La
questione del potere nella polveriera dell'America Latina
E
ora la Bolivia…
di Alberto Airoldi
Una nuova scintilla nella polveriera dell’America
Latina, si potrebbe dire se di questi tempi non fosse importante sfuggire
qualsiasi ombra di retorica. Chi assisteva smarrito all’apparente epilogo
della ‘’rivoluzione Argentina’’, tradottasi in una stabilizzazione
(assai precaria) e nella disfatta elettorale della sinistra, può ritornare a
guardare con attenzione e con speranza al continente Latino Americano.
Gli avvenimenti boliviani oggi,
come, del resto, quelli argentini ieri, non rappresentano una rivoluzione
compiuta, ma la messa in marcia di un processo rivoluzionario. Come ogni
processo rivoluzionario che ha caratterizzato la storia dell’umanità il
tragitto non è lineare, né scontato l’esito: vi sono momenti di forte
accelerazione e momenti di ristagno e di ripiegamento, si alternano vittorie e
sconfitte. Il processo rivoluzionario rimane aperto, tuttavia, fino a quando la
classe dominante non ritrova un nuovo assetto stabile, grazie alla distruzione
del suo antagonista (come avvenne nel decennio dei golpe), o alla sua
disarticolazione, grazie alla soluzione almeno parziale delle gravi
contraddizioni economiche e alla cooptazione di una parte delle forze di
opposizione. Non è questo il caso dell’Argentina, né della Bolivia.
La
"rivolta del gas"
La crisi boliviana non giunge
inattesa. Gli antecedenti più clamorosi erano stati la ‘’guerra
dell’acqua’’ a Cochabamba nel 2000, che per la prima volta aveva
dimostrato a tutto il continente che era possibile arrestare i processi di
privatizzazione, la ‘’guerra della coca’’ nel dicembre 2003, il
cosiddetto impuestazo nel febbraio 2003, che aveva visto, tra l’altro,
numerose defezioni nelle file della polizia. Nel 2002 il candidato alla
presidenza Evo Morales, del Mas (Movimiento al Socialismo), era riuscito ad
arrivare inaspettatamente al ballottaggio e a perdere raccogliendo oltre il 40%
dei voti, a causa anche alle fortissime pressioni da parte dell’ambasciata
statunitense.
La drammatica crisi economica e
sociale della Bolivia, che si trascinava da decenni, aveva visto un punto di
svolta, in negativo, con il dispiegarsi delle politiche neoconservatrici, a
partire dal 1985, anno della privatizzazione delle miniere. I 50 mila minatori
espulsi si convertirono allora in nuovi poveri o in coltivatori di coca. La
legge sugli idrocarburi, approvata nel 1996 dal primo governo Sanchez de Losada,
impose allo stato la cessione dei diritti di sfruttamento economico alle imprese
che dimostrano di avere ‘’la capacità tecnica e finanziaria che permetta di
adempiere agli impegni contrattuali’’: lo stato è proprietario solo sulla
carta, le decisioni e i proventi vanno alle multinazionali straniere. Le imposte
sugli idrocarburi furono ridotte dal 50% al 18%: lo stato anteriormente riceveva
400 milioni di dollari all’anno, dopo la privatizzazione il flusso si ridusse
a 190 milioni: la differenza venne messa a carico del contribuente. Dopo qualche
anno di discreta crescita economica la Bolivia ripiombò nella crisi più
profonda: dal 2000 al 2002 il deficit è triplicato, tornando ai livelli del
1995. Intanto sono aumentate notevolmente miseria e disuguaglianza: 5,6 milioni
di persone (su otto milioni di abitanti) vive in povertà, il 25% della
popolazione urbana vive con 80C di dollaro al giorno, più del 50% della
popolazione rurale con 60C, il quinto più povero dispone del 4% della ricchezza
nazionale, il quinto più ricco del 40%.
La svendita del gas rappresenta
solo l’ultima tappa della svendita delle risorse di un paese ricco di materie
prime: oro, argento, carbone, stagno, petrolio, gas. L’’affare’’
prevedeva la vendita al Messico e agli USA del gas a meno della metà del prezzo
applicato al Brasile e a un terzo di quello di mercato. Si trattava inoltre di
passare per i porti cileni, dato che la Bolivia non dispone di un accesso al
mare, come conseguenza di una guerra persa alla fine del XIX secolo, e, pertanto
di assegnare al Cile tutte le commesse industriali connesse. E’ assai
probabile che a condizionare questa scelta sia stata la minaccia da parte della
Petrobras brasiliana della sospensione dei pagamenti se la Bolivia non avesse
rivisto al ribasso i prezzi della fornitura di gas. Tutto questo si verifica
mentre il consumo mondiale di gas è in aumento e le previsioni sono di un
marcato rialzo dei prezzi. L’insieme di queste circostanze ha concorso a
trasformare la questione in un problema di sovranità nazionale.
La rivolta
Il 19 settembre 150 mila persone
hanno manifestato a La Paz e nelle principali città boliviane. Le mobilitazioni
sono guidate dai sindacati Cob e Csutcb. Quest’ultimo aveva già iniziato a
organizzare dei blocchi stradali. Il governo, spinto dall’ambasciata
statunitense, decide di sfondare uno di questi blocchi nella regione di Warisata:
il 20/9 vi sono i primi sei morti, tra i quali una bimba. Il risultato è
l’esplosione della protesta e il salto di qualità politico, con la richiesta
di dimissioni del governo assassino. La Cob proclama lo sciopero generale,
coinvolgendo maestri, minatori, professori, e altre categorie non inizialmente
coinvolte dalle manifestazioni di contadini indios. A queste mobilitazioni non
partecipa la principale forza politica di opposizione, il Mas. La repressione
ottiene l’effetto di aumentare la partecipazione popolare: l’11/10 si
verifica una dura battaglia tra polizia e manifestanti nella strada che
congiunge La Paz a El Alto, una città operaia limitrofa alla capitale, per il
trasporto della benzina. Nuovi settori aderiscono allo sciopero. Vi sono i primi
poliziotti detenuti per avere solidarizzato con le mobilitazioni. La battaglia a
El Alto è cruenta, l’esercito per avere ragione dei blocchi deve ricorrere
anche a elicotteri e mezzi blindati. Il 13 si realizza una marcia di proporzioni
impressionanti verso La Paz. L’esercito, intanto, continua a uccidere indios
nei villaggi. L’estendersi a macchia d’olio della protesta, nonostante gli
oltre 60 morti, il suo politicizzarsi, convincono finalmente gli USA a puntare
sulla mediazione del Brasile e sul cambio di governo. La fuga del presidente a
Miami, l’ospizio dei macellai latinoamericani, e il ritorno dell’ex vice
presidente Carlos Mesa, con la promessa di nuove elezioni e di un referendum sul
gas, complici le varie forze di opposizione, sgonfiano la mobilitazione. Come è
ovvio, col passare dei giorni, le promesse si svuotano, il referendum si
trasforma in consultazione sulle ‘’modalità di vendita del gas’’, i
ministri fanno a gara nel dichiarare la continuità con le politiche del
precedente governo e l’intangibilità degli impegni assunti. Tuttavia un
processo rivoluzionario non si disattiva dall’oggi al domani: nelle enormi
proprietà lasciate da Sanchez de Losada, dalla sua famiglia, e da alcuni ex
ministri, si susseguono le occupazioni. Da parte sua il governo di Mesa cerca di
rispondere con una parvenza di dialogo (con alcuni partiti e associazioni) e con
l’incarcerazione e la repressione di chi viola la legalità borghese
(occupando le terre).
Un intermezzo grottesco
I discepoli argentini di Toni
Negri hanno prodotto una lettura dei fatti boliviani conforme alla Nuova Teoria
del professore[1]. La Bolivia sarebbe
entrata negli anni ’80 nella fase postfordista, caratterizzata da
‘’riduzione del vecchio stato fordista’’, precarizzazione, scomparsa
delle politiche keynesiane (in Bolivia, dove la precarietà è sempre stata di
casa e il cosiddetto welfare fordista non si è mai visto!). Lo stato,
ribattezzato ‘’capital-parlamentarismo’’, avrebbe il problema di
‘’amministrare violentemente l’eccesso di persone, il capitale ha gente in
eccesso’’ (i nuovisti non hanno mai sentito parlare di esercito industriale
di riserva). La rivolta boliviana sarebbe stata resa possibile dalla
‘’crescente cooperazione sociale del capitalismo postfordista’’ e quindi
da ‘’una moltitudine dal basso’’ che è ‘’immediatamente potenza
sociale’’ (l’immediatamente è un avverbio che fa molto ‘’negriano’’).
Si dimostra, pertanto, l’improponibilità dell’organizzazione
leninista-trotskysta. La moltitudine produce mobilitazione senza direzione,
leader e partito, ‘’immediatamente’’ rivoluzionaria. Il programma
‘’si sviluppa nel processo’’. E’ evidente qui come una teoria fumosa
possa tradursi in abbagli puri e semplici quando calata nella realtà di un
processo storico che, per di più di sviluppa a oltre 10.000 km di distanza
dallo studio del brillante teorico.
La rivoluzione in marcia
Le mobilitazioni boliviane hanno
riproposto la radicalità delle forme di lotta dei Piqueteros, ma a un livello di massa mai raggiunto in Argentina. In
Bolivia abbiamo assistito alle principali caratteristiche delle rivoluzioni
novecentesche: formazione di consigli, formazione all’interno della piccola
borghesia di un settore favorevole agli insorti, inizio di dissoluzione
dell’apparato statale e instaurazione di una situazione di dualismo di potere.
Questi elementi sono stati presenti a livello embrionale, ma significativo. A El
Alto si sono costituite 562 assemblee di quartiere, con un comitato di
coordinamento: lì sono state prese le decisioni sulla conduzione della lotta. I
commissariati di polizia sono stati distrutti e i soli poliziotti ammessi in
città sono stati quelli solidali con l’insurrezione. Uno dei motivi per i
quali non è stata percorsa la strada della radicalizzazione della repressione
è dovuta al fatto che nei settori medi e bassi dell’esercito vi è una forte
simpatia per la rivolta. Un elemento degno di nota e di riflessione è il
coinvolgimento, qui come in Argentina (ma anche in Brasile e in Equador), solo
parziale della classe operaia. La capacità di coinvolgere pienamente la classe
operaia è oggi uno dei principali obiettivi per qualsiasi organizzazione
rivoluzionaria in America Latina, un continente che vede la compresenza di
aspetti delle più recenti trasformazioni capitalistiche tipiche dei paesi più
avanzati e di aspetti tipici del principio del secolo scorso. Solo dei
meccanicisti, o dei vetero stalinisti, possono trarre la conclusione che da
queste considerazioni discenda l’impossibilità di una rivoluzione, o la
necessità di rivoluzioni democratiche in alleanza con settori anti imperialisti
della borghesia: al contrario la combinazione e il moltiplicarsi della
contraddizioni possono dare vita alle prime rivoluzioni proletarie del XXI
secolo.
Purtroppo abbiamo assistito
anche al classico copione dei controrivoluzionari: l’odioso atteggiamento del
Mas, che ha bollato la rivolta come contraria agli interessi del popolo, i quali
sarebbero tutelati, guarda caso, solo da una futura vittoria elettorale del Mas.
‘’Questo tema dell’insurrezione armata può essere un’arma nelle mani
del governo e dell’impero’’, ha dichiarato Evo Morales. Sempre il Mas, e
alcuni intellettuali di sinistra, hanno etichettato la rivolta come ribellione
indigena della nazione Aymara. L’indigenismo, come sempre, prospetta soluzioni
apparentemente radicali (indipendenza nazionale delle diverse etnie), ma lavora
nei fatti per la controrivoluzione, negando la lotta di classe, l’unità coi
lavoratori, gli studenti, i contadini, l’esercito, e, talvolta, mettendo in
contraddizione tra loro le stesse etnie indie.
Con buona pace dei negriani, i
fatti boliviani dimostrano ancora una volta che la radicalità delle masse, se
non guidata da un’organizzazione verso la presa del potere, si disperde e
approda a obiettivi assai modesti. Tuttavia, un conto è sedare una rivolta,
anche molto estesa, e un altro è rimuovere le contraddizioni che l’hanno
prodotta. La quarta rivolta di massa in tre anni ci fa ben sperare per il
futuro: in alcune assemblee popolari è stato affermato chiaramente che il
problema è prendere il potere, checchè ne dicano gli Evo Morales, i Marcos e i
Bertinotti di tutto il mondo.