Se
non ora quando?
Marco Veruggio (*)
Il successo della manifestazione
del luglio scorso a Genova è stato certamente un buon auspicio per una stagione
politico-sindacale che si preannunciava assai dura e segnata da scadenze
impegnative come questo Forum Sociale Europeo di Firenze. Nondimeno le 100 mila
persone accorse da tutta Europa in quell’occasione non annullano la percezione
di alcuni elementi di crisi politica: l’indebolimento dei forum locali, anche
a causa del deliberato disimpegno di alcune componenti del movimento, e
soprattutto una difficoltà crescente nel tenere insieme organizzazioni,
associazioni, strutture sindacali provenienti da culture ed esperienze anche
lontanissime.
E’ un fenomeno fisiologico o
invece rappresenta la diretta conseguenza di un deficit di discussione politica
tra di noi, manifestatosi già da quando abbiamo iniziato a costruire le
manifestazioni del contro G8 quasi due anni fa? Purtroppo l’impressione è che
oggi scontiamo la reticenza con cui si sono affrontati alcuni nodi della
discussione tra le componenti del movimento per la paura che ciò ci avrebbe
portato a compromettere quell’unità raggiunta faticosamente col G8 e
conservata gelosamente nei mesi successivi. Se è così sarebbe franco
riconoscere che così facendo abbiamo semplicemente lasciato che il fuoco
covasse sotto la cenere rimandando e forse acuendo l’esplodere di alcune
contraddizioni. I temi della proprietà,
della forza, della democrazia
diretta, l’individuazione di un orizzonte concreto per l’altro mondo
possibile che tutti aspiriamo a costruire rappresentano tutti capitoli di una
discussione che non abbiamo sviluppato abbastanza, che dobbiamo affrontare e
approfondire qui e ora a partire da questa scadenza fiorentina.
Nel luglio 2001 ci presentammo,
con un gruppo di compagni attivi nel Partito della Rifondazione Comunista e
nelle strutture che lavoravano alla costruzione del controvertice, avanzando al
movimento nel suo complesso una proposta di discussione politica incentrata
proprio su alcuni punti che ritenevamo - dal nostro particolare punto di vista
si intende – assolutamete ineludibili. In sintesi proponevamo di analizzare la
globalizzazione e le politiche neoliberiste nel loro fondamento materiale: la
stagnazione dell’economia capitalistica e il rilancio di politiche
imperialistiche, in cui cioè lo scontro tra i grandi gruppi monopolistici per
il controllo dei mercati si trasforma in aggressione militare e sfruttamento
economico dei paesi più arretrati da parte di alcuni Stati. Ne deducevamo che
criticare e combattere la globalizzazione significa mettere in discussione il
capitalismo a partire dalle sue fondamenta. Come contrastare ad esempio la
privatizzazione di alcuni beni fondamentali come l’acqua o i veri e propri
crimini perpetrati attraverso i brevetti farmaceutici senza sottoporre a critica
il concetto di proprietà, materiale e intellettuale? Ciò significa in primo
luogo riproporre il tema del socialismo, recuperandone il concetto e
l’esperienza storica, a partire da un bilancio della degenerazione stalinista
e del cosiddetto socialismo reale, così come della vicenda dei partiti operai
occidentali, e dallo smascheramento di tante formule propagandistiche post
’89, dal crollo del comunismo alla morte dell’ideologia; in secondo luogo
rimettere al centro i lavoratori, il movimento operaio, sia pure nella sua
mutata composizione di classe, come soggetto protagonista della trasformazione,
in piena coerenza con il protagonismo espresso dai lavoratori dell’AFL-CIO a
Seattle o della FIOM a Genova.
Bene, un anno e mezzo fa molti
giudicarono quella proposta una forzatura e un vezzo di voler precorrere i
tempi. A noi sembra, senza presunzione, che così non fosse e che gli
avvenimenti successivi ce ne abbiano dato atto.
La crisi del capitalismo, lungi
dall’essere evocata come una qualsiasi forma di millenarismo o di
catastrofismo di scuola, è una realtà che non sfugge ormai a nessuno, men che
meno agli analisti economici borghesi, che non soltanto la confermano, ma
giungono persino a chiedersi se, viste le sue dimensioni, essa non rappresenti
un fenomeno strutturale più che congiunturale. Dal nostro punto di vista lo
sgonfiarsi della bolla produttiva e subito dopo di quella finanziaria ad essa
legata ci riportano a due verità tanto semplici quanto evidenti. Primo: questo
sistema economico non è in grado di assicurarci le magnifiche sorti e
progressive che qualcuno strombazzava dopo l’89. Secondo: crollate miseramente
le utopie di un capitalismo liberato dal lavoro materiale, unico suo fondamento,
come dalla devastazione ambientale e dalla guerra, in altre parole dal
meccanismo dello sfruttamento, tornano al centro i lavoratori che nei mesi e
nelle settimane scorse hanno riempito nuovamente strade e piazze facendo tremare
un campione di liberismo come Silvio Berlusconi.
Ma la crisi recessiva
internazionale ci dice soprattutto che oggi è più che mai illusoria la
prospettiva gradualista di chi voglia sostituire le ricette neoliberiste con
politiche redistributive, mantenendo inalterato nei suoi fondamenti il quadro
politico complessivo.
Del resto alla crisi il
padronato risponde semmai non soltanto con un’ulteriore inasprimento del
massacro sociale (licenziamenti di massa, ristrutturazioni, azzeramento dei
diritti), ma rilanciando fenomeni di aggressione imperialistica. E se qualcuno
ci ammonisce a considerare tramontato il fenomeno dell’imperialismo tanto
quanto i suoi tradizionali soggetti, gli Stati nazionali, oggi, il riaffacciarsi
di politiche “scaccia crisi” basate sull’espansione della spesa pubblica e
sull’intervento dello Stato nell’economia (dal cosiddetto keynesismo bellico
di Bush alle nostalgie ante Maastricht di Tremonti) ci dimostra appunto che
l’imperialismo è scomparso esattamente come gli Stati nazionali, cioè per
nulla! Del resto come definiremmo l’aggressione imminente degli Usa nei
confronti dell’Iraq o lo stesso “pacifismo” di uno Schroeder che si
dichiara contrario a un intervento contro Saddam in nome dell’interesse
nazionale e in nome di quello stesso interesse candida la Germania a esercitare
un ruolo guida nel contingente internazionale in Afganistan?
La conclusione ci sembra
immediata: il “movimento dei movimenti” non può essere contro la
globalizzazione neoliberista senza essere al contempo anticapitalista e
antimperialista. Certo, non tutti tra noi la pensano così, ma se la politica è
una scienza oltre che un’arte le ipotesi vanno verificate sul campo. Prendiamo
il caso dell’America Latina. Due paesi diversi – Argentina e Brasile –
vittime del capitalismo neoliberista: privatizzazioni, paralisi del sistema
produttivo, crescita abnorme del debito, iperinflazione, disoccupazione,
miseria. In Brasile, culla dell’esperienza di Porto Alegre, dell’ipotesi
partecipativa e redistributiva, il recente test elettorale misura in qualche
modo l’efficacia della proposta. Lula vince le elezioni giocandosi la carta
dell’affidabilità per il FMI e i mercati finanziari internazionali,
impegnandosi a “rispettare tutti gli impegni assunti in nome del Brasile con i
creditori internazionali”, scegliendosi come candidato vicepresidente un
industriale liberale, guadagnandosi il sostegno di settori padronali nazionali e
internazionali e incassando l’offerta di collaborazione del rivale Cardoso in
nome dell’interesse nazionale. In Argentina l’alleanza tra piqueteros,
sindacati, e classe media rovescia tre governi e tiene in scacco il quarto
rivendicando azzeramento unilaterale del debito, cacciata dei funzionari del FMI,
nazionalizzazione delle banche, potere ai lavoratori e alle classi subalterne,
rinunciando alla benedizione dei mercati e innescando un processo che potrebbe
rappresentare un formidabile laboratorio di transizione a un altro mondo
possibile (socialista). Noi cosa sceglieremmo? Senza dubbio il modello
argentino. Ne abbiamo elencato i motivi e se non bastassero ci convince ancor più
il giudizio che di quel modello danno gli osservatori della borghesia
internazionale. Scriveva Valentino Castronuovo sul Sole 24 Ore dell’11 agosto che senza un rapido intervento
dell’Europa in Argentina “c’è da temere che la crisi si propaghi prima o
poi (…) ben oltre le frontiere dell’America Latina; e che all’interno di
alcuni paesi sudamericani si radicalizzino le tensioni e i conflitti sociali: ciò
finirebbe per aprire la strada a un ritorno di scena dei militari o
all’irruzione di movimenti rivoluzionari di estrema sinistra.” Pensiamo di
non essere i soli che farebbero senza esitazioni questa scelta: a quelli che la
pensano come noi proponiamo di unire le forze per convincere anche il resto del
movimento che quella è la sola alternativa reale. Senza misconoscere il valore
di un impegno deciso per l’unità d’azione di tutto il movimento pensiamo
che dare vita a un lavoro di coordinamento tra tutte le forze anticapitaliste e
antiimperialiste presenti tra noi sia un modo per rafforzare il movimento nel
suo complesso.
E’ ovviamente una discussione
che richiederà tempo, ma tanto più urgente perché c’è chi sta già
organizzando le forze riformiste nel movimento e nella società italiana. Lo
sciopero generale dell’18 ottobre rischia di essere, sotto questo punto di
vista, oltre che una positiva espressione della propensione alla lotta di
milioni di lavoratori, disoccupati, studenti, immigrati, contro le politiche
neoliberiste, anche un capolinea a partire dal quale si cercherà di
anestetizzare il conflitto in cerca di soluzioni istituzionali
“ragionevoli”, a cominciare da chi ha già detto, poco prima di quello
sciopero, che in primavera dirà no all’estensione dei diritti, no
all’articolo 18 per tutti i lavoratori italiani nelle aziende di ogni ordine e
grado.
Anche la difesa di una battaglia
che ci ha unito negli ultimi mesi sarà un’occasione per alimentare il
dibattito e fare chiarezza, una chiarezza di cui abbiamo bisogno, tutti.
(*) del Forum Sindacale di
Genova