SCANDALI FINANZIARI: QUESTIONE MORALE O QUESTIONE DI CLASSE?
Trovate di seguito (per chi non lo avesse letto su Liberazione) un articolo di Marco Ferrando sugli "scandali finanziari" (l'affare Fazio e Bankitalia; le scalate a banche, Rcs, ecc.) e la posizione assunta dalla maggioranza bertinottiana del Prc.
QUESTIONE MORALE O QUESTIONE DI CLASSE?
di
Marco Ferrando
L’esplodere
della cosiddetta “questione morale” nel dibattito politico nazionale
richiama alcune considerazioni di fondo, che investono anche le prospettive
politiche della sinistra italiana e del nostro partito.
Innanzitutto:
qual’è la radice vera di questo dibattito? Riguarda diverse “concezioni
della politica nel suo rapporto con l’economia”, o invece la concreta
materialità di uno scontro in atto nel capitalismo italiano e, di riflesso, tra
i suoi portavoce, i suoi partiti, i suoi organi di stampa? Riflette l’assenza
di “codici etici” o la presenza dell’etica della borghesia?
Il
nodo del contendere – a me pare - è assai semplice: da un lato un settore di
borghesia emergente e di spregiudicati parvenù, arricchitisi negli anni della
stagnazione capitalistica e dello sviluppo del capitale finanziario, ha mosso
guerra ai salotti buoni della vecchia tradizionale borghesia italiana sino a
insidiarne le roccaforti (RCS); e lo ha fatto con l’evidente copertura e
sostegno dei vertici di Banca Italia. Dall’altro lato il salotto buono delle
grandi banche, della grande industria, della loro stampa ha replicato con una
offensiva di sbarramento in grande stile: godendo dell’evidente appoggio di
settori di magistratura e della pratica spregiudicata delle intercettazioni.
Naturalmente
ogni protagonista o settore colpito solleva la propria “indignazione morale”
contro i propri avversari. I nuovi rentier da rotocalco sollevano la questione
morale della (propria) libertà contro le intromissioni della magistratura;
Unipol rivendica il diritto all’uguaglianza nei confronti dei gruppi
concorrenti, sventolando il tricolore contro i banchieri olandesi; Fazio e la
sua devotissima consorte, offesi dalle ingiustizie del mondo, si affidano
silenziosamente alla giustizia di Dio (oltre che alla magnanimità generale di
un mondo politico che rinuncia a
chiederne le dimissioni); infine i
“salotti buoni” del grande capitale, dopo aver “moralmente” saccheggiato
i salari e promosso gigantesche frodi (Parmalat), rivendicano con prediche
austere l’etica violata del capitalismo contro l’ “immoralità” dei
propri concorrenti.
C’è
un solo grammo di autenticità e verità in questa recita collettiva?
L’IMMORALITA’
DEL CAPITALISMO
In
realtà, da ognuno di questi pulpiti l’invocazione della “morale” è solo
il paravento dei propri specifici interessi. Meglio: è, come diceva Marx, il
tentativo grottesco di presentare il proprio interesse materiale particolare
come l’ “interesse generale” della società, o almeno, come l’interesse
generale del capitale. Perché allora la sinistra italiana e il nostro stesso
partito, non si sottraggono con chiarezza a questo gioco di specchi con una
battaglia controcorrente di verità tra i lavoratori e tra le masse, che
smascheri l’ipocrisia dilagante e chiami finalmente le cose con il loro nome?
La
prima battaglia “morale” che andrebbe condotta è contro l’ “immoralità”
congenita del capitalismo. Non di “questo” capitalismo quasi ne fosse
disponibile un altro, etico e umanizzato, ma del capitalismo in quanto tale: di
un sistema economico sociale in cui un’esigua minoranza della società, non
solo detiene tutte le leve della produzione, della finanza, dei servizi, ma si
disputa al proprio interno il loro controllo con una lotta selvaggia, senza
altra etica che non sia l’etica del profitto; sia del profitto
“speculativo” realizzato con le plusvalenze di borsa, sia del cosiddetto
profitto “sano” accumulato sullo sfruttamento dei lavoratori, sugli omicidi
bianchi, sulle delocalizzazioni coloniali. Due profitti “moralmente”
diversi, o comunque economicamente distinguibili, come sento dire anche nelle
nostre fila? Niente affatto. Due profitti indissolubilmente intrecciati e
inseparabili, come rivelano i pacchetti azionari di ogni grande impresa e di
ogni grande banca. Là dove le grandi imprese “produttive” lucrano
allegramente dalle attività finanziarie, e la speculazione finanziaria è parte
ordinaria e organica dell’accumulazione delle imprese.
COLPIRE
IL POTERE DELLE BANCHE
“Astratta”
propaganda anticapitalista, dirà qualcuno. Ma è un’obiezione due volte
infondata. Intanto perché senza una chiara propaganda anticapitalista resta il
monopolio della propaganda capitalista, con effetti non solo di intossicazione
ideologica di grandi masse ma di un loro arruolamento subalterno sotto la
bandiera – magari “etica” - di questo o quell’altro interesse borghese
oggi in campo. Ma soprattutto perché solo una chiara determinazione
anticapitalista per un’alternativa di sistema può permetterci di liberare un
programma di rivendicazioni alternative che vada al cuore della “questione
morale” da un versante finalmente autonomo e di classe.
Un
solo esempio: la questione delle banche. Le banche (Bankitalia in testa) sono un
tassello decisivo del capitalismo italiano, tanto più dopo la loro
privatizzazione, i processi di concentrazione avvenuti, e nel contesto della
crisi attuale. Non c’è questione economico-sociale, non c’è rivendicazione
popolare, che non si imbatta oggi nello strapotere delle banche. E non a caso le
banche sono oggi avvertite da larga parte della società per quello che sono:
uno strumento di strozzinaggio quotidiano, di raggiro, di speculazione, nel nome
di una gigantesca rete di intrecci finanziari, di scalate e di affari, in cui i
risparmi dei lavoratori sono solo merce di investimento ed accumulazione fuori
da ogni reale controllo. (Pensiamo solo a quel che si sta preparando su TFR e
fondi pensione). Perché allora non assumere controcorrente, come obiettivo
programmatico di un’alternativa vera, la nazionalizzazione delle banche, senza
indennizzo, e sotto il controllo di lavoratori
con la costituzione di un’unica banca nazionale? Quella misura sarebbe
uno straordinario colpo alla speculazione, un fattore essenziale di razionalità
contro l’anarchia capitalistica, un elemento decisivo nella riorganizzazione
su basi nuove della società. Sarebbe un’autentica misura di “pulizia
morale”. Ma è “incompatibile con il capitalismo” si obietterà. E’
vero: ma un partito comunista tutela forse le compatibilità del capitale? E del
resto: qualcuno può seriamente pensare che un’alternativa di società possa
convivere con il potere e la proprietà dei colossi bancari? La realtà è che
senza drastiche misure anticapitaliste resta solo il ritornello subalterno delle
vecchie ricette riformiste, sempre invocate e sempre fallite: dai “maggiori
poteri alla Consob” alla durata a termine del governatore di Bankitalia.
Semplici pannicelli caldi, certo compatibili con una prospettiva di governo con
i liberali dell’Unione (oggi sostenuti non a caso da tutti i principali
banchieri italiani) ma incapaci persino di scalfire le basi materiali
dell’immoralità capitalistica: come dimostra la realtà di tutti i paesi
capitalistici – senza eccezione – in cui quelle soluzioni sono da tempo in
vigore.
IL
CENTRO DELL’UNIONE CONFESSA
Ma
c’è un secondo aspetto della questione morale che è, se possibile, ancor più
chiarificatore. E’ quello che riguarda il suo intreccio con la dialettica
dell’Unione di Centrosinistra.
Anche
qui la cosiddetta “questione morale” ha poco a che fare con la morale. E
molto invece con la realtà del Centro liberale dell’Unione e delle sue radici
materiali dentro il capitalismo italiano. Anzi: potremmo dire che lo scontro
sulla questione morale nell’Unione è una magnifica occasione di
chiarificazione politica sulla natura di fondo della leadership della
coalizione.
Lo
spettacolo è illuminante. Da un lato la maggioranza DS di Fassino e D’Alema
ha attivamente sostenuto la scalata di Unipol in BNL, foraggiata
dalle azioni dello speculatore Ricucci (a sua volta interlocutore di
Berlusconi): e così è entrato in contrasto con gli interessi di RCS e del
salotto buono esponendosi a “rimproveri” e pubbliche critiche. Dall’altro
lato sia la maggioranza della Margherita sia la sua minoranza prodiana (Parisi)
si sono inseriti in questa contraddizione, con l’evidente intento di
rafforzare le proprie posizioni agli occhi del grande capitale a scapito dei
D.S.. Parisi in particolare ha cercato e cerca di scavalcare Rutelli nella
polemica anti DS per non lasciare alla maggioranza della Margherita una
posizione di frontiera nei rapporti col salotto buono. D’Alema, a sua volta,
ha sentito l’esigenza di rilasciare una lunga intervista a Il Sole 24 Ore per
rivendicare le proprie benemerenze negli ambienti del grande capitale, i suoi
meriti storici nelle privatizzazioni in Italia e naturalmente la fedeltà a
Unipol e ai suoi diritti di scalata finanziaria.
Bene.
La domanda è semplice: cosa vi è di più clamoroso dell’aperta confessione
pubblica delle proprie radici sociali da parte di tutte le forze dominanti
dell’Unione? L’oggetto della contesa è finalmente svelato, se ve n’era
bisogno, non da qualche “fazioso trotskista”, ma dalla diretta voce dei
protagonisti: è la conquista della rappresentanza politica centrale della
borghesia italiana, nella probabile prospettiva della sconfitta di Berlusconi.
La questione morale è solo la clava propagandistica di questa battaglia di
potere. Altro che “regolazione etica” degli affari, da affidare a qualche
codice etico! Lo scontro sull’etica è parte integrante del vero affare: la
spartizione delle quote di rappresentanza del capitalismo italiano. E quanto più
declina il berlusconismo, quanto più si avvicina il prossimo governo
dell’Unione, tanto più questa disputa si farà incandescente.
CODICE
ETICO O ROTTURA CON I LIBERALI?
Ecco
allora riproporsi, sul terreno politico, la questione dell’autonomia della
sinistra e innanzitutto del nostro partito.
Se persino gli esponenti del Centro liberale si accusano reciprocamente di pubblica immoralità in una lotta di cordate, senza risparmio di colpi, può il nostro partito chiedere timidamente l’improbabile “autonomia della politica dall’economia” o deve invece denunciare concretamente la congenita immoralità delle classi dirigenti e della loro economia, il concreto intreccio tra il centro dell’Unione e il mondo degli affari, l’insuperabile corruzione della politica borghese? La dichiarazione congiunta con Mastella attorno alla “necessaria autonomia della politica” mi pare davvero, sotto questa angolazione, profondamente sbagliata. Non solo finisce con l’accreditare quale tutore dell’etica un campione proverbiale del trasformismo politico, erede di una tradizione politica largamente segnata dalla corruzione, oltretutto avversario di ogni ipotesi di patrimoniale e dunque custode di quella rendita finanziaria che è tanta parte del malaffare quotidiano; ma ripropone l’eterna illusione di un capitalismo etico, affidandolo per di più all’autoriforma “morale” di quelle classi dirigenti e di quei loro partiti che sono oggi coinvolti nello scandalo.
La strada da percorrere – secondo Progetto Comunista – è esattamente opposta: non c’è soluzione vera della questione morale senza rompere con le classi dirigenti e col centro dell’Unione. Come i fatti dimostrano non si tratta di una petizione politicista. Riguarda la necessaria autonomia delle classi subalterne e dei movimenti dal mondo della borghesia, dai suoi interessi, dalla sua immoralità di classe. E’ il caso davvero di dire: se non ora quando?