L’Univeristà dei precari

Da Berlinguer alla Moratti: la precarizzazione dei rapporti di lavoro nella ricerca

 

di Luca Scafoglio

 

Il disegno di legge del Ministro Moratti, approvato alla Camera lo scorso 15 giugno e trasmesso alla commissione istruzione del Senato, porta alla cancellazione del ruolo del ricercatore, cioè della figura contrattuale e lavorativa che costituiva la prima “garanzia” di stabilità per giovani che già, di fatto, si fanno carico di ampia parte della ricerca e della didattica. Al suo posto subentra la piena generalizzazione di forme contrattuali già note: “contratti di diritto privato”, incarichi e assegni di ricerca rigorosamente a tempo determinato “della durata massima triennale”. Si tratta di un inferno di precarietà e dipendenza che viene prolungato di dieci o quindici anni, ma che, per i più, cioè per coloro che non riusciranno, data la restrizione degli accessi, a diventare docente a tutti gli effetti, finisce con l’essere permanente. La logica della legge 30, nell’università come nell’intero mondo del lavoro, la fa da padrona. Per gli attuali ricercatori “ad esaurimento” c’è poi la beffa della nomina a “professore aggregato”, con aumento del carico di lavoro senza alcun beneficio economico: il cosiddetto “terzo livello di docenza”, infatti, viene istituito “senza nuovi oneri per la finanza pubblica”, ossia a costo zero.

L’opposizione dei vari Fassino e Prodi non deve ingannare. Non a caso va di pari passo con le critiche mosse dalla stessa Confindustria, che avrebbe preteso misure ispirate a maggiore “meritocrazia” e “produttività”. Del resto, il ddl Moratti costituisce solo il naturale epilogo di quella riforma complessiva, effettuata “a tappe” a partire dai primi anni Novanta e che ha compiuto i suoi passi decisivi proprio con i ministri Zecchino e Berlinguer. E’ nell’università del centrosinistra che ha avuto luogo tanto l’introduzione della selva dei contratti precari, fino ai co.co.co. (nel senso del famigerato Pacchetto Treu), quanto la cosiddetta “apertura al mondo del lavoro”: il finanziamento e quindi la cogestione, da parte delle imprese, di progetti di ricerca, con la possibilità d’influenzare la selezione dello stesso personale.

Nel segno della continuità delle misure antipopolari è soprattutto la politica dei tagli dei finanziamenti, la vera faccia dell’autonomia universitaria, l’arma decisiva dell’attacco all’università di massa. Questa è, infatti, la posta in gioco: la cancellazione, anche qui, delle conquiste delle lotte di una generazione di giovani e lavoratori negli anni Sessanta e Settanta. La mera amministrazione di quei risultati entro la società costituita, del resto, ha mostrato già da tempo i suoi limiti, in un settore in cui la selezione di classe non è mai stata realmente superata: non a caso questa aumenta drasticamente, in corrispondenza delle riforme dei vari Berlinguer e Moratti. Oggi più che mai risulta chiaro che la difesa di quegli obiettivi rimane inefficace ed insufficiente, se non è spinta alla messa in discussione dell’assetto classista, borghese, della società stessa.

Non è certo la logica complessiva, filopadronale, della riforma Moratti che il centrosinistra contesta. Dietro la polemica agitata dal centro liberale c’è, piuttosto, la contraddizione - tutta interna al disegno di ristrutturazione portato avanti dai gruppi dirigenti del Paese - tra aziendalizzazione piena e spinte corporative, tra la precarizzazione dell’intero settore della ricerca e della didattica secondo il modello americano (col primato della “produttività”) e la difesa della posizione di questa o quella categoria. Sulla determinazione del punto di equilibrio tra queste spinte, si gioca, allora, il contrasto tra i due poli, sulla pelle, come sempre, dei lavoratori, e degli studenti.