"L'Ulivo è cambiato" assicura Bertinotti. Ma in cosa?

Scovate la differenza!

centrodestra e centrosinistra su pensioni, privatizzazioni e lavoro

 

di Marco Veruggio

 

L’autunno 2003 si preannuncia caldo. centrodestra e centrosinistra da alcuni mesi stanno scaldando i motori in vista delle elezioni politiche e i temi cruciali della stagione che si apre diventano già materia di elaborazione programmatica in vista della competizione che si avvicina. Sul Corsera del 29 agosto scorso è apparso un interessante confronto tra l’ex ministro Bersani e Fausto Bertinotti proprio sul tema "pensioni e non solo: quale programma per l’Ulivo". "L’ex ministro dell’industria e il leader della sinistra alternativa -recita l’occhiello- propongono nel merito ricette molto diverse, ma sono concordi nel lavorare a una piattaforma di proposte in chiara alternativa alle scelte del governo di centrodestra".

 

L’equivoco di fondo sta tutto qui. E’ possibile pensare che l’Ulivo elabori una proposta politica alternativa a quella di Berlusconi & C.? Proprio sui temi affrontati da Bersani nella sua intervista: pensioni, liberalizzazioni e lavoro è sufficiente esaminare le linee di fondo delle politiche perseguite nell’ultimo decennio dai due poli per rendersi conto di come esse rappresentino soltanto articolazioni diverse (ma non troppo!) di una medesima prospettiva strategica.

 

A partire dagli anni Novanta l'integrazione europea pone il problema della creazione di un polo imperialistico alternativo a quello americano nel bel mezzo di una fase di stagnazione prima di recessione economica poi. Il numero 8/2002 dell’Economist dedicava ampio spazio a un articolo dal titolo "La significativa differenza demografica tra America ed Europa". La tesi sviluppata era che nel giro di pochi decenni la popolazione Usa supererà quella europea. L’America si ritroverà quindi a beneficiare di una massa di forza lavoro giovane sempre più flessibile e dinamica, mentre noi rimarremo bloccati dal peso di una maggiore rigidità del mercato del lavoro e appesantiti dal fardello delle pensioni e dell’assistenza sanitaria. E’ in questo quadro che si sviluppa l’attuale dibattito di politica economica in atto tra i due poli. Non è possibile qui entrare più di tanto nel dettaglio delle politiche "alternative" perseguite in questo ultimo decennio da centrodestra e centrosinistra. Mi limiterò a cercare di coglierne le linee ispiratrici, cercando di approfondire in particolare il tema della previdenza, che si annuncia come il tormentone dell’autunno, e trattando in modo più sommario privatizzazioni e mercato del lavoro.

 

 

Pensioni

 

Qui credo sia opportuno cercare di esporre brevemente il quadro normativo sviluppatosi a partire dal ’92, sia per capire esattamente ciò di cui oggi si discute sia per spiegare il ruolo complementare esercitato da personaggi come Amato, Berlusconi, Dini e Prodi nel progressivo smantellamento della previdenza sociale. Cito in parentesi gli articoli di legge, il che permetterà di attribuire i vari provvedimenti ai diversi governi (schematicamente: ’92: Amato; ’94: Berlusconi; ’95: Dini; ‘96/’98: Prodi).

 

Al momento attuale esistono 3 regimi pensionistici:

1)       Pensione di vecchiaia: hanno diritto i lavoratori che abbiano raggiunto l’età pensionabile, cioè 65 anni per gli uomini, 60 per le donne (art. 11 L: 724/94) e che abbiano versato almeno 20 anni di contributi (art. 2 D. Lgs. 503/92).

2)       Pensione di anzianità (art. 59 c. 6-8, L. 449/97):

-          lavoratori che abbiano almeno 35 anni di contributi e almeno 57 anni di età (56 per i dipendenti pubblici);

-          lavoratori che indipendentemente dall’età abbiano almeno 37 anni di contributi (tetto che aumenta di un anno ogni due fino a raggiungere i 40 anni nel 2008)

Il diritto alla pensione decorre non al momento della maturazione dei requisiti ma in base alle cosiddette “finestre”, ad es. chi maturi i requisiti nel primo trimestre dell’anno avrà diritto alla pensione a partire dal 1 luglio successivo.

Fino al ’92 l’importo della pensione era pari all’80% dell’ultima retribuzione. Dall’1 gennaio ’93 diventa l’80% della retribuzione media calcolata su tutto l’arco della vita lavorative (art. 3, D. Lgs. 503/92). Infine la legge 335/95 introduce il calcolo contributivo. L’assegno è determinato dall’ammontare dei contributi versati e dal tasso di capitalizzazione, un parametro legato all’andamento del PIL. In questo modo si è vincolata la pensione all’andamento economico, preparando il terreno al lancio della previdenza integrativa, in cui i contributi vengono investiti in titoli e la pensione è determinata dall’andamento dei mercati finanziari. Proprio la legge 335/95, unitamente al D. Lgs. 124/93 aprono la strada ai fondi pensione privati, anche se il vero e proprio decollo della previdenza integrativa deve ancora venire.

3)       Pensione di vecchiaia contributiva (art. 1, c. 19 e s., L. 335/95):

-          lavoratori che abbiano almeno 5 anni di contributi e 57 anni di età

-          lavoratori con 40 anni di contributi a qualsiasi età

purché l’importo della pensione, calcolato col sistema contributivo, raggiunga il 120% della pensione sociale.

 

Già solo questa breve panoramica del quadro normativo dimostra -come dicevamo- l’assoluta consequenzialità dell’azione legislativa di Amato, Berlusconi, Dini e Prodi. Con coerenza esemplare si compie a danno dei lavoratori italiani una vera e propria rapina: soltanto con la modifica dei sistemi di calcolo l’importo delle pensioni crolla dall’80% dell’ultima retribuzione a meno del 50%!

 

Ma veniamo all’attualità. Il centrodestra, spinto dalla necessità di fare cassa e di aprire il mercato alla rendita finanziaria propone una ridda di misure, in parte contenuta in una legge delega già approvata, in parte avanzate recentemente in modo confuso e improvvisato sulle pagine dei giornali: innalzamento dell’età pensionabile di 5 anni, blocco delle "finestre", incentivi ulteriori rispetto a quelli concessi da Prodi a chi rimane al lavoro, disincentivi per chi invece sceglie di andare in pensione e infine requisizione del TFR per versarlo forzosamente nelle casse dei fondi pensione.

 

Cosa dice l’Ulivo? "No a una riforma delle pensioni mirata a fare cassa!" Come sempre insomma il centrosinistra cerca di accreditarsi agli occhi del padronato italiano come il solo capace di realizzare una riforma seria e strutturale legata a una prospettiva di lungo termine e non alla contingente necessità.

Allego un centone delle dichiarazioni di noti esponenti dell’Ulivo. Fassino (ammiccando): "Berlusconi non può chiedermi il dialogo sulle pensioni e poi aggredirmi sul caso Telekom Serbia"; Letta (Margherita): "Magari la facessero loro la riforma. E’ necessaria quanto impopolare. E in caso di ritorno al governo non ce la troveremmo sul tavolo"; Bersani (nell’intervista citata) a proposito delle proposte di Maroni: "Se ne può discutere. Ma il nostro progetto è ridisegnare un nuovo welfare. Senza risparmiare, ma ridistribuendo le risorse in modo più equo. Per le pensioni la priorità assoluta è la tutela dei giovani. Altre cose su cui si può discutere sono la partenza del pilastro integrativo con il versamento del TFR non obbligatorio ma molto convincente e l’estensione del contributivo. Se si sceglie questa formula non escludo misure più severe, ma non le dico." (corsivi nostri). Infine Carlo De Benedetti, esponente di spicco della cosiddetta imprenditoria democratica, quella a cui in un’intervista rilasciata a Europa, Fausto Bertinotti proponeva l’ennesimo "compromesso dinamico": "Siccome reputo improponibile un aumento della pressione fiscale nel nostro Paese, è proprio dalle pensioni che dobbiamo reperire gran parte delle risorse necessarie a finanziare uno stato sociale moderno in Italia". E ancora: "E’ necessario innalzare l’età pensionabile e disincentivare il ricorso alle pensioni di anzianità".

 

 

Privatizzazioni

 

Anche in questo caso il modo migliore per verificare quanto siano "alternative" le politiche perseguite dai due Poli è ripercorrere le tappe dei governi succedutisi negli anni ’90.

Il processo di dismissione delle aziende a partecipazione statale comincia nel ’93 con la vendita del Credito Italiano (1801 mld) e di altre aziende tra cui Cirio, Bertolli, De Rica. Il ricavato complessivo è di 2573 mld. Nel ’94 (governo Berlusconi) il ritmo aumenta. Vengono cedute per 12.704 mld Comit e pezzi di Imi, Ina, Sme, e una serie di aziende Eni, tra cui, Nuovo Pignone e Acciai Speciali Terni. L’anno successivo se ne vanno per 13462 mld altri pezzi di Imi e Ina (ceduti tramite trattativa privata), Sme ed Eni, inoltre Italtel, Ilva Laminati Piani, Enichem Agusta. Ma l’anno del record in termini di cessioni realizzate è il ’96, l’anno di Prodi. Oltre a ulteriori tranches di Ina, Eni, Imi e Sme se ne vanno Dalmine, Italimpianti, Nuova Tirrena e altre per un totale di 14051 mdl. Nel ’97, sempre con Prodi (e la benedizione della maggioranza PRC) avviene il salto di qualità: gli introiti superano i 40000 mld, di cui 23000 provenienti dalla sola Telecom, cui si aggiungono la terza tranche Eni, Bancaroma, Seat e Aeroporti Roma. Nel ’98 vengono cedute la quarta tranche Eni, Bnl, e Saipem. L’anno successivo (governo D’Alema) si sfonda il tetto dei 48000 mld con due sole dismissioni: Enel e Autostrade. In otto anni di privatizzazioni gestite per lo più da uomini di centrosinistra lo Stato svende aziende per un valore di 163000 mld, quasi l’8% del PIL dello stesso periodo. Ciò non evita finanziarie "lacrime e sangue". Romano Prodi è il vero artefice di tutta l’operazione, prima come timoniere dell’Iri, poi direttamente come Presidente del Consiglio.

 

La vicenda Sme da questo punto di vista è rivelatrice. Siamo ancora in epoca craxiana e si decide di vendere uno dei gioielli delle Partecipazioni Statali, Sme appunto. De Benedetti, imprenditore "vicino alla sinistra" firma una preintesa con Prodi offrendo 500 mld. A quel punto Berlusconi, su suggerimento di Craxi e spinto dall’amor di patria, giudicando quella cifra assolutamente inadeguata, interviene offrendo poco più (600 mld), innescando il caso giudiziario conclusosi per lui di recente. Si badi che qualche anno prima un gruppo di imprenditori conservieri aveva offerto la stessa cifra vedendosi opporre un secco no e che, come è noto, la successiva vendita a pezzi di Sme ha fruttato allo Stato 2000 mld.

 

Ma le imprese di Prodi non finiscono qui. E’ lui in persona a realizzare una serie di appalti per la TAV finiti nel mirino dell’Antimafia, affidando i lavori a società come l’Icla, vicina a Cirino Pomicino. A denunciare l’operato di Prodi nel volume Corruzione ad alta velocità è Ferdinando Imposimato, ex magistrato e senatore Ds, che per questo si vede affibbiare la qualifica di "bischero" da uno dei maggiorenti dell’attuale Correntone Ds, Fabio Mussi.

Dice Imposimato: "Prodi in persona aveva dato il suo consenso all’aggiudicazione dei lavori a società quantomeno sospette certamente vicine alla camorra. Come ha potuto non accorgersi di niente? Neppure delle denunce del responsabile della Tav Portaluri e delle bombe che scandiscono i lavori sulla tratta?"

Evidentemente ciò non impedisce a Fausto Bertinotti di dichiarare, nella citata intervista sul Corsera, che lui certamente sul treno di Prodi è disposto a salirci, naturalmente "da comunista".

 

Lavoro:

 

Sul Libro Bianco e sulla legislazione di Maroni ho già scritto diffusamente negli scorsi numeri di questo giornale e di MR. E’ del tutto inutile ricordare il ruolo del centrosinistra nella destrutturazione del mercato del lavoro. I compagni rammentano il "Pacchetto Treu", il decreto Salvi sul Collocamento, fotocopiato e messo in pratica dall’attuale governo e il cordiale incontro di D’Alema con l’allora presidente di Confindustria Luigi Abete, in cui l’attuale presidente dei Ds dichiarò che bisognava avere il coraggio di intervenire anche sull’articolo 18.

 

Proprio sull’articolo 18 l’Ulivo ha presentato recentemente un disegno di legge, primo firmatario Nicola Rossi dei Ds, che abbassa il campo di applicazione dell’articolo 18 alle aziende con più di 5 dipendenti, ma contemporaneamente introduce il modello tedesco: il giudice può decidere di sanzionare il licenziamento illegittimo con la reintegra, con un indennizzo monetario o con tutt’e due, sulla base di una serie di valutazione tra cui le dimensioni dell’azienda in causa (e così l’abbassamento della soglia di applicazione viene di fatto neutralizzato). Proprio Nicola Rossi, nel corso di un dibattito tenutosi a Genova poco prima dei referendum, spiegava il senso della sua proposta. Berlusconi -diceva davanti a un folto gruppo di rappresentanti della piccola e media impresa- ha fatto dell’articolo 18 un elemento di scontro ideologico, senza affrontare e risolvere da un punto di vista legislativo il problema reale della flessibilità. Le deroghe introdotte dal governo si applicano infatti a un numero limitatissimo di lavoratori (esattamente ciò che ha sostenuto Maroni per mesi) e sono servite soltanto a scatenare la rissa con la Cgil e a catturare il consenso di D’Amato.

 

Dal punto di vista padronale in effetti il progetto di Rossi rappresenta un tentativo molto più serio e organico di affrontare il problema: di fatto si rende la tutela reale un optional, formalmente senza eliminarla. Del resto basta un’analisi comparativa del Libro Bianco e della Legge 30 con alcuni testi prodotti dal centrosinistra per chiarirsi le idee. Suggerisco a questo proposito la lettura de I diritti del lavoro. Principi e indirizzi sui nuovi diritti e le nuove tutele, articolo elaborato da Amato e Treu e pubblicato su Italianieuropei, numero 2/2002, della Carta dei diritti delle lavoratrici e dei lavoratori, e di Diritti di sicurezza sociale in materia di tutela attiva del lavoro e del reddito, due disegni di legge, primi firmatari sempre les enfants terribles Amato-Treu, pubblicati sul sito dei Ds (www.dsonline.it).

 

Il nocciolo della questione e il modo in cui viene affrontata è dappertutto lo stesso: una volta introdotta in dosi massicce la flessibilità in entrata, come intervenire anche sulla flessibilità in uscita rimanendo in un contesto di pace sociale? La risposta è la stessa: intervenendo sugli ammortizzatori sociali e creando una situazione in cui chi perde il lavoro abbia un sostegno al reddito e trovi (o meglio sia  convinto di trovare) velocemente un altro impiego. Se questo principio, che evidentemente è pura utopia in un’economia capitalistica, passa nella testa dei lavoratori italiani, il padronato ha la possibilità di superare uno dei principali ostacoli al rilancio dei profitti e delle rendite, aprendo la strada al consolidamento materiale di un polo imperialistico europeo concorrenziale a quello americano, che è la questione da cui siamo partiti.

 

La differenza è che Berlusconi sta affrontando il problema in modo affrettato e impressionistico, un po’ per caratteristiche soggettive, un po’ perché pressato dalla necessità di far andare avanti la baracca, e soprattutto senza essere riuscito a crearsi un rapporto di fiducia col sindacato (pur avendoci provato, almeno con alcuni settori di esso). Il centrosinistra si sta accreditando invece come il soggetto in grado di gestire questa partita con un bagaglio di esperienza e di "professionalità" decisamente superiore e con una posizione egemonica, sia pure ricca di contraddizioni, all’interno delle organizzazioni sindacali, beneficiando tra l’altro di una collocazione all’opposizione, quindi con meno "responsabilità" e più spazio da dedicare alla semplice propaganda (o demagogia).

 

Il problema è che per qualcuno nel nostro Partito ciò basta e avanza per decidere di salire su quel treno ("da comunisti")!

 

(9 settembre 2003)