"Questione palestinese": i limiti politici della solidarietà

 

di Letizia Mancusi

 

 

Quel milione di persone che hanno sfilato il 9 novembre per le vie di Firenze erano percorse ed unite da fili invisibili che emergevano più o meno consapevolmente negli spezzoni organizzati come nei gruppi che disordinatamente si accalcavano lungo e dentro il corteo. Uno di questi fili era sicuramente la Palestina.

Migliaia le bandiere palestinesi, gli striscioni i cartelli, moltissimi i manifestanti che portavano addosso i simboli della solidarietà con questa lotta di resistenza, una kefia, un adesivo, una spilla con i colori della bandiera palestinese. Gli slogan si ricorrevano e si ripetevano nelle diverse lingue.

Eppure sia nella piattaforma originaria di questa grande manifestazione, come in tutti i “seminari ufficiali” del FSE che si sono tenuti rispetto alla guerra annunciata di Bush, si è artificiosamente e volutamente separata la mobilitazione contro la guerra dalla “questione palestinese”.

“Oggi è il giorno della grande marcia pacifista” e “Una rivincita sulla barbarie”, titolava significativamente “Liberazione” il 9 novembre, emblematica rinuncia ad immettere nel dibattito qualsiasi elemento diverso da una critica morale ed etica alla guerra.

Il legame strettissimo tra la prossima guerra all’Irak e l’evoluzione dell’occupazione militare e coloniale della Palestina è evidente.

L’obiettivo dell’imperialismo angloamericano condiviso dall’alleato sionista è quello di ridisegnare completamente la mappa geopolitica dell’area, per un totale e definitivo dominio sull’intero medio oriente e sulle sue immense risorse. 

L’Irak come la Siria, il Libano, la Giordania e l’Arabia Saudita contro i vecchi ed i nuovi alleati, spazzando via qualunque ostacolo si frapponga alle reali finalità di questa guerra che nulla hanno a che vedere col terrorismo.

Ed è in questo quadro, che senza forzature interpretative, si possono prevedere due possibili “soluzioni finali” volute dallo Stato sionista di Israele per il popolo palestinese: portare a termine l’operazione di pulizia etnica iniziata nel 1948 e finalizzata alla costruzione della “Grande Israele” oppure la creazione di un micro-Stato, privo di ogni entità statuale, un “bantustan” dove segregare i palestinesi che caparbiamente non lasceranno la loro terra.

In questo scenario drammatico appare evidente quanto sia ancora inadeguata la mobilitazione nazionale ed internazionale a sostegno della lotta di liberazione del popolo palestinese.

L’inizio della seconda intifada, ormai più di due anni fa, è piombato su una sinistra addormentata e addomesticata da una potente propaganda sionista che voleva la Palestina avviata verso un irreversibile e giusto processo di pace, accettato e condiviso dalle due parti.

Con difficoltà si è percepito in Italia l’importanza di questa poderosa sollevazione popolare, con ritardo si è passati dall’esprimere solidarietà alla percezione che si era aperta un’altra fase storica per la Palestina.

L’estromissione pressoché totale della “questione palestinese” dal dibattito e dall’elaborazione politica dei partiti e delle organizzazioni della sinistra occidentale, non può essere spiegata dalle sole difficoltà oggettive che le hanno percorse nel decennio successivo alla caduta del muro di Berlino. Si voleva rimuovere l’esemplificazione concreta del persistere di un feroce imperialismo e colonialismo in un’area cruciale come quella mediorientale.

Si è per anni lasciato l’intervento in quest’area alle sole organizzazioni umanitarie (per la verità poche), non si è dato ascolto a quelle organizzazioni della resistenza palestinese nei fatti emarginate dall’ANP o a quegli intellettuali come Edward Said che già durante la fase negoziale ne denunciavano con forza l’assoluta inconsistenza e le conseguenze disastrose che gli accordi avrebbero avuto a breve e a lungo termine per il popolo palestinese.

L’elaborazione e la proposta politica assunta da quei settori organizzati del movimento noglobal, da Rifondazione ai Disobbedienti, che vogliono la negazione dell’imperialismo in questa fase storica rende impossibile una corretta interpretazione delle contraddizioni internazionali, e si ripercuote pesantemente sulle capacità di mobilitazione e di comprensione rispetto alla Palestina.

Settori che se da una parte dichiarano di rinunciare alla pratica dell’egemonia all’interno del movimento antiglobalizzazione, l’egemonia come sempre è stata intesa dai marxisti nel loro intervento nei movimenti di massa, dall’altra nei fatti, praticando egemonismo, si autoproclamano élite dirigente e decidono scadenze, piattaforme e modalità di lotta, scegliendo di volta in volta gli interlocutori privilegiati.

Ed in queste piattaforme e scadenze la Palestina non ha mai assunto la centralità necessaria e dovuta.

L’esperienza del Forumpalestina, come di tante altre realtà in Italia, ha dimostrato che è possibile su una questione così cruciale risvegliare le coscienze e ricostruire una capacità di mobilitazione e di lotta su una piattaforma avanzata e non ambigua.

Di imporre non in contrapposizione ma rivendicando l’internità al movimento stesso scadenze anche di valenza nazionale.

La grande manifestazione di Roma del 9 marzo, la prima e la più grande in Italia ed in Europa, che ha portato in piazza 100.000 persone ne è la dimostrazione.

Ma è proprio a partire dal grande successo, non scontato, di quella manifestazione che è iniziata la controffensiva politica e culturale delle forze filo-sioniste e filo-isreliane nel nostro Paese.

Mentre si scatenava all’interno dei territori e a Gaza la più potente offensiva militare israeliana dopo l’invasione del Libano del 1982 e si ripetevano gli attacchi terroristici dell’esercito sionista contro civili inermi, invece di intensificare la mobilitazione e la pressione internazionale, le forze politiche della sinistra italiana, compresa rifondazione comunista, cadevano nella trappola dell’antisemitismo. Le accuse isteriche di antisemitismo della maggior parte degli intellettuali italiani, delle comunità ebraiche, la presa di distanza pretestuosa di partiti e sindacati (vedi i Ds e CGIL nella manifestazione del 6 aprile) determinavano un pesante arretramento politico.

Alle aggressioni verbali e squadristiche (si veda l’attacco alla sede nazionale del partito o l’aggressione a Luisa Morgantini all’uscita del programma Sciuscià) si rispondeva con il silenzio o addirittura con i tentativi di boicottaggio rispetto alle iniziative di mobilitazione proclamate dal Forumpalestina e dalle comunità palestinesi.

Emblematico il delirante messaggio della federazione romana del Prc in occasione della manifestazione del 25 aprile, che accusava nemmeno tanto velatamente di antisemitismo gli organizzatori (accusa infamante che viene fatta circolare nei corridoi verso i compagni e le compagne più esposti nella solidarietà con i palestinesi).

Manifestazione dove sia il social forum romano che la federazione del Prc, dopo un tentativo non riuscito di prendere la testa del corteo, hanno fisicamente scelto la separazione non seguiti dal grosso dei partecipanti ed hanno cercato di impedire che il rappresentante del FPLP prendesse la parola.

Significativo è stato il totale oscuramento della manifestazione internazionale di settembre a Marsiglia e di quella nazionale del 26 ottobre a Roma, alla quale il partito dopo interminabili tentennamenti aveva aderito boicottandone nei fatti la riuscita.

Il nostro intervento deve essere chiaro e comprensibile, dobbiamo entrare in tutte quelle situazioni dove si vanno formando forum contro la guerra, mobilitazioni, iniziative e dibattiti. Dobbiamo senza ambiguità affermare la nostra interpretazione degli accadimenti internazionali, denunciare con forza il carattere imperialista e colonialista della prossima guerra e collegare fortemente questa al destino del popolo palestinese.

Dobbiamo portare senza timori la nostra visione dell’unico possibile sbocco per quel popolo e per l’intera area.

Contrastare lo slogan “due popoli due Stati”, che viene spacciato come l’unica proponibile via d’uscita che tiene conto delle ragioni dei palestinesi, denunciandone la non praticabilità né a breve né a lungo termine, soprattutto quando si vuole far passare questa ipotesi attraverso gli organismi internazionali come l’ONU.

Poiché tutti affermano, anche Bush, la necessità della creazione dello Stato di Palestina, non si capisce perché questo obiettivo minimo non venga praticato, la verità è che quando europei ed americani parlano di “Stato” palestinese intendono tutt’altra cosa di quello che normalmente si intende per “Stato”, come dimostrano gli “Accordi di Oslo” e le trattative che sono seguite fino a tutto il 2000.  Non si può prescindere quando si parla di “Stato” dal concetto si sovranità, sovranità sulle risorse, sulle vie di comunicazione, sui confini. Tutto questo è totalmente negato al popolo palestinese come viene negata qualunque ipotesi di rientro dei profughi. E proprio quest’ultima imprescindibile rivendicazione è quella che spacca qualsiasi possibilità di battaglia comune con le forze moderate della sinistra.

L’obiettivo di un “vero Stato palestinese” è fondamentale, perché lo vogliono i palestinesi, perché avrebbe un valore simbolico enorme per la battaglia di liberazione di tutti i popoli oppressi. Ma è altrettanto vero che anche partendo da sole considerazioni di tipo geografico ed economico, nonché dalla dislocazione delle risorse idriche nell’intera Palestina, l’ipotesi di due Stati non reggerebbe a lungo. Dobbiamo avere il coraggio di porre l’obiettivo più ambizioso della costruzione di uno Stato multietnico e multireligioso nell’intera regione palestinese. Certo un obiettivo lontano e difficilissimo, che mal si concilia con la realpolitik di tante forze politiche, l’unico possibile.

Obiettivo che non può prescindere dalla sconfitta totale e definitiva del sionismo, ideologia razzista che promettendo la costruzione in Israele di “una casa sicura per tutti gli ebrei” è riuscita a segregarne una buona parte nel posto in questo momento più insicuro al mondo per gli ebrei stessi.

Obiettivo che non è pensabile conquistare se non all’interno di un rivolgimento totale dell’ordine mondiale, entro il quale va collocata la lotta, oggi debole, delle masse arabe contro i regimi reazionari che le governano.

Regimi che a parole sostengono la causa palestinese ma non hanno esitato a scatenare repressioni durissime verso i palestinesi stessi, basti ricordare Settembre Nero 1970 in Giordania.

La nostra battaglia politica complessiva dentro e fuori il partito tesa ad una crescita consapevole e radicale dei movimenti di lotta che si vanno sempre più delineando nel nostro come in altri Paesi, la visione non ipocritamente internazionalista che distingue il nostro intervento, l’obiettivo difficile della rifondazione della IV internazionale, unito al dovere di ricondurre alla verità storica il dramma del popolo palestinese fuori da ogni ipocrisia è il modo concreto e costruttivo di stare al fianco di questa lotta di liberazione, a fianco dell’intifada fino alla vittoria.