Classici
del marxismo
a cura di Ruggero Mantovani
Il Che fare? e Un passo avanti e due indietro: una lezione attuale per la costruzione della rifondazione rivoluzionaria
Negli ultimi anni gran parte della letteratura politica, espressa dal bolscevismo e più in generale dal marxismo rivoluzionario, è stata esclusa dalle principali produzioni editoriali, con l’intento, neanche troppo celato, di rimuovere un pericoloso precedente per le classi dominanti. Tra gli innumerevoli scritti realizzati da Lenin in merito alla concezione del partito, il Che fare? e Un passo avanti e due indietro rappresentano senz’altro un contributo essenziale per comprendere il contenuto della politica bolscevica.
La teoria leninista del partito riprende alcuni elementi costitutivi del
marxismo, già espressi nel Manifesto del
Partito Comunista e presenti nell’esperienza della Comune di Parigi.
L’emancipazione del movimento operaio, per Marx, era inseparabile dalla
costruzione di un partito autonomo dalle forze della borghesia.
Lenin, in particolare al II Congresso della Socialdemocrazia russa, nel
combattere le impostazioni politico-organizzative delle tendenze opportuniste,
introduce un’innovazione dell’originaria concezione del partito: “le
divergenze che dividono attualmente un’ala dall’altra (scrive in Un passo avanti e due indietro) concernono soprattutto le questioni
di organizzazione e non quelle
programmatiche e tattiche. Il nuovo sistema di concezioni (…) è
l’opportunismo nei problemi d’organizzazione: e la loro difesa di
un’organizzazione di partito amorfa, non fortemente coesa; e la loro ostilità
verso l’idea (‘idea burocratica’) dell’edificazione del partito
dall’alto in basso (…); e la loro tendenza di andare dal basso in alto (…)
la loro ostilità verso il ‘formalismo’ che esige da ogni membro del partito
l’appartenenza a una delle organizzazioni riconosciute dal partito; e la loro
inclinazione verso la mentalità dell’intellettuale borghese, pronto a
riconoscere solo platonicamente i rapporti di organizzazione; e la loro tendenza
all’autonomia contro il centralismo (…)”.
Il
centralismo leninista nasceva da un principio elementare: al centro dirigente
bisognava assicurare il controllo sui comitati locali per evitare che la
frammentazione della prassi, dei metodi di lotta, producesse una menomazione del
programma e della stessa teoria rivoluzionaria. Costruire il partito dall’alto
verso il basso non ha mai rappresentato, come asserivano gli opportunisti, una
visione autoritaria, ma voleva indicare l’unità nella visione generale
(teoria rivoluzionaria, programma transitorio, generalizzazioni
tattico-strategiche), rappresentata da un gruppo dirigente democraticamente
eletto e sempre sottoposto a revoca.
Ma
l’unità d’azione - l’unità della visione generale - nel partito
bolscevico era inscindibile dalla più ampia democrazia e dal più esteso
diritto di critica interna: “(…) bisogna essere ben miopi (scrive Lenin nel Che fare?) per giudicare inopportune e superflue le discussioni di
frazione e la rigorosa definizione delle varie tendenze. Dal consolidarsi
dell’una piuttosto dell’altra ‘tendenza’ può dipendere per lunghi anni
l’avvenire della socialdemocrazia russa”. La libera discussione era
l’essenza del bolscevismo, ed era talmente radicata che fu proprio Lenin dopo
il II Congresso della Socialdemocrazia russa, malgrado i bolscevichi fossero
maggioranza, a ritenere che bisognasse: “garantire nello statuto del partito i
diritti di ogni minoranza (...). Tra tali incondizionate garanzie annoveriamo la
concessione di un gruppo pubblicistico, o anche più, con diritto di
rappresentanza ai congressi e con piena libertà di parola (...) la più ampia
garanzia per quanto concerne la stampa di partito”.
Nel
1903 si accese un ricco di battito in cui i menscevichi ritenevano
l’impostazione di Lenin pericolosa, denunciando che non considerare membri del
partito coloro che fornivano un aiuto (professori, studenti e scioperanti)
significava “buttare a mare” il futuro stesso del movimento. Lenin, in
Un Passo avanti e due indietro, riteneva che non si trattava di “buttare a
mare” le organizzazioni che sostenevano il partito, ma al contrario riferiva:
“più le nostre organizzazioni di partito comprendono dei veri
socialdemocratici [con questo termine Lenin intendeva all’epoc comunisti, ndr]
più saranno forti, meno esitazioni e instabilità ci saranno all’interno del
partito e più estesa, più multiforme, ricca e feconda sarà l’influenza del
partito sugli elementi della massa operaia che lo circondano e che sono da esso
diretti (...) Non si deve confondere il partito reparto di avanguardia con tutta
la classe”.
La
posizione dei menscevichi non era dettata da un’impostazione formale e
organizzativa, ma investiva la funzione materiale della socialdemocrazia. I
menscevichi ritenevano che la coscienza politica delle masse si sviluppasse per
moto spontaneo con l’emergere delle lotte economiche. La socialdemocrazia
doveva essere una cassa di risonanza delle lotte, limitarsi a registrare la
spontanea evoluzione della coscienza politica delle masse. Ma la coscienza
socialista, spiegava Lenin nel Che fare?
non nasce mai spontaneamente, bensì proviene dall’esterno e matura nelle
masse, nell’intensa lotta ideologica proprio contro la spontaneità.
Per
questo occorreva anzitutto un partito di
attivisti - e non semplicemente di iscritti o di sostenitori - capaci di
portare in ogni lotta, in ogni movimento la coscienza socialista. In merito, in Un
passo avanti e due indietro, Lenin sostiene: “in assenza della distinzione
che passa tra il reparto di avanguardia e tutte le masse che gravitano presso di
esso, dimenticare il costante dovere del reparto d’avanguardia di elevare
strati sempre più larghi fino al livello dell’avanguardia, vorrebbe dire
infognare se stessi (…): agendo così noi cancelleremo la differenza tra
aderenti e coloro che sono a noi legati, tra gli elementi coscienti ed attivi e
coloro che ci aiutano”.
Per
Lenin portare dall’esterno una coscienza politica generale nel movimento
operaio, al di là delle forviante caricature propinate per decenni dalle forze
opportuniste, significava sviluppare un’analisi marxista dei rapporti di
classe; portare nel movimento un progetto complessivo di trasformazione sociale;
ed avere un rapporto con l’esperienza storica e la memoria collettiva delle
lotte. Tutto questo patrimonio poteva essere il portato spontaneo delle lotte?
Evidentemente no! Per questa finalità occorreva non solo il partito degli
attivisti ma anche dei quadri; per dirla con Lenin nel Che
fare? occorrevano i “tribuni popolari”: un gruppo dirigente, dei
rivoluzionari di professione che nel vivo dello scontro sociale avrebbero
elaborato la transitorietà delle parole d’ordine per legare le rivendicazioni
parziali alla prospettiva generale.
Per
i bolscevichi il partito di quadri e di attivisti, lungi da rappresentare un
feticcio o, peggio ancora, il fine della lotta rivoluzionaria, ha costituito lo
strumento per conquistare la maggioranza dei lavoratori alla prospettiva
socialista. Il partito bolscevico è stata questa unione liberamente scelta di
donne e di uomini, e non quel simulacro granitico rappresentato per decenni
dallo stalinismo.