Carcere
e classe
di
Stefano Giobbe e Michele Terra
Il
dibattito in parlamento sul ricorso al “carcere duro” per i mafiosi ed i
terroristi ha in parte riaperto, purtroppo solo in campo borghese ed
istituzionale, la discussione su una delle istituzioni totalizzanti e repressive
del sistema capitalistico.
Sono ormai passati oltre due anni dal cosiddetto Giubileo dei carcerati durante il quale addirittura Woitila chiese al parlamento un provvedimento di clemenza, amnistia o indulto, che intervenisse per risolvere, o almeno mitigare, il problema del sovraffollamento delle carceri italiane che rende la condizione dei detenuti al limite della sopportabilità. Nulla è stato fatto, anzi alcuni esponenti governativi paragonano i luoghi di detenzione a comodi alberghi di lusso.
La
discussione avvenuta recentemente in parlamento, dove ben poco si è distinta
Rifondazione Comunista, riparte quindi non dalle esigenze dei detenuti ma dalle
richieste forcaiole di una parte di opinione pubblica che trova facile sponda
nel governo.
In
realtà da sempre il carcere nella società capitalista si configura come un
luogo di prigionia per proletari e sottoproletari esclusi dal processo di
produzione, utilizzando una definizione molto in voga lo si potrebbe definire
una “discarica sociale”, senza possibilità di “recupero” o
“reinserimento” per chi vi transita.
Esistono alcuni stereotipi relativi
alle condizioni e all’utilizzo delle carceri italiane, presenti non
solamente nella convinzione della borghesia nostrana, ma purtroppo radicate
anche nei settori popolari.
Tali stereotipi si basano sulla convinzione che oramai in
carcere non vi finisca più nessuno e che tutto sommato le condizioni di
detenzione non siano poi così dure.
Anche il recente intervento del
nostro Ingegner Castelli (quello che a Bolzaneto non si accorse di nulla di
strano), forte dell’ottusità tipica di una borghesia forcaiola, ha voluto
confermare quanto sopra accennato sostenendo che compito del suo ministero sarà
rendere le condizioni delle persone chiuse nelle patrie galere meno agiata.
Questa inchiesta vuole essere un
contributo, seppur minimo, al fine di smantellare tali convinzioni, cercando così
di dimostrare come nelle carceri italiane (ovviamente anche in quelle di tutto
il mondo) siano rinchiuse nella quasi totalità persone appartenenti a ceti
sociali bassi e come la tendenza
della borghesia sia quella di utilizzare sempre di più il carcere come
strumento di repressione dei disastri e delle tensioni sociali da essa
provocati.
Il primo dato dal quale partire per circoscrivere il
contesto della nostra indagine è quello relativo al numero delle persone
detenute nelle carceri italiane, che al 31 Dicembre 2001 evidenziava come queste
fossero 55.275, alle quali vanno aggiunte le 25387 ammesse ai benefici, quindi
in stato di esecuzione penale esterna.
A questi dati andrebbero
affiancati quelli relativi al numero dei reclusi negli anni precedenti al 2001.
Da questo confronto apparirebbe
evidente come l’aumento delle presenze negli istituti di pena avvenga
costantemente ormai da parecchi anni, in
barba a chi continua a sostenere che in galera non finisce più nessuno.
Comunque sia questa affermazione
è portatrice di una sacrosanta verità: in galera non finisce nessuno o quasi
che non sia appartenete a strati sociali svantaggiati.
La tendenza all’utilizzo delle
carceri come “discarica sociale”, come modalità preponderante utilizzata
dal potere economico e politico per contrapporsi ai disastri provocati dal
continuo peggioramento delle condizioni di vita di milioni di cittadini, risulta
essere ovviamente non solamente italiana, ma presente in tutto il mondo
occidentale o altro che si voglia.
Anche in questo caso sono i
freddi numeri a parlare, si prendano le statistiche prodotte da un qualsiasi
stato nazionale per rendersene conto.
Quindi carcere utilizzato come
discarica sociale e strumento di controllo verso la fascia di popolazione
maggiormente esposta agli attacchi del potere economico.
Al fine di provare quanto
affermato si osservino alcuni dati.
Per quanto concerne il titolo di
studio le statistiche ufficiali evidenziano come l’1,6% dei detenuti sia
analfabeta, il 9% sia assolutamente privo di titolo di studio, il 30% sia in
possesso della sola Licenza elementare, il 37% della Licenza media inferiore,
mentre i diplomati risultano essere il
6% e i laureati, manco a dirlo, lo 0,8 %.
Se si considera il titolo di
studio una valida categoria per individuare la classe di appartenenza di chi
attualmente è privato della propria libertà, questi dati possono essere una
prima conferma delle nostre ipotesi.
Da altre statistiche risulta
che prima dell’arresto gli attuali residenti presso le strutture
carcerarie fossero per la grande maggioranza in stato di disoccupazione (più di
17.ooo risultano essere disoccupati o in cerca di prima occupazione), ai quali
vanno aggiunti i 14000 risultati occupati, purtroppo a fronte di 24000 detenuti
non classificabili in quanto non è stato possibile rilevarne lo stato
lavorativo (si può immaginare l’alta percentuale di lavoro nero all’interno
di tale categoria).
Tra le persone occupate va
evidenziato il dato sconfortante che il 71% di queste risulta essere
classificato come operaio, al quale va affiancato quello relativo alla zona
geografica di appartenenza che, anche in questo caso manco a dirlo, risulta
essere il Sud Italia.
Disoccupati, operai, persone non in possesso di titolo di
studio o dello scarso valore dello stesso, chi mai potrà mancare nella
tipologia di persone da scaricare nell’immondezzaio sociale ?
Sempre al 31 Dicembre 2001 il
30% dei detenuti presenti nelle carceri italiane risultava provenire da uno
Stato estero (prevalentemente Marocco e Albania), mentre il 28% risultava essere
tossicodipendente e il 3% sieropositivo.
Pertanto pare evidente il
carattere di classe dello strumento detentivo, il quale costringe migliaia di
persone a vivere in luoghi perlopiù malsani e sovraffollati, colpevoli di avere
commesso in maggioranza reati contro il patrimonio o in violazione della legge
sulla droga.
Come se tutto ciò non bastasse,
dramma aggiunto ad altro dramma, è in forte aumento il numero delle persone
provenienti da altri Stati, le quali dapprima
vengono sfruttate e fatte oggetto di commercio, per poi essere rinchiuse nelle
strutture di repressione.
Vorrei ricordare, solo per
inciso, che mentre chi ha presente sul territorio la classica “rete sociale”
(nucleo famigliare, documenti in regole, quindi possibilità lavorativa,
abitazione) può sempre sperare nelle misure alternative al carcere (semilibertà,
affidamento ai servizi, arresti
domiciliari) chi, ancora più emarginato, risulta essere clandestino o
semplicemente solo, è costretto a scontare la totalità della pena
all’interno del carcere.
In un sistema economico e
produttivo che produce sempre più disoccupati, che rende sempre più instabili
i rapporti di lavoro abbassando i salari reali e il potere contrattuale dei
lavoratori, arrivando progressivamente ad eliminare le già minime conquiste
sociali, il ruolo del carcere pare quanto mai scontato.
Quale può essere la risposta di quei soggetti che in prima
persona subiscono le cause di quanto sopra brevemente elencato, se non quella di
azioni individuali tese al miglioramento delle condizioni di vita.
Quale allora potrà essere la
reazione del capitale al fine di contenere tale forma di ribellione provocata da
uno stato di necessità, se non quello di eliminare fisicamente queste persone
dal contesto sociale.
Se il sistema economico produce
sempre più emarginati, impossibilitati ad intraprendere una vita almeno
sufficientemente dignitosa, se non esistono i margini per la costituzione di un
seppur pidocchioso sistema di Welfare State che ne continui a garantire
l’inclusione sociale, se nemmeno si è più in presenza di organizzazioni di
massa atte a garantire un minimo di
coesione sociale è presto smascherato il ruolo dell’istituzione totale per
antonomasia.
Nessuna funzione di recupero o
reintegrazione sociale poiché nessun recupero e integrazione è attualmente
utile al capitale, si vogliono
solamente nascondere, per quanto possibile, i disastri più evidenti di un
attacco brutale rivolto ai lavoratori e alle classi disagiate.
L’illusione del recupero e
della integrazione sociale da costruire attraverso l’azione di trattamento
educativo e formativo è rimasta solamente a pochi illusi utopici riformisti, i
quali non hanno mai compreso l’inutilità di tale impostazione in un sistema
produttivo teso ad emarginare per scelta calcolata.
Il teorema è ancora una volta
confermato dalla drastica riduzione dei fondi rivolti alle azioni di
“recupero”, tra l’altro inutili o funzionali alla volontà di piegare
persone all’interesse economico produttivo, (il costante calo della
percentuale di educatori e psicologi, addetti sanitari e personale docente
rispetto al numero di agenti di polizia penitenziaria ne è una prova).
Per concludere, in un sistema
produttivo fortemente esasperato fautore di emarginazione sociale, il ruolo
dell’istituzione totale risulta chiaro, nascondere e smaltire i rifiuti
prodotti.
Forse non è tutto, poiché il
carcere in fin dei conti un azione di recupero la pratica.
Per chi, piegato da condizioni
di vita estremamente deprivanti e successivamente all’intervento trattamentale,
possa dimostrare di aver abbandonato ogni volontà bellicosa, è pronta la
possibilità per l’immediato
riscatto, il premio per aver sopportato tanto soffrire.
Quale premio ? la possibilità
di inserirsi o reinserirsi nel
contesto produttivo e sociale, magari con uno stipendio da fame e condizioni di
lavoro precarie, poiché, come negarlo, per riabilitarsi agli occhi di una così
benevola e comprensiva società qualche sacrificio per dimostrare l’avvenuto
ravvedimento dovrà pure essere compiuto. O no ?