Marxismo rivoluzionario n. 2 - nel mondo / il brasile di lula
Origini
e percorso di una degenerazione riformista
IL
PT E LA SUA SINISTRA
di
Franco Grisolia
La politica del governo Lula manifesta sempre più
apertamente il suo carattere neoliberale. Di ciò abbiamo dato conto in vari
articoli sia su “Proposta” che su “Progetto comunista” e torniamo a
parlare in questo stesso numero di “Marxismo rivoluzionario”.
Molte le
domande che questa realtà può provocare. Tra esse certamente: Perchè un
partito di classe come il Partito dei lavoratori (PT), presentato sovente negli
anni passati come un esempio di unità combattiva e democratica di tutte le
tendenze legittime del movimento operaio è così degenerato? Quale il ruolo di
una figura che ha suscitato grande entusiasmo o almeno rispetto nella sinistra
mondiale come Lula in questo processo? Quali sono le posizioni e l’azione dei
settori critici di sinistra del PT? Quale il ruolo di Democrazia socialista (DS),
la sezione brasiliana del cosiddetto Segretariato Unificato della Quarta
Internazionale, che partecipa centralmente al governo con il ministro della
riforma agraria Rossetto e di cui tuttavia fa parte anche la senatrice Heloisa
Helena, oggi minacciata di esclusione per le sue posizioni critiche?.
Su
diversi aspetti di queste domande abbiamo scritto appunto nei surricordati
articoli di “Progetto comunista” e “Proposta”. Scopo del presente
articolo è quello di dare ad esse una risposta più complessiva ed organica.
Le origini del PT
Il PT
nasce nel 1980, sulla base delle grandi mobilitazioni operaie che aprono
l’ultima fase del regime militare (1964-84). A partire dal 1978, infatti si
sviluppò una grande mobilitazione della classe operaia industriale che ebbe il
suo punto centrale nel proletariato metalmeccanico della grande periferia di
San Paolo (il cosiddetto Abc dalle iniziali dei nomi delle sue principali
municipalità). Tale lotta, basata su rivendicazioni in origine salariali,
acquistò rapidamente un carattere politico di fronte ad una dittatura militare
in crisi e ad una borghesia che cercava le modalità di una transizione pacifica
e controllata per il ritorno alla democrazia borghese. In questo quadro di
scontro sociale alcuni dirigenti sindacali, con l’appoggio di settori di
sinistra della chiesa cattolica (quelli della cosiddetta “teologia della
liberazione”) specialmente di base, lanciarono l’appello per costituire un
partito che rappresentasse in maniera indipendente il mondo i lavoratori e le
loro istanze. Tra di essi vi erano militanti indipendente, di estrema sinistra
generica, cattolici di base, trotskisti. Assente e contrapposto invece il
Partito comunista, impegnato in una strategia di collaborazione di classe con i
settori borghesi “democratici” (1). E ugualmente il Partito comunista del
Brasile (PcdB) mao-stalinista, anche lui contrario all’indipendenza di classe
su cui appariva costituirsi il PT, in nome della stategia, nel suo caso più
teorica che reale, di alleanza con la borghesia “progressista e
antimperialista”. In effetti per i settori militanti d’avanguardia il nuovo
partito appariva come la risposta unitaria classista al fallimento e
all’opportunismo dello stalinismo brasiliano in tutte le sue forme.
Luis Iñacio Da Silva (Lula)
La
figura centrale tra coloro che lanciavano il nuovo partito era quello di Luis Iñacio
Da Silva, detto Lula (calamaro). Era il presidente del sindacato metalmeccanico
dell’Abc. Come dirigente del movimento di scioperi del 1978 era stato, sia pur
per breve tempo, arrestato dai militari. Questo gli aveva creato una grande
popolarità che, congiuntamente con le sue indubbie capacità (certamente
visibili anche oggi nel suo ruolo di statista neo liberale) ne facevano
dall’inizio il carismatico leader del nuovo partito.
In realtà
la storia sindacale di Lula era alquanto ambigua, anche se la sua situazione in
quel momento portava le masse, come spesso accade, purtroppo, a dimenticare o
non porsi il problema di conoscere. Per capire tale storia è necessario
inquadrarla nella realtà della dittatura militare brasiliana. Rispetto ad esse
e ad altre analoghe prevale nella sinistra italiana (diverso il caso di paesi
dove la tradizioni teorica marxista rivoluzionaria è più profonda) la
concezione che si tratti di regimi “fascisti” (2). Se per “fascismo” si
intende indicare il carattere repressivo e sanguinario di un regime, il termine
sarebbe ovviamente del tutto appropriato. Ma per il marxismo non di questo si
tratta quando si deve dare una definizione scientifica. Quello che caratterizza
la specificità di un regime di tipo fascista è il suo carattere totalitario.
Al di là del grado di repressività, sempre ovviamente tremendo, ma in alcuni
casi non immediatamente legato ad assassinii di massa, regimi come quello
mussoliniano, prototipo storico, sono caratterizzati dalla unicità di presenza
e controllo in tutti i gangli della vita politica e sociale: partito unico,
sindacato unico di regime controllato dal partito, ecc. Ogni minimo elemento di
autonomia è cancellato. Così è stato nella Germania hitleriana e nella Spagna
franchista (nonostante il fatto che in quest’ultimo caso l’origine delle
forze controrivoluzionarie fosse plurale e assai diversificato, dai fascisti
puri, ai monarchici tradizionali, ai cattolici reazionari, ai militari, per
consolidare il regime in termini fascisti si dovette creare il partito unico
della Falange, che non a caso manteneva il vecchio nome del piccolo partito
organicamente fascista) (3).
Il regime brasiliano
In
Brasile quello che esisteva era un regime dittatoriale di tipo “bonapartista
di destra” (“gorilla” era l’appropriato termine usato dalla sinistra
latinoamericana). Una delle espressioni di questo carattere non puramente
fascista era l’esistenza, sulla base delle leggi organiche di regime, di due
partiti politici: uno governativo (Arena) e uno di opposizione borghese
controllata (MdB). Questa situazione poteva avere scarsissima importanza nei
primi anni della dittatura ma ebbe importanza negli anni settanta. Fu infatti a
partire da un (inattesa) successo alle elezioni del 1974 da parte del MdB, che
si aprì il lungo processo che portò alla fine del regime(una transizione
naturalmente controllata dalla grande borghesia e dall’imperialismo e
incanalata con “gradualità” dai settori “reazionari moderati”
dell’esercito, rappresentati dal presidente generale Geisel, che utilizzarono
i risultati del 1974 per avere la meglio sul settore più duro, semifascista
dell’esercito, i cosiddetti “nazionalisti” che erano stati egemoni nel
periodo 1967-73 ).
Uno dei
terreni in cui si manifestava questo carattere “bonapartista” e non
organicamente “fascista” del regime e che ci riporta a Lula, era quello
sindacale. Nella dittatura i sindacati non furono sciolti e, eventualmente,
sostituiti da uno unico e di tipo ideologico, come nell’Italia di Mussolini o
nella Germania di Hitler, ma mantenuti – sia pure, dopo la repressione e
l’incarcerazione di moltissimi dirigenti, in particolare comunisti o
classisti, con la presenza opprimente di controllori militari – e realizzavano
ogni quattro anni le loro elezioni interne, in cui, naturalmente in situazioni
difficile si presentavano, di fronte ai burocrati collaborazionisti,
popolarmente definiti spregiativamente “pelegos”, liste di opposizione,
formate da attivisti di sinistra (che ovviamente non si qualificavano
apertamente come tali) (4).
L’ascesa sindacale di Lula
Fu così
che iniziò l’avventura sindacale del giovane Lula, operaio in una fabbrica di
ascensori della grande Abc, che nel 1968 fu uno dei candidati della lista di
opposizione di sinistra all’elezione del gruppo dirigente del sindacato
metalmeccanici di quella zona, il più importante di tutto il Brasile per quella
categoria (5). Nel quadro della situazione tale lista fu ovviamente sconfitta.
Ma il presidente “pelego” del sindacato aveva notato
quell’intelligentissimo e capace giovane componente della lista di opposizione
e gli offrì quindi di passare dalla sua parte come proprio vice. Così nel
1972, nel pieno del periodo peggiore della dittatura Lula veniva eletto
vicepresidente del sindacato nell’ambito della lista della maggioranza
collaborazionista, contro i suoi vecchi compagni, diventando così anche lui un
sindacalista “pelego”. E la sua scaltrezza e intelligenza era tale, che
nell’ambito dei collaborazionisti, riuscì a scalzare il suo mentore,
presidente del sindacato. Così nel 1976 Lula venne eletto presidente del
sindacato a capo della lista collaborazionista.
Ma, come
abbiamo indicato, il clima stava cambiando. Era iniziata la lenta transizione
verso il ritorno alla democrazia borghese. Lula comprese ovviamente il momento e
le possibilità che esso offriva. Così, invece di contrastare la spinta sempre
più forte dei lavoratori del suo sindacato, come di quelli brasiliani in
generale, per una forte azione rivendicativa dopo anni di arretramento su tutti
gli aspetti, si pose alla testa del grandioso sciopero del 1978 dei meccanici
dell’Abc, che fu un punto centrale nell’ondata di mobilitazioni operaie di
quegli anni, che avevano una forte valenza politica contro la dittatura.
Il
regime militare reagì al “tradimento” del suo collaboratore Lula,
incarcerandolo per sciopero illegale, sia pure per un periodo di pochi mesi. Il
risultato fu l’apoteosi di Lula, che assurse a simbolo della nuova ondata di
lotta di classe, dimentichi tutti del suo recente passato. Ciò che, a bilancio
storico, dimostra al contempo la grande intelligenza e la totale mancanza di
principi, politici ed etici, di Lula, con cui ovviamente, la sua azione presente
ha un rapporto.
Il mito del “PT delle origini”
Il primo
PT, come detto, raggruppava l’avanguardia attiva nelle grandi mobilitazioni
del 1978-79 di diverse origini politiche: attivisti classisti indipendenti nati
politicamente nelle lotte di quel periodo, militanti trotskisti delle diverse
organizzazioni presenti, settori legati al cattolicesimo di base radicale
(pastorale del lavoro), piccoli e variegati settori centristi a matrice
stalinista, maoista e castrista, incapaci di adeguarsi allo sfacciato riformismo
dei due partiti comunisti, il filosovietico e ufficiale Pcb (prima della sua
trasformazione in Pps) e il filocinese PcdB. Il nuovo partito, organizzazione
molto variegata nella struttura, trovava la sua base nella avanguardia operaia
(6)
Sulla
base di queste caratteristiche di largo fronte unitario il PT è stato
presentato come un esempio di organizzazione nell’avanguardia mondiale. Questo
è stato in primo luogo il caso del cosiddetto Segretariato unificato della
Quarta Internazionale (Suqi, rappresentato in Italia da “Bandiera rossa”) ma
anche di altre forze marxiste rivoluzionarie (con formule tipo “il partito che
raccoglie tutte le tendenze legittime del movimento operaio in contrapposizione
a socialdemocrazia e stalinismo”). Anche nella sinistra del PT, e in certa
misura persino fuori di essa, rimane il riferimento al “PT delle origini”.
Come
argomentano giustamente i nostri compagni del Partito della causa operaia (Pco)
si tratta di una favola. Il PT è certo nato dalla convergenza delle forze
sociali e politiche di cui abbiamo detto, ma non come partito compiutamente e
programmaticamente classista, se per questo si intende un partito che abbia
una compiuta, fosse pure confusa, prospettiva di potere dei lavoratori e
trasformazione rivoluzionaria della società in senso socialista.
Fin
dalle sue origini la maggioranza del partito, intorno alla figura carismatica di
Lula e coinvolgendo i settori cattolici e molte personalità indipendenti con
influenza locale, ha costruito il partito in un ottica riformista, sia pure, in
quel momento, verbalmente radicale. Per questo settore, il PT doveva essere lo
strumento per una rappresentaza della classe operaia e dei settori popolari sul
terreno istituzionale, per concordare su quel terreno una serie di riforme con i
settori “progressisti” della borghesia. Nulla di più. Non fu mai
considerata invece l’ipotesi di fare del PT lo strumento di centralizzazione
politica delle mobilitazioni operaie e popolari (ovviamente senza negare anche
la presentazione sul terreno elettorale).
E’ il
concetto stesso di “raggruppamento in partito di tutte le forze legittime del
movimento operaio” che è teoricamente falsa. E’ vero che accanto ai
marxisti rivoluzionari conseguenti (rispetto ai quali si tratta ovunque di
lottare per la unità in un solo partito) possono esistere altre forze che
possono accompagnare un processo di rivoluzione socialista (forze di tipo
“centrista di sinistra” o, in rari casi, ultrasinistre). Ma, in primo
luogo, in tale processo il ruolo centrale non potrebbe che essere svolto da un
partito marxista rivoluzionario (7). E, in ogni caso nulla a che vedere con
forze a carattere riformista come quelle che contribuirono con funzione
dirigente, accanto ai trotskisti ed ad altri militanti realmente
“classisti”, alla nascita del PT.
Per
quanto riguarda il concetto, diverso, di “struttura politica di fronte unico
del movimento operaio”, non si può escludere in astratto che una struttura di
questo tipo possa essere uno strumento di un processo rivoluzionario. Ma, anche
in questo caso, la condizione sarebbe una egemonia di un partito o
organizzazione marxista rivoluzionario su di esso. Quello di cui vogliamo
parlare è una struttura di un vero partito del lavoro che raggruppi diverse
forze politiche e si basi sui sindacati operai e altre organizzazioni
proletarie, con un confronto interno basato su una reale democrazia operaia.
La degerazione riformista
La
storia ha del resto dimostrato che tali formazioni tendono immediatamente a
degenerare, in mancanza di una egemonia marxista, verso il riformismo, perchè
le burocrazie esistenti o quelle che vengono a formarsi tendono ad essere
risucchiate nell’ambito dello stato borghese, che, nei periodi “normali”,
ha grande capacità di cooptazione. Insomma solo un ruolo egemonico, per lo meno
sul terreno programmatico, può rendere ipotizzabile, in condizioni particolari,
la nascita di un partito espressione del fronte unico della classe, che possa
perdurare come strumento anticapitalistico. In ogni caso, questa non era la
situazione del PT al suo sorgere. Quel miscuglio di “burocrati sindacali
progressisti”, cattolici di sinistra (la loro maggioranza, alcuni, soprattutto
nel terreno contadino, erano e sono più radicali), politici di sinistra locali
ed ex guerriglieri (8), che costituì fin da allora la componente strettamente
“lulista” del nuovo partito era fin dalle origini sul terreno di una
prospettiva riformista, sebbene allora più radicale, anche a causa della
diversa situazione oggettiva.
Una
delle caratteristiche determinanti di questa natura fu anche il rifiuto di
basare il nuovo partito sulle avanguardie nei luoghi di lavoro e nelle strutture
sindacali classiste. In realtà solo i nostri compagni del gruppo di “Causa
operaia” fecero una battaglia su questo terreno, battaglia che erano troppo
deboli per vincere. All’epoca e anche successivamente altre correnti che si
richiamano al trotskismo, in primo luogo la sezione brasiliana del Segretariato
unificato, Democrazia socialista, accusò i nostri compagni di formalismo, di
rifarsi cioè alle posizioni dei classici senza considerare la concretezza della
situazione presente. In realtà la storia successiva ha mostrato chiaramente che
quella scelta (pur senza pensare che la scelta contraria sarebbe stata
determinante per il futuro) era certamente espressione della volontà di
sviluppare un partito elettoralista e che una battaglia su questo terreno
sarebbe stata importante per le posizioni compiutamente classiste e
rivoluzionarie nel partito. Il PT si organizzò dunque su base essenzialmente
territoriale.
Questa
situazione peggiorò ancora negli anni successivi. Paradossalmente fu la
creazione della Centrale unica dei lavoratori (Cut) che venne presa a pretesto
dal gruppo dirigente del PT per un ulteriore salto a negativo sulla questione
della struttura del partito. La Cut nacque ufficialmente nel 1983, proprio alla
fine del periodo della dittatura militare, con la partecipazione di tutti i vari
sindacati conquistati dai militanti e sostenitori del PT (con un passato di
opposizione di sinistra o analogo a quello di Lula, ma soprattutto arrivati alla
loro testa nelle grandi lotte del 1978-79). Ad esso aderivano anche le
opposizioni di sinistra dei sindacati rimasti nella centrale collaborazionista
Cgt (che si dividerà ulteriormente tra Cgt e Cgt-Forza Sindical). Essa divenne
rapidamente la principale centrale sindacale brasiliana. Ebbene, fu argomentando
dal fatto che la nascita della Cut copriva il terreno delle fabbriche e delle
aziende che il PT decise lo scioglimento di tutte le sue poche strutture di base
nei luoghi di lavoro, per strutturarsi esclusivamente su base territoriale.
Sottolineava così la prospettiva elettoral-riformista, sia pure, all’epoca,
ancora “radicale”.
Il PT negli anni ottanta
Così
nella prima metà degli anni ottanta si andava strutturando il PT come partito
riformista di sinistra, con un linguaggio e un’immagine radicale, basato sul
sostegno del proletariato, sia dell’industria che dei servizi e del pubblico
impiego(più tardi dei contadini senza terra) con una forte presenza al suo
interno di correnti “rivoluzionarie”, in primo luogo trotskiste (in realtà,
nella maggior parte dei casi su posizioni inconseguenti, di tipo centrista) e di
settori legati alla teologia della liberazione.
Questo
partito godeva di un sostegno elettorale diretto di circa il 15-20% e aveva in
Lula il proprio leader carismatico, la cui influenza nella società brasiliana
andava al di là del sostegno elettorale del partito.
Questo
carattere “bonapartista” della struttura del partito fu rafforzata da una
mancanza di chiare regole di democrazia. Si pensi solo al fatto che il PT ebbe
il suo primo congresso solo dodici anni dopo la sua costituzione, nel 1992. Fino
ad allora la base di vita centrale del partito furono delle conferenze
nazionali.
Le tendenze interne
In esse
si strutturò il quadro organizzato interno del partito, che vedeva da un lato
quella maggioranza lulista stretta di cui abbiamo parlato e che ha assunto il
nome di tendenza di Articolazione.
A
sinistra di essa una variegata area di correnti, forti sempre nelle conferenze
del partito di più del 40% del sostegno dei delegati, con una predominanza di
quelle trotskiste (25-30% dei voti).
Sostanzialmente
l’area trotskista si articolava intorno a quattro correnti, due maggiori,
Convergenza socialista (CS), più del 10% dei voti, “morenista” (9), e
Democrazia socialista (10), circa il 10%, e due minori “O Trabajo” (dal nome
del suo giornale, di orientamento “lambertista” (11), e “Causa Operaria”
(CO, dal nome del giornale e legata al Partido Obrero argentino).
Per
quanto riguarda il resto della sinistra, di origine maoista, stalinista di
sinistra, centrista varia o locale, tra le molteplici correnti se ne sono
sviluppate due, la Tendenza marxista (TM), e (però prevalentemente negli ultimi
anni, anche grazie al fatto di gestire la municipalità della grande città
amazzonica di Belem, in ha sviluppato una politica più a sinistra della
collaborazione di classe dei pablisti di DS a Porto Alegre, col loro “bilancio
partecipativo”) Forza socialista, derivata da un gruppo maoista nato negli
anni della dittatura.
Ad esse,
come vedremo si aggiungerà poi, per scissione dalla corrente lulista,
Articolazione di sinistra (AI).
Elemento
caratteristico e negativo era, negli anni ottanta (vedremo poi successivamente)
che l’insieme di questo variegato settore di sinistra, se sfidava
“ideologicamente”, con posizioni centriste varie, su vari aspetti teorici e
tattici, la corrente lulista, non poneva effettivamente in questione il ruolo di
Lula e la sua strategia, sempre in nome del carattere “classista e
unitario” del PT. Non poneva insomma la reale alternativa politica di fronte
agli attivisti del partito: o trasformazione programmatita del PT in senso
rivoluzionario, e in questo senso sconfitta politica del lulismo e fine del
ruolo di caudillo di Lula stesso (anche scontando su ciò una scissione),
o progressiva deriva verso un riformismo sempre più moderato.
Sola
eccezione in questo quadro i nostri compagni di Causa Operaria, che ponevano
apertamente il problema della battaglia per un programma rivoluzionario, ma che
erano troppo deboli quantitativamente per influenzare sullo sviluppo politico
complessivo del partito. La loro coerenza gli procurò del resto una sempre più
netta ostilità dei vari raggruppamenti della sinistra centrista.
L’opportunismo della sinistra “centrista”
Tipico
dell’atteggiamento della sinistra centrista è che essi accettarono nel 1987
un regolamento delle tendenze interne al partito che, se da un lato
apparentemente formalizzava i loro diritti, dall’altro li limitava su diversi
aspetti, in particolare sul terreno della possibilità di propaganda e
agitazione politica propria all’esterno del partito, lasciando alla burocrazia
riformista un arma che in futuro non mancherà di usare. Ancora una volta solo
Causa operaia si battè contro questa modifica negativa della situazione
precedente.
Un
esempio che mostra bene come, anche nei momenti “eroici” dei primi anni del
PT, esso sviluppasse una prospettiva opportunista è indicato dal congresso
della Cut del 1988. Come detto, questa è la principale base di massa del PT, da
esso diretta e in cui le varie correnti del partito hanno un ulteriore momento
di confronto. Abbiamo già ricordato come esso fosse composto sia dai sindacati
ufficialmente affiliati, sia dalle opposizioni dei sindacati affiliati, per
decisione maggioritaria, più o meno democratica, alle centrali sindacali
reazionarie. Ebbene in quell’anno – anche lì senza una opposizione
conseguente della sinistra, ad eccezione di Causa operaia – fu deciso che
queste opposizioni si disaffiliassero dalla Cut, che rimane da allora formata
dai soli sindacati ufficialmente aderenti. Era un segnale di adattamento alle
regole “ufficiali” dello Stato e, crediamo un passaggio nella preparazione
dell’importantissima campagna elettorale presidenziale del 1989.
In
quell’anno, infatti, Lula si scontrò, per le presidenziali, con il
“berlusconi” locale, il candidato neo liberista del centrodestra Collor de
Mello, giovane proprietario della più importante catena televisiva del Brasile,
Rede Globo. Per tale elezione, sul cui risultato, dato anche il carattere
affaristico e “impolitico” di Collor, le speranze nel PT erano grandi, il
partito costituì una alleanza con il nome di Frente Brasil Popular. Benchè in
esso fossero coinvolti solo gli stalinisti (PcdB e Pcb) e un partito piccolo
borghese populista (Partito socialista brasiliano, Psb), in realtà fin dal nome
il gruppo dirigente lulista, ancora una volta non sfidato dalla sinistra
centrista, cercava di indicare che, in caso di successo, il PT si sarebbe
mantenuto nell’ambito di una politica “popolare” e non classista e
anticapitalistica (benchè lo scenario neoliberale attuale fosse allora ancora
lontano dall’orizzonte del PT).
Riallineamenti interni ed espulsioni
Lula
arrivò al ballottaggio con Collor e superò largamente il 40% dei voti, ma fu
sconfitto. Tale sconfitta che, come abbiamo detto frustrava le speranza dei
militanti della sinistra, provocò una crisi all’interno del PT. La corrente
lulista impostò una svolta teorica e, nella misura del possibile, pratica verso
destra, aprendo più chiaramente a forze borghesi populiste, quali il Partito
democratico del lavoro (Pdt) ma con attenzione alla borghesia in quanto tale;
mentre la Cut, diretta da un blocco tra lulisti e stalinisti del PcdB arrivava a
proporre un patto di “concertazione” al governo Collor.
In
reazione a tale svolta, si sviluppò nella stessa Articolazione un’area
critica di sinistra, a carattere centrista, che avrebbe poi dato vita, con il
sostegno di circa il 15% del partito alla corrente di Articolazione di
sinisistra (AI). Così le aree della sinistra centrista, considerate tutte
insieme, compresa quest’ultima ancora formalmente interna ad Articolazione
lulista, diventavamo maggioranza, sia pure di poco, nel partito. Il problema è
che i centristi, anche quelli di origine trotskista, non avevano una vera
politica alternativa, una politica conseguentemente marxista e rivoluzionaria da
contrapporre al lulismo, in particolare sul terreno della contrapposizione al
frontepopulismo e al ruolo carismatico di Lula.
Non è
un caso che proprio in questa fase si verifica la prima epurazione nel partito.
L’unica corrente che aveva cercato di sottolineare la deriva del gruppo
dirigente effettivo del partito, i suoi inaccettabili compromessi con forze
borghesi a livello locale, compreso quello degli stati della federazione, il
significato di collaborazione di classe del fronte popolare, era stata Causa
Operaria. Proprio per questo, utilizzando artatamente questioni minori e una
qualche mancanza di “diplomazia” da parte dei nostri compagni, essi furono
accusati di essere una forza estranea e ostile al PT ed esclusi dal partito nel
1991.
La
sinistra centrista, a parte qualche intellettuale e qualche marxista
rivoluzionario indipendente, non solo non difese Causa Operaria, ma partecipò
pienamente alla campagna per la sua esclusione. Basti pensare che la commissione
speciale che pronunciò la sentenza era presieduta dal principale dirigente di
Democrazia socialista. Esclusi dal PT, i nostri compagni costituirono la prima
organizzazione indipendente alla sua sinistra, il Partito da Causa Operaria (Pco)
(12).
Poco
dopo, si sviluppa la seconda grande esclusione dal partito, quella di
Convergenza socialista. Nel 1992 vengono alla luce una serie di scandali che
coinvolgono il presidente Collor. Cresce nel paese la volontà di cacciarlo. CS
propone all’interno del partito di lanciare la parola d’ordine, del tutto
corretta e corrispondente alla situazione, di “Via Collor”. Lula, e dietro
di lui la maggioranza del partito, si oppongono. Secondo Lula questa parola
d’ordine è extraparlamentare, quindi “non democratica”. Collor va battuto
solo nell’arena elettorale. CS decide di passare oltre alla proibizione della
maggioranza e lancia una campagna pubblica sul tema tra i lavoratori. Sulla base
del regolamento delle tendenze cui abbiamo fatto riferimento, la direzione del
PT apre una campagna contro CS. Ancora una volta la sinistra, sia pure con
atteggiamenti diversi e meno netti che nel caso di CO due anni prima, non
difende unitariamente e coerentemente CS.
Il bello
è che subito dopo, a partire dalla mobilitazione di base di vasti settori della
società e della base della sinistra si sviluppa un grande movimento di massa
cui, alla fine, anche il PT in quanto tale è costretto a partecipare. E tale
movimento extraistituzionale obbliga effettivamente, alla fine del 1992,
Collor alle dimissioni (con la presidenza provvisoria del centrista Itamar
Franco, in attesa di nuove elezioni presidenziali). Poco dopo, con accuse varie
di indisciplina, CS viene esclusa dal partito.
Convergencia Socialista
L’espulsione
vergognosa di CS esprimeva manifestamente la reale natura profondamente
riformista del PT, ma vanno precisati alcuni aspetti di quell’avvenimento che
hanno una importanza politica.
In realtà
la stessa CS non sviluppò una battaglia netta contro la propria espulsione.
Convergenza socialista aveva deciso, a maggioranza, che era giunto il momento di
abbandonare il PT. Realizzato un significativo rafforzamento organizzativo e un
profondo radicamento sindacale (l’area di CS nella Cut aveva raggiunto il
10% circa del sostegno nei congressi e ha mantenuto tale forza successivamente
come forza indipendente, avendo presente nell’esecutivo della confederazione
uno dei suoi principali dirigenti, l’operaio metalmeccanico Zè Maria, che
sarà candidato presidenziale nel 1998 e nel 2002) CS riteneva ormai inutile
restare nel PT, e visto la sua deriva pensava possibile raccogliere un sostegno
tra le masse in nome del (fasullo) richiamo al “PT delle origini” (sulle cui
ambiguità politiche abbiamo detto prima). Per questo cercò di favorire l’epulsione
col il suo comportamento concreto e non fece una battaglia centrale contro di
essa.
Si è
trattato, a nostro giudizio, di un grave errore di valutazione. Una confusione,
sempre possibile per i militanti rivoluzionari, tra i livelli di comprensione
dell’avanguardia politica attiva e quelli non solo delle grandi masse, ma
anche dell’avanguardia larga del movimento operaio. Per questa, fin tanto che
il PT restava all’opposizione dei vari governi borghesi, per le masse operaie
e il popolo di sinistra il PT restava il proprio legittimo partito classista.
Era, ed è quindi oggi, quella del governo la prova decisiva. Dal punto di vista
politico sarrebbe stato corretto porre oggi il problema della rottura e
della costruzione di una nuova forza politica indipendente.
Naturalmente
si tratta qui di un ragionamento generale. Nessuno può sapere se con altro
approccio CS avrebbe potuto evitare di essere esclusa allora o negli anni
successivi. Causa Operaria, come visto, era stata esclusa due anni prima e a
nulla era valsa la sua battaglia contro questa decisione, nè sui principi è
possibile transigere per dei marxisti rivoluzionari conseguenti. Convergenza
socialista era però assai più forte di CO e quindi la battaglia potenzialmente
più complicata per la burocrazia riformista. Certo se, come appare
oggettivamente improbabile, la corrente di CS fosse riuscita a restare dentro il
PT (o a rientrarvi successivamente) si sarebbe trovata in grado di dirigere una
ampia rottura del PT e, con l’evoluzione politica successiva cui accenneremo,
la costruzione di un partito di massa di opposizione si sarebbe trovata in
condizioni molto più positive di quelle attuali, dove la direzione del processo
di rottura è in mano a dei centristi organici come i deputati Babà e Luciana
Genro, provenienti dalla minoranza di CS, che rifiutò la strada della rottura
nel 1993.
La nascita del Pstu
Del
resto, malgrado la rottura, Convergencia Socialista restava ancorata ad un
approccio centrista di sinistra e non conseguentemente trotskista. Essa fece
appello ad un raggruppamento delle forze rivoluzionarie, ma rifiutò la
richiesta di Causa Operaria di parteciparvi. Da tale raggruppamento nacque, nel
1994, il Partito socialista dei lavoratori unificato (Pstu), che però era
sostanzialmente la vecchia CS (ovviamente senza il settore rimasto nel PT con
Babà) più pochi altri, quindi con le sue forze significative, come detto in
primo luogo nel sindacato, ma senza alcun salto qualitativo. I permanenti limiti
centristi del Pstu si evidenziarono in una sua iniziale adesione al Frente
Brasil Popular, cioè alla già ricordata struttura di potenziale collaborazione
di classe del PT. Fu solo nel ’96, anche in relazione al dibattito interno
alla Lit (vedi nota 9), che il Pstu compì una positiva svolta politica, ruppe
con il Frente e sviluppò finalmente una politica compiutamente contrapposta a
quella del PT, rompendo nei fatti col passato centrista e ponendosi, finalmente
sul terreno generale del trotskismo conseguente (13).
Nel 1998
e nel 2002 il Pstu si presenterà alle elezioni, raccogliendo rispettivamente
circa 300 e 450 mila voti, cifra ovviamente non insignificante, ma inferiore
all’1% dell’elettorato complessivo, segno di una mancata maturazione di
massa della reale natura della politica del PT.
Con
l’esclusione di CS il PT e la sua strutturazione interna acquistò la
strutturazione che ha sostanzialmente mantenuto in questi ultimi dieci anni. A
destra la corrente lulista di Articolazione, forte di circa il 55% del partito,
basata sulla maggioranza dei rappresentanti istituzionali, sulla burocrazia
sindacale maggioritaria della Cut, sulla maggioranza del cattolicesimo di
base e dell’associazionismo progressista. Tale area, il cui gruppo dirigente
si portava sempre più sul terreno del social-liberalismo, era costretta in
parte a mascherare questa sua politica, a causa della presenza al governo del
centrodestra moderato, guidato da Ferdinando Enrique Cardoso (per esempio
criticando progetti di legge sulla riforma previdenziale o scelte sul terreno
finanziario che il governo Lula sta oggi applicando e in forma anche
peggiorata). In riferimento a questo, per un periodo si staccò da Articolazione
una corrente di destra Democrazia radicale che in realtà propugnava apertamente
quello che i lulisti ufficiali dovevano mascherare.
A
sinistra una galassia di correnti (sostenute da circa il 35% del partito), con
cinque forze essenziali. Due trotskiste: la molto moderata e lambertista “O
Trabaio” e la Corrente socialista dei lavoratori (Cst) diretta da Babà (con
la successiva divisione del Movimento della sinistra socialista (Mis) di Luciana
Genro). Due di matrice stalinista o semistalinista, la Tendenza marxista, più
moderata e Forza socialista, più radicale. Infine la corrente più ampia di
tutte, Articolazione di sinistra (quasi il 15% del partito), che sotto la guida
di uno dei tre vicepresidenti del PT, Valter Pomar, si spostava a sinistra e,
per una fase, appariva la corrente più avanzata della sinistra del PT.
La degenerazione di Democrazia socialista
Infine,
formalmente di “sinistra”, ma nei fatti intermedia, tra i lulisti e la
sinistra, la corrente “pablista” di Democrazia socialista, (con circa il 10%
del sostegno nei congressi e conferenze del partito). Essa si pone come
copertura a sinistra dei riformisti, in particolare separandosi dal blocco di
sinistra e offrendo sponda ai lulisti, anche in funzione di supporto nei momenti
in cui essi sono privi di una maggioranza assoluta nel partito, a causa della
rottura formale sulla destra della corrente di Democrazia radicale.
Come
è possibile che una forza che si richiama al trotskismo sia giunta ad un tale
livello di abbandono di ogni approccio marxista all’azione politica? Le
ragioni sono complesse. In primo luogo, come sanno i militanti e simpatizzanti
della nostra Amr e i lettori della nostra stampa (e come ricordiamo alla nota
10) da molti decenni la corrente di cui fa parte Democrazia socialista (e nel
Prc l’associazione Bandiera rossa) ha abbandonato il trotskismo conseguente e
il richiamo al marxismo rivoluzionario rimane per essa sostanzialmente formale
(pur se alcuni militanti e settori credono di partecipare ad una internazionale
rivoluzionaria).
Tale
abbandono progressivo si è accentuato nell’ultima fase storica, in
particolare in riferimento al crollo dell’Urss, da cui il Segretariato
unificato pablista ha tratto la conclusione aperta della chiusura, per
un’intera fase storica, di ogni prospettiva di rivoluzione socialista,
sostituita dalla prospettiva utopistica e piccolo-borghese di una pretesa
“democrazia radicale”. In secondo luogo l’assurda mitologia del PT come
“partito di tutte le correnti legittime del movimento operaio”, soluzione
trovata rispetto alla difficolta di costruzione di un partito marxista
rivoluzionario – in breve quel rifiuto del leninismo che caratterizzò
dall’inizio l’insieme della sinistra del PT, ad eccezione di Causa Operaria
– fu vissuto più intensamente e compiutamente da DS, anche per le sue
posizioni politico-programmatiche generali. Così la prospettiva strategica di
DS divenne quella di realizzare una nuova maggioranza di centrosinistra
comprendente un’Articolazione depurata dei suoi settori più moderati (non
solo quelli usciti con Democrazia radicale), la stessa DS ed eventualmente un
settore della sinistra del partito spostato su posizioni più moderate. Il tutto
con Lula mantenuto come figura carismatica e con la prospettiva di un suo
governo, basato su un progetto riformista di natura keynesiana.
Questa
politica di DS esprimeva due realtà diverse. Da un lato l’orientamento di
alcuni dirigenti – in primo luogo il principale esponente, in particolare
sul piano internazionale, Joao Machado – passati ideologicamente su posizioni
sempre più centriste di destra, ma onestamente convinti della bontà della
prospettiva per i lavoratori di una strategia “a tappe” di tipo menscevico;
dall’altro la “struttura reale” di DS, cioè i rappresentati
istituzionali, in particolare a Porto Alegre e nello Stato di cui questa città
è capitale, il Rio Grande do Sul. Qui, dall’inizio degli anni novanta,
dirigenti di DS, come Miguel Rossetto, attuale ministro della riforma agraria, o
Raul Pont, erano diventati rispettivamente sindaco e vicegovernatore dello Stato
(lo stesso governatore Olivio Dutra è un simpatizzante di DS) e altri pablisti
con loro avevano assunto vari incarichi istituzionali. Nelle loro cariche di
governo essi avevano espresso una piena collaborazione di classe con la
borghesia locale, un piatto riformismo senza riforme, una contrapposizione
aperta ai lavoratori e alle loro lotte, il tutto coperto dalle stupidaggini
demagogiche sul “bilancio partecipativo” (14). Per questi signori la linea
opportunista di DS non era che l’espressione della materialità dei loro
interessi e legami, che si sono poi espressi nell’ingresso nel governo Lula e
nel sostegno alla sua politica neoliberale.
Le ultime conseguenze
Come
ricordato, la vittoria elettorale di Lula e la politica neoliberale del suo
governo sono stati oggetto di vari articoli su “Proposta”, “Progetto
comunista” e “Marxismo rivoluzionario”. Non è scopo di questo articolo
ritornarvi. Ci interessa invece trattare le conseguenze che questa situazione ha
avuto sulla sinistra del PT.
Per
quanto riguarda DS la nascita del nuovo governo ha portato alla logica
conclusione la sua degenerazione politica. Miguel Rossetto è divento ministro
dello sviluppo agrario. In questo quadro sta tentando di sviluppare un rapporto
concertativo con i latifondisti e si è distinto per le denunce contro la
“antidemocraticità” delle occupazioni di terra da parte del Movimento Sem
Terra (Mst), dando così una copertura ideologica alla azione squadristisca di
costoro, che hanno continuato impunemente a uccidere i contadini occupanti
(15).
Alcune
figure importanti si sono opposte a questa linea. All’interno
dell’organizzazione, Machado, che, appunto, a partire dal suo onesto moderato
centrismo, si è trovato di fronte alla realtà realizzata sul piano nazionale
di collaborazione di classe riformista, in forma neo-liberale. Tuttavia, segno
della natura reale di DS, si è trovato in assoluta minoranza a battersi contro
la partecipazione al governo.
All’esterno
dell’organizzazione si è sviluppata l’aperta opposizione della senatrice
Heloisa Helena, che è anzi diventata un punto di riferimento pubblico per i
settori di massa (in primo luogo i lavoratori pubblici) in conflitto con la
politica del governo Lula.
In realtà
Heloisa Helena costituisce una figura molto particolare all’interno di DS. Già
lavoratrice della sanità, legata ai settori più radicali del cattolicesimo di
base, figura di massa: questo era il suo ruolo e non quello di espressione
organica sul terreno istituzionale di DS e della sua politica. DS ha condannato
in una risoluzione pubblica il suo atteggiamento. Quanto a Helena a definito
pubblicamente “codardi” i deputati di DS che hanno votato a favore della
controriforma pensionistica del governo.
Per
quanto riguarda la sinistra vera e le sue varie correnti, essa ha evidenziato in
pieno tutti i suoi limiti centristi. Quasi tutte le correnti, dichiarata la loro
critica alla politica del governo, si sono affrettate ad inserirsi nel suo
ambito o ad indicare la necessita di non opporvisi. Così è stato per la
Tendenza marxista, per “O Trabajo”, per Forza socialista e per
Articolazione di sinistra. Per ingabbiare quest’ultima, il governo è giunto
al ridicolo di creare a bell’apposta un ministero della pesca, che come
struttura autonoma non era mai esistito, per inserirvi come ministro un suo
esponente.
L’unica
eccezione in questo sconfortante panorama è stato rappresentato dalle due
correnti “gemelle” della Convergenza socialista dei lavoratori e del
Movimento della sinistra socialista. I loro rispettivi dirigenti, Babà e
Luciana Genro, deputati al parlamento nazionale, dopo alcune tergiversazioni,
legate all’iniziale volontà di evitare la rottura col PT, hanno infine votato
– insieme ad un terzo deputato della sinistra PT, senza corrente, Joao Fontes
–, contro la legge di riforma pensionistica. Questo ha provocato il
deferimento dei tre deputati agli organismi dirigenti del partito con la
prospettiva dell’espulsione. Ugualmente sono stati deferiti gli otto che si
sono astenuti e che presumibilmente rischiano solo una sospensione.
Deferita
è anche la senatrice Helena, che per prima e più radicalmente si era espressa
contro la politica del partito. Tuttavia la situazione non è del tutto uguale:
Babà e la Genro, pur dirigendo significative correnti organizzate, non hanno il
prestigio pubblico che si è guadagnata Heloisa Helena. Inoltre, nel gruppo dei
deputati del PT la sinistra contraria alle sanzioni disciplinari conta circa 30
presenze su 90 (il che mostra, tra l’altro, che la loro maggioranza ha
votato a favore della controriforma previdenziale), mentre tra i senatori nove
su quattordici si sono pronunciati contro le sanzioni a Helena. Tuttavia le
ultime informazioni danno per probabili per il 24 ottobre, data di riunione
della direzione del partito, l’espulsione di tutti e quattro i dissidenti.
In
questo quadro si è aperto un ampio dibattito che ha coinvolto la sinistra più
radicale del PT, il Pstu, i settori sindacali piu radicali – tra cui il
sindacato dei professori universitari (Andes), il cui vicepresidente nazionale
è il compagno Osvaldo Coggiola, ben conosciuto da molti nostri lettori per i
suoi articoli sulla nostra stampa e per le varie conferenze in Italia, dirigente
del Partido Obrero argentino, che da molti anni risiede in Brasile per lavoro
(16). L’Mst ha pure partecipato a queste riunioni, ma tenendo, nonostante la
sua iniziale rottura col governo nell’aprile scorso, un atteggiamento di
cautela (17). Anche il Partito della causa operaria ha partecipato come
osservatore a queste iniziative.
Verso un nuovo partito operaio
La
necessità di una rottura col PT e del raggruppamento di una avanguardia
politica e di classe in un nuovo partito è una palese evidenza ed opportunità.
Lo scollamento tra un settore, ancora minoritario, ma crescente, delle masse e
il governo Lula e il PT rende plausibile e necessaria questa prospettiva (il che
non toglie nulla alla possibilità di una campagna nei confronti del partito o
dello stessa Lula perchè rompa con borghesia, latifondisti e Fmi; tesa a
smascherare nei settori più larghi possibili, ancora succubi dell’immagine
del “presidente operaio” o del “partito dei lavoratori” la vera natura
dei riformisti brasiliani e della loro politica).
Le forze
trotskiste conseguenti, non solo il nostro partito fratello Pco, ma anche il ben
più grande Pstu, non sono, allo stato, in grado di captare direttamente le
grandi possibilità esistenti. Ma questo non vuol dire che il raggruppamento di
per sè sia la soluzione dei problemi. Proprio gli avvenimenti brasiliani
dimostrano come le prospettive di classe siano legate allo sviluppo di un
conseguente partito marxista rivoluzionario. Il raggruppamento è un terreno
troppo importante per non essere agito. Ma deve al contempo essere un terreno di
battaglia dei troskisti conseguenti per il partito autenticamente
rivoluzionario.
Poche
settimane fà i tre deputati in procinto di essere espulsi, Babà, Genro e
Fontes, hanno annunciato che una volta che Il PT avrà deliberato tale misura
essi daranno vita ad un nuovo partito, che avrà il nome di Partito dei
lavoratori socialista (Pts). Hanno fatto anzi appello a Heloisa Helena a
raggiungerlo e ad essere la sua candidata per le elezioni presidenziali del 2006
(le ultime informazioni indicano che effettivamente appena esclusa Helena romperà
ufficialmente con DS e raggiungerà il partito in costruzione). Hanno anche
annunciato che nel nuovo partito si raggrupperanno deputati e senatori
dissidenti provenienti dalla sinistra PT, ma anche dal PcdB (dove quattro
deputati, su undici, hanno votato contro riforma previdenziale), dal Psb e dal
Pdt, che è l’unico partito che si è pronunciato contro la riforma.
Prospettando così un gruppo parlamentare di forse 20 deputati e una mezza
decina di senatori per lo stesso 2006.
In una
fase come questa non è, in sè, scorretto prospettare, in particolare in un
paese dipendente come il Brasile, l’unificazione anche con settori che rompano
realmente col populismo borghese o piccolo borghese. Ma una costruzione come
quella ipotizzata dai tre deputati della sinistra radicale appare centrata tutta
su un’ipotesi elettoralistica e verticistica: conquistare delle “personalità”
per farne il centro del futuro sviluppo di una nuova forza prevalentemente
elettorale. Non a caso l’iniziativa dei tre deputati radicali ha bypassato il
quadro di dibattito tra le forze di sinistra su ricordato.
Ma
soprattutto è l’aspetto programmatico che costituisce il più grande limite
dell’iniziativa. I tre dirigenti hanno infatti dichiarato che il programma del
nuovo partito è molto semplice da comprendere, essendo “lo stesso
programma che il PT ha portato avanti per venti anni” (sic!). Si può
pensare che in questa affermazione ci sia un qualche elemento di demagogica
strumentalità, ma ciò non annulla, nel metodo e nel merito, il carattere
opportunista del progetto di nuovo partito. Si rischia così che invece di una
nuova forza rivoluzionaria, fosse ancora inizialmente confusa, si costruisca
alla sinistra del PT una formazione riformista di sinistra o al massimo
“centrista consolidata”, che potrebbe diventare un nuovo ostacolo, invece di
una potenziale opportunità nella strada della costruzione del partito
rivoluzionario.
Il Pstu
ha risposto alla proposta dei tre deputati con una dichiarazione del suo
presidente Zè Maria che riteniamo corretta politicamente ma problematica sul
piano organizzativo. Zè Maria ha sottolineato i limiti opportunistici della
posizione di Babà, Luciana Genro e Fontes (il loro elettoralismo e le loro
gravi ambiguità programmatiche). Nel contempo la sua proposta organizzativa, a
nome del Pstu, e stata di questo tipo: “invece di costruire un nuovo
partito proponiamo di costituire un qualcosa di più fluido, un movimento in cui
aderiscano le varie forze, politiche e sociali, di opposizione di sinistra a
Lula; confrontiamo in esso le nostre varie opzioni strategiche; se le troveremo
convergenti formeremo il nuovo partito, se no potremo dare vita ad un fronte
elettorale”.
Ci pare
che il ragionamento dovrebbe essere diverso. Oggi c’è una potenzialità
crescente di dissenso almeno di un’avanguardia larga del movimento operaio e
popolare. I marxisti rivoluzionari conseguenti non sono oggi in grado di captare
direttamente la maggioranza di questo dissenso, anche perchè fuori dal PT nel
momento in cui elementi della sua sinistra, dopo molte esitazioni, si pongono
alla testa del processo di formazione di un nuovo partito. E’ fondamentale
essere parte attiva di questo processo. D’altro canto, il carattere centrista
delle posizioni di Baba, Luciana Genro, ecc. (al di là del loro richiamarsi al
trotskismo, cosa che pure ha la sua importanza per l’immagine pubblica della
nuova forza politica) è evidente, in passato e oggi; nè è realistico, allo
stato, pensare ad una loro evoluzione. Una discussione programmatica in un
quadro organizzativo fluido, tenderebbe a trasformarsi in una sorta di
discussione “intergruppi”, largamente limitata ai gruppi dirigenti, oggi su
posizioni strategicamente diverse e perciò su questo terreno incompatibili. Il
rischio di tutto ciò sarebbe quello di rafforzare i centristi, consegnando al
loro nuovo partito la maggioranza delle forze in rottura col lulismo (18).
La costruzione del partito rivoluzionario
Ci
sembra invece che la logica politica vorrebbe che i trotskisti conseguenti
accettassero la sfida della costruzione del nuovo partito, conbattendo nel
contempo apertamente le posizioni dei centristi, in primo luogo tra la base
della nuova formazione, ponendosi come alternativa programmatica, strategica e
di direzione ai Babà, Genro e ai loro alleati. Ci sembra questa, sulla base
della nostra attuale comprensione della realtà della sinistra brasiliana, la
via da seguire e per quanto ci riguarda auspichiamo che sia il Pstu, sia il
nostro partito fratello Pco, sia gli intelletuali troskisti come Coggiola e
altri agiscano, possibilmente unitariamente, su questo terreno. Che certamente
resta complicato esattamente perché i settori centristi radicali in rottura col
PT cercheranno probabilmente di escludere i trotskisti conseguenti dalla
partecipazione al nuovo partito.
Ci pare
di aver risposto alle questioni di fondo che abbiamo avanzato all’inizio di
questo testo. Per due decenni la sinistra centrista (e in primo luogo i
revisionisti pablisti del Segretariato unificato) e riformista di sinistra ha
presentato in tutto il mondo il PT come un esempio da seguire, come la forma
realizzata dell’unità classista. Hanno mitizzato Lula, come leader
carismatico, indiscusso e indiscutibile, anche quando avanzavano qualche
moderato distinguo rispetto alle sue posizioni.
Hanno
presentato come grandi conquiste rivoluzionarie forme di integrazione nello
Stato borghese delle masse (“bilancio partecipativo”) in un quadro di
collaborazione di classe. Se il Brasile fosse stato un paese con un regime
parlamentare e non presidenziale (quindi semibonapartista e da rigettare), con
un PT presumibilmente stabile sul 20% e all’opposizione, avrebbero
continuato a raccontarci questa favola (almeno fino al possibile successo di un
qualche governo di fronte popolare). La vittoria di Lula alle presidenziali ha
svelato la realtà. E ora queste forze sono in difficoltà, mentre la
maggioranza dei loro omologhi brasiliani o si traformano in riformisti
controrivoluzionari (Rossetto e compagnia) o si adattano alla situazione,
magari in cambio di un… ministero della pesca.
Ancora
una volta la lezione brasiliana mostra che non c’è altra via per il
proletariato e la sua avanguardia rivoluzionaria per avanzare verso la
liberazione dallo sfruttamento e verso il socialismo, che dotarsi di quello che
è passato alla storia come “partito leninista”: chiaro sui principi
programmatici, la strategia e le tattiche corrispondenti e sulla struttura
organizzativa, basata su un vero centralismo democratico, senza piccoli o
grandi leader supremi (Lenin non lo fu mai).
La
sua costruzione è un processo complicato e sulle sue fasi è necessario essere
flessibili (come affermava Trotsky: “Un partito marxista durante il
processo della sua formazione può a volte agire come frazione di un partito
centrista o anche riformista”) ma
l’obbiettivo deve essere chiaro e chiaramente perseguito, perché al di fuori
di esso non c’è politica rivoluzionaria. In Brasile. come in Italia. è
questa la strada su cui può e deve avanzare l’avanguardia marxista
rivoluzionaria, tra molte difficoltà, ma con potenzialità certamente superiori
a quelle del passato, anche recente.
Note
(1) Il piccolo Partito comunista brasiliano (Pcb), che esiste
tutt’oggi e fa parte della coalizione di Lula, non è che il minimo residuo
del vecchio Pcb che, a larghissima maggioranza, ha compiuto una svolta analoga a
quella dei DS portandola anzi più compiutamente a termine senza
“correntoni” o strutture analoghe e senza problemi rispetto al movimento
sindacale in cui è praticamente assente. Ha infatti dato vita al Partito
popolare socialista, borghese di centro, il cui rappresentante più
significativo è Ciro Gomes, più volte candidato alla presidenza della
repubblica, in contrapposizione a Lula, con risultati attorno al 15%
dell’elettorato (anche se oggi anche il Pps fa parte del governo). Quanto al
Partito comunista del Brasile (PcdB), cui fanno spesso riferimento i settori
neostalinisti italiani, compresi quelli interni al Prc, si tratto del vecchio
partito maoista ortodosso, equivalente brasiliano del Pcd’I(m-l) italiano
degli anni sessanta-settanta. E’ anch’esso oggi parte del governo, dopo aver
sviluppato in questi ultimi decenni politiche alla destra di quelle del PT.
(2) Tipico il fatto che la stampa non solo italiana di alcuni
partiti comunisti utilizzava questo concetto indicando poi come referente i
partiti comunisti di questi paesi, che in alcuni casi (Uruguay e Argentina)
giungevano all’abominio di cercare all’interno delle giunte dittatoriali e
assassine sedicenti settori “democratici e progressisti” con cui sarebbe
stato possibile dialogo e addirittura sostegno da parte del movimento operaio.
(3) Qui stiamo parlando di “regime fascista”. Il discorso
sulle specificità del fascismo come movimento di massa a base piccolo-borghese
utilizzato, in generale come risorsa estrema dalla grande borghesia contro il
proletariato e le sue conquiste, riguardano appunto il “movimento”. Se in
Italia negli anni venti o in Germania negli anni trenta il rapporto tra
movimento e regime fascista è stato organico, anche se in Italia dal 1922 al
1926 la trasformazione in regime compiutamente totalitario non era ancora
compiuta (e infatti il Pcd’I gramsciano, così come gli altri partiti, era
represso ma legale e presente in parlamento). Il caso spagnolo, come già
indicato, era più complesso per l’origine diversificata delle componenti del golpe
franchista, che in ogni caso diedero da subito origine ad un regime totalitario
e quindi di tipo fascista. In alcuni casi poi il rapporto diretto manca quasi
del tutto. E’ questo il caso del “regime dei colonnelli” nella Grecia del
1967-74. A causa della mancanza di un preesistente movimento piccolo
borghese di massa, alcuni teorici di tradizione marxista rivoluzionaria, come in
primo luogo l’allora principale esponente del cosiddetto segretariato
unificato, Ernest Mandel, si rifiutarono di qualificare come “fascista”
tale regime, definendolo “bonapartista” come le giunte militari latinoamericane.
Per chi scrive, come per altri marxisti rivoluzionari, questa analisi è
falsa. Il regime greco aveva infatti creata una società totalmente
controllata e quindi totalitaria. Ciò che conta evidentemente per la classe operaia
è questo. Ogni regime totalitario al servizio del grande capitale è un
regime di tipo fascista, quali che siano le sue origini particolari.
Parzialmente diversi i regimi tipo quelli sudamericani degli anni
sessanta-ottanta che per i pur limitatissimi spazi lasciati sul terreno
politico e/o sindacale furono classificati dall’insieme dei teorici e delle
correnti marxiste rivoluzionarie come “bonapartisti di destra”,
termine a cui chi scrive, come altri, ritiene che, almeno per i più repressivi
vada aggiunto quello di “semifascisti”. Queste distinzioni a prima lettura
possono sembrare di lana caprina. Invece hanno avuto, come si vide proprio
nell’esempio brasiliano una loro importanza.
(4) La struttura sindacale brasiliana era già prima della
dittatura irregimentata (e rimane, almeno formalmente, largamente tutt’ora)
in leggi organiche elaborate all’epoca del presidente Vargas. Questi era un
demagogo populista che realizzò una pretesa “rivoluzione” a base
militar-piccolo borghese contro il vecchio regime conservatore nel 1930 (che
inizialmente manteneva formalmente parlamento e pluralità di partiti), dando più
tardi vita ad un regime semifascista. Costretto alle dimissioni nel 1945, si
riciclò come “democratico” e sulla base di un programma nazionalpopulista
e “progressista” (alla Peron), fu rieletto presidente nelle elezioni
del 1950 (si suicidò di fronte ad una crisi politica nel 1954). Fu Vargas che
emanò leggi organiche sulla strutturazione sindacale basata su unicità di
struttura per ogni situazione locale o provinciale (per esempio tutti i
metalmeccanici della periferia Nord di San Paolo appartengono ad un solo
sindacato, quelli di San Paolo città ad un altro, i lavoratori della carne
dello Stato ad un’altro ancora ecc., per un totale di alcune migliaia di
“sindacati”, che ancora oggi si uniscono in confederazione in quanto tali
(per es. il sindacato metalmeccanici dell’Abc in quanto tale aderisce alla
Cut, quello dei metalmeccanici di San Paolo città alla rivale moderata
Cgt-Forza sindical, indipendentemente dall’opinione dei singoli iscritti o
delle singole rappresentanze aziendali). Già prima della dittatura militare i
sindacati, finanziati (questo vale ancora oggi) dallo Stato, vedevano la
presenza di una sorta di “controllore” nominato dal ministero del lavoro. I
militari lasciarono questa struttura nominando i loro uomini, in larga misura
militari.
(5) Nell’Abc, una zona con molte centinaia di migliaia di
abitanti si concentrano alcune delle maggiori fabbriche metalmeccanica, come
ad esempio la Volkswagen. Il sindacato metalmeccanico organizza dunque molte
decine di migliaia di lavoratori.
(6) Usiamo il termine di avanguardia perché originariamente
benché dotato di grande immagine e simpatia, il PT non riuscì a captare il
voto delle larghe masse. Alle prime elezioni democratiche infatti, il suo
risultato fu inferiore al 4%. La maggioranza del proletariato preferì infatti
riversare i suoi voti sulle formazioni più tradizionali, populiste e
clientelari.
(7) Parliamo naturalmente di una rivoluzione proletaria
conseguente, non delle rivoluzioni deformate a direzione staliniana che ebbero
luogo, nel quadro della situazione mondiale dell’epoca, negli anni quaranta e
cinquanta, dando vita a regimi burocratici. D’altro canto in alcune occasioni
storiche si sono avute rivoluzioni propriamente proletarie in cui i marxisti e i
comunisti rivoluzionari in generale fiancheggiavano forze centriste, a volti
egemoni (dalla Comune di Parigi alla rivoluzioni bavarese e ungherese del 1919).
Ma in questi casi, accanto a condizioni oggettive (in particolare per il primo
esempio) l’elemento soggettivo dell’assenza o della mancata egemonia di un
partito marxista rivoluzionario consolidato fu un fattore centrale di sconfitta.
(8) La forte presenza di ex guerriglieri nell’ala destra
del PT, ed oggi nel governo neoliberale (per esempio Josè Dirceu, già
presidente del PT – da quando Lula, diversi anni fa, divenne “presidente
onorario” a vita – ed oggi vero numero due di fatto del governo o Josè
Genoino, attuale presidente del PT) è significativa. Molto spesso, specie
nella sinistra italiana, per la debolezza della presenza e influenza del marxismo
rivoluzionario, si è confuso radicalità dei mezzi, con radicalità
programmatica e dei fini (il mito del guerrillero eroico). Le due cose
non coincidono. Si veda al proposito le posizioni di Marx ed Engels nei
riguardi dei democratici radicali del 1848 o il fatto che i bolscevichi si
contrapposero (senza rinunciare in alcune situazioni ad utilizzare tatticamente
azioni di guerriglia nelle campagne) ai “guerriglieristi” della loro epoca,
i socialisti rivoluzionari (S-R), che in grande maggioranza si schierarono
contro la rivoluzione d’ottobre. Naturalmente non vogliamo dire che tutti
gruppi guerriglieri e i loro componenti siano dei riformisti attuali o
potenziali, ma che solo un partito rivoluzionario marxista basato sul
proletariato industriale è lo strumento per realizzare una vera rivoluzione
proletaria e che chi sceglie altre strategie, in apparenza più rapide e
radicali, si oppone a questa prospettiva e può facilmente, una volta fallito il
suo sballato progetto militarista, essere risucchiato nell’accettazione
dell’esistente. Questo in America Latina, e non solo in Brasile, vale in
particolare per quelli che hanno praticato la guerriglie nella sua versione
“fochista” (cioè del piccolo gruppo d’avanguardia) sia contadina
che urbana. Perché per quanto bella umanamente e coerente politicamente possa
essere la figura del Che Guevara, la sua strategia politica era lontana dal
marxismo, inconsistente e obbiettivamente disastrosa per l’avanguardia.
(9) Il morenismo ha rappresentato storicamente una
importante corrente tra i vari movimenti che si richiamano
internazionalmente al trotskismo. Centrata essenzialmente sull’America Latina,
essa ha avuto come leader indiscusso l’argentino Nahuel Moreno (1921-86).
Dagli anni ottanta ha assunto il nome di Lega internazionale dei lavoratori
(conosciuta con la sigla Lit dalle sue iniziali in spagnolo). Principale partito
era l’argentino Movimento al socialismo (Mas). Questo, per i suoi errori
opportunisti e per una visione “catastrofista” della situazione argentina e
mondiale (con un correlato iperottimismo sulle potenzialità rivoluzionarie
proprio nel momento di più acuta crisi del movimento proletario) è esploso
agli inizi degli anni novanta, dando vita a diverse organizzazioni. La più
importante di esse è il Movimento socialista dei lavoratori (Mst centrista e
partner del PC argentino nel blocco riformista di sinistra Izquierda Unida)
che, dopo la rottura con la Lit, ha dato vita ad una nuova corrente
internazionale, la Unione internazionale dei lavoratori (Uit), cui partecipano
in Brasile le correnti di Babà e Luciana Genro (si veda il testo
dell’articolo). La Lit è così rimasta centrata, dopo il disastro argentino,
sulla sezione brasiliana (CS, poi Pstu). Essa ha tratto molte lezioni dalla sua
storia politica e modificato molte posizioni fondamentali in senso positivo.
Come scriviamo nell’articolo, Lit e Pstu, tirando quindi, almeno in larga
parte, il bilancio della loro esperienza hanno avuto una evoluzione positiva,
passando dal centrismo a matrice trotskista, del morenismo storico, al
trotskismo conseguente.
(10) Come sanno molti dei nostri lettori, il Segretariato
unificato è la corrente revisionista del trotskismo, centrista sempre più di
destra, che in Italia e nel Prc è rappresentata dalla corrente di “Bandiera
Rossa”. Sono anche detti “pablisti” dallo pseudonimo (“Pablo”) del
segretario della Quarta Internazionale che agli inizi degli anni cinquanta
elaborò le prime basi della teoria revisionista di cui il SU è
continuatore (in peggio) e il cui sviluppo portò nel ‘53 alla scissione dell’Internazionale.
Da ciò ha origine la crisi storica della Quarta Internazionale.
(11) Il lambertismo (dal nome del suo principale leader, il
francese Pierre Lambert) costituisce una corrente al contempo molto
opportunista e molto settaria del movimento trotskista, originatasi nel suo
settore “antipablista”. Il suo centro è in Francia dove esiste il partito
dominante della sua sedicente Quarta Internazionale, il Partito dei Lavoratori
(PT). E’ l’organizzazione diventata mediaticamente famosa anche perché
“infiltrò” nel PS il futuro primo ministro Lionel Jospin. Ne abbiamo
parlato su “Proposta” in particolare nel n. 33, nell’articolo sulle
elezioni presidenziali francesi.
(12) Il Pco, è l’organizzazione brasiliana che aderisce al
Movimento per la rifondazione della Quarta Internazionale (Mrqi), che è la
struttura internazionale di cui fa parte l’Amr Progetto comunista. Benchè
molto piccolo il Pco ha una presenza nazionale ed è conosciuto
nell’avanguardia e, in una certa misura, tra le masse, come il “partito più
radicale della sinistra brasiliana”. A ciò ha contribuito la scelta (a nostro
giudizio corretta, stante l’attuale separazione dal Pstu) di presentare un
proprio candidato, Rui Costa Pimenta (conosciuto da molti compagni in Italia per
le iniziative svolte con la nostra associazione, in particolare il meeting
internazionale del 7-12-02), al primo turno delle elezioni presidenziali del
2002. Benché il risultato sia stato molto modesto (circa 40.000 voti) la
campagna elettorale, anche con gli spazi gratuiti e ufficiali in televisione
hanno fatto conoscere il partito e il suo programma in una fascia ampia di
popolazione.
(13) Quando parliamo di trotskismo conseguente noi indichiamo
un’atteggiamento politico nella strategia generale e nelle tattiche
essenziali, conforme al programma e al metodo complessivo del marxismo
rivoluzionario. Per dei settari o dei dogmatici (a volte magari opportunisti o
revisionisti nel concreto) la conseguenzialità significa l’accordo sulla
più particolare teoria o l’insieme delle specificità tattiche. Con Lenin e
Trotsky questa concezione ci è estranea. Se consideriamo tale o tal’altra
organizzazione di origine trotskista come centrista non è in base ad una o più
differenze teoriche o tattiche specifiche, ma perché consideriamo nel concreto
che non operino conseguentemente, a partire da deviazioni teoriche sui principi
e/o opportunismi concreti e pressioni varie, per lo sviluppo delle prospettive
della rivoluzione socialista e del potere proletario. In questo senso ,pur
essendo piùvicini al nostro partito fratello Pco, consideriamo che anche il
Pstu sia diventato un partito fondamentalmente trotskista conseguente
(14) Nella concreta realtà e date le condizioni precise,
come abbiamo spiegato in altre occasioni sulla nostra stampa, il “bilancio
partecipativo” non è altro che uno strumento di cooptazione delle
masse nelle strutture locali dello Stato borghese, in un quadro di
collaborazione di classe.
(15) Il numero di “Carta” del 25 settembre/1 ottobre 2003
contiene una significativa intervista a Rossetto. In essa, a proposito delle
occupazioni di terre egli dice: “Riaffermiamo il nostro rispetto per
tutte le manifestazioni, ma il governo non tollererà alcuna infrazione alla
legge e allo stato di diritto”. Ecco la conclusione del processo politico
di degenerazione dei pablisti brasiliani: “legge, ordine e diritto (alla
proprietà dei latifondi)”. Nel mentre i latifondisti (su cui Rossetto non
dice una parola nonostante la domanda vertesse anche sul loro “bellicismo”)
hanno ucciso almeno 18 contadini; ma questo non appare un problema per il nostro
potenziale Noske. Quanto alla commissione parlamentare d’inchiesta sui Sem
Terra voluta dalla destra (formalmente all’opposizione del governo) ecco cosa
ne dice Rossetto: “La commissione è stata approvata dal potere
legislativo e dobbiamo rispettarne le decisioni”. Da non crederci,
parole da far apparire un Violante o un Castagnetti dei radicali. E i nostri
pretesi “marxisti-trotskisti” di Bandiera rossa accettano senza fiatare di
farsi rappresentante politicamente in Brasile da un tale soggetto
controrivoluzionario!
16) L’ultimo congresso della Cut, pochi mesi fa, è stato
dominato da una ampio, benchè confuso dibattito tra le varie correnti, in
particolare della sinistra, anche in relazione all’antidemocratica regola che
prevede che per essere rappresentati nell’Esecutivo Nazionale (organismo
ristretto di una quindicina di membri, eletto dal congresso; non esiste invece
l’equivalente di un direttivo nazionale) si debba ottenere almeno il 20% dei
voti del congresso. Alla fine, vincendo le resistenze dei settori centristi più
moderati (in particolare “O Trabajo”) che non volevano un blocco con il
settore del Pstu, si è presentata una lista di sinistra unitaria (lista 2) che
ha ottenuto circa il 30% dei voti. Dall’altro lato il blocco riformista (lista
1) che ha ottenuto circa il 70% dei voti è stato costituito dai sostenitori di
Articolazione, PCdo B e Democrazia socialista,salvo alcuni dissidenti di
quest’ultima. La posizione di DS è stata accolta da un coro di massa della
sinistra che gridava “DS, che pena. E’ la lista 2 che difende Helena”.
(17) Il Movimento dei Sem Terra e diviso sostanzialmente in
due correnti. Una, centrata nel Nordest povero del paese, che è molto radicale
nei metodi, ma molto confusa in termini politici. Il suo principale
rappresentante, Josè Rainha, piu volte incarcerato in passato è stato
recentemente condannato a due anni di prigione per “violenza”. L’altro
settore, che costituisce il gruppo dirigente centrale (con figure come Stedile o
Gilmar Mauro) è basato soprattutto nel Sud del paese ed è politicamente più
chiaro, ma condivide, in parte, i limiti della sinistra centrista del PT. Perciò
per il momento si comporta cautamente, pur avendo parzialmente rotto la
“tregua” iniziale col governo, e si tiene ancora sul terreno di una politica
di pressione sul governo. Tuttavia sembra indicare nella fine dell’anno il
momento in cui tirare un bilancio di questa politica e eventualmente rompere
apertamente col governo. Ciò che avrebbe certamente una significativa
importanza nella situazione.
(18) In questo quadro ci appare che abbia ben poca importanza o sia negativa l’ipotesi di un fronte elettorale, che farebbe apparire i rivoluzionari conseguenti come appendici del nuovo partito riformista di sinistra o centrista; a quel punto meglio sarebbe una differenziazione anche elettorale, che almeno sottolineerebbe le differenze di fronte alle masse.