La
buona idea sindacale sul Tfr: regalarlo ai padroni!
di Alberto Airoldi
Un
mio amico, nonché affezionato lettore, sostiene che la cosiddetta previdenza
integrativa sia come quando ti rubano la bicicletta e poi ti chiedono di pagare
per riaverla. Si potrebbe aggiungere che, in questo caso, si pagherebbe per
riavere i cerchioni, il campanello e il sellino e che, oltre al ladro, si deve
pagare pure il sindacalista che faceva il palo.
La
litania che le organizzazioni sindacali confederali ripetono, con ben poche
differenze tra componenti, è che a causa della riforma Dini (questo Dini
potrebbe essere di tutto, fuorché un presidente del consiglio di un governo di
unità nazionale che fece una controriforma delle pensioni col sostegno dei Ds e
della Cgil. Insomma: loro non c’erano) il valore delle pensioni future sarà
molto basso, e quindi bisogna correre ai ripari. Quali sarebbero i ripari?
Semplice: giocare il Tfr nei fondi pensione di categoria, garantiti dalla
presenza sindacale, ben altra cosa che puntarli sul pari al casinò di Campione!
Alcune
definizioni per capire la truffa
La verità è che grazie ai vari
interventi sulle pensioni, portati avanti da Amato, Dini e Prodi (sempre governi
di o sostenuti dal centro sinistra) il padronato italiano è riuscito a spazzar
via l’idea di una vecchiaia garantita da una copertura pensionistica. Questo
traguardo storico è stato raggiunto quasi senza colpo ferire (tranne le
grandiose mobilitazioni del 1994, stroncate dal vergognoso accordo tra Dini e i
sindacati e dalla non belligeranza decretata da Bertinotti) e senza che vi sia
una diffusa percezione del disastro. E’ ormai normale sentire pronunciare ai
giovani, e anche ai meno giovani, frasi come: “La pensione io non la vedrò
mai”. Più difficile capire come si figurano la vecchiaia senza pensione:
forse a vendere collanine come “Nonni dei fiori”, come diceva Gaber, o a
spacciare lo stupefacente del momento.
Per orientarsi in questa materia, che
per i più è oggetto di una gigantesca rimozione collettiva, bisogna avere ben
presenti alcune nozioni. E’ anzitutto indispensabile avere ben chiaro su cosa
si basa il calcolo della pensione nel sistema contributivo. A differenza del
sistema precedente (quello retributivo, che riguarda una parte dei lavoratori
italiani, in via di progressivo esaurimento), il calcolo col sistema
contributivo è basato sulla quantità di contribuzione effettuata
(capitalizzata a un determinato tasso d’interesse), che viene divisa, al
momento del pensionamento, per l’aspettativa di vita. Maggiore è
quest’ultima, minore sarà la pensione (il legislatore non ha previsto il caso
di una riduzione volontaria dell’aspettativa di vita: un paio d’anni di
pensione consistente e poi un bel salto dal quindicesimo piano).
Per tasso di sostituzione, in questo
quadro, s’intende quale percentuale dell’ultimo stipendio rappresenterà la
pensione da percepire. Mentre prima della Dini la pensione corrispondeva a una
percentuale compresa tra l’80% e il 100%, nel 2010 per un lavoratore
dipendente rappresenterà solo il 67% e nel 2030 circa il 50% dell’ultimo
stipendio. Ancor peggio andrà ai lavoratori autonomi, con un tasso di
sostituzione del 30%. Tutto questo, ovviamente, nell’ipotesi di una regolarità
contributiva, assolutamente irrealistica in un paese dove imperversano lavoro
nero e disoccupazione giovanile.
Da dove vengono i fondi pensione
La soluzione a questo futuro di
indigenza di massa è offerta, secondo i politici borghesi di qualsiasi
parrocchia, secondo i sindacalisti e gli imprenditori, dai taumaturgici fondi
pensione. Uno dei primi entusiasti sostenitori dei fondi pensione è stato nel
1981 il generale Pinochet, che ha privatizzato il sistema pensionistico cileno.
La lezione di quell’esperimento ci dovrebbe essere di qualche utilità. Per
finanziare la transizione dal precedente sistema a quello privatizzato il Cile
ha svenduto ingenti patrimoni (per esempio le grandi imprese pubbliche) e ha
stanziato consistenti somme prese dal bilancio dello stato. Dopo un avvio con
elevati rendimenti, a partire dal 1995,
il totale delle pensioni pagate è diminuito, molte pensioni sono scese sotto il
livello di povertà. Del resto, anche negli Usa e in Gran Bretagna, in
particolare dopo il 2001, si sono potute apprezzare le conseguenze della crisi
sui fondi pensione: secondo la società di revisione statunitense Watson Wyatt,
il valore dei fondi pensione si è ridotto tra il 1999 e il 2002 di circa 2.800
miliardi di dollari a livello mondiale. L'economista C. E. Weller indica nel 43%
la perdita media per una famiglia statunitense che ha dei fondi pensione (cfr.
M. Bulard, I pensionati traditi dai fondi pensione, “Le Monde Diplomatique”,
5/2003).
Da
noi gli entusiasti sono i sindacalisti confederali e i loro esperti ed
economisti di riferimento (merita qui una menzione il prof. Messori, consulente
del governo Prodi e della “Fondazione Di Vittorio”), pronti a entrare nei
comitati di gestione di una torta immensa.
Fondi
e Tfr
In
realtà la “previdenza integrativa” non richiederebbe l’investimento del
Tfr, ma anche solo l’accantonamento di una quota dello stipendio mensile.
Tuttavia in un paese dove i salari sono colati a picco
negli ultimi 15 anni,
l’unica possibilità per prelevare una somma consistente dalle tasche dei
lavoratori è andare a prendere la loro liquidazione. La prova è data dal fatto
che in Italia, senza la coercizione rispetto al Tfr, nonostante i vari
incentivi, per ora la previdenza integrativa non è decollata. Il fondi nei
quali si vorrebbe spingere il Tfr sono fondi chiusi a contribuzione definita. Il
che significa che i fondi sono di categoria, gestiti con la compartecipazione di
imprenditori e sindacati, e che si
sa quanto si paga (nella migliore delle ipotesi!), ma non quanto si riceverà.
Ci sono più garanzie che negli Usa, dove il fallimento di un’azienda può
comportare anche il fallimento del suo fondo, e dove è ammessa anche una
gestione rischiosa del capitale. In Italia, salva la libertà di rivolgersi a
fondi aperti di banche e assicurazioni, che hanno meno vincoli di gestione, si
dovrebbe avere una garanzia molto maggiore rispetto alla salvaguardia del
capitale investito. Non del rendimento, però: si rischia meno, ma si guadagna
poco. Il fatto che non si sia voluto realizzare un sistema a prestazione
definita, dove vi è la garanzia di un rendimento minimo e i rischi sono a
carico del gestore del fondo e non del lavoratore, la dice lunga sulla sicurezza
del sistema. Cioè, se il sistema assicurasse, anche solo sul lungo periodo,
rendimenti favolosi, molto più elevati della rivalutazione attuale del Tfr,
perché mai gli imprenditori che si candidano a gestire i fondi non sono
disponibili a garantire un rendimento minimo e lucrare sulla differenza tra
questo e il rendimento reale?
Uno
degli argomenti più utilizzati dai fautori dei fondi è legato all’incertezza
del fattore politico: mantenere il Tfr è più sicuro e, magari anche più
vantaggioso economicamente, ma nel futuro un nuovo governo potrebbe rimettere
mano alle pensioni.
Nel
capitalismo, noi sappiamo, predomina l’incertezza. Mettere il proprio Tfr o i
propri risparmi in un fondo pensione significa sperare di andare in pensione in
una fase ascendente della borsa. I prudenti fondi chiusi italiani nei primi anni
2000 hanno fatto registrare addirittura delle perdite. Alcuni fondi aperti sono
andati decisamente meglio, ma hanno spesso degli alti costi di gestione,
scaricati sul sottoscrittore, che spesso vengono occultati sapientemente.
Questo
significa che per rimediare al disastro per i futuri pensionati determinato
dalla controriforma Dini si chiede ai lavoratori di scommettere il proprio Tfr:
nel migliore dei casi si troveranno una piccola aggiunta alla magrissima
pensione, nel peggiore potranno detrarre una modesta somma dalla pensione per
brindare ai bei tempi in cui esisteva ancora il Tfr.
Conclusioni