Il nuovo Iran di Amadinejad

Nuovi scenari in Medioriente

 

di Valerio Torre

 

Nello scorso mese di giugno si sono svolte in Iran le elezioni presidenziali. A sorpresa, ha prevalso l’ex sindaco di Teheran, Mahmoud Ahmadinejad, superando nel ballottaggio il favorito Akbar Hashemi Rafsanjani, che già aveva ricoperto la carica di presidente della repubblica negli anni dal 1989 al 1997. Dopo lo spoglio delle schede, lo sconfitto ha rivolto pesanti accuse di brogli elettorali, sostenendo che il Ministero della Cultura, la Guardia rivoluzionaria ed il Basiji (la milizia volontaria nazionale) avevano favorito lo sfidante grazie ad una campagna denigratoria dell’immagine sua e della sua famiglia orchestrata utilizzando denaro pubblico ed istituzioni statali; tuttavia, il Consiglio dei Guardiani, cioè la corte costituzionale chiamata a sovrintendere alle elezioni, ha minimizzato la portata delle accuse chiudendo definitivamente la partita.

Il risultato elettorale è stato presentato dalla stampa come il prodotto dello scontro fra il pragmatico conservatore Rafsanjani che aveva promesso aperture economiche, l’intensificazione dei rapporti con l’Occidente e riforme democratiche, e l’ultraconservatore ortodosso ed estremista Ahmadinejad, custode dei valori e degli ideali della rivoluzione khomeinista del 1979. La realtà, però, è, come spesso accade, un po’ più complessa di quella tratteggiata da una schematizzazione giornalistica.

 

Il quadro sociale e politico delle elezioni

Tra i mille e più che avevano presentato la propria candidatura, il Consiglio dei Guardiani ha dischiuso le porte della competizione a soli otto fedeli servitori della repubblica islamica, di cui tre riformatori e cinque conservatori. Il primo turno ha visto prevalere da un lato Rafsanjani, in partenza dato per favorito, e dall’altro l’outsider Ahmadinejad, sconosciuto ai più fino a quando non era diventato sindaco di Teheran e giunto al ballottaggio prevalendo per un soffio su candidati più accreditati di lui. I sondaggi davano vincente l’ex presidente, ma l’esito finale del voto ha sorprendentemente ribaltato tutte le previsioni.

Rafsanjani ha, innanzitutto, pagato la sostanziale astensione del fronte moderato, che non ha mostrato la necessaria compattezza. Benché godesse dell’appoggio delle classi medie, dei settori imprenditoriali e del mondo degli affari, è stato abbandonato da consistenti fasce del blocco sociale riformista che l’hanno più o meno apertamente boicottato a causa della sua fama di corrotto, nonostante gli inviti della stampa moderata a convergere su di lui. Ed a nulla gli è valso l’espresso sostegno dell’establishment politico statunitense ed europeo che confidava in una sua vittoria per incrementare massicciamente gli affari con il paese islamico: “I riformatori dovrebbero smettere di parlare di boicottare la consultazione e votare invece per l’ex presidente. Rafsanjani è la scelta migliore sia per il paese sia per il resto del mondo, soprattutto se mantiene le promesse di avviare un dialogo con gli Stati Uniti” (Los Angeles Times).

Con Ahmadinejad, invece, si sono schierate le classi povere, i disoccupati e gli emarginati che non hanno goduto della ricchezza che il petrolio, con le sue enormi entrate valutarie, ha portato solo ad alcuni settori sociali. Quelle stesse classi subalterne che, anche in odio all’affarismo ed alla corruzione sempre più presenti nella vita politica del paese, sono state spaventate dagli annunciati piani di privatizzazioni da parte di Rafsanjani, che, com’è ovvio, avrebbero indebolito la rete di tutele a protezione dei deboli. A ciò si aggiunga il disgusto per quella nomenclatura cresciuta nel regime teocratico iraniano e considerata traditrice degli ideali della rivoluzione. In Ahmadinejad le classi subalterne hanno visto un paladino in grado di sconfiggere le corrotte élite di governo e di combattere la povertà sempre più diffusa nonostante gli enormi profitti derivanti dalle vendite di petrolio; e, benché abbia goduto del sostegno esplicito della Guida suprema della rivoluzione, l’ayatollah Ali Khamenei, e della Guardia rivoluzionaria, il nuovo presidente - un laico di 49 anni - è stato percepito come una figura estranea al regime clericale. Così, oggi l’Iran, per la prima volta dal 1981 (da quando, cioè, Bani Sadr venne deposto), ha di nuovo un presidente non appartenente al clero sciita.

 

Chi è Ahmadinejad

Figlio del popolo - il padre era un maniscalco - Mahmoud Ahmadinejad ha costruito la propria figura pubblica soprattutto come sindaco di Teheran distinguendosi per la chiusura di centri culturali e per aver imposto restrizioni anche nell’abbigliamento agli impiegati comunali, così alimentando la sua fama di duro ed ultraconservatore che è poi stata amplificata dal suo avversario nella campagna elettorale per le presidenziali nel tentativo di screditarlo. Tuttavia, si è anche fatto conoscere come amministratore molto attento alle esigenze dei cittadini, che infatti hanno sentito vicino a loro quest’uomo austero, che esibisce la propria diversità rispetto ai rappresentanti dei settori clericali arricchitisi grazie alla corruzione e di cui il popolo è parso percepire più l’azione amministrativa in favore dei bisognosi che non l’ideologia conservatrice.

E, durante la competizione elettorale, questa immagine è servita a contrastare la campagna che i riformisti gli hanno lanciato contro per metterne in luce i tratti ultraortodossi ed oscurantisti. Ahmadinejad, pur rivendicando il “ritorno alle origini e agli ideali dell’Imam Khomeini”, ha lasciato più sullo sfondo i richiami ideologici privilegiando invece una propaganda elettorale fors’anche populista, ma di sicura presa, come quando ha proclamato che “i veri problemi del paese sono la situazione dell’occupazione e quella degli alloggi, non come ci si veste”, oppure quando ha promesso “un governo di 70 milioni di ministri”. D’altronde, anche la rivendicazione del ritorno ai valori originari della rivoluzione khomeinista non è mai fatta in funzione di un’astratta “purezza” arcadica, bensì nella consapevolezza, condivisa a livello di massa, della difesa dell’Islam come strumento della lotta per la giustizia sociale.

 

Dopo la vittoria

Subito dopo l’affermazione elettorale, le prime prese di posizione di Ahmadinejad sono state di rassicurazione al mondo arabo che l’Iran intende ricercare la via per una convivenza pacifica, tranne che con Israele; mentre non ritiene di instaurare con gli Usa alcun tipo di relazione internazionale. Ma il neo presidente è subito intervenuto su altri temi importanti della vita del suo paese, in particolare sull’economia, preannunciando un maggiore intervento dello stato nel settore petrolifero e bancario ed ipotizzando, soprattutto vista la dinamica ascendente dei prezzi del greggio, un ampliamento della rete protettiva del welfare state. E soprattutto non poteva mancare un riferimento al punto centrale di sofferenza nei rapporti fra l’Iran e l’Occidente: la ripresa del programma di sviluppo del nucleare a scopi pacifici.

Ahmadinejad ha sostenuto l’indispensabilità del riavvio del processo di arricchimento dell’uranio a scopi pacifici, definendolo “vitale” per l’economia iraniana. Il compromesso raggiunto nel novembre 2004 con l’Aiea (l’Agenzia internazionale dell’Onu per l’energia atomica) - cioè la sospensione delle attività dell’arricchimento di uranio in un quadro di colloqui bilaterali fra il governo dell’Iran ed una commissione composta dai rappresentanti di tre paesi europei (Germania, Francia e Gran Bretagna) per trovare una soluzione che soddisfacesse da un lato le preoccupazioni occidentali che il programma di lavorazione del materiale radioattivo non nasconde scopi militari e dall’altro la necessità da parte iraniana di riattivare le centrali per la produzione di energia - quel compromesso, dunque, è saltato nello scorso mese di agosto quando l’Iran ha riattivato la centrale di Isfahan, sia pure sotto il controllo dei tecnici Aiea, sostenendo il proprio diritto a portare avanti il programma per scopi soltanto civili.

 

Le reazioni internazionali

Già in linea generale, le reazioni internazionali non sono state favorevoli all’elezione di Ahmadinejad. Il governo israeliano è stato molto drastico nel sostenere che l’esito del voto iraniano rappresenta un “aggravamento dei problemi che Teheran rappresenta per il resto della comunità internazionale”. E negativi sono stati anche i giudizi da parte statunitense, divenuti ancor più drastici dopo la rottura dei colloqui fra le autorità iraniane ed i rappresentanti dell’Aiea: George W. Bush, infatti, si è dichiarato “pronto alla prova di forza contro l’Iran”[i].

Allo stato non è facile prevedere il grado di serietà della minaccia statunitense, visto l’impegno delle truppe americane in territorio iracheno e la crescente instabilità dell’Afghanistan. Quello che, certamente, potrebbe portare ad una recrudescenza dei rapporti fra Bush ed Amadinejad è il progetto, di cui si parla con insistenza in ambienti Opec, secondo cui l’Iran sarebbe intenzionato a costituire una Borsa del petrolio a Teheran con trattative in euro, cui potrebbero aderire la Russia e qualche altro paese: sarebbe una vera e propria manovra di destabilizzazione delle Borse del petrolio di New York e Londra ed un attacco diretto all’economia americana gravata da un deficit senza fondo. Il progetto, peraltro, non è nuovo: l’aveva iniziato, isolatamente, Saddam Hussein. E si è visto come s’è concluso!



[i] Appena incidentalmente, però, è il caso di notare che, nonostante il divieto legislativo per le imprese americane di fare affari con i paesi sotto embargo (tra i quali rientra l’Iran), la Halliburton, società petrolifera dell’attuale vicepresidente Usa, Dick Cheney, fornisce agli iraniani, attraverso una sua controllata off shore, i componenti per la costruzione di un reattore nucleare.