Laboratorio
Argentina
FABRICA
CERRADA, FABRICA TOMADA
L’esperienza
delle fabbriche occupate sotto controllo operaio
di Tiziano Bagarolo
Negli anni novanta è stata
l’“alliveo modello del Fmi”: Camdesuss, presidente del Fondo, spiegava:
“Menem [il presidente che governò per quasi tutto il decennio, ndtb] è il
miglior presidente degli ultimi cinquant’anni”. Nel frattenpo Domingo
Cavallo, il superministro dell’economia che aveva studiato nelle
“prestigiose” università nordamericane, girava il mondo per spiegare il
segreto del miracolo argentino agli “ultimi convertiti” al credo del
mercato, raccogliendo di passaggio riconoscimenti e attestati, come la laurea
honoris causa in economia concessagli dall’Università di Bologna. E’
abbastanza noto come il miracolo è finito. Le imprese e le risorse più
redditizie finivano svendute al capitale straniero, mentre l’industria meno
attrezzata per reggere la competizione internazionale chiudeva e il debito del
Paese si impennava. Le ripercussioni in America latina della “crisi
asiatica” del 1997-98, colpivano particolarmente l’economia argentina; dalla
recessione del 1998, dopo cinque anni, il Paese non è più uscito. Dalle
illusioni di ricchezza facile alimentate dalla parità peso-dollaro si è
risvegliato sull’orlo della bancarotta, con il blocco dei depositi, il crollo
del credito e della circolazione monetaria, il ritorno massiccio di
un’economia di sussistenza fondata sul baratto (treque).
A un anno dall’esplosione della crisi finanziaria, la drastica svalutazione
del peso (che ha perso quasi tre quarti del suo valore) non è servita a
risollevare le esportazioni e a rilanciare la produzione, ma solo a trasmettere
la sindrome argentina agli altri paesi dell’America latina. Ai primi di luglio
anche l’Uruguay ha introdotto il blocco dei depositi e il crollo del real
brasiliano ha fatto intravedere lo spettro del default anche per il Brasile,
dove si annunciava la vittoria elettorale di Lula, spingendo quest’ultimo a
moderare ancor di più il suo già limitatissimo programma di riforme e ad
allearsi con il partito liberare!
Nel giro di dieci anni, il paese
che aveva celebrato i trionfi del liberismo, si è tramutato nell’esempio più
drammatico del suo fallimento, pagato purtroppo a prezzi altissimi dai
lavoratori e dalle masse popolari. Oggi più del 50% per popolo argentino (quasi
20 milioni di persone) vive sotto la soglia della povertà, quasi 9 milioni
vivono in misera, la malnutrizione infantile supera punte del 60% persino dei
quartieri della capitale della classe operaia industriale di un tempo. Oggi la
disoccupazione tocca 3 lavoratori su 10 e altri 2 sono sottooccupati, i
licenziamenti continuano, la drastica crisi finanziaria porta a tagli in tutti i
settori pubblici (sanità, assistenza, scuola), l’aumento dei prezzi ha
ridotto in pochi mesi del 30% il potere d’acquisto intermo mentre la
svalutazione ha tagliato di due terzi il potere d’acquisto in dollari (moneta
in cui molti argentini si sono indebitati negli anni scorsi…).
Ma in questo scenario di
devastazione economica, la rivolta popolare che il 20 dicembre di un anno fa ha
cacciato il successore di Menem, il radicale De la Rua (e il ministro
dell’economia: sempre Cavallo, lo stesso per entrambi, e non a caso) ha
scoperchiato un vulcano di energie sociali per anni passivizzate o duramente
represse, quando si manifestavano, trasformando il paese in un laboratorio
sociale e politico di grande interesse, da cui c’è molto da apprendere, se si
vuol farlo. Purtroppo le informazioni sull’Argentina sono molto parziali e
frammentarie nei principali media italiani. Anche quello che compare nei
giornali “di movimento” è poco utilizzabile; quando supera l’episodio, è
in genere filtrato da pregiudizi che deformano o falsificano i fatti.
E’ vero, l’abborracciato
governo Duhalde è rimasto finora in piedi, facendosi forza più che sulla
larghissima maggioranza parlamentare che l’ha insediato sulla paura del vuoto
che ha preso tutte le forze del vecchio regime e sulla difficoltà per i
movimenti di massa di improvvisare un’immediata alternativa di governo e di
potere. Ma la crisi verticale degli apparati statali e l’impotenza del governo
si confrontano quotidianamente con la crescita delle mobilitazioni popolari e
con una riappropriazione della politica in modi non istituzionali da parte di
larghe masse che è il segno della profondità del processo rivoluzionario in
corso e della volontà della maggioranza del popolo di farla finita con i
rappresentanti di un regime fallito e screditato, volontà che si riassume nella
parola d’ordine che è la cifra da un anno a questa parte di tutte le
manifestazioni: “Que se vayan todos” (che se ne vadano tutti).
Molti sono gli aspetti
interessanti e originali di questa effervescenza rivoluzionaria.
Il movimento dei piqueteros,
innanzi tutto, di cui altre volte abbiamo parlato su questo giornale, è una di
queste, forse quella che comincia ad essere la più conosciuta anche in Italia,
soprattutto dopo i fatti di Ponte Pueyrredon della fine di giugno e le imponenti
risposte all’assassinio dei due giovani disoccupati Kosteki e Santillan.
Purtroppo meno nota dell’immagine del disoccupato organizzato con il
fazzoletto sulla faccia che blocca la strada armato di bastone (ormai entrata
nell’iconografia eroica a fianco del Che e del subcomandante Marcos), è il
percorso di lotte di questo movimento e la sua realtà attuale, che si espressa
ad esempio nella grande assemblea nazionale dei lavoratori occupati e
disoccupati che si è svolta il 28 e 29 settembre scorso a Buenos Aires, a cui
hanno partecipato circa 1600 delegati da tutto il paese, e nei documenti
politici e nel programma di rivendicazioni e di lotte che essa ha approvato. Un
programma che non si limita a rivendicazioni settoriali, ma punta a unificare
tutti i lavoratori, occupati, precari, disoccupati, e tutti i movimenti di lotta
in una prospettiva rivoluzionaria anticapitalistica.
Un altro aspetto è quello delle
assemblee popolari, nate a centinaia in tutto il paese nelle prime settimane
dopo la rivolta di dicembre, in cui ha trovato espressione una domanda di
protagonismo e di “potere” di masse da lungo tempo espropriate e
marginalizzate, che subito è stata guardata con sospetto e inquietudine da
parte della classe dominante, spaventata da questa potenziale reincarnazione dei
“soviet” proprio quando aveva appena celebrato la morte del comunismo…
Certo, le assemblee di barrio non sono diventate, ancora, un sistema di soviet.
Ma sono un importante canale di lotta e di politicizzazione di un settore non
trascurabile delle masse, che più volta ha dimostrato di saper stabilire legami
con gli altri soggetti in lotta, con i piqueteros, con i lavoratori dei servizi,
della scuola, della sanità, con i senza tetto, con i lavoratori delle fabbriche
occupate.
Quello delle fabbriche occupate
è uno dei movimenti più sorprendenti e istruttivi che si sono sviluppati in
Argentina negli ultimi mesi. Il fenomeno era già nato prima del 20 dicembre,
come risposta difensiva a volte elementare alla perdita del posto di lavoro,
alla fuga del padrone o alla minaccia di chiusura. L’occupazione degli
impianti, la loro riattivazione da parte dei lavoratori, la costituzione di una
cooperativa per continuare a produrre e ad avere un reddito, appariva per molti
lavoratori l’ultima risorsa. Ma questo movimento si è sviluppato e
politicizzato negli ultimi mesi. Oggi sono forse 150 le imprese occupate ed
autogestite dai lavoratori ed è nato un movimento che cerca di coordinarsi a
livello nazionale e di stabilire momenti di unità con i piqueteros, con le
assemblee popolari, con l’insieme dei lavoratori. Alcune situazioni sono già
diventate un simbolo e un punto di riferimento nella loro regione e anche su
scala nazionale. Quello delle ceramiche Zanon (padrone italiano) di Nequen,
nella Patagonia settentrionale, fabbrica occupata da oltre un anno e riattivata
dai 150 “dipendenti” che hanno “assunto” anche alcune decine di
disoccupati e collaborano con la comunità locale degli indios Mapuche, è uno
degli esempi più noti. La Zanon ha già respinto tentativi di sgombero,
intimazioni legali, varie provocazioni, grazie al largo sostegno popolare che è
cresciuto attorno alla sua lotta e che ai primi di agosto ha visto in piazza
migliaia di abitanti del comprensorio in difesa della fabbrica occupata contro
il tentativo della proprietà di farsela restituire dal giudice. Altra lotta
esemplare quella dei 1500 minatori di Rio Turbio (Patagonia meridionale), che
hanno imposto la riacquisizione allo Stato della loro impresa privatizzata oggi
riattivata sotto controllo operaio. Ma i nomi e i casi esmplari sono decine: ad
esempio la tessile Brukman, la metallurgica Baskonia, la tipografica Chilavert,
le alimentari Grissinopolis e Panificio Cinco a Buenos Aires, la clinica Junin a
Cordoba, il supermercato Tigre a Rosario… Ma al di là delle singole
situazioni, ciascuna con la sua storia di resistenza e di lotta operaia, ciò
che è importante è la nascita di un vero e proprio movimento che si pone
obiettivi politici generali e radicali, che ha un grande valore pratico e
simbolico, che dimostra la capacità dei lavoratori di mandare avanti
l’economia anche senza i padroni e indica una prospettiva che va al di là
delle fabbriche in crisi, che parla a tutto il paese e, in una situazione
internazionale che vede moltiplicarsi i fallimenti e le crisi dei colossi del
capitalismo mondiale – vedi in Italia la Fiat – anche oltre i confini del
paese.
Ovviamente non si tratta di uno
sviluppo lineare e scontato. Il movimento incontra molti ostacoli pratici (le
difficoltà di riattivare forniture e sbocchi, di trovare il credito, di
resistere ai tentativi di repressione, di ottenere entrate sufficienti per
pagare regolarmente i salari in un paese che attraversa la situazione economica
che abbiamo detto sopra...) e molte difficoltà politiche (anche di discussione
interna o di rapporti con altri “pezzi” del movimento). Ma oggi il livello
del confronto è sulle prospettive strategiche. Se è vero che la maggioranza
delle fabbriche occupate si è data per necessità una forma di gestione
cooperativa, è anche vero che il movimento è nato proprio superando questo
primo livello difensivo e ponendosi obiettivi che mettono radicalmente in
discussione il diritto di proprietà: l’occupazione delle fabbriche (“fabrica cerrada, fabrica tomada”: fabbrica chiusa fabbrica
occupata, è diventata la parola d’ordine del movimento), la pratica del
controllo operaio (“Zanon bajo control
obrero” è diventato il nuovo “logo” delle ceramiche Zanon), la
rivendicazione della statizzazione delle imprese senza indennizzo per i padroni,
della garanzia statale di un salario minimo per i lavoratori contro il possibile
auto-supersfruttamento che potrebbe conseguire dalla ricerca della competitività
sul mercato, della autogestione operaia.
Ma queste rivendicazioni
radicali pongono immediatamente un problema più generale. La possibilità di
collocare queste imprese gestite o sotto controllo dei lavoratori, entro un
quadro economico diverso da quello del mercato e del profitto, di farne anzi una
leva per costruire un altro modello economico che parta dai bisogni sociali de
un lato e dalla solidarietà dall’altro. Di qui la proposta-rivendicazione
formulata da una delle assemblee delle fabbriche occupate, quella che si è
svolta a fine agosto presso la Grissinopolis occupata: la costruzione di una
rete indipendente di tutte le fabbriche gestite sotto qualsiasi forma dai
lavoratori o sotto il loro controllo, la nazionalizzazione delle banche e la
creazione di una banca statatle unica sotto controllo operaio per garantire
l’accesso al credito, la costruzione di un piano produttivo insieme alle
assemblee popolari e al movimento dei piqueteros, la priorità alla rete operaia
nelle forniture ai servizi sociali, alle scuole, agli ospedali, agli enti
locali.
Non si tratta dunque – si
capisce ma è bene dirlo – di una rivendicazione di assistenzialismo statale e
neppure di una proposta di “economia sociale parallela” che persegua
l’impossibile utopia di convivere e svilupparsi fianco a fianco con
l’economia del capitale nell’illusoria speranza di sostituirla o, meno
ambiziosamente ma non meno illusoriamente, di dar vita a uno “spazio
liberato” in cui sia possibile l’“autovalorizzazione” dei soggetti e
della loro creatività (come potrebbe pensare qualche “negriamo” di casa
nostra). Si tratta invece di un programma di lotta anticapitalistico che pone
obiettivamente e soggettivamente il problema di un altro potere a livello
dell’intero paese e della rottura delle relazioni di dipendenza con le
istituzioni imperialistiche internazionali; un programma che ha senso nella
prospettiva della lotta per rovesciare il governo borghese esistente, per
conquistare un vero governo dei lavoratori, in ultima analisi nella prospettiva
del potere dei lavoratori. Perché è sempre più chiaro che è solo a questo
livello, in ultima analisi, che potrà darsi una vera e duratura soluzione delle
fabbriche che chiudono così come della catastrofica situazione economica in cui
il capitale ha gettato l’Argentina. E non solo l’Argentina.