Ex libris

  Gli ingredienti della guerra infinita

 

a cura di Fabiana Stefanoni

 

Lo spirito, diceva Hegel, tesse la propria trama all’interno della storia e ne costituisce l’unico motore. Per questo, probabilmente, il filosofo tedesco avrebbe visto nel crollo delle Twin Towers una delle tante eclatanti manifestazioni dello spirito del tempo. Ma il buon Hegel non poteva sapere che, circa un secolo dopo la sua morte, la Cia avrebbe scippato allo spirito le redini della storia universale.

Per chi si fosse perso qualche passaggio, si consiglia la lettura della prima parte di Escalation, Anatomia della guerra infinita (DeriveApprodi 2005). Il libro è una raccolta di tre saggi, elaborati da tre autori diversi. La già citata prima parte, intitolata “Geopolitica di una guerra globale”, scritta da Manlio Dinucci, giornalista de Il Manifesto, è una ricostruzione dei conflitti intercapitalistici degli ultimi quindici anni, dalla fine della guerra fredda col crollo dell’Urss fino all’ultima guerra del Golfo. Va detto che ha il merito di essere sintetica senza essere superficiale: la parte più interessante è quella che riguarda gli interessi legati agli oleodotti e gasdotti in Afghanistan. Ma è difficile non restare colpiti dalla cura maniacale con cui Dinucci si preoccupa di scovare in ogni anfratto un’agente della Cia nascosto a orchestrare gli scenari bellici, prebellici e postbellici. Una visione complottistica della storia fa da sfondo alla ricostruzione delle guerre, insieme a una non tanto velata simpatia per i vari Saddam e Milosevic di turno.

Prendiamo la prima guerra del golfo. Perché quell’ingenuotto di Saddam Hussein ha deciso di invadere il Kwait? Semplice: si trattava di una “trappola” concertata a tavolino dalla prima amministrazione Bush, che, grazie alla mediazione dell’ambasciatore statunitense a Baghdad, lo ha convinto a “riappropriarsi” dei territori kwuatiani. E per quanto riguarda la guerra dei Balcani? Ancora più semplice: “un fiume di armi e finanziamenti” attraverso “canali sotterranei gestiti dalla Cia” ha istigato le rivendicazioni della maggioranza albanese contro quel poveraccio di Milosevic, che già ne stava subendo a destra e a manca da croati e musulmani. Ma il bello arriva con l’attentato alle due torri. Qui Dinucci si scatena in un’edificazione degna di un romanzo poliziesco: aerei teleguidati dalla Cia e dal Mossad, demolizione controllata attraverso “piccole cariche esplosive nelle strutture portanti in acciaio”... il tutto all’insaputa dei terroristi stessi che avevano pensato a un “dirottamento tradizionale” e si sono trovati catapultati loro malgrado nel centro di Manhattan.

Ciò che si chiedono i lettori come noi, abituati a prestare più attenzione alla natura dell’imperialismo che ai complotti a tavolino, è a cosa serva soffermarsi su tali particolari. Poco cambia che sia la Cia o Bin Laden ad addestrare i dirottatori dell’11 settembre: le ragioni delle guerre stanno altrove, a partire dalla competizione tra Usa e polo imperialista europeo in via di formazione. Dinucci fa un breve accenno alla questione, accentuando tuttavia in maniera spropositata il processo di “riavvicinamento tra Russia e Cina”: anche per questo il giornalista gode delle simpatie dell’area dell’Ernesto nel Prc, che vede nell’asse Russia-Cina-India un contraltare all’imperialismo statunitense.

Non a caso, uno degli interventi del libro è di Alberto Burgio - dirigente nazionale dell’area dell’Ernesto - che si sofferma sulla descrizione delle torture “democratiche”, da Abu Ghraib a Guantanamo, per arrivare ad esplicitare la tesi di fondo del suo saggio: siamo in un frangente storico parallelo a quello della prima metà del Novecento, con l’approfondirsi della della “crisi democratica” e la barbarie fascista che bussa alle porte. E’ un canovaccio che conosciamo bene: ieri i fronti popolari come difesa dalla fascistizzazione, oggi l’alleanza di governo coi liberali come necessario baluardo della democrazia (borghese) di fronte alla deriva autoritaria.

Il nocciolo politico del testo sta proprio nell’intervento di Burgio, per quanto sia il meno approfondito dal punto di vista dell’analisi storico-teorica e presenti più che altro un taglio giornalistico: l’utilizzo del concetto di imperialismo, la critica agli appetiti coloniali statunitensi sono il pretesto per parlare di “sospensione delle garanzie giuridiche” e “revoca dei diritti costituzionali”, di quell’incombere del fascismo che può giustificare un’alleanza di governo con la “borghesia illuminata”.

Anche la seconda parte del testo, scritta da Vladimiro Giacché, porta acqua allo stesso mulino: l’esplosione di guerre da parte Usa degli ultimi decenni è vista quasi esclusivamente dal punto di vista “endogeno”, quale risposta alla recessione economica con l’aumento delle spese militari. In questo modo si trascurano l’emergere di altri poli imperialisti, la comune volontà di spartizione del bottino, l’esportazione di capitali connessa ai processi di finanziarizzazione: soffermarsi sugli Usa permette di passare sotto banco gli altri imperialismi e di ventilare la possibilità financo di un’Europa “socialdemocratica”. Del resto, l’opposizione alla deriva autoritaria, la difesa dall’incombere del fascismo saranno probabilmente il nuovo leitmotiv dell’Ernesto per giustificare la mancata opposizione al governo Prodi-Montezemolo, dopo che le primarie avranno spazzato via qualsiasi illusione sul programma.