulla base di un programma nazional­populista e “progres­si­sta” (alla Peron), fu ri­eletto presidente nelle elezioni del 1950 (si sui­cidò di fronte ad una crisi politica nel 1954). Fu Vargas che emanò leggi organiche sulla strutturazione sindacale basata su unicità di struttura per ogni situazione locale o provinciale (per esempio tutti i metalmeccanici della periferia Nord di San Paolo appartengono ad un solo sindacato, quelli di San Paolo città ad un altro, i lavoratori della carne dello Stato ad un’altro ancora ecc., per un totale di alcune migliaia di “sindacati”, che ancora og­gi si uniscono in confederazione in quanto tali (per es. il sindacato me­talmeccanici dell’Abc in quanto tale aderisce al­la Cut, quello dei me­tal­meccanici di San Paolo città alla rivale moderata Cgt-Forza sindical, indipendentemente dall’opinione dei singoli iscritti o delle singole rappresentanze aziendali). Già prima della dittatura militare i sindacati, finanziati (que­sto vale ancora og­gi) dallo Stato, vedevano la presenza di una sorta di “controllore” nominato dal ministero del lavoro. I militari la­sciarono questa struttura nominando i loro uomini, in larga misura militari.

(5) Nell’Abc, una zona con molte centinaia di migliaia di abitanti si concentrano alcune delle maggiori fabbriche metalmeccanica, co­me ad esempio la Volkswagen. Il sindacato metalmeccanico organizza dunque molte decine di migliaia di lavoratori.

(6) Usiamo il termine di avanguardia perché ori­ginariamente benché dotato di grande immagine e simpatia, il PT non riuscì a captare il voto delle larghe masse. Alle prime elezioni democratiche infatti, il suo risultato fu inferiore al 4%. La maggioranza del proletariato preferì infatti riversare i suoi voti sulle formazioni più tradizionali, populiste e clientelari.

(7) Parliamo naturalmente di una rivoluzione proletaria conseguente, non delle rivoluzioni deformate a direzione staliniana che ebbero luogo, nel quadro della situazione mondiale dell’epoca, negli anni quaranta e cinquanta, dando vita a regimi burocratici. D’altro canto in alcune occasioni storiche si sono avute rivoluzioni propriamente proletarie in cui i marxisti e i comunisti rivoluzionari in generale fiancheggiavano forze centriste, a volti egemoni (dalla Comune di Parigi alla rivoluzioni bavarese e ungherese del 1919). Ma in questi casi, accanto a condizioni oggettive (in particolare per il primo esempio) l’elemento soggettivo dell’assenza o della mancata egemonia di un partito marxista rivoluzionario consolidato fu un fattore centrale di sconfitta.

(8) La forte presenza di ex guerriglieri nell’ala destra del PT, ed oggi nel governo neoliberale (per esempio Josè Dir­ceu, già presidente del PT – da quando Lu­la, diversi anni fa, divenne “presidente onorario” a vita – ed oggi vero numero due di fatto del governo o Josè Genoino, attuale presidente del PT) è si­gni­ficativa. Molto spesso, specie nella sinistra italiana, per la debolezza della presenza e influenza del mar­xismo rivoluzionario, si è confuso radicalità dei mezzi, con radicalità programmatica e dei fini (il mito del guer­rillero eroico). Le due cose non coincidono. Si veda al proposito le po­si­zioni di Marx ed Engels nei riguardi dei democratici radicali del 1848 o il fatto che i bolscevichi si contrapposero (senza rinunciare in alcune situazioni ad utilizzare tatticamente azioni di guerriglia nelle campagne) ai “guerriglieristi” della loro epoca, i socialisti rivoluzionari (S-R), che in grande maggioranza si schierarono contro la rivoluzione d’ottobre. Naturalmente non vogliamo dire che tutti gruppi guerriglieri e i loro componenti siano dei riformisti attuali o potenziali, ma che solo un partito rivoluzionario marxista basato sul proletariato industriale è lo strumento per realizzare una vera rivoluzione proletaria e che chi sceglie altre strategie, in apparenza più rapide e radicali, si oppone a questa prospettiva e può facilmente, una volta fallito il suo sballato progetto mili­ta­rista, essere risucchiato nell’accettazione dell’esistente. Questo in America Latina, e non solo in Brasile, vale in particolare per quelli che hanno praticato la guerriglie nella sua versione “fochista” (cioè del piccolo gruppo d’a­vanguardia) sia conta­di­na che urbana. Perché per quanto bella umanamente e coerente politicamente possa es­se­re la figura del Che Guevara, la sua strategia politica era lontana dal marxismo, inconsistente e obbiettiva­men­te disastrosa per l’avanguardia.

(9) Il morenismo ha rap­presentato storicamente una importante corrente tra i vari movimenti che si richia­ma­no internazionalmente al trotskismo. Centrata essenzialmente sull’America Latina, essa ha avuto come leader indiscusso l’ar­gentino Nahuel Moreno (1921-86). Dagli anni ottanta ha assunto il nome di Lega internazionale dei lavoratori (conosciuta con la sigla Lit dalle sue iniziali in spagnolo). Principale partito era l’argentino Movimento al socialismo (Mas). Questo, per i suoi errori opportunisti e per una visione “catastrofista” della situazione argentina e mondiale (con un correlato iperottimismo sulle poten­zia­lità rivoluzionarie proprio nel momento di più acuta crisi del movimento proletario) è esploso agli inizi degli anni novanta, dando vita a diverse organizzazioni. La più importante di esse è il Movimento socialista dei lavoratori (Mst centrista e partner del PC argentino nel blocco riformista di si­nistra Izquierda Uni­da) che, dopo la rottura con la Lit, ha dato vita ad una nuova corrente internazionale, la Unione internazionale dei lavoratori (Uit), cui partecipano in Brasile le correnti di Babà e Luciana Genro (si veda il testo dell’articolo). La Lit è così rimasta centrata, dopo il disastro argentino, sulla sezione brasiliana (CS, poi Pstu). Essa ha tratto molte lezioni dalla sua storia politica e modificato mol­te posizioni fondamentali in senso positivo. Come scriviamo nell’articolo, Lit e Pstu, tirando quindi, almeno in larga parte, il bilancio della loro esperienza hanno avuto una evoluzione positiva, passando dal centrismo a matrice trot­skista, del moreni­smo storico, al trotski­smo conseguente.

(10) Come sanno molti dei nostri lettori, il Se­gre­tariato unificato è la corrente revisionista del trotskismo, centrista sempre più di destra, che in Italia e nel Prc è rappresentata dalla corrente di “Bandiera Rossa”. Sono anche detti “pablisti” dallo pseudonimo (“Pablo”) del segretario della Quarta Internazionale che agli i­nizi degli anni cinquanta elaborò le prime basi della teoria revi­sio­nista di cui il SU è continuatore (in peggio) e il cui sviluppo portò nel ‘53 alla scis­sione de­ll’Internazio­nale. Da ciò ha origine la crisi storica della Quarta Internazionale.

(11) Il lambertismo (dal nome del suo principale leader, il francese Pierre Lam­bert) costituisce una corrente al con­tempo molto opportunista e molto settaria del movimento trotski­sta, originatasi nel suo settore “antipablista”. Il suo centro è in Francia dove esiste il partito dominante della sua sedicente Quarta Internazionale, il Partito dei Lavoratori (PT). E’ l’organizzazione diventata mediatica­mente famosa anche perché “infiltrò” nel PS il futuro primo ministro Lionel Jospin. Ne abbiamo parlato su “Proposta” in particolare nel n. 33, nell’articolo sulle elezioni presidenziali francesi.

(12) Il Pco, è l’organizzazione brasiliana che aderisce al Movimento per la rifondazione della Quarta Internazionale (Mrqi), che è la struttura internazionale di cui fa parte l’Amr Progetto comunista. Ben­chè molto piccolo il Pco ha una presenza na­zionale ed è conosciuto nell’avanguardia e, in una certa misura, tra le masse, come il “partito più radicale della sinistra brasiliana”. A ciò ha contribuito la scelta (a nostro giu­dizio corretta, stante l’attuale separazione dal Pstu) di presentare un proprio candidato, Rui Costa Pimenta (conosciuto da molti compagni in Italia per le iniziative svolte con la nostra associazione, in particolare il meeting internazionale del 7-12-02), al primo turno delle elezioni presidenziali del 2002. Benché il risultato sia stato molto modesto (circa 40.000 voti) la campagna elettorale, anche con gli spazi gra­tuiti e ufficiali in televisione hanno fatto conoscere il partito e il suo programma in una fascia ampia di popolazione.

(13) Quando parliamo di trotskismo conseguente noi indichiamo un’atteggiamento politico nella strategia generale e nelle tattiche essenziali, conforme al programma e al metodo complessivo del marxi­smo rivoluzionario. Per dei settari o dei dogma­tici (a volte magari opportunisti o revisionisti nel concreto) la conse­guenzialità significa l’ac­cordo sulla più particolare teoria o l’insieme delle specificità tattiche. Con Lenin e Trotsky questa concezione ci è estranea. Se consideriamo tale o tal’altra organizzazione di origine trotskista come centrista non è in base ad una o più differenze teoriche o tattiche specifiche, ma perché consideriamo nel concreto che non operino conseguentemente, a partire da deviazioni teoriche sui principi e/o opportunismi concreti e pressioni varie, per lo sviluppo delle prospettive della rivoluzione socialista e del potere proletario. In questo senso ,pur essendo piùvicini al nostro partito fratello Pco, consideriamo che anche il Pstu sia diventato un partito fondamentalmente trotskista conseguente

(14) Nella concreta re­al­tà e date le condizioni precise, come abbiamo spiegato in altre occasi­oni sulla nostra stampa, il “bilancio parteci­pati­vo” non è altro che uno strumento di coop­ta­zio­ne delle masse nel­le strutture lo­cali dello Stato borghese, in un quadro di collaborazione di classe.

(15) Il numero di “Carta” del 25 settembre/1 ottobre 2003 contiene una significativa intervista a Rossetto. In essa, a proposito delle occupazioni di terre egli dice: “Riaffermia­mo il nostro rispetto per tutte le manifestazioni, ma il governo non tollererà alcuna infrazione alla legge e allo stato di diritto”. Ecco la conclusione del processo politico di degenerazione dei pablisti brasiliani: “legge, ordine e diritto (alla proprietà dei latifondi)”. Nel mentre i latifondisti (su cui Rossetto non dice una parola nonostante la domanda vertesse anche sul loro “bellicismo”) hanno ucciso almeno 18 contadini; ma questo non appare un problema per il nostro potenziale No­ske. Quanto alla com­missione parlamentare d’inchiesta sui Sem Terra voluta dalla destra (formalmente all’opposizione del governo) ecco cosa ne di­ce Rossetto: “La commissione è stata approvata dal potere legislativo e dob­biamo rispettarne le decisioni”. Da non crederci, parole da far apparire un Violante o un Castagnetti dei radicali. E i nostri pretesi “marxisti-trotskisti” di Bandiera rossa accettano senza fiatare di farsi rappresentante politicamente in Brasile da un tale soggetto controrivoluzionario!

16) L’ultimo congresso della Cut, pochi mesi fa, è stato dominato da una ampio, benchè confuso dibattito tra le varie correnti, in particolare della sinistra, anche in relazione all’antidemocratica regola che prevede che per essere rappresentati nell’Esecutivo Nazionale (organismo ristretto di una quindicina di membri, eletto dal congresso; non esiste invece l’equivalente di un direttivo nazionale) si debba ottenere almeno il 20% dei voti del congresso. Alla fine, vincendo le resistenze dei settori centristi più moderati (in particolare “O Trabajo”) che non volevano un blocco con il settore del Pstu, si è presentata una lista di sinistra unitaria (lista 2) che ha ottenuto circa il 30% dei voti. Dall’altro lato il blocco riformista (lista 1) che ha ottenuto circa il 70% dei voti è stato costituito dai sostenitori di Articolazione, PCdo B e Democrazia socialista,salvo alcuni dissidenti di quest’ultima. La posizione di DS è stata accolta da un coro di massa della sinistra che gridava “DS, che pena. E’ la lista 2 che difende Helena”.

(17) Il Movimento dei Sem Terra e diviso sostanzialmente in due correnti. Una, centrata nel Nordest povero del paese, che è molto radicale nei metodi, ma molto confusa in termini politici. Il suo principale rappresentante, Josè Rainha, piu volte incarcerato in passato è stato recentemente condannato a due anni di prigione per “violenza”. L’altro settore, che costituisce il gruppo dirigente centrale (con figure come Stedile o Gilmar Mauro) è basato soprattutto nel Sud del paese ed è politicamente più chiaro, ma condivide, in parte, i limiti della sinistra centrista del PT. Perciò per il momento si comporta cautamente, pur avendo parzialmente rotto la “tregua” iniziale col governo, e si tiene ancora sul terreno di una politica di pressione sul governo. Tuttavia sembra indicare nella fine dell’anno il momento in cui tirare un bilancio di questa politica e eventualmente rompere apertamente col governo. Ciò che avrebbe certamente una significativa importanza nella situazione.

(18) In questo quadro ci appare che abbia ben poca importanza o sia negativa l’ipotesi di un fronte elettorale, che farebbe apparire i rivoluzionari conseguenti come appendici del nuovo partito riformista di sinistra o centrista; a quel punto meglio sarebbe una differenziazione anche elettorale, che almeno sottolineerebbe le differenze di fronte alle masse.