Marxismo rivoluzionario n. 2 - in Italia

 

La Casa delle loro libertà a metà mandato

META' PUO' BASTARE

 Due anni e mezzo di governo Berlusconi. Che cosa è stato e perché. E perché oggi è in crisi ma non cade (E non dimentichiamo chi l’ha preceduto).

 

 

di Alberto Airoldi

 

 

L'immagine del “governo balneare” è balenata prima dell’estate nelle menti di chi conserva memoria della prima repubblica: il governo Berlusconi sopravvive perché bisogna andare in ferie. Probabilmente sopravviverà in seguito perché bisogna arrivare alla fine del semestre italiano di presidenza della Unione europea e perché a nessuno conviene andare a elezioni anticipate. Con buona pace dei fautori della maggiore efficienza del sistema maggioritario, un governo minato dalle sue contraddizioni interne potrebbe sopravvivere solo grazie alla larghissima maggioranza parlamentare che gli è stata regalata, generando uno stato di crisi permanente.

L’angolo visuale dal quale si sviluppa l’analisi proposta in questo articolo non c’entra nulla col diffuso piagnisteo sulla “vergogna” di essere governati da una banda di incompetenti e di delinquenti: continuiamo pervicacemente a ricordare che cosa ci hanno elargito quelli della banda degli onesti e dei competenti che li hanno preceduti. Mi propongo di analizzare il sostegno a Berlusconi in termini di classe: la composizione del blocco sociale che lo ha eletto, il suo progressivo sfaldamento, il contributo del “berlusconismo” alla ristrutturazione capitalistica, le prospettive.

 

Chi vinse insieme alla Casa delle libertà

La vittoria elettorale della Casa delle libertà ha rappresentato anzitutto la rivincita della piccola e media impresa sui grandi gruppi del capitalismo italiano. Intendiamoci: nessun grande gruppo si era legato in matrimonio al centro sinistra e, pertanto, per quanto bene dal loro punto di vista avesse governato il trio Prodi-D’Alema-Amato, davanti al logoramento di questa opzione politica non restava altro che venire a patti con l’altra opzione. La Casa delle libertà, per i grandi gruppi del capitalismo italiano, presentava vari inconvenienti: una forte presenza della piccola impresa desiderosa di riscossa, una leadership personalistica concentrata anzitutto sulla promozione degli affari del gruppo Fininvest, scarso controllo delle organizzazioni sindacali, scarso credito internazionale. All’ultimo problema si cercò di ovviare imponendo come ministro degli esteri Ruggiero, agli altri problemi non c’erano soluzioni adottabili a priori, ma solo soluzioni da negoziare di volta in volta. A spingere nella direzione di questo cambiamento politico non c’era solo la crisi del centro sinistra, che governando per conto della grande impresa aveva logorato il proprio blocco sociale di riferimento, ma vi era anche la crisi dei grandi gruppi italiani, in realtà troppo piccoli per confrontarsi coi livelli di concentrazione di capitale necessari nella fase attuale di crisi di sovrapproduzione. Le privatizzazioni record e le ristrutturazioni maturate negli anni del centro sinistra non sono riuscite a fornire al capitalismo italiano un assetto stabile e competitivo a livello internazionale (1). Per dirla con una battuta, questa volta non è stato Berlusconi a dover andare a elemosinare ad Agnelli una pasta e fagioli, ma Agnelli a dover dare il via libera a Berlusconi senza ricevere in cambio alcun incentivo, neppure gastronomico (2).

La Casa delle libertà interpretava anzitutto il desiderio di riscossa e di sfondamento della piccola e vorace impresa italiana, ben rappresentata in tutta la sua arroganza e piccineria dall’allora neoeletto capo della Confindustria D’Amato. La parte perdente della Confindustria non era certo stata cancellata, vigilava e si preparava a presentare, di volta in volta, il conto. Bisognava scardinare l’assetto vigente della concertazione, un metodo di gestione delle relazioni sindacali che aveva regalato ai lavoratori italiani alcune delle loro peggiori sconfitte, che aveva regalato al centro sinistra e ai padroni un quinquennio di pace sociale quasi senza precedenti, ma che, proprio per questo motivo, aveva esaurito i suoi frutti. I tempi e i rapporti di forza sembravano maturi per andare all’assalto dello Statuto dei lavoratori e dei due livelli di contrattazione. Vi era poi il progetto di rimozione del residuo stato sociale, con relativa diminuzione della pressione fiscale sulle imprese e forte impulso al mercato della sanità e dell’istruzione private (una parte dei sostenitori della Casa si trova nelle cooperative della Compagnia delle Opere, in scuole e cliniche di proprietà di privati o di istituzioni religiose).

La Casa delle libertà rappresentava anche un “partito americano”, contrapposto all’asse franco-tedesco egemone nella costruzione del blocco imperialista europeo. Anche qui non giova essere troppo schematici: il processo è contraddittorio, la figura di Ruggiero serviva a bilanciare in senso opposto: la strategia rispetto alla UE è tutt’altro che univoca. Le scelte filo Usa, però, si manifestarono quasi subito, con la vicenda dell’Airbus, le successive dimissioni di Ruggiero e divennero più che esplicite con la guerra in Iraq.

La Casa delle libertà, in quanto “partito dell’ordine” si riproponeva anche un’interlocu­zione privilegiata con gli apparati repressivi dello stato, che il centro sinistra aveva coccolato senza grandi risultati (3). Su questo terreno, nell’improvvisata gestione politica del G8 di Genova, AN giocherà una partita in proprio, dando sfogo e impunità ai settori più radicali, a lungo tenuti a freno in passato.

La Casa delle libertà rappresenta anche la continuità col Piano di rinascita nazionale della P2 e con quel che resta dei settori che lo elaborarono. Alcuni osservatori insistono molto su questo punto, che a me non pare di particolare importanza: dopo tutto gli ultimi tasselli di quel piano di ristrutturazione in senso autoritario dello stato sono stati apposti con la convinta adesione del centro sinistra e portati avanti da un personale politico che non ha avuto mai alcun legame con la P2 e i suoi sopravvissuti.

La Casa delle libertà, però, è anzitutto la coalizione del premier e dei suoi interessi di famiglia: Berlusconi ha ripianato i debiti a tutti gli alleati e abbondantemente sostenuto il grosso dei costi della campagna elettorale, è il fulcro attorno al quale è stato costruito il partito di gran lunga maggioritario della coalizione, è lo sdoganatore degli ex fascisti di AN e dei secessionisti della Lega. L’immunità del premier e la sistemazione dei conti di Casa sono priorità indubbie per il nuovo governo, inaugurate con le leggi sull’eredità, il falso in bilancio e le rogatorie. Molto importante è anche il rapporto coi settori del capitale mafioso che, a quanto è dato sapere, datano da lungo tempo. Se Forza Italia si candida al ruolo del partito interclassista, rappresentanza privilegiata della borghesia italiana, deve sapere gestire anche gli interessi del blocco sociale coagulato attorno alla mafia.

 

Promesse mantenute e non al proprio blocco sociale

Il misto di thatcherismo e di populismo promessi da Berlusconi era ovviamente irrealizzabile. Tuttavia l’aggravarsi della crisi economica ha fatto piazza pulita dell’illusione di ripristinare un sistema di potere paragonabile a quello di DC e Psi, e quindi, per Forza Italia di diventare la rappresentanza centrale della borghesia italiana.

Dopo i primi provvedimenti a uso e consumo della Fininvest e della famiglia Berlusconi sono state promulgate alcune leggi dirette a ricompensare il proprio blocco sociale. Anzitutto la famosa “Tremonti bis” (L. 383/2001), che prevede agevolazioni fiscali per gli imprenditori e i liberi professionisti che effettuano degli “investimenti”, tra i quali può rientrare di tutto: dai computer alle auto, dai fabbricati alla formazione. Si tratta di una legge ancor più generosa della precedente “legge Visco”, poiché amplia il numero dei soggetti beneficiari (includendo anche i liberi professionisti, le banche e le assicurazioni), estende il tipo di spese soggette a detassazione e prevede un regime di detassazione totale. Della Tremonti bis hanno usufruito soprattutto le piccole e medie imprese e il composito “popolo delle partite Iva”, diversamente da quel che era avvenuto con la legge Visco. Lo stesso discorso può essere fatto con la modifica del regime di imposizione sulle imprese (decreto “taglia Dit” (4): DL 209/2002, delega per la revisione dell’Irap, e ora la definitiva cancellazione della Dit e l’istituzione dell’Ires, con aliquota del 33%), concepiti per riequilibrare un sistema di tassazione varato dal centrosinistra che beneficiava soprattutto la grande impresa. Gran parte di questo capitolo resta confinato tra le promesse: ancora nella presentazione della bozza del decreto legislativo che dovrebbe affrontare la questione Tremonti affermava: “La riduzione al 33% dell’aliquota Irpeg e l’abbattimento progressivo dell’Irap saranno, per quanto possibile, connessi, coerenti e conseguenti”. Si tratta di affermazioni vaghe, comprensibili dato che non si capisce proprio dove il governo pensi di trovare un gettito fiscale sufficiente per sostituire quello che verrebbe meno e che, per dirne una, serve a finanziare la sanità.

La legge finanziaria per il 2003 (L. 189/2002) intervenne soprattutto sul versante dei condoni: condono tombale per tutti, concordato fiscale per piccole imprese e lavoratori autonomi, scudo fiscale per i capitali illecitamente esportati. Vi era poi la riduzione di due punti percentuali dell’Irpeg e alcune modifiche all’Irap volte al riequilibrio nei confronti delle piccole imprese cui si accennava sopra (5). Il problema qui era correggere la penalizzazione introdotta dal fatto che il costo del lavoro e i debiti risultavano indeducibili, cosa che intaccava gli interessi di piccole unità produttive, con in proporzione molti lavoratori, scarsi investimenti in macchinari, alto livello di indebitamento, cioè di una consistente fetta del panorama imprenditoriale italiano (6).

La finanziaria del 2004, da quel che traspare, continuerà a condonare evasioni fiscali, speculazioni edilizie, darà qualche soldo alle imprese con la “Tecno-Tremonti” per gli investimenti tecnologici e con l’abbbassamento di un punto del prelievo sui profitti, senza, però, ripristinare i finanziamenti per le imprese del Sud.

 

Il progressivo sgretolamento del blocco

Col passare del tempo è stato sempre più evidente che non sarebbe stato possibile mantenere coeso l’intero blocco sociale che aveva votato per la Casa delle libertà. All’interno del­l’esecutivo si è andato rafforzando il cosiddetto asse Bossi-Tremonti, espressione prevalentemente degli interessi della piccola e media impresa e dei liberi professionisti del Nord (anche se la Lega è tendenzialmente inter­classista e rappresenta anche alcuni settori di lavoro dipendente del Nord). L’esclusione delle imprese del Sud dagli incentivi che tanto munificamente erano stati loro attribuiti dal governo di centro sinistra, gli attacchi al pubblico impiego e alle pensioni di invalidità, andavano direttamente a confliggere con la base elettorale di AN e dell’Udc. L’egemonia dell’asse Bossi-Tremonti è definitivamente entrata in crisi con le ultime elezioni amministrative, che hanno visto una sonora sconfitta della Casa delle libertà (e della Lega in particolare) nel Nord est e, contemporaneamente, una buona affermazione dell’Udc in Sicilia e, in generale, dell’Ulivo nel paese.

Il bilancio del governo di centro destra è attualmente deludente agli occhi di gran parte dei suoi sostenitori. Negli ultimi mesi la Confcommercio prima e poi la Banca d’Italia e la stessa Confindustria hanno iniziato a rivolgere critiche sempre più esplicite all’esecutivo. Il motivo fondamentale dei pessimi risultati economici è da individuarsi nella crisi di sovrapproduzione a livello mondiale, che ha fatto piazza pulita di tutte le illusioni di ripresa post 11 settembre. Certamente qualsiasi testa funzionante non avrebbe mai potuto credere ai tassi di crescita millantati da Berlusconi in campagna elettorale, ma il padronato italiano sperava probabilmente in qualcosa di più. Fatti i primi regali a se stesso e ai più cari elettori il governo Berlusconi è dovuto partire all’attacco contro il movimento operaio, avendo peraltro pochi soldi da spendere. Promettendo un misero piattino di lenticchie è riuscito a coinvolgere Cisl e Uil nel Patto per l’Italia (7), ma non è riuscito ad andare oltre su quella strada.

La gestione della battaglia contro il movimento dei lavoratori, incentrata stupidamente sull’art. 18, mostra tutta l’in­sipienza del personale politico della destra italiana. La risposta di massa all’attacco maldestro sul­l’art. 18 è stata grandiosa, ma è, com’era prevedibile, andata sprecata. Nessun centro sinistra avrebbe mai voluto dare la spallata e tornare al governo sull’onda di un movimento di massa, per poi dovere tagliare in prima persona pensioni e diritti. Il governo Berlusconi è così riuscito a recuperare consenso, a gestire un po’ più intelligentemente la crisi di consenso causata dalla guerra in Iraq, e a riprendere il cammino delle riforme contro i lavoratori, quelle che la Confindustria, con una carica di forte ironia, probabilmente involontaria, verso il vecchio Pci chiama “riforme di struttura”.

Il governo Berlusconi, pertanto, è, allo stato attuale, minato più dai conflitti interni che dall’opposizione e dai movimenti. I tentativi bonapartistici che vengono periodicamente improvvisati dal leader si scontrano contro l’oggettiva riduzione al lumicino dei margini di mediazione di Forza Italia tra le componenti della propria maggioranza. Il paradosso è che a nessuno nella coalizione conviene fare cadere il governo, ma gli interessi dei vari alleati sono sempre più inconciliabili. A tutti conviene caratterizzarsi aprendo polemiche, attaccando a testa basta questo o quell’altro alleato. In questo gioco la Lega è maestra, ma è anche la forza che rischia di più.

Questo quadro non è certo il migliore per dare delle risposte alle sempre più pressanti domande della Confindustria. Il tutto è complicato da un altro elemento di particolare interesse per dei marxisti, e cioè dalla crisi apertasi all’interno del capitalismo italiano, affetto da nanismo congenito e abituato al perenne assistenzialismo da parte dello stato (quello stesso che è sempre pronto a denunciare per quanto riguarderebbe i lavoratori). I grandi gruppi italiani stanno fallendo, salvo pochi che sono riusciti a mettere le mani sulla torta succulenta delle privatizzazioni, in particolare di quelle di telefoni, autostrade ed energia elettrica. A parte alcuni sporadici esempi di medie imprese di successo, come il sempre citato caso di Luxottica (sempre citato forse perché ce ne sono ben pochi altri…), il capitalismo italiano è ancora fortemente caratterizzato da imprese di piccole dimensioni, abituate a proliferare grazie a lavoro nero, evasione fiscale, ritmi massacranti, assenza di diritti, salari da fame. Il tutto magari condito in salsa paternalista cattolica o ex comunista, come vuole quella scuola della “terza Italia” e dei “distretti industriali”, che piaceva tanto alla sinistra tra gli anni ottanta e novanta. Il “piccolo è bello” mostra ora il suo volto più feroce: i piccoli vogliono detassazioni e compressione dei diritti dei lavoratori, i grandi, che non possono più mungere aiuti come un tempo e devono confrontarsi con l’agguerritissima concorrenza internazionale, non hanno le dimensioni adeguate per questo scopo e cercano di rifugiarsi in mercati ancora in parte protetti e garantiti da un regime di monopolio od oli­gopolio.

 

Il ritorno alla padella…

Il centro sinistra su questo terreno ha maturato una serie di fallimenti e non pare disporre oggi di progetti alternativi di un certo respiro. Un po’ a tutti converrebbe attendere l’incasso su pensioni e precarizzazione (legge 30, L. 848-bis) e sperare che l’economia mondiale riprenda fiato, forti quantomeno dell’ennesimo colpo assestato al movimento dei lavoratori. Alle più evidenti storture introdotte dal berlusco­nismo potrà sempre essere chiamato in futuro un centro sinistra a mettere qualche pezza.

Le forzature in senso autoritario e plebiscitario che, indubbiamente, fanno parte degli obiettivi di una parte consistente del centro destra, non sembrano potere condurre a una fuoriuscita dagli assetti della democrazia borghese (8). Del resto, dopo avere sponsorizzato questo sistema elettorale, non si vede perché il centro sinistra dovrebbe percepire, per esempio, il presidenzialismo come un attentato alla democrazia. Gli allarmi sul fascismo alle porte fanno parte della propaganda del centro sinistra presso il proprio elettorato, tanto quanto le pantomime berlusconiane volte a esibire la sua totale mancanza di dimestichezza con la democrazia borghese. Al di là del teatro non si vedono squadracce fasciste che si aggirano per il paese, e neppure militari golpisti. Si vede piuttosto una ristrutturazione in senso autoritario dello stato, una sempre maggiore impunità accordata agli apparati repressivi, un crescente controllo poliziesco, che si sviluppano indipendentemente da chi sta governando. La “grande anomalia” del monopolio dell’informazione, del resto, è stata tollerata dal centro sinistra, che, come si è venuto a sapere, si era impegnato con Berlusconi a lasciargli intatto l’impero mediatico.

L’Ulivo, al momento, si sta nutrendo della rendita di posizione regalatagli dalle mobilitazioni sociali dell’ultimo biennio, del crescente malcontento dei maggiori centri del potere borghese, del tendenziale sgretolamento del blocco sociale ed elettorale del centro destra. Tutto questo cade su un vuoto pneumatico di idee, che lascia intravvedere, probabilmente per il 2006, la possibilità di un’alternanza disastrosa, nella quale le malefatte di Berlusconi saranno la perenne giustificazione per le malefatte dell’ulivista di turno. Vista la sempre maggiore precarietà del suo governo, Berlusconi, che vorrebbe tanto salvare la pelle, contrattando magari un’ascesa al Quirinale, si vede costretto a rilanciare sulle pensioni. Si tratta di un passo che gli fa recuperare credito in ambito Confindustriale, ma che determina un rischio ancora superiore.

I comunisti devono avere la capacità di non farsi invischiare in questo dibattito, che conduce, come un piano inclinato, dritto dritto verso il nuovo Ulivo per il 2006, cioè verso la nuova edizione del “meno peggio”. La sinistra sarà investita da un fuoco propagandistico sulla presentabilità, sull’onestà, sulla serietà, sulla tenuta democratica, e il privatizzatore Prodi, insieme al criminale della guerra jugoslava D’Alema e il precarizzatore Treu torneranno a essere considerati accettabili. Le ragioni di classe, quelle dei lavoratori, sarebbero ancora una volta sacrificate sull’altare del buon funzionamento del “sistema Italia”, e cioè dei profitti della borghesia. Le tasse per non avere più Berlusconi e la sua corte saranno ancora la tregua sindacale e le politiche di “liberismo temperato” da colorire, di volta in volta, con “tutti i colori del rosso”.

[20 settembre 2003]

 

 

Note

 

(1) La scalata alla Telecom da parte della cosiddetta “razza padana” capeggiata da Colaninno e sponsorizzata da D’Alema ne è un chiaro esempio. Le lamentele della Cgil e, in particolare, della Fondazione Di Vittorio sono veramente insopportabili. La drammatica perdita di potere d’acquisto dei salari si è in gran parte consumata proprio nell’epoca del centro sinistra e proprio grazie all’accordo di luglio. Dopo avere regalato ai padroni la compressione salariale e la perdita concertata di una parte consistente dei diritti, la Cgil oggi strilla il suo allarme rispetto al fatto che le imprese italiane sono tecnologicamente arretrate, sono troppo piccole e fondano la concorrenza solo sulla compressione dei costi. Cfr., per esempio, P. Bianchi, M. Messori, P. Onofri, Problemi di competitività del si­ste­ma produttivo, http://www. fondazionedivittorio.it/

 

(2) In realtà tutti i padroni hanno sempre qualcosa da chiedere a vecchi e nuovi governanti. Per esempio nell’ignobile vicenda della liquidazione della Montedison, il governo Amato intervenne per decreto a bloccare l’avvento della francese Edf, favorendo una soluzione targata Fiat, che diede agli Agnelli la possibilità di mettere le mani su Edison, cioè sull’energia elettrica privatizzata. Cfr. M. Mucchetti, Licenziare i padroni?, Milano, Feltrinelli, 2003.

 

(3) Riordino dell’arma Carabinieri, elevata a rango di forza armata con la L. 78 del 31/3/2000, istituzione del famigerato Sco da parte del ministro della giustizia Diliberto, mano libera alla mattanza a Napoli in Piazza del Plebiscito.

 

(4) Sul reddito prodotto dall’impresa individuale e dalle società di persone, a regime di contabilità ordinaria, sia sul reddito prodotto da società di capitale, da società cooperative e da enti commerciali, gravano l’Irpef e l’Irpeg rispettivamente. Se l’utile o parte dell’utile viene reinvestito, su tale utile si applica la percentuale prevista dalla Dit (Dual Income Tax), che è pari al 19%. Si tratta di uno sdoppiamento della tassazione del reddito conseguito nell’esercizio, che dovrebbe incentivare l’apporto nelle imprese individuali e collettive di un nuovo capitale di rischio.

 

(5) Cfr. http://www. commercialistatelema tico.com/documenti/irap2003.htm

 

(6) Un quadro abbastanza esaustivo è contenuto in: R. Picarelli, Oligopolio e Pmi nelle politiche del governo Berlusconi, 3/2003, scaricabile da: http://mercatiesplosivi. com/caap/pica.html

 

(7) Il rapporto con la Cisl, per un governo che soffriva di scarsa interlocuzione con le organizzazioni sindacali, era strategico. Nel Sud la Cisl ha uno stretto rapporto, oltre che con l’Udc, anche con AN.

 

(8) E’ doverosa una precisazione: non si vuole qui sostenere che centrosinistra e centrodestra siano la stessa cosa, o negare la pericolosità di Berlusconi e del suo personale politico. La deformazione propagandistica del dibattito sulla destra italiana porta a conclusioni politiche simili a quelle di Cossutta e Diliberto e all’utilizzo di armamenti concettuali che c’entrano ben poco. E’ il caso del “sovversivismo delle classi dirigenti”, coniato in ben altro contesto, dove a un biennio rosso seguiva un biennio nero di reazione squadristica armata da settori delle classi dirigenti. Il sov­ver­sivismo berlu­sco­niano, a parte gli aspetti che interessano i suoi personalissimi interessi, rientra nell’alveo del Piano di rinascita della P2, abbondantemente realizzato da Craxi, dalla DC prima e dal centro sinistra poi.