L’esperienza del nuovo governo “progressista “ dell’Unione Indiana.

Un’alternativa alla deriva bertinottiana dall’esempio dei partiti comunisti indiani ?

 

 

di Franco Grisolia

Nel dibattito che attraversa Rifondazione, gli accenni alla situazione indiana sono aumentati, in particolare da parte dell'area dell'Ernesto. In India, infatti, dopo le elezioni  che hanno visto la sconfitta della coalizione di destra capeggiata dall'indo-fascista Partito del Popolo Indiano (Bjp) è al governo una coalizione di centro-sinistra. Questa è imperniata sullo storico partito della borghesia nazionale e dell'indipendenza neocoloniale, il Partito del Congresso, e gode dell'appoggio esterno dei due partirti "comunisti", il Partito Comunista Indiano e il Partito Comunista (Marxista). Benchè i compagni dell'Ernesto siano stati in passato tra i più aperti sostenitori delle alleanze di collaborazione di classe organiche e lo siano tuttora a tutti i livelli amministrativi (si veda la loro presenza in una giunta di governo regionale di centrosinistra particolarmente reazionaria come quella dell'Emilia Romagna), le esigenze di battaglia politica interna li obbligano ad una differenziazione. Essendo ormai impossibile una differenziazione a destra di Bertinotti, non è rimasto  loro che tentare di fare una "mossa del cavallo" presentandosi come critici sia pur moderatamente da sinistra della linea bertinottiana. Hanno così creato il concetto dei quattro o cinque "paletti programmatici" come condizione per l'accordo di governo, ipotizzando in caso di non accoglimento di questi "punti" (che pure sono disposti a "negoziare") il non ingresso organico in un nuovo governo di centro-sinistra, ma il sostegno esterno al governo stesso. La proposta di Grassi, Pegolo e Sorini è in sè contraddittoria e risibile. Infatti al di là dell'improponibilità per una forza di classe di basare il proprio progetto su un ipotesi di coalizione con la classe avversa, accettasse pure questa quattro "paletti", cosa vuol dire una ipotesi, nel caso del rifiuto da parte del centrosinistra, di appoggio esterno? Tradotto in linguaggio semplificato vuol dire:  se voi sarete così reazionari da non accettare i nostri paletti minimi, non entrerò con voi a gestire una politica antioperaia, ma la sosterrò ugualmente "dall'esterno". Insomma, in una forma o nell'altra la collaborazione di classe rimane sostanzialmente eguale. L'esperienza dell'India ne è anch'essa una chiara conferma:.

 

I due PC dell’India e la loro politica

La divisione in due partiti comunisti del movimento stalinista  deriva dalla scissione del Partito Comunista Indiano nel 1964. La radice di tale rottura sta nel conflitto per questioni di confine che contrappose India e Cina nei primi anni ’60. Di fronte a tale conflitto la maggioranza del partito prese una posizione di appoggio alla propria borghesia, anche su indicazione della burocrazia dell’URSS, che rompeva in quegli anni con quella cinese. Una larga minoranza del partito, collegata a quest’ultima si oppose allo sciovinismo aperto della maggioranza e ruppe con essa costituendo il Partito Comunista (marxista). Il legame con la burocrazia di Pechino venne rapidamente a cadere, perché questa, nel periodo della cosiddetta “rivoluzione culturale” scelse di appoggiare settori minoritari che indicavano la prospettiva di una guerra di guerriglia a base contadina, che furono espulsi nel 1968. Da allora il Pc (m) è quindi un partito stalinista indipendente dalle diverse burocrazie dominanti allora esistenti.. Benché derivato da una espulsione il Pc(m) si rivelò fin dall'inizio, grazie alle sue posizioni meno opportuniste, dotato di un sostegno popolare, ed elettorale, lievemente superiore a quello del Pci (il totale dei due si colloca mediamente poco sotto il10%).

Nonostante il carattere "progressivo" della scissione del Pc(m) la sua strategia non andò mai oltre il riformismo stalinista e anzi nel proseguire del tempo andò progressivamente spostandosi verso destra. Per indicare il carattere della politica dei due  partiti stalinisti può bastare ricordare che già negli anni '60, mentre  il Pci entrava organicamente nella maggioranza di governo capeggiata dal Partito del Congresso, il Pc(m) dava a tale governo una specie di "sostegno esterno".

Il terreno su cui il riformismo dei due partiti comunisti indiani è risultato maggiormente evidente è quello del governo statale. Il "comunismo" stalinista indiano ha una tradizione di forza molto differenziata, concentrandosi in particolare nei due stati del Kerala nel sud ovest e del Bengala Occidentale (capitale Calcutta) nel nord est. Per questo fin dalla fine degli anni ‘50 ci fu un governo diretto dal Pc, (Kerala) e dalla fine degli anni '60, sia pure con alcune interruzioni i due stati sono diretti da coalizioni di sinistra dominate dai due partiti "comunisti" (nel Kerala c'è un equilibrio tra i due partiti, caratterizzato però da una maggiore forza, dagli anni '70 in poi, del Pci; in Bengala domina invece il Pc(m) ).

L’importanza di un ruolo di governo in uno degli stati dell’Unione Indiana va considerata tenendo conto del carattere pienamente federalistico di questa nazione, tale che la legislazione statale ha valore fondamentale.

L’esempio più importante è quello del Bengala, stato con circa 55 milioni di abitanti. Qui nel 1967 vinse le elezioni una coalizione di sinistra, chiamata  Fronte Unito (United Front) avente come asse dominante il Pc (m) e comprendente il Pci e varie organizzazioni minori. Dopo un periodo di intervallo a seguito di una sconfitta elettorale nel 1972, la sinistra tornò al potere dalla fine degli anni ’70 con il nome di Fronte di Sinistra (Lf) e da allora ha continuato a governare ininterrottamente il Bengala. 

Già nel 1968 il ruolo di gestione dello Stato borghese portò di governo del Fronte Unito a reprimere con la violenza poliziesca..

Il bilancio pluridecennale del più a sinistra dei due governi statali diretti dai partiti comunisti indiani è chiaro.

Sul terreno dei rapporti sociali rispetto al settore industriale il governo del Bengala si è limitato ad un appoggio (leggi e finanziamenti ) al “capitale nazionale”. Nulla è cambiato di sostanziale per quanto riguarda diritti e condizioni della classe operaia.

Sul terreno della riforma agraria il Pc(m) non si è posto né sul terreno di una rivoluzione agraria, né su quello di una riforma borghese radicale, come ipotizzato nel Cile di Allende (su questo con l’accordo della stessa Democrazia Cristiana, che prevedeva l’esproprio - con indennizzo - di tutte le proprietà superiori ai cento ettari, mentre le organizzazioni contadine chiedeva quella di tutte le proprietà oltre i 30 ettari). In Bengala la via di una riforma borghese moderata era stata tracciata dal Partito del Congresso negli anni cinquanta: l’acquisto progressivo della terra in un lungo periodo. Il risultato è che a tutt’oggi forme di relazioni sociali semifeudali permangono su quasi la metà delle terre coltivabili, con presenza di  latifondi, sfruttamento selvaggio degli operai agricoli (col sistema del “caporalato”), e strutture diffuse di mezzadria che, nonostante un ampio movimento dei mezzadri, il Pc(m) ha rifiutato di modificare per ”non alienarsi le classi medie” (sic!). Significativo poi, per indicare la deriva degli stalino-riformisti , l’evolversi a negativo del processo di esproprio. Mentre il 44% delle terre è stato acquisito nei cinque anni del governo del Fronte Unito dal 1967-72, il 26% nei quindici anni precedenti, sotto il governo del Partito del Congresso negli ultimi venti anni tale valore corrisponde a  circa il 12%  del totale (il resto fu espropriato da governi di diversa matrice politica). Senza finanziamenti statali, oberato di debiti, in mano a strozzini, molti dei quali ex proprietari riciclatisi grazie ai risarcimenti ottenuti, il contadino bengalese, anche quello delle terre espropriate, continua a conoscere la miseria. E ancora più grande quella che conoscono i poveri semiproletari delle grandi baraccopoli di Calcutta e delle altre città, come del resto tutti sanno. Pochi sussidi “mirati” e non una politica generale di lavoro e risanamento  non hanno certo modificato la situazione. E nel frattempo capitalisti, “nazionali” o no, latifondisti e usurai continuano a vivere nel benessere. Quelle enormi differenze sociali e di ricchezza che marcano vergognosamente la realtà indiana valgono anche per il Bengala.

Questo il bilancio reale della politica dei “comunisti” indiani anche di quelli di sinistra del Pc(m) che i nostri grassiani ci presentano come esempio.

 

L’appoggio esterno al nuovo governo del Partito del Congresso

Le elezioni dello scorso marzo hanno cacciato dal governo la coalizione di destra di cui era anima il Bjp. La politica neoliberale di quest’ultimo, al di là delle  mitologie sul “miracolo indiano” ha spinto le masse popolari ad un voto per il Partito del Congresso  e per i due partiti comunisti. Si è creata quindi la prospettiva di un governo di coalizione “progressista”, che come abbiamo indicato non è una novità, senza che la struttura sociale “capitalista primitiva” dell’India ne abbia avuto alcun cambiamento importante. Il Pci   avrebbe probabilmente voluto entrare nel governo, ma la posizione del Pc (m) ( ha portato ambedue ad un appoggio esterno. 

Il nuovo primo ministro indiano è diventato Manmohan Singh e il ministro delle Finanze Palaniappann Chidambaram. Entrambi sono conosciuti come i "padri delle liberalizzazioni indiane", a causa della politica neoliberale e di apertura agli investimenti del capitale finanziario internazionale realizzata come ministri economici nei governi del congresso dal 1991 al 1996. Qualche ingenuo poteva pensare che il fatto che il Bjp sia stato sconfitto esattamente proprio per aver portato avanti una politica neoliberale (dopo essere stato eletto sulla base di un miscuglio tra fodamentalismo indù, nazionalismo reazionario e demagogia populista) avrebbe in qualche modo  moderato i due leader del nuovo governo. Ovviamente non è stato così. Chindambaran ha subito dichiarato "Il mio obbiettivo è creare in India un ambiente favorevole agli investimenti".(Il Sole-24 ore ha così commentato: "Le parole erano quelle che i mercati speravano di sentire"). Di conseguenza sta varando leggi che modificano i limiti legali per gli investimenti stranieri (dal 49%al 74% le telecomunicazioni, dal 40 al 49% l'aviazione civile, dal 26%al 49% le assicurazioni). Si poteva ancora ingenuamente sperare che almeno sul terreno della guerra, dopo la demagogia bellicista del Bjp, il partito che fu del mahatma Ghandi, appoggiato dai comunisti, avrebbe rappresentato una parziale inversione di tendenza. La realtà è stata che il nuovo bilancio prevede un aumento delle spese militari del 17,29%, in particolare per l'acquisto dall'estero di portaerei, sommergibili e aerei.

E i nostri "comunisti" stalinisti di tutte le tinte stanno ingoiando, di fronte, secondo notizie di giornale, ad una base disorientata, tutto ciò, preparando forse il terreno ad una ulteriore rivincita della destra alle prossime elezioni, complici volontari di una politica antipopolare e di un'alternanza reazionaria.

Se ancora ci fosse stato bisogno, proprio l'esempio indiano dimostra quindi che l'alternativa dell' "appoggio esterno" a un governo borghese rispetto all'ingresso aperto in esso non costituisce che una forma analoga di collaborazione di classe e che solo la totale indipendenza e politica di opposizione, quella sempre rivendicata dal marxismo, può difendere gli interessi della classe lavoratrice e le prospettive del socialismo. E' per questo che oggi nel nostro partito il punto di riferimento per chi si voglia contrapporre in nome di tali interessi alla deriva bertinottiana non è il riformismo dell'Ernesto ma la proposta classista, marxista, rivoluzionaria di Progetto Comunista: se ce ne fosse bisogno anche l'esperienza della lontana India serve a confermarlo.