Marxismo rivoluzionario n. 2 - filo rosso/ pietro tresso ("blasco") 1893-1943 

 

Ricorre in questi giorni il sessantesi­mo anniversario dell’assassinio di Pietro Tresso, già dirigente del Partito comunista d’Italia, amico di Antonio Gramsci, oppositore dello sta­linismo e fondatore della Quarta Internazionale, assassinato dagli stalinisti durante la seconda guerra mondiale.

A questa splendida figura di militante e dirigente comunista, colpevolmente trascurata e ignorata anche da molti di coloro che pretendono che la rifondazione comunista debba fare i conti con lo stalinismo, “MR” dedica questo dossier che contiene:

• l’ampio profilo biografico di Pietro Tresso tracciato da Ilaria Del Biondo;

• una nota di Franco Grisolia sulle ragioni del suo assassinio e i punti oscuri sui quali ancora non è stata fatta la luce dovuta;

• uno scritto dello stesso Tresso del 1937 in morte di Antonio Gramsci;

• un altro scritto del 1938 che discute delle ragioni che hanno condotto alla vittoria del fascismo in Italia e della responsabilità dei riformisti nel disarmare la classe operaia.

Con queste pagine non intendiamo solo fare un omaggio alla memoria ma rivendicare la continuità e l’attualità di un impegno e di un orientamento senza i quali nessuna rifondazione del comunismo è possibile. [T.B.]


 

VITA E MORTE DI UN COMUNISTA ANTISTALINISTA

 

Profilo biografico del fondatore e dirigente del Partito comunista d’Italia e amico di Gramsci, espulso per “trotskismo” dal partito nel 1930 per volontà di Togliatti, fondatore della Quarta Internazionale, assassinato in Francia dagli stalinisti durante la Resistenza

 

di Ilaria Del Biondo

 

 

“E’ proprio perché siamo    ancora giovani che ci ritroviamo fuori dalle diverse chiese. Se noi fossimo diventati vecchi avremmo ascoltato la voce dell’esperienza, saremmo diventati saggi, saremmo ricorsi come tanti altri alla menzogna, alla doppiezza e alla reverenza verso i differenti “figli del popolo”, ma questo non ci era possibile. Perché? Perché siamo rimasti giovani, e perché siamo sempre insoddisfatti di ciò che abbiamo, perché aspiriamo sempre a qualcosa di meglio. E chi non è rimasto giovane è in realtà diventato cinico; per loro gli uomini e l’umanità non sono che strumenti, mezzi che devono servire i loro scopi personali anche quando questi scopi sono dissimulati sotto frasi d’ordine generale. Per noi invece gli uomini e l’umanità sono le sole vie, le vere realtà esistenti.

A sessant’anni dalla sua tragica scomparsa le parole di questo straordinario militante del movimento operaio internazionale, vissuto tra le due guerre mondiali, nel “secolo più violento della storia dell’umanità”, caratterizzato dalla rivoluzione russa del 1917 e dalle sue ripercussioni profonde ed universali, ci appaiono ancora di un’attualità e di una freschezza inedita mostrandoci la morale e lo spirito che caratterizzò molti dei militanti dell’epoca e che, oggi, hanno analoga forza nell’indicarci un modo di affrontare la militanza.

La vicenda politico-esistenziale di Pietro Tresso, non priva di qualche contraddizione, inizia con l’adesione alla Gioventù socialista, passa attraverso l’esperienza del Pci, dove svolge un ruolo da dirigente del lavoro clandestino nel periodo della dittatura fascista e, successivamente alla sua espulsione nel 1930, lo troviamo nella fila del movimento trotskista, in Italia e in Francia tra i dirigenti della Quarta Internazionale. Tratteggiando il suo profilo biografico, cioè, ci si imbatte nelle vicende delle tante “famiglie” all’interno del movimento socialista, comunista e trotskista, e nella storia, più generale, del movimento operaio italiano come internazionale. Nella storia di quel movimento del quale Tresso si è sempre sentito parte integrante, non perdendo mai, pur entrando nel Pcd’I dopo il congresso di Lione, come “rivoluzionario di professione”, il suo “essere operaio”. Perfino la sua morte, a più di mezzo secolo di distanza ci parla di una di quelle “famiglie”. Ci parla del fenomeno dello stalinismo e ci descrive la morte in un campo partigiano di compagni tenuti come prigionieri. Oggi sulla morte di Tresso nel 1943 dopo la spettacolare fuga dal carcere di Puy en Valey, come sui crimini dello stalinismo si sa molto; il muro di silenzio “per non nuocere al Partito”, elemento costitutivo della complicità sui crimini, è venuto meno, si è incrinato di fronte alla parabola storica dell’Urss. La verità è emersa come nelle interviste agli ex del Wodli di Raymond Vacheron riportate nel libro di Pierre Broué (1 ); nelle voci piene di dubbi, incertezze e astuzie di coloro che, stalinisti, furono a loro volta vittime dello stalinismo.

   

La gioventù socialista: 1908-1921

Tresso nasce il 30 gennaio 1893 a Magrè di Schio (nei pressi di Vicenza). Nasce, in una terra, quella veneta, caratterizzata da una solida tradizione religiosa quando la crisi della campagna, in coincidenza con lo sviluppo industriale, produce trasformazioni sociali e un esodo migratorio tra i più numerosi del secolo. Apprendista sarto dall’età di nove anni, svolge attività politica di propaganda nel suo paese fondando il Circolo giovanile socialista di Magrè. Verso il 1914 si dedica all’attività sindacale tra i contadini, segnalato, infatti, come uno dei giovani più promettenti viene inviato prima a Milano, per un corso sulla legislazione operaia all’Umanitaria, e poi a Gravina di Puglia, uno dei più grossi centri agricoli della Murgia, dove è in prima linea nella battaglia per il minimo salario garantito e contro l’umiliante contrattazione individuale della forza lavoro tra i contadini del luogo.

La sua esperienza sindacale s’interrompe nel 1915 quando viene chiamato alle armi. Nei primi mesi del 1917 appare come imputato al processo di Pradamano insieme ad altri soldati accusati di aver diffuso i deliberati della Conferenza di Zimmerwald. Assolto per insufficienza di prove, viene spedito al fronte ma nel 1917 ritorna a Schio. Qui il rafforzamento delle organizzazioni di classe nel 1919 è straordinario, anche se esplodono i contrasti tra le due correnti dei massi­malisti e dei riformisti. Tresso, esponente emergente del massimalismo, è nel 1920 redattore di “El Visentin”, e consigliere comunale e provinciale. Pur essendo ancora legato alle posizioni del massimalismo serratiano, iniziano a maturare in lui riflessioni che lo portano spesso ad esprimere posizioni differenti da quelle dei suoi compagni di partito. Lontano dall’e­sperienza torinese dell’”Ordine Nuovo”, di cui coglie però l’importanza, senza per questo essere bordighista, di cui non condivide le tesi astensioniste, Tresso si allontana dalla corrente dei massimalisti.

 

La clandestinità nel Pcd’I

Nel gennaio del 1921 aderisce al neonato Partito comunista d’Italia e diviene direttore del nuovo periodico locale “La lotta comunista”. Il dilagare della violenza fascista lo costringono nella primavera del 1921 a partire per Milano e successivamente, dopo aver subito una aggressione, si reca a Berlino. Qui, collabora alla “RGI”, la rivista dell’Internazionale sindacale rossa (Isr), pubblicando una decina di articoli sul fascismo e svolge un’attività clandestina a favore degli esuli. Nel novembre del 1922 partecipa ai lavori del IV congresso dell’Internazionale comunista (IC) e al II Congresso dell’Internazionale sindacale rossa, a Mosca dove era giunto pochi mesi addietro. Ma dopo l’arresto di numerosi membri del comitato esecutivo del Partito si pone, data anche la mancanza di quadri sindacali, la necessità del suo rientro in Italia.

Nel giugno del 1923 si tiene il terzo esecutivo allargato dell’IC, le polemiche e le analisi radicalmente opposte della maggioranza del PCd’I e le presunte responsabilità di Bordiga nel fallimento dell’unificazione pongono all’Internazionale il problema della direzione che viene risolto da Mosca con la nomina di un nuovo comittao esecutivo del Partito. Ha così inizio, un processo che porta alla formazione di un nuovo gruppo dirigente intorno alla figura di Gramsci. Il dibattito, che nei primi mesi del 1924 investe il grup­po dirigente del PCd’I, raggiunge un momento assai significativo durante la conferenza di Como nella metà di maggio. Emerge così un atteggiamento largamen­te indicativo degli umori della base: irritazione e sorpresa per dissensi interni che si ignoravano quasi del tutto, ostilità nei confronti della destra e diffidenza verso l’atteggiamento equivoco del centro. E’ questo l’atteggiamento dello stesso Tresso che per tutto il corso del 1924-25 si occupa quasi esclusivamente del lavoro sindacale, reso sempre più complesso dal precipitare della situazione a seguito del restringi­mento dei margini di legalità. Con il patto di Palazzo Vidoni (20 ottobre 1925) tra le corporazioni fasciste e la Confindustria, il potere contrattuale della Confederazione generale del lavoro (Cgl) è nullo. L’attività sindacale ormai è relegata nella clandestinità. Le già difficili condizioni di lavoro peggiorano alla fine di ottobre quando vengono varate le leggi fascistissime. E’ in questo periodo che Tresso assume un ruolo decisivo nella battaglia per sconfiggere, nel generale senso di smarrimento prodotto dalla repressione fascista, le due correnti liquidatrici nel partito e nella Cgl. Si occupa dell’ufficio clandestino, ma gli strascichi di pesanti episodi di delazione lo portano ad abbandonare momentaneamente l’Italia, mentre le vicende del PCd’I si vanno sempre più intrecciando con quelle dell’IC e delle lotte interne al partito russo, e il “caso Wittorf” porta alla formazione di un conseguente “caso Tasca”.

 

Dal dibattito sulla situazione italiana all’espulsione: 1928-1930

Mentre Tresso è a Berlino, incaricato del CC di rappresentare il PCdI al XII congresso del partito tedesco, si svolge a Mosca il X plenum del Comitato esecutivo internazionale (Cei, 3-19 giugno 1929). Esso sancisce la disfatta dell’opposizione di destra guidata da Bucharin e la capitolazione di alcuni noti esponenti dell’opposizione di sinistra a Stalin (Radek, Préobrazensky e Smilza) e l’irrevocabile scelta di Togliatti, un totale atto di fede nell’Internazionale. Al ritorno da Mosca della delegazione italiana viene convocato l’UP nel quale dovrà essere recepita la nuova linea politica. E’ da questo UP (28 agosto 1929) che all’interno del PCd’I si inizia a manifestare un’opposizione, in particolare in merito all’organizzazione politica conseguente alla cosiddetta “svolta del terzo periodo”. La linea uscita dal X plenum, quella della crisi finale del capitalismo e della radicalizzazione delle masse, era quella da sempre propu­gnata dalla Federazione giovanile comunista (Fgc). Così è Longo ad elaborare tutta una serie di proposte tese a adeguare l’attività del partito alla politica dell’Internazionale, note come “progetto Gallo” (Gallo è lo psudonimo di Longo), che trovano la massima espressione nella richiesta della ricostruzione di un centro interno. A questa ipotesi si oppongono Tresso, Leo­netti e Ravazzoli che presentano un controprogetto, noto come “contro­pro­getto Blasco” (Blasco è già all’epoca il nome di battaglia di Tresso). I rapporti tra la maggioranza e l’opposizione degenerano in breve tempo fino alla frettolosa espulsione dei “tre” (a cui si sono aggiunti Teresa Recchia e Mario Bavassano) sancita nel comitato centrale del 9 giugno 1930 per essersi messi in contatto con i trotskisti, aver condotto una campagna calunniosa contro il Pci e per avere una “errata valutazione delle prospettive del regime fascista”.

 

Da “La Vérité” alla Nuova opposizione italiana: 1930-1933

La lettera documento del 5 maggio 1930 redatta da Tresso e trasmessa a Prinkipo, dove Trotsky si trovava in esilio dal 1929, sancisce l’adesione dei cinque all’Opposizione di sinistra internazionale (Osi). E’ con questa lettera che si rivela una maturazione dell’analisi sia in merito alla situazione politica italiana sia per quanto riguarda il dibattito all’interno del movimento operaio. Le divergenze rispetto alla linea elaborata dal PCd’I riguardano l’analisi della situazione italiana, la riflessione sul ruolo della socialdemocrazia e sulla natura del fascismo (inteso come “il metodo particolare di dominio al quale la borghesia italiana, nell’attuale sua fase imperialista, è stata costretta a fare ricorso per garantire il proprio potere”). Grandi sono le analogie con l’analisi di Trot­sky sul regime fascista quale intreccio tra due processi: l’uno, la conversione delle classi dominanti all’autoritarismo aperto determinante per la definizione del quadro generale della fase storica; l’altro, la rivolta delle classi medie essenziale per definire la configurazione politica specifica assunta da quel potere auto­ritario.

Dal momento della loro espulsione sino alla comparsa del primo numero del loro Bollettino i “tre”, attraverso gli interventi su “La Vérité”, pensano di poter allacciare contatti con l’immigrazione italiana ed elaborano la Résolution de l’opposition italienne - La situation en Italie et le taches du Parti comuniste, che fissa in 16 punti le rivendicazioni di carattere transitorio ed immediato. A partire dall’aprile 1931 la Noi stampa un proprio bollettino che verrà pubblicato fino al giugno 1933 permettendo loro di replicare alle calunnie che vengono propagandate dalla stampa del PCd’I.

 

L’Opposizione di sinistra in Francia

Quando la Noi entra a far parte dell’Osi tutti i suoi membri si trovavano in Francia, sicchè il processo di formazione della sezione italiana si intreccia, a più riprese, con le vicende della Ligue Communiste. L’Opposizione di sinistra in Francia nasce immediatamente dopo la XII conferenza del partito bolscevico in Russia (gennaio 1924) quando Boris Souvarine prende posizione in favore dell’Opposizione. Da quel momento nel Pcf si susseguono una serie di espulsioni. Ma la situazione è nel 1929 fortemente frammentata. Gli sforzi per la costituzione di un’opposizione unificata in Francia trovano il loro coronamento solo con la creazione de la “La Vérité” (15 agosto 1929) e la nascita nel 1930 della Ligue Communiste. Inizialmente i rapporti tra la Noi e la Ligue sono dei migliori, ma ben presto gli oppositori italiani si trovano coinvolti nella lotta di frazione che dilania la Ligue. Uno dei motivi di contrasto con la Noi è il ruolo svolto da Tresso nella Ligue (egli entra nel comitato esecutivo verso la fine del 1930).

La degenerazione dei rapporti porta Tresso ad optare per il lavoro esclusivo nella Ligue. Le cause dell’allontanamento dalla Noi vanno ricercate nella mancanza di legami con l’Italia tale da portare Blasco a optare per il lavoro in un’organizzazione, la Ligue, con un peso reale nel movimento operaio. Questa è l’occasione per dedicarsi anima e corpo al lavoro sindacale. In realtà anche all’interno della Ligue ci si confronta su questioni importanti. Tresso cerca di tenersi fuori dalle lotte di frazione ma vi si trova coinvolto quando la polemica sull’intervento sindacale chiamerà direttamente in causa la sua esperienza, facendo di lui l’artefice della politica sindacale adottata dalla nuova direzione di Molinier (che in quest’occasione s’impose sugli errori del gruppo Naville).

 

La fine della Nuova opposizione italiana 

Nel 1932 i rapporti tra la Noi, impegnata nel processo di riorganizzazione interno ed esterno, e la Ligue sembrano più distesi. Ma ben presto rinascono i problemi rispetto ai rapporti anche nella loro definizione organizzativa tra le due sezioni. Intanto si tiene a Parigi l’importante preconferenza internazionale dell’Osi (4-8 febbraio 1933) vi partecipano tre italiani: Leonetti, Tresso e Barbara, la compagna di Blasco. L’obiettivo principale è quello di preparare il terreno per lo svolgimento della prima conferenza internazionale dell’Osi da tenersi nel luglio 1933. Il tema centrale è l’analisi dagli avvenimenti tedeschi dopo la nomina di Hitler a cancelliere.

E’ in questa occasione che Blasco entra a far parte del segretariato internazionale. Con l’approvazione delle decisioni della preconferenza, la Noi cambia denominazione e diviene la sezione italiana dell’Opposizione internazionale di sinistra (bolscevico-leninista).

Ma i rapporti non migliorano all’interno e le divergenze assumono la forma delle dimissioni, della richiesta di “autoscioglimento” della Noi e infine, dell’immediata espulsione di Fosco e Blasco il 9 aprile 1933. Nonostante il ritiro delle espulsioni, sotto l’insistenza del segretariato internazionale, non si arriva ad una normalizzazione dei rapporti.

Il “caso Blasco” trova la sua naturale soluzione solo nello scioglimento di lì a pochi mesi, nel giugno 1933, dell’opposizione italiana.

 

Il movimento trotskista in Francia e in Italia: 1933-1938

L’esperienza tedesca nel periodo che va dal 1928 al 1933, è un vero e proprio banco di prova non solo per il Partito comunista tedesco, ma per la stessa Internazionale e per l’Osi. Già alla preconferenza dell’Osi, esso aveva monopolizzato l’attenzione. In quell’assise la vittoria del nazismo veniva considerata ancora evitabile e si rilanciava la parola d’ordine del fronte unico delle organizzazioni proletarie tedesche. Ma il 27 febbraio, quando il Reichtag viene incendiato dai nazisti e prende avvio una sanguinosa repressione contro comunisti e socialisti emergono le responsabilità dell’IC e del Partito comunista tedesco che con la propria opposizione all’unità di azione tra tutti i lavoratori avevano determinato l’inerzia, la passività e la mancanza di una ben che minima resistenza del proletariato tedesco nei confronti del crescente pericolo nazista.

Trotsky pone la questione della creazione del nuovo partito in Germania, l’importanza della sua riflessione fa emergere dei problemi, soprattutto in merito alla tattica da adottare nei confronti dell’IC. La decisione di costruire il nuovo partito – e molti militanti ritenevano necessario non limitare questa esperienza alla sola Germania – reca in sé la prospettiva della costituzione di una nuova internazionale. Ma appunto in prospettiva: infatti, solo dopo aver costatato, nei mesi che seguirono, tra il marzo e il luglio 1933, la totale passività dell’IC e dei militanti comunisti, Trotsky, nell’agosto, invita l’opposizione internazionale a lavorare per la costituzione della Quarta.

 

Militante del movimento operaio francese: 1934-1937   

La ripresa dell’attività della classe operaia ed un’improvvisa radicalizzazione delle masse tra la fine del 1933 e gli inizi del 1934, legata alla situazione interna francese, ribalta la tendenza degli anni precedenti. Il 12 febbraio operai socialisti e comunisti si confondono spontaneamente in una grande, sola, manifestazione; l’unità diventa così un fatto concreto. Inizia un processo tra la Sfio e il Pcf che li porterà, il 27 luglio, a siglare un patto d’unità d’azio­ne, caratterizzato dalla difesa nei confronti del movimen­to fascista, ma senza la prospettiva di rovesciare la borghesia e che si pronuncerà poi per la collaborazione di classe. Ciò nondimeno il 1934 segna per la Francia una svolta politica.

Anche la Ligue è chiamata ad una svolta. Paradossalmente, proprio nel momento in cui i lavoratori francesi impongono l’unità ai propri dirigenti, sancendo una vittoria politica per la Ligue (che ha sempre condotto la propria azione all’insegna del fronte unico), il rischio dell’isolamento diviene quanto mai pericoloso.

Di fronte a questa nuova situazione Trotsky propone alla sezione francese una tattica “entrista” nella Sfio, con l’obiettivo della creazione di un polo bolscevico per la Quarta Internazionale, passando per la scissione del Partito socialista. Concepito in questo senso, l’ingresso nella Sfio non si configura come una svolta dal punto di visto dei principi, ma nella Ligue la nuova tattica suscita grosse reticenze e perplessità. Il 14 settembre 1934, quindi, quando l’ingresso dei trotskisti viene uffi­cialmente annunciato sulle colonne de “Le Populaire”, il gruppo Naville-Tresso, che non condivide la scelta, smentisce la notizia e fonda il Groupe Communiste Internationaliste (Gci); poco dopo, tuttavia entra anch’esso nella Sfio. Con l’approssimarsi del congresso socialista i due gruppi trotskisti sono indotti ad elaborare una piattaforma comune. Inizia una stretta collaborazione fino all’annuncio della fusione nel “Bulletin intérieur aux membres du Gbl” dell’agosto 1935.

Ma la vita dei trotskisti all’interno della Sfio si fa sempre più difficile. E’ Trot­sky a considerare per primo, analizzando la nuova situazione realizzatasi con l’Union Sacrée, la possibilità di porre fine alla “attica entrista e quindi alla permanenza nella Sfio. La maggioranza dei Gbl considera l’uscita prematura e non comprende la necessità della nuova svolta, e la minoranza mostra delle esitazioni ad opporsi apertamente al “Fronte popolare”. Trotsky segue con sgomento e interesse le vicende del Gbl fino alla costituzione il 2 giugno 1936 del Parti Ouvrier Internationaliste (2 ).

 

Militante del movimento operaio italiano: 1934-1937   

Il 1933 segna, come si è già detto la fine della Noi. Bavassano e la sua compagna Teresa Recchia si legano al gruppo “juif” che si oppone alla svolta verso la Quarta Internazionale e Ravazzoli si allontana definitivamente dall’organizzazione trotskista.

Oltre alle tensioni create dalle divergenze più prettamente politiche, esplode il “caso Leonetti”, frutto di una provocazione del Pci. Solo nei primi mesi del 1934 la sezione italiana ritrova una certa stabilità politica. Il processo di riorganizzazione della Noi trae linfa dall’afflusso di nuove forze. Così, nel marzo 1934 appare “La Verità”. Il giornale viene stampato su quattro pagine, e il suo titolo richiama alla memo­ria la “Pravda” bolscevica e “La Vérité” francese. A spingere i trotskisti italiani verso questo ambizioso progetto sono senza dubbio gli avvenimenti del febbraio in Francia.

L’esperienza de “La Vérité” viene salutata calorosamente da Trotsky e riceve alcuni consensi impor­tanti nell’ambiente dell’emigrazione. Ma il giornale non sopravvive al difficile retroterra politico formatosi alle spalle dei due princi­pali militanti italiani, Tresso e Leonetti. Ciò che porta alla fine di questa esperienza è la loro rottura con una consistente minoranza, guidata da Di Bartolomeo. Nella primavera del 1934 il gruppo di minoranza abbandona la sezione italiana dell’opposizione per dare vita a “La nostra parola”. Il nuovo clima e il mutamento della strategia comunista, che nel luglio del 1934 si modifica bru­scamente, favoriscono la realizzazione di un’unità d’azione tra i due maggiori partiti operai italiani. Il patto, sul modello francese è siglato il 17 agosto 1935. Anche per i due gruppi trotskisti italiani si pone il problema della tattica entrista. E due mesi dopo l’ade­sione di Tresso, inizialmente contrario, avvenuta nel febbraio 1935, anche il gruppo “La Nostra Parola” entra nelle file del Psi. Cosicché a partire dalla primavera del 1935 tutti i trotskisti italiani, ad eccezione di Leonetti, si trovano all’interno del PSI, divisi in due gruppi: il Gbl di Tresso aderenti al Psi e il gruppo “La nostra parola”. Nei mesi successivi si assiste ad un lento avvicinamento tra i due gruppi fino alla costruzione del Gbl unificato nel maggio.

La ripresa mussoliniana dell’iniziativa in politica estera con l’invasione dell’Etiopia crea, secondo Tresso, un’occasione unica, la prima dall’assassinio di Matteotti, da sfruttare contro il fascismo; ma nel quadro del fronte popolare, e in scia alla linea del VII congresso (3 ) dell’IC, il PCd’I arriva fino al punto di proporre un allargamento di quest’ultimo a settori dei fascisti stessi e a redigere l’”Appello ai fratelli in ca­micia nera”, facendo fallire questa possibilità.

A partire dal luglio-agosto 1936 le notizie relative al gruppo dei bolscevichi-leninisti italiani divengono più frammentarie. Di sicuro si sa che Tresso partecipa, assieme a Leonetti, alla conferenza internazionale per la Quarta (Parigi, 29-31 luglio 1936). E’ questo per le forze trotskiste italiane un periodo complesso: la partenza di numerosi militanti per la Spagna ridimensiona il loro organico e ciò fa sì che il n. 2 del “Bollettino d’informazione” (1 agosto 1936) sia anche l’ultimo. In agosto le minacce di espulsione da parte del Psi si fanno sempre più pressanti, ma la repressione antitroskista viene sospesa a causa dell’indignazione che suscita il primo dei processi di Mosca che si svolge nello stesso mese. In questo clima pesante, fatto di vere e proprie persecuzioni da parte del PCd’I e dei fascisti c’è chi nelle file trotskiste abbandona la lotta: tra questi un dirigente di lunga data, Leonetti.

 

Fondatore della Quarta Internazionale

Negli ultimi giorni di settembre, dopo un intenso lavorio diplomatico, si arriva ad una vera svolta che provoca il crollo del quadro di riferimento internazionale della politica di Fronte popolare. Il 30 settembre si incontrano a Monaco di Baviera Chamberlain, Daladier, Hitler e Mussolini. La diplomazia sovietica, che da anni lavorava per stabilire un rapporto organico con le de­mocrazie occidentali e in particolare con la Francia, viene esclusa dal vertice.

A partire dall’inverno 1937-1938 in Francia la tensione sociale si fa nuovamente alta, in risposta alle provocazione del padronato e del governo. A marzo è la volta dei metallurgici e proprio in se­guito a questa nuova manifestazione della combattività ope­raia cadono Chautemps e un successivo governo Blum per lasciare il posto ad un governo radicale con il sostegno astensionista di Sfio e Pcf (12 aprile). Ma gli apparati burocratici dei due partiti maggiori della classe operaia mantengono la loro egemonia, guadagnano la guida degli scioperi e ne determinano le disastrose conclusioni come testimonia il tragico fallimento dello sciopero generale del 30 novembre, proclamato tardivamente, senza convin­zione, in condizioni tali da renderne il fallimento certo. Da questo momento la borghesia è finalmente in grado di scatenare la propria offensiva. Arresti e licenziamenti in massa sono all’ordine del giorno e chiudono così la pagina del governo di Fronte popolare.

Il 23 agosto 1939 è annunciato il patto Stalin-Hitler, che sconvolge lo stesso panorama politico della Francia. Dal 25 agosto cominciano i sequestri dei giornali dei grossi partiti operai e delle organizzazioni sindacali. Il primo settembre Hitler invade la Polonia e due giorni più tardi la Francia è in guerra contro i nazisti. Il 26 settem­bre il Pcf è messo fuori legge. Il 16 giugno, con le truppe tedesche a Parigi, il governo in fuga a Bordeaux, il parlamento conferisce i pieni poteri al generale Pétain, libero di collaborare con i nazisti sui resti della Francia libera.

Nel precipitare degli eventi Tresso partecipa in qualità di delegato, con lo pseudonimo di Julian, alla conferenza di fondazione della Quarta Internazionale (3 settembre 1938). Essa si tiene a Perigny, nei dintorni di Parigi, clandestinamente per timore d’azioni della Gpu. Vi partecipano 21 delegati in rappresentanza di 12 paesi (altre 17-18 sezioni non furono in grado di inviare i propri rappresentanti). Il dibattito congressuale ruota principalmente attorno al progetto di programma elaborato da Trotsky intitolato L’agonia del capitalismo e i compiti della Quarta internazionale, noto anche come Il programma di transizione. La fondazione della Quarta risponde per Trotsky alla necessità di radunare attorno ad un programma politico rivoluzionario i militanti e le organizzazioni che lottano in differenti paesi contro le conseguenze della degenerazione delle due precedenti Internazionali, per costruire i nuo­vi partiti rivoluzionari. Sicuramente la fondazione della Quarta e l’adozione del programma consentiranno al movimento trotskista di resistere alle tremende pressioni dei nuovi, tragici, avvenimenti che si delineano all’orizzonte, frenando la disgregazione organizza­tiva provocata dagli eventi bellici.

 

Dalla clandestinità all’arresto

Dalla fondazione dell’Internazionale gli eventi si susseguono assai rapidamente. Nel 1938 si manifestano con chiarezza la sconfitta della rivoluzione spagnola e quella dei lavoratori francesi. Lo scenario che delinea la seconda guerra mondiale è quello di una scompaginazione e di una dispersione nelle organizzazioni operaie. Il Segetariato internazionale della Quarta è costretto a trasferirsi a New York dove si riunisce una Confe­renza straor­dinaria (detta anche “di emergenza”, 19-26 maggio 1940) della nuova Inter­nazionale trotskista. Il Manifesto, redatto per l’occasione da Trotsky è il suo ultimo documento programmatico. La sua morte in Messico, il 20 agosto 1940, per mano di un sicario di Stalin, arreca un durissimo colpo al movimento. Per di più, le difficili condizioni di lavoro politico imposte dalla guerra accentuano ulteriormente la debolezza sog­gettiva delle organizzazioni trotskiste ed evidenziano la profonda crisi delle loro direzioni.

La sezione francese non fa eccezione a questa norma generale. Tresso, nel­la zona occupata, continua il lavoro politico clandestino, ridotto, almeno in un primo tempo, a qual­che incontro difficile da organizzare e a qualche discussione sul da farsi e sull’orientamento da assumere. Ricercato dalla Gestapo, alla fine del luglio 1941 lascia Parigi e raggiunge la “Francia libera” a Marsiglia. E’ in contatto con Albert Demazière a quel tempo responsabile politico dei Comitati per la Quarta Internazionale. Nascosto sotto l’identità di Julien Pierotti, riceve i soldi che dagli Stati Uniti il Segretariato internazionale invia in Francia per la riorganizzazione del Parti Ouvrier Internationaliste. Diviene anche collaboratore del Centre Américan de Secours (Acs), che provvede all’espatrio delle vittime della repressione fascista e nazista.

Nel giugno del 1942 Tresso, Barbara e Demazière sono arrestati assieme ad altri cinque militanti “di primo piano” dalla polizia di Vichy. Processati, il 30 settembre 1942 vengono condannati, a eccezione di Barbara, a pene diverse per aver “esercitato un’attività proibita avente direttamente o indirettamente per obiettivo la propaganda di parole d’ordine emananti o attinenti alla Terza Internazionale”: quella di Stalin, il colmo per dei trotskisti. Tresso, Demazière e Reboul vengono quindi trasferiti in una prigione militare e successivamente al campo di Mauzac (in Dordogna). Nel campo la tensione tra i trotskisti e gli altri detenuti è fortissima e decresce solo dove, con grandi difficoltà, si riesce ad instaurare una discussione elementare.

Il 18 dicembre 1942 Tresso, Demazière e Reboul vengono spostati al carcere di Puy-en-Velay. Qui ritrovano altri militanti trotskisti: Maurice Ségal e Abraham Sadek.

Nell’autunno viene organizzata l’evasione di 79 prigionieri politici e del loro guardiano dalla prigione di Le Puy. E’ una sfida enorme: il secondino è un militante socialista in contatto con la rete dello Special Operations Executive inglese, specializzata nelle evasioni dalle prigioni. La notte del 1 ottobre 1943 tutti i prigionieri, compresi i cinque trotskisti, vengono liberati. Divisi in due drappelli, il gruppo di cui fa parte Tresso, si installa nel campo “Wodli”, in località detta Raffy (Haute-Loire). Demazière riesce a fuggire, Tresso, Reboul, Ségal e Sadek rimangono invece nel maquis, dove “soggiornano” fino alla metà di novem­bre del 1943.

In questo periodo i quattro compagni sono costantemente sorvegliati: non sono formalmente prigionieri ma la tensione e l’odio cresce.

A partire da questo momento si perde ogni traccia di loro. I quattro militanti trotskisti scompaiono fra la fine di ottobre del 1943 e il giugno del 1944, quando il campo “Wodli” si reinstalla a Sestrières. Per un lungo tempo sulla loro sorte circolano ipotesi e voci più o meno credibili che cercano di occultare l’unica evidente verità: la loro eliminazione per mano degli stalinisti.

Una ricerca storica accurata e un libro, dopo il crollo dello stali­nismo che ha scucito molte bocche, hanno alzato il velo della menzogna e ricostruito gli ultimi giorni di quei militanti, e in particolare l’assassinio del più noto di loro, il fondatore e dirigente del Partito comunista d’Italia Pietro Tresso (4 ). A sessant’anni di distanza, oggi sappiamo che cosa è avvenuto in quei giorni della fine di ottobre del 1943.

Dopo la fuga, Pietro Tresso, Pierre Salini (Maurice Siegl­mann), Abraham Sadek e Jean Reboul sono stati uccisi, probabilmente mentre tentavano di sfuggire ai loro assassini, il 26 o il 27 ottobre 1943, da un piccolo gruppo di killer venuti per ordine del comandante del maquis Ftp (5 ) Giovanni Sosso, l’uomo forte degli Ftp della zona, molto probabilmente un uomo dei servizi di Mosca. Ancora non è stata fatta chiarezza invece su chi, nella gerarchia sta­linista al di sopra di Sosso, ai vertici del Pcf, del Pci e dell’Internazionale, abbia dato l’ordine, o il via libera, per l’esecuzione di Pietro Tresso.

Conosciamo, invece, le responsabilità degli uomini del Wodli, che hanno negato l’omicidio, e addirittura la sua possibilità, proteggendo un tale crimine e diventandone complici. Molti di loro erano giovani militanti che avevano dato prove di coraggio straordinario, rischiando la propria vita per com­bat­tere la barbarie nazista. In qual­che modo anch’essi degli “eroi”, che intorno alla lotta ed alla sofferenza comune erano riusciti a saldare una “fratellanza umana” tale da creare un analogo ed opposto sentimento di esclusione nei confronti di coloro che, pur condividendo la stessa lotta anti­na­zista, non appartenevano al loro gruppo che professava un pensiero mec­canico ed acritico.

Da qui il lungo silenzio su quel crimine, quel silenzio sui crimini dello stalinismo che anche il ricordo e la verità sulla vicenda di questo militante e dirigente del movimento operaio italiano e internazionale vuole rompere.

[Agosto 2003]

 

 

Note

(1) P. Broué e R. Vacheron, Assassini nel maquis. La tragica morte di Pietro Tresso, Prospettiva, Roma, 1995. Più in generale sulla vita di Tresso di veda Paolo Casciola, Vita di Blasco, Odeon Libri,Vicenza, 1985.

(2) Esso deriva dall’unificazione del Por (a sua volta il risultato dell’unione del 30-31 maggio 1936 tra Gbl e la Jsr) e il Pci.

(3) Il VII congresso dell’Internazionale comunista che si apre a Mosca il 25 luglio 1935 segna una decisa svolta nella sua politica. Oltre a rifiutare la defini­zione della socialdemocrazia come socialfascismo e del fronte unico solo “dal basso”, esso si pone l’obiettivo dell’unificazione sindacale e propone un maggiore decentramento dell’IC; ma i due elementi nuovi e di fondamentale importanza sono: il rilievo dato alla lotta contro la guer­ra presentata come un obiettivo politico da perseguirsi con fermezza e convinzione, senza alternative e senza riserve, e l’ipotesi di lottare per governi di “fronte popolare”, che dovrebbero combattere la minaccia del fascismo e attuare una serie di riforme senza uscire dai limiti della democrazia borghese.

(4) P. Broué e R. Vacheron, Assassini nel maquis. La tragica morte di Pietro Tresso, Prospettiva edizioni, Roma, 1995. Si veda la recensione che ne ha fatto la rivista “Proposta” nel n. 17 del luglio-agosto 1997.

(5) La sigla Ftp sta per francs-tireurs et partisans, franchi tiratori e partigiani, l’organizzazione partigiana controllata dal Pcf.

 


 

PERCHÉ PIETRO TRESSO DOVEVA MORIRE

 

 

di Franco Grisolia

 

Ripubblichiamo una nota di Franco Grisolia a proposito del libro di Vacheron e Broué Assassinii nel Maquis. La tragica morte di Pietro Tresso, pubblicata nel n. 17 di “Proposta”.

 

Le edizioni Prospettiva hanno pubblicato (…) la traduzione italiana del libro Meurtres au Maquis, pub­blicato in Francia nel 1995, la dettagliata ricerca sulle modalità della morte di Pietro Tresso e di altri militanti trotskisti, scritta da Raymond Vacheron e Pierre Broué. Già sindacalista e poi storico della Resistenza il primo, notissimo storico del movimento operaio il secondo, autore di molti testi importanti di cui molti tradotti anche in italiano (fra i quali: Storia del Pcus; Rivoluzione in Germania 1917-1923; La rivoluzione e la guerra di Spagna, con E. Temine; La rivoluzione perduta. Vita di Trotsky).

La figura di Pietro Tresso – fondatore e dirigente del Pcd’I, compagno e amico di Gramsci, oppositore dello stalinismo, fondatore e dirigente della Quarta Internazionale – è già ben nota ai lettori di “Proposta” (…). Con una indagine accurata e paziente il testo ricostruisce con esattezza gli accadimenti fino ad individuare le modalità, il luogo e il giorno preciso in cui Pietro Tresso e i suoi compagni Jean Reboul, Abraham Sadek e Maurice Sieglmann (Pierre Salini) furono assassinati dai partigiani stalinisti dopo l’evasione da un carcere fascista. Ricostruisce anche – sulla base degli indizi e delle testimonianze raccolti – la probabile dinamica della decisione di procedere all’uccisione di Tresso, la cui soppressione, per la personalità della vittima, non è stata certo una “questione locale”. La responsabilità immediata viene così individuata nella persona del comandante partigiano della zona, l’italo-belga Giovanni Sosso, verosimilmente da molti anni agente dei servizi sovietici in seno al Pcf. Ma viene evidenziata l’alta probabilità che il via libera sia giunto direttamente da Mosca, con cui il Pcf era in contatto radio, e si ipotizza che la decisione sia stata presa da Giulio Cerati, alto dirigente italiano dell’apparato stalinista dell’Internazionale e nel dopoguerra membro del comitato centrale del Pci. Togliatti, dal canto suo, pur senza aver preso parte alla decisione, avrebbe coperto, allora e in seguito, il tutto, come del resto fece sempre verso l’insieme dei crimini staliniani, in particolare verso i comunisti italiani.

L’assassinio di Pietro Tresso si inquadra del resto in quel vero e proprio sterminio dei trotskisti che lo stalinismo intraprese e realizzò in molti paesi prima, durante e dopo la seconda guerra mondiale (per fare solo i due esempi più tragici: centinaia di militanti trotskisti furono assassinati in Vietnam e in Grecia nel 1945). Lo stalinismo temeva sopra ogni cosa, infatti, i marxisti rivoluzionari, coloro che avrebbero potuto indirizzare il proletariato verso una vera rivoluzione socialista che avrebbe messo in questione gli inganni, i compromessi col nemico di classe, la dittatura poliziesca dello stalinismo.

Al di là di ogni aspetto contingente, fu questa la ragione vera e profonda della decisione di assassinare il dirigente comunista Pietro Tresso. Se oggi Vacheron e Broué riescono a descrivere i dettagli del fatto è perché, a oltre cinquant’anni dagli avvenimenti, di fronte al crollo dello stalinismo sul piano internazionale, “le bocche si sono aperte”. Molti di coloro che allora furono autori o complici diretti del crimine, vittime anch’essi delle loro illusioni di “difendere la causa del comunismo”, hanno collaborato a ristabilire la verità. E forse la parte più commovente del libro è quella che riporta le dichiarazioni di questi vecchi partigiani che oggi finalmente capiscono: “Eravamo folgorati. Quando un capo ci diceva “È bianco” dicevamo “E’ bianco”. Ci hanno ingannati, ci hanno fatto passare per idioti. Abbiamo preso Stalin per un dio vivente…”. “Ah, se si potesse tornare indietro, per questo e per molte altre cose”.

Il libro di Broué e Vacheron e la loro inchiesta hanno avuto in Francia una larga eco. Si è aperto un dibattuto all’interno del Pcf e lo stesso segretario Hue ha scritto a Broué dichiarandosi commosso dal libro e completamente a favore della ricerca della verità. Auspichiamo che una maggiore attenzione a questo tragico evento storico, e alla bella figura di Pietro Tresso, si sviluppi anche in Italia.

Rimangono del resto alcuni elementi importanti da verificare, in particolare rispetto alle responsabilità della decisione di uccidere Tresso e del tentativo di cancellare successivamente le tracce del crimine. Nel libro si riporta la testimonianza di Gianfranco Berardi, giornalista dell’“Unità” e militante del Pds. Berardi era amico di Alfonso Leonetti, uno dei massimi dirigenti del Pci espulso con Tresso nel 1930 per essersi opposto alla “svolta”, dirigente trotskista negli anni trenta, che ha abbandonato il marxismo rivoluzionario rientrando nel dopoguerra nel Pci. Secondo Berardi – che ha scritto sulla morte di Tresso accennando anche a questa questione sull’“Unità” del 3 gennaio 1993 – Leonetti, pochi giorni prima di morire, il 26 dicembre del 1984, gli aveva rivelato di essere stato in possesso di documenti che provavano chiaramente le responsabilità nella decisione e di aver ricevuto pochi giorni prima la visita di due persone inviate dall’ufficio di segreteria del Pci (all’epoca era segretario Alessandro Natta, vice Achille Occhetto e componente di segreteria Massimo D’Alema) che gli avevano chiesto il permesso di distruggere tutta la documentazione o, almeno, una lettera autografa di Togliatti del 1964 nella quale l’allora segretario del Pci gli chiedeva di non sollevare la questione Tresso. Leonetti aveva rifiutato tale permesso ma le carte erano finite in mani non sicure; vicino alla fine, chiedeva all’amico Berardi l’impegno a sollevare la cosa, ma non prima di dieci anni e della maturazione di determinate condizioni politiche, “per non fare un favore a Craxi”.

E’ giunto il momento perché su questo episodio sia fatta piena luce e la documentazione in questione, se non già distrutta, sia finalmente resa pubblica […].

[Giugno 1997]

 


 

Archivi / Un testo del 1917

 

UN GRANDE MILITANTE E' MORTO… GRAMSCI

 

 

di Blasco /Pietro Tresso)

 

 

Dopo undici anni di prigione, Antonio Gramsci è morto per un’apoplessia in una clinica di Roma dove, da due anni, la bestia le repressione fascista era costretta a trasferirlo per evitare che l’uomo più amato dal proletariato d’Italia morisse nel fondo della sua cella.

Antonio Gramsci era arrivato al socialismo negli anni immediatamente precedenti la guerra del 1914, quando, giovane studente figlio di poveri contadini, dalla nativa Sardegna era arrivato a Torino per continuare gli studi. E nella capitale del Piemonte, a contatto con il proletariato industriale più concentrato e più sperimentato d’Italia, fece i suoi primi passi sul cammino della rivoluzione.

Anche se d’aspetto molto trascurato e con un fisico sofferente, provocava subito un’enorme impressione in quanti lo incontravano. Mussolini che nel 1914, prima del suo rinnegamento, era stato chiamato a Torino dagli studenti socialisti si ricordava proprio di lui quando, otto anni dopo, scrisse che il Partito comunista era diretto da un piccolo gobbo, straordinariamente intelligente e scaltro...

La tormenta del 1914 e l’entrata in guerra dell’Italia nel 1915 trovarono Gramsci, ancora ignorato, ancora sconosciuto, al suo posto di combattimento. Non si piegò per nulla. Le dicerie secondo cui egli avrebbe avuto delle esitazioni, o addirittura delle simpatie per il movimento “interventista”, sono solo insinuazioni abilmente diffuse da certi “discepoli” del­l’ul­tima ora che vogliono giustificare la loro diserzione e la loro viltà.

Nel 1917, nell’anno più duro della guerra, nel momento in cui la reazione si accaniva spietatamente contro i rivoluzionari, mentre Ercoli (attuale segretario dell’Internazio­nale comunista) rinnegava il partito in nome della “Magna Anglia”, Gramsci con­tinua il suo modesto lavoro, assicura il servizio di corrispondenza per l’organo centrale del partito, l’“Avanti!”, e assicura i collegamenti con i compagni rimasti a Torino o che ritornano dalla zona di guerra. Gramsci stesso mi ha assicurato, nel 1922, che non era mai stato interventista.

Ma è solo nel 1919 che Gramsci rivela tutte le sue qualità di polemista, di mente e di cuore della classe operaia e più in particolare, del proletariato industriale del Piemonte. Nel 1919 il proletariato italiano è in piena effervescenza rivoluzionaria. Gli arre­tramenti successivi della borghesia avvicinano, agli occhi della classe operaia e delle masse lavoratrici, la possibilità della vittoria definitiva, del trionfo della rivoluzione. Le notizie che arrivano dalla Russia sulle vittorie e il consolidamento del potere sovietico, caricano d’entusiasmo le masse. L’emblema della falce e del martello copre i muri delle città e dei paesi da una parte all’altra d’Italia. I nomi di Lenin e Trotsky sono acclamati come incitamento alla lotta da milioni di operai, di soldati, di piccoli contadini. Il partito socialista, che si rafforza di giorno in giorno, si rivela assolutamente impotente a coordinare il movimento delle masse, a organizzare la rivoluzione. Anche gli elementi più coscienti e decisi avanzano con passo incerto.

Emergono due nomi: Bordiga e Gramsci.

Bordiga, conosciuto dai giovani già prima della guerra, e che meglio di Gramsci conosceva gli uomini del Partito socialista e il partito stesso, fonda a Napoli il settimanale “Il soviet” e organizza in tutta Italia la sua frazione (che più tardi sarà chiamata “frazione degli astensionisti” perché sostenne l’astensione alle elezioni parlamentari). La lotta di Bordiga è la lotta per la scissione dai riformisti e dai centristi; la lotta per la costruzione di un partito rivoluzionario. Da più di un anno si batte da solo per questo scopo. Gramsci non vede ancora questa necessità. Dall’esperienza fresca della rivoluzione d’Ottobre e delle rivoluzioni in altri paesi ricava soprattutto il fenomeno della crescita e dello sviluppo dei “consigli di fabbrica”. Vede in questi consigli la forma, scaturita dalla storia, dell’autogoverno delle masse lavoratrici, le cellule viventi dell’“Ordine Nuovo”.

“L’Ordine Nuovo” sarà quindi il titolo del settimanale che fonda a Torino e di cui prende la direzione. Tutta l’autentica personalità di Gramsci, la sua originalità, la sua grandezza si trovano in questo giornale. Per due anni, in articoli dallo stile molto personale, ma che riflettono tutto il tormento e tutto lo sforzo creativo dell’avanguardia rivoluzionaria del proletariato torinese, Gramsci dà fondo ai tesori della sua intelligenza, della sua cultura e della sua passione rivoluzionaria, per dare impulso ai consigli di fabbrica, per dimostrarne il valore distruttivo dell’ordine capitalista e la loro necessità, in quanto cellule costitutive dell’“Ordine Nuovo”, per l’ordine socialista e comunista. Gli operai avanzati delle grandi fabbriche di Torino, i membri delle “commissioni interne” si stringono intorno a lui. I burocrati sindacali lo accusano di minare l’autorità e le funzioni dei sindacati, ma lui risponde guadagnando alla sua linea la maggioranza sindacale e trasformando così i sindacati in potenti sostegni dei consigli di fabbrica anziché essere loro avversari.

La disfatta subita nel settembre 1920 dal proletariato italiano, in seguito all’abbandono delle fabbriche occupate, segnerà anche la fine del movimento dei consigli di fabbrica, a cui Gramsci ha dedicato il meglio della sua vita. “L’Ordine Nuovo” si trasforma da settimanale a quotidiano, ma sarà ormai un’altra cosa rispetto a quello che aveva fondato Gramsci.

I filistei e i burocrati, quelli che oggi cercano di sfruttare Gramsci a vantaggio del tradimento e della truffa staliniana, già ci presentano un Gramsci truccato, irriconoscibile agli occhi di coloro che lo hanno conosciuto e a lui stesso, se fosse ancora vivo. Noi invece possiamo dire che anche Gramsci, malgrado le sue notevoli qualità, si è sbagliato, e su problemi importanti. E possiamo aggiungere che ne era pienamente cosciente e che non aveva timore a dirlo. La prova è che per tanti anni si è rifiutato a raccogliere in un volume i suoi scritti. Alla fine si è deciso a farlo, e aveva cominciato a scrivere una prefazione (aveva già riempito circa cento foglietti con la sua piccolissima ma chiara calligrafia) in cui criticava se stesso con quell’onestà intellettuale che lo caratterizzava. Questo progetto è stato spezzato dal suo arresto, avvenuto all’epoca delle leggi eccezionali, e ora dalla sua morte.

Non sappiamo quale sia stata l’evoluzione di Gramsci durante gli undici anni di prigione, ma possiamo affermare questo: tutta l’attività di Gramsci, tutta la sua con­cezione dello sviluppo del partito e del movimento operaio si oppongono in modo totale allo stalinismo, alle sue infamie politiche, alle sue spudorate falsificazioni. Una delle ultime azioni politiche di Gramsci, prima del suo arresto, nel 1926, è stata il fare approvare dall’Ufficio politico del partito italiano una lettera indirizzata all’Up del partito russo in cui gli si chiedeva di mantenersi, nei confronti del compagno Trotsky, nei limiti di una discussione fra compagni e di non adottare metodi che potessero falsare í problemi in discussione e impedire al partito e all’Internazionale di pronunciarsi con piena cognizione di causa. Questa lettera fu approvata anche da Grieco (Garlandi), Camilla Ravera e Mauro Scoccimarro. Ma la lettera fu inviata su un “binario morto” attraverso Ercoli [Togliatti] che, essendo a Mosca e avendo sondato i desti­natari, credette bene tenersela in tasca.

Possiamo affermare anche che, almeno dal 1931 e fino al 1935, la rottura morale e politica di Gramsci con il partito stali­nizzato era completa. Come prova sarebbe sufficiente il fatto che durante questi anni la stampa aveva messo in sordina la campagna per la liberazione di Gramsci, ma c’è anche il fatto che Gramsci era stato ufficialmente destituito come “capo” del partito e che al suo posto era stato collocato quel clown buono per tutti gli usi che risponde al nome di Ercoli!

I compagni usciti di prigione ci hanno comunicato anche che, due anni fa, Gramsci era stato espulso dal partito, espulsione che la direzione aveva deciso di tener nascosta almeno fino a quando Gramsci avesse potuto parlare liberamente. E ciò per poter sfruttare la personalità di Gramsci a proprio fine. In ogni caso i burocrati staliniani si sono dati da fare per seppellire Gramsci politicamente, prima che il regime mussoliniano non vi riuscisse fisicamente.

Gramsci è morto, ma per il proletariato, per le giovani generazioni che arrivano alla rivoluzione attraverso l’inferno fascista, resterà sempre colui che, durante gli ultimi vent’anni, meglio di ogni altro ha incarnato le sofferenze, le aspirazioni e la volontà degli operai e dei contadini poveri d’Italia. Resterà un esempio di dirittura morale e di onestà intellettuale assolutamente inconcepibile per la congrega dei leccapiatti staliniani la cui parola d’ordine è “arrangiarsi”.

Gramsci è morto, ma dopo aver assistito alla decomposizione e alla morte del partito che egli aveva potentemente aiutato a costruire, e dopo aver sentito nelle sue orecchie i colpi di pistola caricati da Stalin che hanno abbattuto tutta una generazione di vecchi bolscevichi. Gramsci è morto, ma dopo aver saputo che altri vecchi bolscevichi, come Bucharin, Rikov e Rakovski erano già pronti per il macello. Gramsci è morto per un colpo al cuore, forse non sapremo mal che cosa ha contribuito di più ad ucciderlo: se gli undici anni di sofferenza nelle prigioni mussoliniane o i colpi di pistola che Stalin ha fatto tirare nella nuca di Zinoviev, di Kamenev, di Smirnov, di Piatakov e dei loro compagni nei sotterranei della Ghepeù.

Addio Gramsci.

 

[Pubblicato per la prima volta in “La Lutte Ouvrière”, giornale dei trotskisti francesi, nel n. 44, del 14 maggio 1937]

 


 

Archivi / Un testo del 1938

 

MUSSOLINI POTEVA ESSERE FERMATO?

Recensione di "Nascita del fascismo: l'Italia dal 1918 al 1922" di A. Tasca

 

 

di Blasco (Pietro Tresso)

 

 

 

L’articolo che segue, comparso in francese a firma “Blasco” nel numero 11, dell’agosto 1938, di “Quatrième Internationale”, è una recensione del libro sulla nascita del fascismo di A. Rossi, pseudonimo di Angelo Tasca, già dirigente del Partito comunista d’Italia, in seguito esponente della tendenza della destra “buchariniana” ai vertici del partito, infine espulso e approdato a lidi socialdemocratici. Temi e argomenti di questo saggio sono, a sessantacinque anni di distanza, ancora straordinariamente attuali (si pensi alla tragedia cilena di trent’anni fa, o ai giorni nostri la questione della lotta contro Berlusconi) e la lezione di Tresso ci sembra più che mai stimolante.

 

 

A.            Rossi, l’autore di questo libro, si propone di spiegare, vale a dire di ricostruire con la massima approssimazione possibile, il dramma sociale che, il 29 ottobre 1922, sfociò nell’avvento del fascismo italiano al potere.

Per giungere a ciò, A. Rossi (Angelo Tasca) comincia il suo studio considerando la situazione italiana nel momento in cui l’ultimatum dell’Austria alla Serbia attraversò come un lampo l’Europa, precipitandola nella spaventosa carneficina imperialista del 1914-18. L’Italia si trovava in piena crisi politica e sociale. Appena uscita dalla guerra di Libia, essa era attraversata da una profonda agitazione, il cui momento culminante fu la “settimana rossa” di Ancona, definita da Rossi come “rivolta anarchica”, ma che, in realtà, fu una grandiosa esplosione del grave malcontento che da anni pervadeva le masse operaie della Penisola, soprattutto a causa della corruzione delle classi dirigenti italiane e della loro impotenza a risolvere i problemi posti dalla storia. La “settimana rossa”, durante la quale il proletariato della provincia di Ancona e della Romagna lasciò più di cento suoi appartenenti sul selciato, fu il segnale indicante che l’Italia era veramente impregnata di Rivoluzione.

Mussolini, allora direttore dell’organo centrale del Partito socialista Italiano, l’“Avanti!”, esalta nei suoi articoli infiammati il movimento, mentre i capi riformisti del partito e della Cgil lo sconfessano e lo denigrano.

Poi viene la guerra mondiale. Musso­lini è d’accordo, come tutto il Partito socialista, fermamente neutralista. Egli denuncia i veri scopi imperialisti della guerra, si fa beffe della “farsa sentimentale” montata attorno al “Belgio martire” e invita il proletariato a non cadere nella rete che i compari reazionari e democratici gli tendono, per trascinarlo al massacro per i loro sporchi interessi di classe. Ma improvvisamente, illuminato dai sacchi d’oro che, attraverso Marcel Cachin, gli vengono inviati dall’ambasciata di Francia, cambia bandiera, passa nel campo degli “interventisti”, fonda il “Popolo d’Italia”, costituisce i Fasci d’azione rivoluzionari e si lancia in una campagna sfrenata, che riesce, per mezzo delle manifestazioni di piazza, a trascinare l’Italia nel conflitto.

Proprio in questi Fasci d’azione rivoluzionari si deve situare l’origine del movimento che, con le trasformazioni successive, diventerà il fascismo sotto il cui giogo i lavoratori sono tuttora schiacciati.

La guerra non ha risolto nessuno dei problemi che l’Italia si trovava di fronte già quattro anni prima. Li ha aggravati, aggiungendovene altri, ancor più pesanti e spinosi. Pur facendo parte della coalizione degli Stati vincitori, l’Italia si è trovata, in realtà, nelle condizioni di uno Stato quasi vinto. Nella ripartizione del bottino imperialista, il brigante italiano si è visto in qualche modo spogliato dai suoi compagni di strada, i briganti dell’imperialismo anglo-franco-americano. Al malcontento delle masse lavoratrici, che sapevano di aver fatto la guerra per conto dei loro sfruttatori, e che non avevano visto mantenuta nessuna delle promesse che erano state fatte loro per convincerle a restare al fronte, si aggiunge dunque il malcontento dei “responsabili” della carneficina, i quali pure si accorgono di essere stati lo zimbello del re di Prussia. La tensione politica in Italia diviene enorme. E’ un formidabile vulcano, dal quale la lava sgorga e si insinua in ogni spaccatura della società italiana.

Tutte le classi sono in ebollizione. Nel corso degli anni 1919-1920, gli operai e i salariati agricoli si lanciano in scioperi quasi a getto continuo, spinti a ciò non solo da una condizione di spirito che vuole “cambiare il mondo”, seguendo l’esempio dei loro fratelli russi che, nel 1917, hanno preso il potere, ma anche dalla necessità di difendere le loro condizioni immediate di vita, che peggiorano continuamente, nel marasma generale e per l’aumento del costo della vita.

Le “vittorie” li trascinano avanti, le sconfitte li temprano. Le tappe di questa agitazione straripante, profonda e spontanea, sono costituite dall’ammutinamento delle truppe inviate in Albania, ammutinamento che indica il livello di dissoluzione dell’esercito italiano e lo spirito rivoluzionario che regna tra le truppe, e dal vasto movimento contro il carovita, movimento che in pochi giorni infiamma l’Italia da Nord a Sud, e nel corso del quale sui prezzi praticati alla vendita vengono imposti ribassi fino al 50%. La potenza di questo movimento è tale che quasi dovunque i commercianti si presentano alle Camere del lavoro e alle sezioni sindacali per affidare loro le chiavi delle botteghe. I soldati fraternizzano con la folla, aiutandola nelle sue azioni contro gli “speculatori” ed offrendole armi. Viene poi il grave sciopero dell’aprile 1920, a Torino, sciopero provocato dal padronato col pretesto di introdurre l’ora legale, ma in realtà per cercare di farla finita coi Consigli di fabbrica, che, soprattutto in quella città, si sono molto sviluppati. Infine, vi sono le occupazioni delle fabbriche nel mese di settembre del 1920, occupazione che non si limita a balli e partite a bocce, come in Francia nel 1936, ma che costituisce un notevole tentativo di mettere effettivamente mano all’apparato della produzione.

Da parte loro, i salariati agricoli marciano senza esitazioni sullo stesso cammino tracciato dai loro fratelli, gli operai delle città. In tutte le province italiane essi riescono a imporre contratti di lavoro, e completano il loro movimento rivendicativo con tentativi ed anche con effettive occupazioni di terre. I ceti medi seguono, soprattutto all’inizio, manifestando simpatia per l’inarrestabile movimento.

Dall’altra parte della barricata, ma con caratteri complessi che avrebbero potuto, in larga misura, essere utilizzati, anche direttamente, dal proletariato, si ha il movimento dei Legionari fiumani, il cui capo è D’Annunzio, e il cui scopo principale è l’occupazione di Fiume, piccola città di frontiera, per annetterla all’Italia. E poi si ha la nascita e lo sviluppo… del fascismo.

E’ impossibile riassumere qui tutte le vicissitudini attraverso le quali il movimento fascista riuscì ad affermarsi fino ad impadronirsi del potere. Il libro di Rossi illustra con notevole abbondanza le diverse fasi di questa fulminante avanzata, ma, a nostro avviso, esso trascura o nega del tutto i veri problemi. Con ogni evidenza, Rossi, attraverso la descrizione, spesso emozionante, dello straripamento fascista e dell’incapacità, del “nullismo” politico dei partiti proletari, mira a giustificare e ad esaltare la politica del “Fronte popolare” che ha trionfato in Francia nel 1936. Dal libro di Rossi si evince nettamente che una politica da Fronte popolare avrebbe preservato l’Italia dal fascismo.

Il dilemma di fronte al quale si trovava e si trova l’Italia – socialismo o fascismo – non solo viene negato da Rossi, ma viene etichettato come “perfido”. Tuttavia, perfido o no, è proprio questo il dilemma che la storia ci pone sotto gli occhi, qui e, come mostra lo sviluppo della lotta, in tutti i paesi del mondo, non solo in Italia. Rossi ha ragione quando afferma che il movimento operaio è stato vinto in Italia non dal fascismo ma dall’inettitudine, dalla dissoluzione interna e dall’inesperienza dei partiti che dovevano condurlo alla vittoria. E’ un fatto che il fascismo si è aperto la strada non mediante la distruzione diretta delle organizzazioni proletarie (e ciò nonostante l’appoggio e la collaborazione attiva ottenuti da parte di tutti i governi “democratici” che si sono succeduti in Italia dalla fine della guerra fino all’ottobre del 1922), ma grazie al ristagno e alla paralisi nella quale, ad un certo momento, si trovò bloccato il movimento operaio. Ma, quand’anche fossero state utilizzate, le ricette indicate da Rossi come suscettibili di evitare la catastrofe ci appaiono come cataplasmi inutili, assolutamente inadeguati a salvare le masse lavoratrici italiane dalla schiavitù fascista.

Per Rossi, il vero problema da risolvere in Italia era quello dell’integrazione di ampie masse popolari, e soprattutto del proletariato, nello Stato. Bisognava creare lo Stato popolare italiano. In concreto, ciò significa che allo Stato borghese, che correva il rischio di dissolversi sotto gli attacchi congiunti delle varie forze sociali italiane, occorreva fornire una base di massa, per salvarlo e al tempo stesso impedire che quella base gli venisse fornita dalle forze ostili al proletariato.

Ricordiamo prima di tutto che quest’idea non ha nulla di originale, nemmeno in ambito italiano. Possiamo affermare che, dal 1900, essa ha ispirato tutta la politica di Giolitti, il più grande corruttore della vita politica italiana. Essa ha ispirato anche la politica dei riformisti. Questa politica fece fallimento già nel clima relativamente tranquillo di anteguerra, perché l’integrazione delle masse popolari nello Stato (borghese) non poteva significare per esse, soprattutto in Italia, se non la rinuncia passiva ad ogni miglioramento e ad ogni progresso reale. Così pure, essa non poteva significare altro che la morte di ogni coscienza di classe del proletariato italiano, i cui diversi tronconi non sarebbero serviti che da supporto alla politica dei diversi raggruppamenti industriali e agrari della Penisola. Gli “eccidi proletari” che insanguinarono, con frequenza tristemente famosa, la vita politica italiana nei quattordici anni che precedettero la guerra mondiale, hanno dimostrato che questa integrazione (integrazione volontaria e di collaborazione, naturalmente: l’integrazione per mezzo della forza il fascismo l’ha attuata) non era altro che un sogno. Tanto più chimerica essa doveva apparire – e lo era – nella situazione del dopo guerra, quando tutte le masse erano lanciate in avanti verso nuove conquiste politiche e sociali, e quando, per poter continuare ad esistere, le classi sfruttatrici avevano bisogno di ricacciarle indietro. Integrare le masse nello Stato, dopo la guerra, non avrebbe significato – come pensa Rossi – permettere loro di utilizzare i suoi meccanismi per consolidare ed estendere le proprie conquiste, ma avrebbe significato spezzarne le forze e sottometterle spontaneamente (per mezzo delle mitragliatrici socialdemocratiche) allo sfruttamento ancor più forte dei capitalisti e degli agrari.

Ma ciò avrebbe almeno risparmiato all’Italia la dominazione fascista? Rispondere con un sì o con un no a questa domanda sembra una questione un po’ fuori tempo… I fatti hanno risolto il problema a modo loro. Tuttavia bisogna considerare questo: abbiamo già avuto esperienze simili a quelle preconizzate da Rossi; tra le altre, in Austria e in Germania, e più recentemente in Francia e in Spagna. Nei primi due casi, il fascismo ha vinto quasi senza combattere: la resistenza opposta dagli operai viennesi nel 1934 contraddice i mezzi preconizzati da Rossi. L’integrazione delle masse nello Stato, operata in Austria e in Germania mediante la collaborazione della socialdemocrazia al governo, è servita solo, come primo passo, ad arrestare il cammino della rivoluzione, per poi torcerle il collo definitivamente.

In Francia, il passaggio di Blum al governo non ha in nulla modificato l’atteggiamento dello Stato in favore della classe operaia. E’ riuscito solo a farle mandar giù una politica d’insieme che nessun governo non di Fronte popolare, negli attuali rapporti di forza, sarebbe stato capace di imporle. Non appena Blum ha accennato ad un gesto di resistenza – se vogliamo chiamarlo così – è stato messo gentilmente alla porta. In Spagna, una battuta d’arresto contro Franco è stata data dalle masse insorte contro il tentativo fascista e contro… lo Stato “repubblicano”. Esso, non solo con tutte le sue strutture, ma perfino coi membri del suo governo, o passa apertamente a Franco o è pronto alla capitolazione. Nella misura in cui le masse della Spagna “repubblicana” sono state “integrate” nello Stato borghese dopo il luglio 1936, la guerra civile contro il fascismo è stata trasformata sempre più in una guerra tra clan legati agli imperialismi rivali. Gli scopi specifici del proletariato e delle masse nella lotta contro il fascismo vengono messi in disparte ogni giorno di più, e al loro posto vengono adottati fini borghesi-imperialisti, cosicché le masse vedono sempre meno chiaramente perché esse stanno versando il proprio sangue; il che si traduce in un notevole aiuto a Franco. I veri disfattisti della lotta antifascista sono ancora una volta coloro che, al servizio della borghesia nazionale e dell’imperialismo straniero, privano le masse delle ragioni essenziali della loro dedizione e resistenza fino alla morte.

Questi pochi esempi ci autorizzano ad affermare che l’integrazione delle masse italiane nello Stato (ammesso che essa fosse stata possibile) non avrebbe evitato il fascismo; eventualmente, essa gli avrebbe aperto un’altra strada per raggiungere il suo scopo. Bisogna inoltre sottolineare che il fascismo non è stato solo un mezzo per garantire alla borghesia lo sfruttamento “pacifico” delle masse all’interno del paese. Esso è stato soprattutto un mezzo per sviluppare la sua potenza esterna. Sfruttamento “pacifico” all’interno e potenza esterna sono le condizioni necessarie senza le quali ogni borghesia nazionale è votata alla decadenza e alla morte. Si pone dunque questa questione: o le masse “integrate” si prestano volontariamente, spontaneamente, alla politica di autoschia­vizzazione e di saccheggio imperia­lista, o vengono ben presto de-integrate e schiacciate senza pietà, vale a dire che vengono “integrate” nello Stato alla maniera fascista. Non vi erano altre alternative possibili in Italia per coloro che, come Rossi, si basano sul mantenimento del capitalismo e del suo Stato.

Da questa posizione iniziale deriva anche la posizione di Rossi su tutti gli altri problemi sollevati nel suo libro: procederemo per sommi capi.

Tutta la critica di Rossi alla socialdemocrazia italiana si riduce a questo: essa doveva entrare nel Governo. Per far che? Per impedire che il posto… venisse occupato da altri! Solo che non basta occupare il posto: bisogna anche, tra l’altro, decidere chi paga le spese di guerra. La borghesia? Ma allora non rimane altra risorsa che espropriarla e abbatterla. Ma Rossi sa molto bene che non per questo era stata sollecitata la collaborazione socialista. Del resto, quella sarebbe stata la sola collaborazione alla quale i “socialisti” alla Turati si sarebbero risolutamente rifiutati con tutte le loro forze. Forse il proletariato e le masse lavoratrici? Senza dubbio… ma allora occorrerà domarle, perché esse non possono e non vogliono più vivere nelle condizioni attuali. Il “perfido” dilemma si ripresenta sempre. I “socialisti”, che erano fondamentalmente ostili ad ogni rivoluzione in Italia, hanno certo commesso un crimine rifiutando la collaborazione di governo. Sarebbe stato mille volte meglio che essi avessero svolto apertamente il loro ruolo (e in questo caso, anche indirettamente, la classe operaia poteva ricavarne dei vantaggi), piuttosto che ridursi a pugnalare la rivoluzione tra le quinte. Perché il “nullismo” massimalista e, più tardi, l’inesperienza dei giovani quadri comunisti, non possono in alcun modo “giustificare” o attenuare il tradimento degli altri.

Del resto, esaminandola come fa Rossi, la collaborazione dei socialisti al governo non avrebbe fatto altro che ridurli al ruolo di semplici fantocci nelle mani dei loro “alleati”. Rossi, in effetti, pone la questione in questi termini: sul terreno della forza nel paese, il proletariato e le masse lavoratrici non potevano che essere battute. Bisogna dunque entrare nel governo per utilizzare le forze dello Stato. Ma se questo è vero, allora coloro che entrano nel governo devono farlo accettando le condizioni imposte dall’avversario (l’avversario delle masse lavoratrici). E questi non è così stupido da offrire a colui che si trova alla sua mercè le armi per farsi abbattere; d’altronde, tutti coloro che hanno offerto la “collaborazione” ai socialisti (Nitti, Giolitti ecc.), hanno fatto loro questo semplice discorso: o voi entrate nel governo e ci aiutate a strangolare il movimento operaio, o saremo obbligati a farlo con la Guardia reale e con le bande fasciste. Tutta la strategia di Rossi consiste nell’accettazione di questa collaborazione.

Per questa ragione egli nutre solo disprezzo per quei poveri socialisti bolognesi che, di fronte alle minacce fasciste, apertamente ed ostensibilmente sostenute dal governo che offriva ai socialisti di collaborare, decidono di difendersi da soli. Occorreva, secondo lui, chiedere allo Stato di difendere le sue stesse istituzioni. E poi? Se lo Stato ritiene che per difendere le sue istituzioni è necessario cacciarne i socialisti eletti dalle masse? Se, per arrivare a ciò, esso arma i fascisti, li inquadra come ufficiali dell’esercito e li spinge all’attacco protetti dalle forze di polizia? I profeti disarmati sono votati alla disfatta, ma colui che si mette sotto la protezione delle armi dell’avversario che vuole abbatterlo non ha maggiori chance di sfuggire ad essa. Rossi giustamente critica Matteotti, quando questi invita i contadini del Polesine a non resistere con le armi ai fascisti, ma lo critica perché, secondo lui, la non-resistenza alla base doveva avere come complemento un’azione ancor più energica a Roma. Ma quale azione energica potevano attuare a Roma coloro che vi arrivavano dalla provincia in qualità di postulanti, con la coda e le orecchie lacerate dai morsi dei lupi fascisti che Roma proteggeva con le armi? Non è forse evidente che essi potevano solo essere oggetto della cortesia ironica dei portieri dei ministeri? Non è evidente che per pesare a Roma bisognava essere in condizioni di distruggere i nidi fascisti che la capitale organizzava in provincia? E in tal caso, dove andare a cercare la “collaborazione”?

Nel suo libro Rossi dibatte anche il problema dei soviet, dei Comuni e delle camere del lavoro. Invece di inseguire fantomatici soviet, estranei all’esperienza italiana, occorreva, secondo Rossi, appoggiarsi alle camere del lavoro e ai Comuni: questi due organismi avrebbero potuto sostituire efficacemente i soviet. Sostituirli per far che? Per entrare in un’alleanza ministeriale col cappio al collo? Certamente: per far ciò i soviet sono inutili. Ma l’esperienza italiana ha dimostrato anch’essa che il soviet non è affatto un organismo specificamente russo. Nelle fabbriche, durante gli scioperi, durante le manifestazioni contro il carovita, in mille altre occasioni, gli operai e le masse hanno dato vita spontaneamente ad organismi che li riunivano e li dirigevano, al di fuori ed oltre i limiti delle camere del lavoro (senza parlare dei Comuni, istituzioni dello Stato borghese).

Il fatto che i dirigenti del Partito socialista italiano (i Bombacci, i Gennari ed altri stolidi di questa specie), invece di appoggiarsi sull’esperienza delle masse, volessero creare dei “soviet” così come li vedevano nel loro povero cervello, non toglie nulla al fatto che questi organismi venivano scoperti spontaneamente dalle masse, almeno nella loro forma embrionale, ogni volta che esse ne avevano bisogno. Ciò spiaceva molto ai mandarini riformisti e ai loro avvocati, ma era un fatto.

Nonostante le idee del suo autore, noi raccomandiamo particolarmente ai giovani la lettura del libro di Rossi. Essi vi potranno apprendere molte cose. Prima di tutto, l’incapacità, la carenza, il tradimento dei dirigenti dei partiti proletari italiani di fronte al fascismo insegneranno loro – speriamo – a trovare altre strade per vincere questo terribile nemico. Vedranno poi mediante quali mezzi il fascismo italiano, guidato da Mussolini, è giunto al potere. Vedranno prima di tutto che il fascismo si è presentato sin dal primo momento come un’organizzazione di combattimento, un’organizzazione armata. Ha saputo sfruttare a fondo i mezzi legali e quelli illegali per raggiungere il suo scopo. Ha ampiamente utilizzato le forze dello Stato per proteggere la sua azione, ma in ogni momento si è preoccupato di avere una forza armata propria, dipendente solo da se stesso. E non solo una forza armata, ma anche una polizia, e mezzi di comunicazione e di collegamento: insomma, tutto ciò che devono avere un’organizzazione e un partito che vogliano effettivamente prendere il potere. Dal libro di Rossi derivano lezioni di strategia e di tattica politica della massima importanza per i giovani, i quali, rompendo col socialismo alla Blum, si riuniscono sotto la bandiera della Quarta Internazionale per vincere ove altri hanno perso, fallito e tradito.

 

[Pubblicato per la prima volta in “Quatrième Internationale”, n. 11, agosto 1938. Traduzione di Giuliano Corà.]