Montezemolo “apre” a
Epifani ma strizza l’occhio a Pezzotta e Buttiglione
La teoria del
“declino industriale” e il rilancio della concertazione
di Marco Veruggio
In modo quasi liturgico ogni
estate ci si chiede se l’autunno successivo sarà un autunno “caldo”, ma,
anno dopo anno, la domanda diventa sempre meno liturgica e sempre più
pertinente, tanto che non siamo più gli unici a chiederselo, ma troviamo la
compagnia di autorevoli esponenti dell’establishment
(si veda l’ultimo numero di L’Espresso
di agosto, in cui, oltre alle esternazioni di Pisanu sulle probabili
infiltrazioni terroristiche nella manifestazioni sindacali, appare
un’interessante inchiesta sull’autunno caldo in Europa). In effetti i nodi
continuano a venire al pettine e i problemi irrisolti si accumulano: pensioni,
rinnovi contrattuali “pesanti”, tra cui pubblico impiego, metalmeccanici e
autoferrotranvieri e crisi aziendali che mettono in discussione migliaia di
posti di lavoro a partire dal caso Alitalia. Dato che la terapia d’urto
tentata da Berlusconi-Tremonti non è valsa a granchè, diventando anzi uno dei
tanti elementi di debolezza del Governo, non resta che riesumare la vecchia cara
concertazione di cofferatiana memoria (e la cofferatiana memoria, resistendo
meglio del Cofferati in carne ed ossa, oggi si affida a “nuovi” attori come
Epifani e Montezemolo).
I presupposti teorici
della concertazione
Prima di entrare nel merito
dei fatti, come sempre vale la pena di dedicare una breve riflessione a come i
fatti vengono filtrati dall’ideologia. Il presupposto del rilancio della
concertazione è costituito dalla teoria del “declino industriale”, di cui
Luciano Gallino è uno dei principali interpreti nella sua versione “di
sinistra”. In sintesi - si dice - il mancato sviluppo è dovuto agli scarsi
investimenti in ricerca e tecnologia e anche, di conseguenza, a una progressiva
dequalificazione della manodopera, il tutto naturalmente nel contesto della
globalizzazione. Questo processo viene presentato come una sorta di calamità
naturale tutta italiana e le cui responsabilità sono da dividersi equamente tra
l’attuale governo, una classe imprenditoriale che ha avuto un momento di
sbandamento e, naturalmente, l’eccessiva rigidità dei lavoratori. Ne segue
che bisogna rilanciare gli investimenti in ricerca e innovazione, legare il
salario alla produttività facendo leva sulla contrattazione decentrata,
riprendere il dialogo con le parti sociali come metodo decisionale. La concordia
di tutti i protagonisti sulla congruità di tali affermazioni è il principale
sintomo di quanto sia truffaldina tale operazione. Come sempre tutti i
principali protagonisti della stagione precedente si accorgono improvvisamente
che l’autunno ha lasciato posto al sopraggiungere dell’inverno quando si
cominciano a contare i danni di nubifragi e inondazioni e solo allora cominciano
a interrogarsi sbalorditi sulle cause prime con lo zelo di un Diogene con la
lanterna in mano in cerca “dell’uomo”.
In realtà non è il caso di
scomodare la filosofia per cercare delle spiegazioni. Il disinvestimento
rispetto alla ricerca non inizia con Berlusconi al governo (né con D’Amato in
Confindustria) e rappresenta la logica conseguenza di un modello economico
basato sulla riduzione dei costi, a partire dal costo del lavoro (il che
ovviamente implica una minore qualificazione della manodopera), nonché sul
cosiddetto just in time. E’ ovvio che in un mercato in cui la volatilità dei
titoli di borsa e l’instabilità complessiva richiede di effettuare
investimenti rapidi e immediatamente convenienti, afferrare il malloppo e
correre via verso nuove avventure produttive, non esiste imprenditore sano di
mente che sia disponibile a effettuare investimenti di lungo corso, come sono
per loro natura gli investimenti in ricerca. A meno che, naturalmente, non goda
di condizioni di particolare favore che lo mettano al riparo dai rischi. Come
Cordero di Montezemolo sa bene, non è necessario spiegare agli Agnelli che a
lungo andare la Fiat senza investimenti tecnologici non avrebbe retto il
mercato. Non è necessario semplicemente perché la loro precisa intenzione era
(ed è, nonostante la propaganda) esattamente quella di sbarazzarsi di una
produzione con un rapporto tra utili e investimento troppo basso e reinvestire
in settori più redditizi, Marx direbbe con un saggio di profitto più alto.
Esattamente per questo hanno scelto di diminuire la qualità del prodotto,
lavorando con una manodopera meno qualificata ma più a buon mercato (vedi
stabilimenti in Brasile e Polonia) contando sui rapporti di favore con i governi
di ogni stagione per cercare di sbarazzarsi della bagnarola prima che affondi
(continuando nel frattempo a guadagnarci), dandole una mano di vernice sulla
chiglia e licenziando alcuni dei marinai più rompiscatole per invogliare
l’acquirente e magari vedendo se nella vendita del relitto riescono ad
accaparrarsi qualche cosa di più interessante (ad esempio le concessioni per le
famose 10 centrali elettriche). La retorica del declino dunque non va alimentata
ma demistificata, spiegando che o si mette in discussione il modello produttivo
del suo complesso, cosa che ovviamente tutti i primattori di questa vicenda si
guardano bene dal fare, o si determina una situazione non più di declino bensì
di crollo sempre più verticale, non casuale ma voluto.
La piattaforma di
Confindustria
Le richieste di
Confindustria vanno lette e giudicate anche in rapporto alla teoria del declino
industriale. Montezemolo e Bombassei, tra convegni e cene con vista mare a
Gallipoli hanno esplicitato i temi su cui gli imprenditori intendono muoversi
nel corso dell’autunno:
- i contratti vanno
riformati aumentando il peso della contrattazione territoriale rispetto a quella
nazionale e legando gli aumenti salariali alla produttività (e i tempi sono
legati alla possibilità di trovare un quadro di negoziazione condiviso tra le
tre centrali sindacali);
- il federalismo va attuato,
purché sia un “buon federalismo”, espressione un po’ fumosa, ma che
evidentemente esprime la preoccupazione delle grandi imprese verso una devolution che rischia di privilegiare gli interessi dei padroncini
e delle aziende di carattere locale;
- servono 200.000 immigrati
per coprire le esigenze produttive della aziende.
Viene del tutto spontaneo
porsi alcuni interrogativi. L’attacco al contratto nazionale
non fa che riproporre l’idea di una competitività basata sul
contenimento del costo del lavoro, fenomeno che solitamente si accompagna a una
dequalificazione della mano d’opera. Anche l’idea di legare il salario alla
produttività rientra in questa logica, perché da una parte tende a diminuire
la massa del salario reale semplicemente variandone la distribuzione tra i
diversi settori del lavoro dipendente, dall’altra utilizza come parametro di
questa redistribuzione un fattore, la produttività, che, tra l’altro, non
sempre è legato alla qualità del lavoro prestato. Anzi spesso la produttività
è inversamente proporzionale alla qualità del lavoro e delle merci
che ne risultano. Senza contare che, come fa notare lo stesso Gallino, in
questo modo si fa pagare ai lavoratori una bassa produttività che spesso
dipende dalle condizioni di lavoro (macchinari, organizzazione del lavoro, ecc.)
piuttosto che dal loro “impegno”. La stessa richiesta di “importare”
200.000 immigrati risponde alla logica di creare un serbatoio di forza lavoro a
bassa qualifica e a basso prezzo e di ridurre il nocciolo di manodopera locale
qualificata e ad alto costo o comunque a imporle maggiore flessibilità. Sarebbe
opportuno chiedere a Montezemolo come si conciliano queste richieste con
l’idea di una produzione basata su qualità e innovazione.
Il feticcio dello
sviluppo tecnologico
La realtà è che è
impossibile capire qualsiasi fenomeno avvenga nella nostra società se non si
coglie il meccanismo dell’accumulazione capitalistica come motore
dell’economia e, di conseguenza, ogni spiegazione che sostituisca tale
meccanismo con altro rappresenta solamente un tentativo propagandistico di
sviare l’attenzione dal punto fondamentale. Non è nuovo il tentativo di
spiegare l’economia (e la storia) a partire dal grado di sviluppo tecnologico,
ma così facendo ci si è sempre scontrati in contraddizioni insolubili. E’
incontestabile che la comparsa della macchina vapore abbia rappresentato il
volano tecnologico per l’avvio della produzione capitalistica, ma è
altrettanto vero che la possibilità di utilizzare il vapore per produrre
lavoro, cioè energia, era nota fin dall’antichità. Nell’antichità però
la forza lavoro era gratis per la massiccia diffusione dello schiavismo e non
esisteva un meccanismo di accumulazione nel senso moderno del termine, perché
non esisteva una moderna borghesia capitalistica. E’ soltanto con la comparsa
di quest’ultima che si manifesta la necessità di sviluppare una tecnologia in
grado di ricavare lavoro dalla forza del vapore. Del resto anche la teoria
postfordista, secondo cui il progresso tecnico avrebbe posto “da sé” le
condizioni per la liberazione dal lavoro materiale è miseramente naufragata -
perdonatemi il gioco di parole - contro la realtà materiale del lavoro
“immateriale”. Non vi è dunque alcuno strumento per fermare il declino
industriale (dell’occidente) se non quello di mettere mano al meccanismo
principe della nostra economia e questo si fa soltanto con la lotta di classe,
non aprendo laboratori. Che Montezemolo e Pezzotta facciano finta di non saperlo
è giustificabile, che se lo scordi Epifani è comprensibile ma non
giustificabile.
Montezemolo-Epifani: un flirt ormai concluso?
L’ascesa di Montezemolo
alla presidenza di Confindustria è stata salutata dal centrosinistra come un
vero e proprio “arrivano i nostri” e mai tale foga è stata tanto
affrettata. Mentre i rappresentanti del movimento operaio italiano ignorano
quasi totalmente cosa significhi indipendenza di classe dalla borghesia, gli
industriali italiani riescono a praticare l’autonomia di classe al punto da
riuscire ad essere indipendenti anche dalle proprie
rappresentanze politiche. Il neopresidente ha subito fatto capire al
centrosinistra che il rilancio della concertazione e del dialogo con la Cgil
erano un obiettivo prioritario ma non così prioritario da sacrificare le
esigenze del padronato. Al punto da presentare a luglio un documento alle tre
confederazioni che nella parte sui contratti ha costretto Epifani (dopo le
pacche sulle spalle - “Ciao
Luca!” “Ciao Guglielmo!” - della settimana prima) ad abbandonare il
tavolo. E’ evidente la volontà di Confidustria di entrare pesantemente nel
dibattito interno alla Cgil, tra categorie, in particolare la Fiom, e
Confederazione. Ed è altrettanto evidente la difficoltà di Epifani di
accettare supinamente questa forzatura. Anche le aperture sui contratti fatte
dal “duro” Bombassei a fine agosto rappresentano la carota il cui
corrispondente bastone sta nell’affabile pranzo di lavoro a Gallipoli tra la
“colomba” Montezemolo e il neocommissario europeo Buttiglione. Il fatto che
il primo abbia dichiarato che avrebbe incontrato anche D’Alema “che
purtroppo era in barca”, oltre che un ineffabile esempio di ironia di scuola
torinese, rappresenta un chiaro messaggio “a buon intenditor”.
Le contraddizioni interne
alla Cgil (e il ruolo potenzialmente propulsivo che il sindacalismo di base può
esercitare in questo frangente) e tra Cgil, sindacalismo di base e
centrosinistra sono il terreno su cui è necessario intervenire rivendicando e,
ove possibile, praticando quell’autonomia di classe di cui Confindustria sta
dando saggi esemplari. La costruzione di una piattaforma unificante tra i vari
settori del mondo del lavoro e tra quest’ultimo e i movimenti, il rilancio
delle forme di lotta prolungate sull’esempio di Melfi, degli
autoferrotranvieri e di Scanzano, la richiesta al gruppo dirigente del Prc di
una scelta univoca tra gli interessi che queste lotte hanno espresso e i
contrapposti interessi, oggi espressi da Montezemolo e governo di centrodestra,
domani probabilmente dallo stesso Montezemolo e governo Prodi, rappresentano
quindi ciò che più risponde oggi alle esigenze concrete dei lavoratori e delle
classi subalterne, certo più e in alternativa a sbrodolose discussioni a
proposito di improbabili primarie sul programma (o sui candidati).