Meridione:
discutiamone
di
Matteo Malerba
A
fronte di una questione mondiale dove tutto si decide altrove da dove operi, per
i comunisti ridefinire una proposta di azione che unifichi tutto il
proletariato, specie giovanile, al Sud non è facile.
Senza
scomodare il grande dirigente comunista Gramsci, penso che per iniziare a
discutere all’interno dell’associazione Progetto Comunista (visto il suo
insediamento al Sud), basta ripensare a quello che abbiamo vissuto noi
meridionali dal dopoguerra ad oggi: un vissuto sulla nostra pelle da proletari
“dei bassi” a “laureati”.
Di
seguito alcune sintetiche considerazioni su un aspetto che anima proletari e
non, nel e del meridione, e ne condiziona atteggiamenti, indirizzo di voto,
organizzazione di classe.
La
costruzione di un reddito assume centralità e lo si costruisce fra illegalità
diffusa, precariato, criminalità usando uno strumento storico: “l’arte”
di arrangiarsi. Al sud, arrangiarsi, è un naturale sviluppo della fantasia (e
oggi ce ne vuole parecchia), una prerogativa nata non per vocazione ma dettata
dalle condizioni economiche e sociali che nel corso del tempo si sono
determinate.
Con il
boom economico degli anni sessanta (a cui i proletari meridionali contribuirono
in modo importante), inizia un massiccio investimento pubblico, e per chi è
abituato a vivere in condizioni disastrate diventa “facile” ricavare
reddito.
Il
lavoro pubblico stabilizza i ceti medi, consolida politiche clientelari e
mafiose. La “ricchezza” diffusa aguzza l’ingegno e si inizia ad uscire dai
bassi dove si stava in otto in una stanza, chi ha un impiego stabile (anche da
bidello), arrotonda lo stipendio con lavori di fine settimana o pomeridiani
(insomma chi aveva l’arte nonostante lo stipendio non l’ha messa proprio da
parte).
Le
lotte per la terra, tragiche e vittoriose, diventano cose lontane e per molti il
lavoro dei campi diventa un secondo lavoro.
La
nascita dei poli industriali. sotto la spinta dell’investimento statale, dà
l’illusione che una nuova generazione di classe possa nascere e segnare lotta
e direzione politica, cimentando più da vicino l’alleanza operai-proletari
del sud. Cosa che avviene parzialmente e solo nelle grandi aree metropolitane,
perlopiù la classe operaia diventa ostaggio dei notabili locali specialmente
democristiani.
A
cavallo degli anni ‘70/’80, sotto il giogo di un’economia condizionata
dall’andamento internazionale, entrano in crisi le aziende pubbliche, si fa
strada la politica di ridimensionamento dei poli industriali: inizia la crisi
dello stato sociale. Nel frattempo è cresciuta la mafia, che dall’attività
originaria dell’abigeato è passata all’estorsione, alla droga, fino al
salto di qualità attuale nel controllo di attività commerciali, in modo
diretto o tramite prestanome, con i subappalti nelle grandi opere. La
privatizzazione dei servizi pubblici essenziali ha ulteriormente aggravato
questo fenomeno di penetrazione finanziaria e gestionale (la mafia diventa
impresa). Lo smantellamento o ridimensionamento delle aziende pubbliche
rilanciano la ricerca di reddito fra una concorrenza spietata, e succede che
mentre negli anni ‘70 si facevano più lavori per arrotondare, oggi è facile
vedere gente fare tre lavori (in nero) nella stessa giornata e solo per cercare
di mantenere i servizi frutto di lotte e conquiste istituzionali, abbattuti oggi
dai tagli alla spesa pubblica. Mentre si è impegnati alla ricerca spasmodica di
lavoro-reddito, si ha sempre meno tempo per organizzarsi e lottare, cose che
avvengono quando proprio precipita tutto.
Per i
più la lotta ha tempi lunghi nel dare risultati, mentre “l’amico”, il
notabile, la mafia ti colloca più rapidamente anche se in condizioni di
assoluto asservimento. Si fa di tutto e di più con la consapevolezza di cosa si
rischia, anche la vita, la galera, la salute, ma i figli crescono e devono
studiare con costi sempre più alti. Anche i più fortunati che hanno alti
ricavi, restano condizionati dalla precarietà e dalla possibilità che il tutto
possa precipitare. La ricetta neoliberista ha trovato terreno fecondo
istituzionalizzando il precariato ed il lavoro nero (pacchetto Treu ecc.). con
le agenzie che delocalizzano i lavoratori sfruttando gli incentivi pubblici.
Molti sono tornati ad emigrare svuotando i paesi dell’entroterra, anche se il
dato non è omogeneo per tutte le regioni, altri resistono supportati dal
reddito delle famiglie che sentono sempre più la frusta dei tagli e del
rastrellamento fiscale (addizionali IRPEF, ICI, Servizi a prestazioni, acqua,
RSU) messo in atto da governi regionali, provinciali e comunali che pagano a
caro prezzo la loro autonomia sotto il tiro dei patti di stabilità. Con queste
condizioni e dove la disoccupazione rimane con numeri alti, la criminalità è
impresa e ufficio di collocamento ed il potere clientelare resiste e si rilancia
nonostante offra di meno, adeguandosi ai flussi economici disponibili. Fioccano
incarichi, consulenze, nomine per insegnanti a corsi di formazione, mai
finalizzati al lavoro.
L’intervento
politico e l’organizzazione al sud, per i comunisti non è mai stata una
questione priva di difficoltà, meno che mai oggi, e sarebbe un grave errore
pensare ad una nostra autosufficienza, invece di trovare sbocco e respiro nei
grandi movimenti internazionali per contribuire alla costruzione
dell’Internazionale Comunista. Abbiamo una grande risorsa, i Giovani, disposti
a restare e a lottare se gli si garantisce un reddito minimo in tempi certi.
Ecco perché la proposta di salario garantito è credibile e necessaria e
bisogna rilanciarla, perché vitale per lo sviluppo della lotta di classe al
Sud. Senza avanguardie, senza soggettività rivoluzionaria, senza progetto
comunista, qualsiasi movimento è destinato a fallire. La battaglia per la
conquista del reddito garantito, è quindi una tappa fondamentale dei comunisti
al sud, perché attraverso questa lotta possa formarsi una nuova generazione,
che nell’era della globalizzazione e della crisi capitalista, ponga
all’ordine del giorno la questione del potere invece di quella meridionale.