Irak

Un'altra direzione per la resistenza all'imperialismo

 

di Alberto Madoglio

 

Solamente quattro mesi fa, esattamente il primo maggio, sul ponte di volo della portaerei Lincoln, il presidente Bush annunciava trionfalmente la vittoria dell’alleanza anglo americana nella guerra contro l’Iraq e, insieme alla fine delle ostilità, prevedeva un radioso futuro per il Paese che fino a poco tempo prima era l’incarnazione del male sulla terra..

Sfortunatamente per il presidente americano, sin dai primissimi giorni dell’arrivo delle truppe a Baghdad, si è potuto vedere come la realtà dei fatti abbia prontamente smentito previsioni tanto idilliache.

 

Furibondi saccheggi hanno, per diversi giorni, devastato la capitale, sabotaggi contro infrastrutture (acquedotti, centrali elettriche, pozzi di petrolio), sanguinosi attentati (contro l’ambasciata di Giordania, la Sede dell’Onu e la moschea di Najaf), un quotidiano susseguirsi di attacchi alle truppe Usa, che hanno già causato un numero di perdite superiore a quello dei pochi giorni di guerra.

Per la verità era prevedibile un tale corso degli eventi, se non altro per l’esperienza passata.

Dalla Somalia, al Kosovo, arrivando all’Afghanistan, per citare i casi più famosi, l’imperialismo è stato assolutamente incapace di pacificare le aree in cui è intervenuto e di permettere un qualsivoglia sviluppo economico, a dispetto della “benedizione” terrena ricevuta dall’Onu, e in molti casi, di quella formalmente spirituale, ma interessata alle “cose di questo mondo”, del Vaticano.

 

Le politiche degli ultimi decenni del capitalismo a livello internazionale hanno causato solo disastri e carestia, senza soluzione di continuità, in ogni angolo del pianeta (ricordiamo qui tra gli altri la crisi in Indonesia nel 1997 e in Argentina nel 2001).

Credere che le cose sarebbero andate diversamente solo perché queste politiche erano supportate dai bombardieri strategici B52 e dalle truppe aviotrasportate, era una criminale illusione. Anche l’Iraq non è sfuggito a questa regola.

 

Era ampiamente prevedibile che la popolazione non avrebbe accolto festosamente le truppe inviate dagli stessi Paesi che, insieme all’Onu, sono stati responsabili di un decennio di embargo commerciale costato la vita ad oltre un milione di persone; che hanno fino al 1990 sostenuto uno dei peggiori regimi criminali dell’area; che non sono intervenuti per impedire il massacro ordinato da Saddam contro curdi e sciiti tra gli anni Ottanta e Novanta. E si sbagliavano di grosso coloro che si aspettavano che gli iracheni avrebbero visto come liberatori gli stessi soldati che fino a qualche giorno prima avevano sganciato migliaia di tonnellate di bombe facendo strage tra i civili inermi.

 

I più incauti commentatori politici ci prospettavano per l'Irak, una volta "liberato" dal dominio del clan di Hussein, un futuro di libertà e prosperità economica simile a quello che si era verificato alle potenze sconfitte nella II guerra mondiale, cioè Italia, Germania e Giappone.

Con quale attendibilità potessero essere confrontate tre potenze imperialiste che, pur sconfitte nel 1945, mantenevano sostanzialmente intatto gran parte del loro potenziale a livello economico e di infrastrutture, con una nazione che storicamente è stata terreno di scorribande da parte dei vari predoni imperialisti, e che le due guerre, del 1990 e del 2003 hanno ulteriormente devastato, rimane ancora un mistero. Nel secondo dopoguerra, poi, le nazioni vinte beneficiarono soprattutto di una forte crescita dell’economia a livello globale; oggi quella crescita è ben lontana dal verificarsi e ciò è la spiegazione ultima del baratro in cui è finito il paese del Tigri e dell’Eufrate.

Il capitalismo oggi riesce a sopravvivere solo riducendo drasticamente le condizioni di vita di centinaia di milioni di persone, e ciò vale a Buenos Aires come a Parigi, a New York come a Bassora.

In questo senso il punto non è quello di decidere la medicina da somministrare al paziente (unilateralismo anglo-americano oppure multilateralismo targato Onu), ma di capire che è tutta la terapia (l’economia di mercato) che deve essere sostituita. Peraltro dove l’imperialismo è riuscito a concertare un intervento comune, i risultati sono stati identici a quelli che vediamo in Iraq.

 

Le potenze europee contrarie alle scelte della Casa Bianca e del suo fedele alleato di Downing Street, cioè Francia e Germania ("l'asse della pace" fantasticato da Liberazione), hanno come solo obiettivo quello di poter continuare a esercitare la loro influenza in una zona fondamentale nella lotta per la competizione economica mondiale. Dicendo no a Washington, Parigi difende le commesse miliardarie della Total nello sfruttamento delle riserve di greggio del Paese, e più in generale le ambizioni da potenza mondiale della borghesia francese.

Sarà, quindi, per un mero calcolo tra costi e benefici (politici ed economici, contingenti e di lungo periodo) se Stati Uniti e Gran Bretagna da una parte, e Francia e Germania dall’altra, troveranno un accordo per l’Iraq, sotto forma di una nuova risoluzione delle Nazioni Unite.

 

Se questa è la realtà delle cose, è del tutto evidente che la lotta contro l’occupazione militare deve rientrare nella più generale mobilitazione contro la globalizzazione capitalista, che da ormai diversi anni vede come protagoniste larghe masse di giovani, lavoratori e disoccupati.

Anche in Iraq questa lotta ha delle grandi potenzialità, ma allo stesso tempo deve fare i conti con delle altrettanto grandi debolezze.

Quella più evidente -e che è stata purtroppo una costante in tutti i movimenti che hanno combattuto contro il dominio del capitale negli ultimi decenni- è l’assenza di una direzione rivoluzionaria della classe operaia. Alla resistenza irakena contro le truppe occupanti manca una direzione cosciente del fatto che anche le più immediate rivendicazioni della popolazione (nel caso iracheno, l’indipendenza dal giogo straniero e un nuovo sviluppo economico) hanno ragione di esistere e possibilità di essere attuate solo all’interno di una più ampia e generale lotta delle classi subalterne per un’alternativa di sistema anticapitalista.

Le differenti forze politiche presenti in Iraq, nazionaliste arabe e fondamentaliste religiose, non combattendo per questi obiettivi più generali, in realtà impediscono qualsiasi conquista, seppur parziale, per la popolazione.

Queste forze hanno fallito in Iraq, come avevano fallito prima in Egitto, Siria, Libano, Iran e Palestina. E solo la costruzione di un partito comunista rivoluzionario in Irak potrebbe indirizzare la lotta di resistenza in una direzione progressiva per le masse.

 

Il tradimento perpetrato dal Partito Comunista Iracheno, col suo sostanziale appoggio al governo fantoccio creato dagli Usa, renderà questo processo di costruzione di una direzione delle lotte più difficile, ma ad esso non c’è alternativa valida. A questo obiettivo dovranno essere indirizzati anche sforzi e attenzione da parte dei movimenti e delle organizzazioni che si sono battute contro la guerra. Il loro compito non è finito.

 

La costruzione di direzioni rivoluzionarie conseguenti in Medio Oriente e in tute le zone aggredite dall'imperialismo potrà procedere solo di pari passo con la costruzione delle lotte e delle direzioni nei Paesi imperialisti. Più i comunisti e il movimento operaio a livello internazionale riusciranno a lottare contro i loro governi e ad impedire l’applicazione delle loro criminali “ricette” politiche per i Paesi dipendenti, più la costruzione di una organizzazione rivoluzionaria in Iraq sarà facilitata. Più quest’ultima si radicherà tra gli operai, i giovani e i contadini del paese, e più i lavoratori delle nazioni imperialiste troveranno un valido alleato nelle loro lotte.

Come si vede, anche a partire dalla situazione del dopoguerra in Medio Oriente, la questione della rivoluzione socialista internazionale mantiene intatta la sua urgenza e necessità per le sorti future delle classi oppresse e dell’umanità in generale.

 

(9 settembre 2003)