Se vuoi la pace... prepara la rivoluzione

 

di Francesco Ricci

 

 

Mentre scriviamo questo articolo (metà novembre) non è ancora certa la data dell'inizio della guerra, ma è certo che l'aggressione dell'imperialismo all'Irak non tarderà molto. Entro l'8 dicembre l'Irak deve presentare all'ONU una lista dei propri armamenti. I servizi segreti americani (CIA) e britannici (MI5) la analizzeranno... e, senza nemmeno inscenare completamente la farsa degli ispettori ONU, decideranno... che è necessario l'attacco. La tragedia è già scritta, e se ne conoscono anche gli sviluppi: probabilmente i primi bombardamenti inizieranno in dicembre, mentre l'attacco aereo vero e proprio dovrebbe avvenire -per motivi meteorologici- a gennaio, seguito dallo sbarco di truppe per accerchiare Baghdad e tagliare i rifornimenti.

 

 

Le vere ragioni della guerra

 

Le motivazioni dell’imminente aggressione dell’imperialismo USA all’Irak non c'entrano dunque nulla con la presunta pericolosità di Saddam e il suo armamento: ex alleato dell'imperialismo, che lo ha armato per anni (l’arsenale chimico e batteriologico di Saddam è stato costituito con forniture USA all’epoca in cui l’Irak era una pedina americana e quando faceva comodo contro l'Iran e per massacrare i comunisti del suo Paese e i kurdi) egli è diventato nelle ultime settimane un altro simulacro del Male, come già bin Laden. In realtà la stessa immagine dell'Irak come "potenza militare" è semplicemente falsa: l'Irak è Paese stremato da anni di un embargo omicida (imposto dall'ONU) che ha prodotto oltre un milione di morti per fame e malattie.

Le vere ragioni della guerra sono ben altre: sono le riserve petrolifere e di gas dell'Irak (seconde solo a quelle dell'Arabia Saudita -alleato diventato ormai poco affidabile); sono i profitti dell'industria militare (possibile volano di quella ripresa economica che non arriva attraverso le vie "pacifiche": per il prossimo anno è previsto un incremento della spesa militare USA del 15%); sono la necessità di riarmarsi ideologicamente contro la crescente contestazione della globalizzazione capitalistica, cogliendo il pretesto della guerra per attaccare i diritti sociali e per restringere gli spazi della stessa democrazia borghese (con "legislazioni d'emergenza"). Ma la vera molla di tutto è la volontà USA di consolidare il controllo diretto sul Medio Oriente e sull'Asia centrale, per una sua completa riorganizzazione, esibendo al contempo la propria supremazia militare ai Paesi imperialisti concorrenti: Europa in testa. Di qui gli iniziali distinguo di Francia e Germania: non certo per un sussulto pacifista di Chirac o Schroeder, sperimentati promotori delle guerre balcaniche. Si trattava, in realtà, da parte loro di verificare quale spazio rimaneva per l'imperialismo europeo al nuovo banchetto di guerra che si sta allestendo. Alla faccia del "ruolo alternativo" dell'Europa invocato da alcuni in nome delle "tradizioni europee" (quali, di grazia? quelle del macello dei due conflitti mondiali o quelle di decenni di spietato colonialismo?).

Così pure la Cina (impegnata nel processo di restaurazione capitalistica) e la Russia borghese di Putin, presunti baluardi anti-imperialisti (secondo l'area neotogliattiana guidata da Grassi e Sorini nel PRC), già si stanno alleando agli aggressori imperialisti dell'Irak, in cambio della mano libera per la risoluzione dei loro problemi interni (v. Cecenia) e al contempo alla ricerca di un'affermazione come nuove potenze, in tendenziale competizione con i blocchi imperialistici.

 

 

Ma l'imperialismo non era scomparso?

 

Questa ennesima guerra conferma, se ce n'era bisogno, la fantasiosità delle varie teorie circolanti (anche nel nostro partito) sulla scomparsa o modificazione dei caratteri di fondo dell'imperialismo. Gli "Stati-nazione" imperialisti, si diceva (e si ripete ancora!), sarebbero stati sostituiti da un "Impero" globale privo di centro, dominato dalle multinazionali e dagli USA. Una teoria del tutto priva di fondamento che già ora mostra la corda: non essendo in grado di spiegare la reciproca conflittualità (per oggi solo sul piano politico e commerciale) dei diversi blocchi imperialisti (al contempo non privi di conflittualità interna); i contrasti politici emersi di fronte alla guerra all'Irak così come di fronte a tutte le guerre degli ultimi anni (contrasti conclusi sempre da accordi sulla divisione del bottino); o gli appetiti di un'Europa che si sta riarmando per i propri interessi tutt'altro che "subalterni", in competizione con gli USA per il controllo delle materie prime, dei mercati di sbocco, delle aree strategiche.

L'imperialismo USA ha oggi certo la supremazia: sia in termini di concentrazione del capitale finanziario sia soprattutto sul piano militare. Ma l'Europa rappresenta un polo economico concorrente e la costruzione dell'Unione Europea costituisce appunto il tentativo di assicurare all'imperialismo europeo un quadro politico unificante all'altezza delle sue nuove ambizioni (cui corrisponde lo sviluppo impetuoso dei livelli di concentrazione monopolistica in settori cruciali: banche, assicurazioni, telecomunicazioni). In questo quadro di alleanze e competizioni, gli Stati nazionali lungi dall'essere assorbiti da un'indistinta globalizzazione, costituiscono lo strumento decisivo -politico, diplomatico, militare ma anche economico- delle diverse borghesie imperialistiche concorrenti.

 

 

Le illusioni nella diplomazia internazionale

 

Anche questa guerra, come tante altre nel passato, si farà con il beneplacito dell'ONU. Anzi: l'ONU è stata usata sia come "foglia di fico" della guerra sia come luogo di ricomposizione dei differenti interessi imperialistici. Si conferma cioè come quel "covo di briganti" per usare una antica ma efficace definizione che Lenin utilizzava per la Società delle Nazioni.

Eppure se una parte del movimento contro la guerra continua a nutrire illusioni sul potenziale ruolo di un'ONU "riformata" o più in generale su un ruolo progressista della diplomazia internazionale ciò è dovuto purtroppo anche al fatto che il PRC non ha in questi anni contrastato in nessun modo queste illusioni, e le ha anzi talvolta alimentate. Ciò fin dai tempi della guerra in Bosnia ("Se l'ONU avesse potuto inviare 50-60 mila caschi blu in Bosnia all'inizio del conflitto, invece che pochissime centinaia..." rimpiangeva Ramon Mantovani (in un discorso alla Camera del 23/6/98); o della missione imperialista italiana in Albania (la posizione ufficiale iniziale del PRC, prima dello speronamento del cargo carico di albanesi, fu possibilista circa un invio militare purché compiuto da militari dotati di casco blu).

Come l'ONU, che è un'assemblea composta per la quasi totalità da rappresentanti di governi borghesi, possa svolgere un ruolo "neutro" resta un mistero (del riformismo). Anche perché, al di là di ogni invocazione pacifista, l'ONU -in tutta la sua esistenza- non ha mai svolto un "ruolo di pace". D'altra parte, come spiegava von Clausewitz la guerra è la continuazione della politica con altri mezzi. L'azione militare e quella diplomatica hanno sempre marciato a braccetto.

Oggi questo ruolo dell'ONU è evidente ai più: ma l'assenza di strumenti di classe per interpretare ciò che succede nel mondo ha favorito e continua a favorire illusioni pacifiste mal riposte in un diritto internazionale al di sopra della divisione in classi del mondo. Viceversa, l'unico diritto che gli Stati dominanti esercitano e rivendicano è il diritto a piegare col terrore ogni forma di resistenza al proprio dominio sul mondo. Come è scritto peraltro a chiare lettere nel testo del settembre scorso ("National Security Strategy") dell'amministrazione Bush. O in quel manuale degli Stati maggiori USA del 16 settembre 2002 pensato in vista dell'aggressione all'Irak: "i danni collaterali (alle persone) non sono illegali se sono causati da un attacco a un obiettivo legale e non sono eccessivi alla luce del vantaggio militare". Così, aggiungono, "le armi incendiarie sono legali se non sono impiegate per causare sofferenze non necessarie" (sic!) e quanto alle armi chimiche, "seppure vi è una convenzione che ne proibisce l'uso, se sono utilizzate non come metodo di guerra, non rientrano nella convenzione". Come a dire che non solo le leggi le fanno loro, ma che le parole scritte su pezzi di carta non possono certo fermare i bisogni del Profitto. Il sacro rispetto delle leggi e delle costituzioni (borghesi) la borghesia lo lascia volentieri a riformisti come Pietro Ingrao che, in un editoriale sul Manifesto, si chiede smarrito perché mai il parlamento (borghese) italiano (costituito per la quasi totalità da rappresentanti della borghesia) non sia interessato a rispettare il dettato costituzionale che "ripudia la guerra". Mentre Ingrao (e tanti altri con lui) cercano risposte a questi amletici dubbi, i militari caricano gli aerei con le bombe che sganceranno sulle case, le scuole, gli ospedali irakeni.

 

 

Il PRC e i compiti dei comunisti

 

Il PRC è positivamente impegnato, in ogni città, nei movimenti e nelle mobilitazioni contro la guerra. Centrale è stato il suo ruolo e la sua presenza nella gigantesca manifestazione di Firenze del 9 novembre. Chiaro è stato il pronunciamento del partito contro la guerra "senza se e senza ma". Eppure, l'impostazione politico strategica del gruppo dirigente impedisce al partito di ricoprire realmente e fino in fondo il ruolo di partito dell'opposizione rivoluzionaria alla guerra.

Le illusioni seminate per anni sulla diplomazia e sull'ONU (v. quanto detto più sopra) o le invocazioni di un "ruolo non subalterno" dell'Europa (avendo per anni indicato in Jospin il contraltare al militarismo blairiano -financo quando il governo francese era impegnato in prima fila nell'occupazione neocoloniale dei Balcani); l'aver smarrito gli strumenti marxisti di analisi della realtà (rimozione del concetto leniniano di imperialismo, celebrata al V congresso); ma specialmente l'ossessiva ricerca di una ricomposizione, graduale e negoziale, di governo, con il centrosinistra (oggi attraverso un preventivo accordo con la socialdemocrazia liberale di Cofferati ma sempre in vista di un negoziato col centro liberale borghese); la permanenza nel governo di tante città e regioni con forze tutt'altro che pacifiste (come la Margherita di Rutelli e la maggioranza dalemiano-fassiniana dei DS): ecco cosa preclude a Rifondazione la possibilità di porsi come punto di riferimento positivo per il movimento contro la guerra.

Altro dovrebbe essere il ruolo dei comunisti. Sarebbe necessaria un'opera costante e sistematica di disvelamento delle vere ragioni di classe della guerra (che vada anche un po' oltre la semplice indicazione dell'obiettivo petrolifero). E a un'analisi di classe della guerra dovrebbe corrispondere la proposta di uno schieramento di classe contro la guerra e quindi di piena indipendenza del movimento da tutti gli schieramenti borghesi, di governo e di "opposizione", localmente e nazionalmente. La piena indipendenza di classe del movimento contro la guerra (e dunque dal centrosinistra che si prepara a sostenerla) andrebbe costruita sulla chiara indicazione di una piattaforma antimilitarista di classe. Che preveda, tra l'altro: la costituzione in ogni città di comitati (non semplici aggregazioni di sigle e ceti politici) di studenti, giovani e lavoratori contro la guerra, in grado di ampliare la mobilitazione nei luoghi di lavoro; la costruzione di uno sciopero generale contro la guerra, appena inizierà, in grado di paralizzare il Paese e di puntare alla cacciata del governo Berlusconi, complice del nuovo massacro ("il nemico principale è nel proprio Paese!" diceva giustamente novanta anni fa Karl Liebnecht). Nel movimento andrebbero avanzate parole d'ordine che superino i limiti degli slogan pacifisti. Che indichino, ad esempio, come obiettivi: la nazionalizzazione sotto controllo operaio delle fabbriche produttrici di armi (e la FIAT tra queste); il blocco delle basi militari che serviranno per sferrare l'attacco, ecc. (v. le parole d'ordine del manifesto che abbiamo firmato con altre forze aderenti al Movimento per la Rifondazione della Quarta Internazionale, pubblicato su questo stesso numero del giornale).

Il fulcro dell'intervento dei comunisti dovrebbe essere quello della miglior tradizione internazionalista. Ciò significa in primo luogo schierarsi per una difesa incondizionata dell'Irak e per la sconfitta degli eserciti aggressori, quindi per un sostegno all'armamento del popolo irakeno perché possa affrontare gli invasori imperialisti (il che non significa, evidentemente, un appoggio politico al dittatore antioperaio Saddam Hussein e alla sua cricca). Ma significa anche e soprattutto porsi un problema primario per l'insieme del movimento operaio di tutto il mondo: quello della costruzione di una direzione internazionale delle lotte, un'Internazionale marxista rivoluzionaria dei lavoratori contrapposta all'internazionale della guerra e del terrore. Porsi cioè il problema della rifondazione della Quarta Internazionale.

Questa ennesima guerra del capitale produrrà nuovi massacri, distruzioni, lutti. Compito dei rivoluzionari rimane quello di cercare di trasformarla in un'occasione di disfatta e quindi di indebolimento internazionale della borghesia imperialista. Come già accadde venticinque anni fa in Vietnam, la sconfitta dell'imperialismo rafforzerebbe i lavoratori di tutto il mondo riproponendo l'attualità di quel progetto comunista di rovesciamento del capitalismo che resta l'unica possibilità di mettere fine una volta per tutte alle guerre. Ecco perché i comunisti davanti alla guerra devono guardare all'esempio di Lenin e Liebnecht, non a quello dell'impotente pacifismo gandhiano.

 

 

La migliore tradizione del movimento operaio e "la nostra parola d'ordine centrale"

 

Il movimento comunista è nato appunto come movimento internazionalista e, in questo secolo, si è costruito sia contro la politica sciovinista e guerrafondaia della socialdemocrazia, sia contro la "obiezione di coscienza" del pacifismo piccolo-borghese. A quella tradizione, oscurata da anni di nazionalismo stalinista, è bene tornare oggi. Richiamiamo alla memoria alcuni importanti episodi della nostra storia, densi di insegnamenti, pur nella diversa situazione.

La guerra ha costituito fin dall'inizio del secolo uno spartiacque nel movimento operaio. E' stata la cosiddetta Grande Guerra a segnare la fine della II Internazionale e la nascita del movimento comunista e dell'Internazionale Comunista. Ieri e oggi l'atteggiamento verso la guerra ha diviso il movimento operaio non solo tra "socialtraditori" (che appoggiano la guerra) e rivoluzionari, ma anche tra questi ultimi e i centristi o i riformisti di sinistra, imbevuti di pacifismo "umanitario" (che rifiuta "ogni violenza", ponendo sullo stesso piano l'uso della forza degli oppressori e quello cui gli oppressi devono ricorrere per liberarsi dal giogo). La differenza di fondo tra i comunisti e i pacifisti di vario tipo è sempre consistita nel fatto che i primi, per dirla con Lenin, mirano a "trasformare la guerra imperialista in guerra civile". Il che non significava ieri, né oggi, come crede qualche scettico ignorante, l'"avvio immediato dell'insurrezione" o "l'assalto domattina al Palazzo d'Inverno" (in Italia, peraltro, si chiama "Palazzo Chigi" l'edificio che una futura rivoluzione dovrà assaltare...): questa prospettiva voleva indicare, già all'epoca in cui fu indicata, durante la prima guerra mondiale, la costruzione di un percorso di opposizione di classe in grado di condurre a quel fine, guadagnando la maggioranza dei lavoratori politicamente attivi alla comprensione che questo sistema sociale non può garantire altro che guerre e miseria, qualsiasi siano i governi che si succedono, di "destra" o di "sinistra"; ed è dunque necessario costruire un governo "dei lavoratori per i lavoratori".

Lenin indicava come modello Karl Liebnecht, che fu tra i principali dirigenti, con Rosa Luxemburg, della rivoluzione tedesca del '18-'19 (anch'egli come Rosa, assassinato dalle squadre del governo "di sinistra" o di "sinistra plurale" per usare termini aggiornati, contro cui i comunisti svilupparono una risoluta opposizione di classe). Il partito socialdemocratico tedesco (SPD) votò il 4 agosto 1914 i "crediti di guerra", cioè le misure finanziarie per sostenere la guerra. Fu un voto unanime: anche Liebnecht in un primo momento si disciplinò convinto di potersi così battere nel partito contro le posizioni maggioritarie. Quando si accorse che non era così, ammise di aver commesso "un grave errore", cui peraltro porrà rimedio già il 3 dicembre '14 quando, da solo, voterà contro i crediti di guerra. Questo suo atto sarà l'inizio della battaglia internazionale dei comunisti contro il tradimento della socialdemocrazia. Nel marzo del '15, parlando alla Camera, Liebnecht concluse così uno dei suoi più infiammati discorsi nel parlamento borghese: "All'opera! Sia coloro che combattono nelle trincee, sia quanti lottano nei campi devono abbassare le armi e volgersi contro il nemico comune che li priva di luce e di aria." Richiamato al fronte, nel maggio del '15 scrisse un celebre volantino per le truppe intitolato: "Il nemico principale si trova nel proprio Paese". Per Lenin il voto di Liebnecht "solo contro tutti" e quella parola d'ordine ("la nostra parola d'ordine centrale") diverranno il punto di riferimento dell'ala socialdemocratica che si oppose al tradimento della II Internazionale.

Liebnecht indicò la via per la sinistra classista che diede vita alle due conferenze svizzere di Zimmerwald (settembre '15) e di Kienthal (aprile '16). A Zimmerwald, però, la posizione di Lenin venne sconfitta da quella astrattamente pacifista dei centristi (20 voti a 8) che ancora a Kienthal non furono disposti a rompere ogni legame con la II Internazionale. Solo la vittoria comunista nell'Ottobre '17 darà un nuovo impulso alla costruzione di un'altra Internazionale (1919) e alla separazione dei comunisti dai "socialtraditori".

In Italia la posizione capitolarda venne mascherata inizialmente con la parola d'ordine "né aderire né sabotare". I Turati e i Prampolini cercarono così di mantenere il controllo di una indomita classe operaia. Classe operaia che, dopo due anni di mobilitazioni e scioperi, di diserzioni al fronte (nel solo '17 sono oltre centomila i disertori o renitenti alla leva), diede vita nell'agosto del '17 a una insurrezione contro la guerra. E' Torino il teatro di questo atto coraggioso. La Torino in cui la guerra e la produzione bellica hanno rafforzato la concentrazione operaia; una città che nel '17 si trova priva dei generi alimentari basilari (il pane, la farina) e in cui i lavoratori seguono con attenzione gli echi della nascente rivoluzione russa. Sono le donne, il 22 agosto, a iniziare le prime manifestazioni spontanee. Fermano i tram, prendono d'assalto i forni. Alcuni gruppi di operai attaccano le caserme, mentre inizia uno sciopero che le burocrazie sindacali si rifiutano di proclamare. Lo sciopero diventa generale il giorno 23, mentre iniziano i primi scontri a fuoco tra operai e polizia. Su "Stato operaio", pochi anni dopo, i fatti vennero così descritti: "Le donne e gli operai che insorsero nell'agosto a Torino, che presero le armi, combatterono e caddero come eroi, non soltanto erano 'contro la guerra' ma volevano che la guerra terminasse con la 'disfatta dell'esercito della borghesia italiana' e con una 'vittoria di classe' del proletariato." Ma mancò un lavoro preparatorio nell'esercito (come ricorderà acutamente in seguito Gramsci) e mancò una direzione politica al movimento spontaneo. Mentre gli operai combattevano nelle strade, i loro dirigenti studiavano col prefetto le mosse più indicate per porre fine a tutto. Quegli stessi dirigenti che dopo Caporetto, nonostante la parte più intransigente (Lazzari, Serrati) fosse in galera per l'opposizione alla guerra, dichiareranno per bocca di Turati: "Noi ci sentiamo tutti rappresentanti in egual misura della nazione in armi." (discorso alla Camera il 16/6/18).

Gli operai di Torino avevano tradotto in azione le parole di Lenin: "La lotta di classe è impossibile senza assestare colpi alla 'propria' borghesia, al 'proprio' governo, cooperando alla sconfitta del 'proprio' Paese.". I loro dirigenti, invece, si dividevano tra un aperto sostegno alla borghesia imperialista e un'astratta invocazione della pace. Si determinavano così tre posizioni. quella di capitolazione completa, quella pacifista ma non rivoluzionaria, e quella comunista, ancora embrionale e priva di un partito e di un'Internazionale che la sostenesse. La situazione odierna è, chiaramente, assai differente. Ma, a ben vedere, le posizioni in campo non differiscono di molto. E, soprattutto, i compiti dei comunisti di fronte alla guerra rimangono gli stessi. E uguale rimane la "parola d'ordine centrale": il nemico principale si trova nel proprio Paese.

 

(13 novembre 2002)