UNA
PROPOSTA CONGRESSUALE ALTERNATIVA
RIVOLTA
A TUTTI I COMPAGNI E LE COMPAGNE DI RIFONDAZIONE COMUNISTA,
AL
DI LA’ DI OGNI VECCHIA DIVISIONE DI MOZIONE
Trovate di seguito e qui disponibile in formato Rtf (quindi esente da rischi di virus) il testo della proposta congressuale che Progetto Comunista rivolge a tutti i compagni del Prc.
Francesco Ricci
UNA
PROPOSTA CONGRESSUALE ALTERNATIVA
RIVOLTA
A TUTTI I COMPAGNI E LE COMPAGNE DI RIFONDAZIONE COMUNISTA,
AL DI LA’ DI OGNI VECCHIA DIVISIONE DI MOZIONE
I
COMUNISTI NON SI ADEGUANO A PRODI
L’OPPOSIZIONE
COMUNISTA E DI CLASSE E’ IRRINUNCIABILE
Il
VI Congresso del nostro partito è ormai alle porte. Non sarà un Congresso
ordinario. La svolta impressa dalla maggioranza dirigente del Prc in direzione
di una prospettiva di governo con l’Ulivo mette di fatto in discussione la
stessa ragione sociale del nostro partito, l’esistenza di un’opposizione di
classe e comunista in Italia.
"Primarie",
"vincolo di maggioranza", "coalizione democratica" sono oggi
le nuove tappe di questa direzione di marcia.
Noi
pensiamo che questa deriva vada fermata, prima che sia troppo tardi. Non è
sufficiente “criticarla” alla stregua di un semplice “errore”. Né sono
credibili atteggiamenti tartufeschi che da un lato salutano positivamente la
svolta e dall’altro chiedono un confronto negoziale più stringente,
ipotizzando un sostegno esterno al governo Prodi (come nel '96-'98).
No.
Non è più tempo di tatticismi, manovre, diplomatismi. E’ tempo di chiarezza
e di un’assunzione di responsabilità.
L’ingresso
del Prc in un futuro governo Prodi o nella sua maggioranza significherebbe di
fatto il passaggio di campo del nostro partito dalla parte della borghesia
italiana. Per di più sotto la guida della principale autorità politica e
istituzionale dell’Europa di Maastricht. Non contano “intenzioni” e
“illusioni”, conta la realtà obiettiva delle cose: l’ingresso in un
governo d’alternanza e di concertazione sposato da Montezemolo e dai banchieri
si porrebbe in contraddizione frontale con i movimenti di lotta di questi anni e
le loro ragioni. Non si può stare, allo stesso tempo, dalla parte degli operai
di Melfi e in un governo benedetto dalla Fiat.
Questo
è il nodo del VI Congresso.
Un
anno e mezzo fa, all’inizio della “svolta”, avevamo richiesto con forza un
Congresso straordinario del Prc che desse per tempo la parola e il diritto di
decidere la strada a tutti i compagni del partito. Questa richiesta democratica
elementare è stata respinta da tutte le altre componenti del Prc. E’ stata
una grave responsabilità, che ha consentito alla Segreteria nazionale di
perseguire indisturbata la nuova rotta, mettendo il partito davanti al fatto
compiuto.
Ma
ora tutti i compagni e le compagne del partito -al di là di ogni vecchia
divisione di mozione- hanno la possibilità, se lo vogliono, di porre un argine
a questa deriva, di affermare il carattere irrinunciabile dell’opposizione
comunista, di promuovere e sostenere una proposta alternativa: la proposta di un
polo autonomo di classe e anticapitalistico.
Una
proposta che certo rivendica la cacciata di Berlusconi, ma dal versante dei
lavoratori e non dei padroni.
Proprio
per questo tale proposta si rivolge non solo ai comunisti ma all’insieme del
movimento operaio, dei movimenti di lotta, ed in particolare a quella giovane
generazione che si è affacciata nelle mobilitazioni di questi anni: una
generazione che non deve essere piegata, come trent’anni fa, a un compromesso
storico con i suoi avversari, magari nel nome di “un nuovo mondo possibile”.
La
crisi strutturale del berlusconismo spinge le classi dominanti a cambiare
cavallo. Non è un'ipotesi del futuro, ma un processo che si dispiega nel
presente.
Passa
per la riconquista della Confindustria da parte della grande impresa “ulivista”.
Passa
per la ricomposizione di un asse tra grande industria e banche.
Passa
attraverso la vasta ricollocazione di tanti potentati locali che fiutano e
alimentano il vento nuovo.
La
bandiera di raggruppamento di questi poteri ha un nome preciso: il ritorno alla
concertazione. Che è il metodo con cui le classi dominanti puntano a
coinvolgere le rappresentanze delle classi dominate nell’attuazione del proprio
programma. Un programma che non è affatto sospinto “a sinistra” dalla
cosiddetta crisi del liberismo -come pure si è detto- ma al contrario è e
resta un programma antioperaio e antipopolare, tanto più sullo sfondo della
perdurante crisi capitalistica internazionale ed europea.
Il
metodo della concertazione mira a garantire le migliori condizioni della sua
realizzazione proprio rimuovendo l’opposizione politica e sociale. E’ la
linea che la borghesia italiana ha sperimentato con successo nella legislatura
precedente, colpendo come non mai conquiste e diritti dei lavoratori
("pacchetto Treu", controriforma Dini sulle pensioni, record delle
privatizzazioni, campi di detenzione per gli immigrati, guerre all’uranio
impoverito nei Balcani, professionalizzazione dell’esercito…). E’ la linea
su cui oggi il grande padronato reinveste per uscire a proprio vantaggio dalla
crisi del berlusconismo.
IL
CENTRO DELL’ULIVO COL SOSTEGNO DI CONFINDUSTRIA NEL NOME DELLA CONCERTAZIONE
Il
centro liberale dell’Ulivo è il principale punto di riferimento politico di
questo progetto.
La
costruzione di un soggetto unitario dei “liberali”, sostenuto da Margherita,
maggioranza Ds e Sdi ha un preciso significato di classe. Mira a ricomporre una
rappresentanza politica centrale della borghesia italiana: una rappresentanza di
cui la borghesia è orfana dopo il crollo della Dc e che Forza Italia, per i
suoi caratteri aziendalisti, non è stata in grado di costruire.
Non
a caso la nomenclatura delle grandi famiglie industriali e delle grandi banche
rientra oggi quasi totalmente nell’orbita di riferimento del centro ulivista
(da Montezemolo a Tronchetti Provera, da Banca Intesa a Unicredito, dalla Banca
San Paolo a Monte dei Paschi…).
Il
programma del centro è il coerente riflesso della sua natura di classe. Il
programma di Bersani, Treu, Letta .come ha testualmente dichiarato Montezemolo-
è “intercambiabile col programma di Confindustria”. Ne sposa sino in fondo
sia la domanda di classe (liberalizzazioni, flessibilità, rigore, europeismo)
sia la scelta strategica concertativa (tentativo di ricoinvolgimento della Cgil),
sia la logica bipartisan dell’alternanza. Quando Rutelli dichiara che un
futuro governo dell’Ulivo non cancellerà le controriforme del Polo in fatto
di legge 30, di pensioni e di scuola, non fa una “provocazione”. Rivela
semplicemente la verità del programma ulivista: continuare la gestione delle
politiche dominanti con metodi diversi. Del resto il governo Berlusconi ha forse
cancellato il "pacchetto Treu", o la controriforma Dini, o i centri di
detenzione per gli immigrati, varati dai precedenti governi di centrosinistra?
Ha semmai aggravato quelle scelte, in continuità col loro marchio di classe.
E’ la legge dell’alternanza bipolare che l’Ulivo per primo ha voluto e
imposto nel precedente decennio.
La
figura di Romano Prodi è l’emblema del progetto del centro. Da sempre grande
amico della Fiat, fiduciario della finanza cattolica, interlocutore quotidiano
della Bce e dei banchieri europei, Prodi possiede tutte le qualità che il
grande capitale gli richiede.
Romano
Prodi è già, in sé, il programma dell’Ulivo.
PRODI,
PUTELLI, D’ALEMA CHIEDONO LA SUBORDINAZIONE DEL PRC (IN CAMBIO DI MINISTRI)
Questo
progetto di alternanza richiede tuttavia una condizione decisiva: la
subordinazione della sinistra italiana.
Solo
questa disponibilità può offrire al nuovo governo dell’Ulivo una speranza
credibile di pace sociale. E solo questa prospettiva, a sua volta, può
rafforzare la credibilità dell’Ulivo presso i circoli degli industriali e dei
banchieri.
Per
questo il centro liberale chiede pubblicamente un accordo vincolante sia alla
sinistra sociale, sia alla sinistra politica.
Sul
versante sociale, il centro dell’Ulivo lavora alla ricomposizione della
frattura tra Cgil e Confindustria. L’esperienza di Berlusconi col tentativo di
isolamento della Cgil si è rivelata un fallimento per il padronato. Non solo
non ha ammortizzato le lotte ma ha contribuito ad alimentarle. Se Montezemolo
punta sull’Ulivo è perché sa che solo un governo di centrosinistra può
offrire alla Cgil lo spazio di ritorno della concertazione. E solo un ritorno
della Cgil alla concertazione può favorire un recupero di controllo burocratico
dei conflitti.
Sul
versante politico l’operazione ulivista è ancora più chiara.
Il
centro dell’Ulivo non chiede alla sinistra italiana (sinistra Ds, Pdci, Prc,
Verdi…) un accordo elettorale per battere Berlusconi, chiede un accordo
politico, programmatico, di governo, che vincoli tutta la sinistra a un patto di
legislatura. La ragione è semplice: solo un coinvolgimento di governo di tutta
la sinistra, può corresponsabilizzarla per cinque anni ai programmi liberali
del centro ulivista. Solo questo pieno coinvolgimento di governo può favorire
lo stesso recupero di una concertazione con la Cgil e una non-belligeranza dei
movimenti. E viceversa: la permanenza di un’ opposizione a sinistra
ostacolerebbe la pacificazione sociale, farebbe da sponda ad antagonismi e
conflitti, terrebbe aperto il varco di una loro radicalizzazione.
Qui
sta l’offerta di ministri al nostro partito. Dentro una logica razionalizzata
da Massimo D’Alema: da un lato un centro liberale che guida il governo, in
rappresentanza dei poteri forti e dall’altro un Prc cui si assegna il ruolo di
rappresentanza subalterna delle istanze sociali e “di pace” in funzione del
controllo dei movimenti.
E’
la riedizione aggiornata della classica divisione dei ruoli tra liberalismo e
socialdemocrazia che ha attraversato tante esperienze del ‘900. Si può non
vederlo?
L’ESPERIENZA
SMENTISCE LA SVOLTA DI BERTINOTTI (E TUTTI I SUOI ARGOMENTI)
L’accettazione
dell’offerta ministeriale avanzata dall’Ulivo non solo è priva di qualsiasi
base di classe, ma ha visto crollare tutti gli argomenti avanzati a suo
sostegno.
Si
era detto che la nuova stagione dei movimenti poteva contaminare il programma
dell’Ulivo spostando a sinistra il suo baricentro. E’ accaduto il contrario.
Dopo la più grande stagione dei movimenti degli ultimi trent'anni (2001-2004)
le posizioni del centro dell’Ulivo di Prodi, Rutelli, D’Alema sono di fatto
opposte a tutte le ragioni dei movimenti. Ed anzi tutta l’operazione di
alternanza è costruita esattamente per rimuovere i movimenti.
Si
era detto che un confronto programmatico con l’Ulivo, aperto ai movimenti,
poteva metterne in discussione l’impianto generale. Ma il confronto con
l’Ulivo è un fatto pubblico che dura da anni e che ha investito ogni
passaggio della lotta di classe (dalle politiche sociali, alle guerre…).
Eppure non ha registrato alcuna convergenza di fondo. Continuare a riproporlo
significa rimuoverne l’esito.
Si
è detto che è possibile spostare il programma dell’Ulivo grazie
all’invenzione delle “primarie programmatiche”. Ma le “convention”
americane non hanno nulla a che vedere con la democrazia dei lavoratori. Nel
concreto le “primarie” si ridurrebbero ad assemblee di stati maggiori
dell’Ulivo con una quota minoritaria e prestabilita di rappresentanza della
sinistra. La loro unica funzione sarebbe quella di legittimare il programma
liberale di Prodi (e l’ingresso del Prc nella “gabbia” dell’Ulivo). E
inoltre: le vere “primarie” non vi sono forse state quando la maggioranza
del popolo della sinistra ha votato per l’estensione dell’articolo 18 o si
è mobilitato per il ritiro incondizionato delle truppe dall’Irak? Eppure
proprio su questi terreni il centro dell’Ulivo è e resta dall’altra parte
della barricata.
La
verità è sotto gli occhi di tutti e non può essere negata.
I
fatti non solo misurano la distanza incolmabile tra le rivendicazioni dei
movimenti e gli orientamenti del centro ulivista. Ma ci dicono che quella
distanza è dovuta alla rappresentanza politica obiettiva di ragioni di classe
contrapposte. Aggirare questa verità, magari con la richiesta di una maggiore
pressione negoziale (come fa il gruppo dirigente dell’Ernesto), significa solo
negare l’evidenza e sfuggire alle conclusioni che questa impone. Non può
esistere alcun programma comune di governo tra lavoratori e padroni, tra gli
operai di Melfi e Luca di Montezemolo, tra i giovani noglobal e i banchieri di
Maastricht, tra i pacifisti conseguenti e i sostenitori dell’Europa in armi,
tra i difensori dei popoli oppressi e i sostenitori delle guerre umanitarie e
della ipocrisia dell’Onu.
L’ALTERNANZA
PRODI E’ CONTRO I MOVIMENTI, SU SCALA NAZIONALE E INTERNAZIONALE
La
prospettiva di governo con Ulivo non è solo un’alternativa mancata (come
afferma Erre). E’ l’integrazione nel disegno che qui e ora il grande
capitale persegue contro i lavoratori e i movimenti.
Già
l’esperienza del '96-'98 è stata sotto questo profilo esemplare. Dopo le
grandi mobilitazioni contro il primo governo Berlusconi nel '94, la maggioranza
dirigente del nostro partito entrò nel '96 nella maggioranza del governo Prodi
-così disse- “in funzione dello sviluppo dei movimenti”. Invece per due
anni e mezzo i movimenti registrarono una caduta verticale. E il Prc votò le
peggiori controriforme del capitale contro i lavoratori.
Così
oggi, dopo tre anni di movimenti si dichiara che il nostro ingresso in un
secondo governo Prodi è “in funzione dei movimenti stessi”. Ma il ruolo che
oggi la prospettiva Prodi incarna è, come allora, esattamente opposto: quello
di ammortizzatore delle lotte in funzione della pace sociale. L’obiezione
secondo cui i movimenti hanno oggi una portata più ampia, rovescia esattamente
i termini del problema: proprio perché oggi si affaccia una giovane generazione
in lotta, il coinvolgimento del Prc in un governo di concertazione avrebbe una
valenza ancor più grave di sei anni fa.
Del
resto tutte le esperienze internazionali di governo con la borghesia liberale si
dimostrano avversarie dei movimenti. Il governo Jospin, figlio della rivolta di
massa contro Juppé, ha realizzato il record delle privatizzazioni in Francia e
ha partecipato in prima fila ai bombardamenti sui Balcani. Il governo Lula
beneficiario del malumore popolare verso Cardoso, governa da un anno e mezzo
contro le ragioni della sua base di massa e in ossequio alle direttive del Fmi
abbatte salari e pensioni, nega la terra ai contadini, privatizza i servizi
sociali. L’appena costituito governo indiano, certo sostenuto da una parte
rilevante della leadership noglobal, ha varato nella sua prima finanziaria
l’aumento del 17% delle spese militari.
Chi
può seriamente pensare che un governo Prodi possa produrre politiche diverse?
La
valenza internazionale di una nostra scelta governista sarebbe enorme.
Tutti
sappiamo che un secondo governo Prodi opererebbe a difesa della nuova
costituzione europea e della costruzione imperialistica dell’Europa.
Preserverebbe la presenza delle truppe italiane nei Balcani, in Afghanistan, in
Irak. Lavorerebbe ad assicurare alle grandi imprese italiane una penetrazione a
basso costo nei mercati coloniali dell’Est europeo, del Medio Oriente,
dell’America Latina. Si impegnerebbe nella “difesa attiva” delle frontiere
dalla cosiddetta “invasione immigratoria”. Lavorerebbe al recupero di
un’intesa internazionale con l’imperialismo Usa. Nulla di nuovo: sono le
posizioni che Prodi ha sostenuto in questi anni ai vertici della Commissione
Europea.
Su
ogni versante quel governo sarebbe dunque contrapposto non solo ai lavoratori
italiani ma ai movimenti di liberazione, ai popoli oppressi e alle
rivendicazioni più avanzate del movimento europeo e internazionale alter-global.
LE
CONSEGUENZE DELLA SVOLTA NELLA POLITICA DEL PARTITO
Il
solo perseguimento di questa prospettiva innaturale produce già oggi ricadute
profonde sulla nostra politica di massa.
E’
innanzitutto sempre più evidente un sostanziale appiattimento politico su
Epifani da parte della segreteria nazionale del partito in tutte le sue
componenti. Un silenzio tanto più preoccupante di fronte alle aperture della
burocrazia Cgil alla Confindustria di Montezemolo.
Non
è un caso: non si può lottare contro la prospettiva di recupero della
concertazione su cui Epifani si muove se la nostra prospettiva è un governo di
concertazione politica con l’Ulivo, che avrebbe nella Fiom e nella sinistra
sindacale la sua prima vittima.
Così
nel movimento antiglobalizzazione e contro la guerra.
La
teorizzazione della spirale guerra-terrorismo come paradigma dei mali del mondo
ha accompagnato il rifiuto del sostegno incondizionato al diritto di resistenza
del popolo irakeno contro l’occupazione coloniale dell’Irak. Ciò che non
significa sostenere le tendenze panislamiste. La stessa richiesta di ritiro
delle truppe dall’Irak non è oggetto di alcuna reale campagna di massa. E la
richiesta di ritiro delle truppe italiane dai Balcani e dall’Afghanistan è
stata di fatto silenziosamente abrogata. Non è un caso: se la prospettiva è
l’accordo di governo con l’Ulivo occorre rispettare le compatibilità della
politica estera italiana.
Infine
si estende massicciamente l’ingresso del Prc nelle amministrazioni locali
dell’Ulivo.
Non
è affatto la misura di una maggiore “incidenza” del Prc come si dice nella
propaganda interna. E’ invece la misura della maggiore subordinazione del Prc
all’Ulivo e alle sue politiche. Le esperienze pilota degli Illy, dei Soru, dei
Divella che vedono il nostro partito sostenere giunte capitalistiche
tutt’altro che “illuminate” danno il segno della vera linea di tendenza.
Non
è un caso: se si persegue la prospettiva di ingresso nel governo Prodi,
l’allargamento delle coalizioni locali è del tutto logica e naturale.
SINISTRA
EUROPEA, NON VIOLENZA, E SVOLTA GOVERNISTA
Lo
stesso profilo culturale del nostro partito e la sua iniziativa internazionale
sono stati investiti dalla svolta di governo.
La
promozione e costituzione del “nuovo partito della sinistra europea” è, al
riguardo, emblematico.
Non
si tratta -come affermano le componenti “critiche” della maggioranza
(Ernesto ed Erre)- di un’iniziativa “sbagliata” perché discriminatoria
verso “partiti comunisti” di estrazione staliniana o verso formazioni di
richiamo “trotskista”. Si tratta della promozione di un soggetto politico
europeo dichiaratamente “non comunista” e del tutto vocato a prospettive di
governo d’alternanza con forze di socialdemocrazia liberale (come in Francia,
Germania, Spagna) o di centro liberale (come in Italia).
E’
naturale che proprio la segreteria nazionale del Prc sia stata la forza
promotrice di questo soggetto europeo: il Prc italiano è infatti, in Europa, il
laboratorio più avanzato di costruzione di un governo con la propria borghesia
liberale. Allearsi con forze omologhe nella Ue significa consolidare il nuovo
corso in Italia. Consolidare il nuovo corso in Italia significa sospingere
esperienze analoghe in Europa.
Anche
la svolta identitaria della “non violenza” è inseparabile dalla svolta
politica del partito.
Non
si tratta semplicemente -come altri vorrebbero- di una rottura culturale e
ideologica con la lettura marxista della storia, con la tradizione delle lotte
dei popoli oppressi. Né solo dell’assurda equiparazione di leninismo e
stalinismo assimilati al comune codice culturale della violenza, al di là della
loro contrapposizione materiale, politica e sociale, nella storia reale. Tutto
questo è vero, naturalmente, ed anzi segna ancor più esplicitamente che in
passato la rimozione radicale di una vera rifondazione comunista.
Ma
la coincidenza tra questa più esplicita rottura col comunismo e la svolta
politica del partito è tutt’altro che casuale. La nuova veste identitaria
della non violenza serve a stemperare il comunismo come alternativa di sistema
per ridurlo ad un orizzonte di nobili valori etici. Che, per definizione, può
poi combinarsi nel mondo terreno con le più diverse politiche e collocazioni:
anche quella dell’ingresso nel governo Prodi, difensore delle spese militari,
dell’esercito europeo, delle occupazioni coloniali, quindi… dell’ordinaria
violenza borghese.
LA
BORGHESIA PLAUDE ALLA “SVOLTA DI BERTINOTTI”, MENTRE CRESCE IL DISAGIO NEI
MOVIMENTI
Peraltro
il miglior metro di misura della svolta della segreteria nazionale è data dal
commentario di classe di cui è oggetto.
Mai
come oggi la grande stampa borghese è prodiga di riconoscimenti a Bertinotti e
alla “svolta”, letta come la “Bad Godesberg” del Prc. Così tutto il
centro dell’Ulivo, da Massimo D’Alema a Ugo Intini loda la “maturazione di
governo” di Bertinotti e il suo ritrovato senso di responsabilità. Di più:
Romano Prodi incoraggia il tentativo del Prc di egemonizzare la sinistra
dell’Ulivo al fine di poter individuare nell’asse Prodi-Bertinotti il punto
d’equilibrio del futuro governo. In particolare la disponibilità di
Bertinotti ad accettare non solo la leadership di Prodi, ma il principio di
maggioranza della coalizione è stato salutato per quello che è:
l’accettazione della guida liberale del governo in cambio del proprio
riconoscimento come guida della sinistra.
Viceversa
cresce nell’avanguardia dei movimenti di questi anni, ostilità o diffidenza
verso la svolta del partito. Nell’ambito sindacale, un settore di sinistra
esprime in forme diverse un significativo disagio. Nel movimento contro la
guerra la disponibilità di Bertinotti ad accettare la clausola Onu sulle
iniziative militari ha suscitato vasto sconcerto. Nel movimento di solidarietà
con la Palestina si sono prodotte contraddizioni crescenti con l’orientamento
del partito. Nel movimento noglobal è precipitata infine la rottura tra il
gruppo dirigente del Prc e il settore dei disobbedienti: prima acriticamente
vezzeggiato, poi di fatto scaricato nel nome di un’immagine più presentabile,
meno antagonistica, più compatibile col nuovo profilo di partito di governo
(caso d’Erme).
Nel
partito infine, come tutti possono constatare la svolta di governo, assieme ai
suoi risvolti politici e culturali, ha prodotto un disorientamento profondo, ha
rafforzato il ripiegamento passivo di settori militanti, ha moltiplicato i
rischi di disimpegno.
Se
il solo perseguimento di una prospettiva di governo ha prodotto questi effetti,
la realizzazione di quella prospettiva comporterebbe la loro precipitazione
devastante.
REAGIRE
SI PUO’ E SI DEVE, AL DI LA’ DI VECCHIE DIVISIONI: TRE ASSI DI PROPOSTA
ALTERNATIVA
Reagire
si può e si deve.
L’imminenza
del Congresso carica oggi ogni compagno e compagna del partito di una grande
responsabilità, ben al di là delle vecchie divisioni congressuali. In gioco
non c’è questa o quell’altra percentuale congressuale di mozione. In gioco
c’è l’esistenza stessa del nostro partito come partito di classe.
E’
indispensabile in primo luogo un bilancio elementare dell’ultimo congresso che
faccia tesoro dell’esperienza. Glorificare tutt’oggi il V Congresso come
“svolta radicale a sinistra” e poi lamentare la successiva svolta a destra
(come fa Erre) è una contraddizione senza senso. E’ vero invece che la
rappresentazione pubblica del V Congresso come svolta a sinistra, e la sua
sincera interpretazione di sinistra da parte di una reale maggioranza del
partito, è alla base dell’attuale contraccolpo interno della “svolta”.
Per
questo già nel marzo del 2003, dopo il varo delle commissioni programmatiche
con Treu e Mastella, chiedemmo, con un largo appello, la convocazione del
congresso straordinario del Prc; un congresso che potesse dare per tempo a tutti
i compagni un potere decisionale sulla rotta da intraprendere. Migliaia di
compagni e compagne, al di là di ogni vecchio steccato congressuale, hanno
sottoscritto questa petizione. Se essa fosse stata sostenuta da tutte le
componenti “critiche” del Prc in nome di un elementare principio di
democrazia sarebbe stato possibile ottenere il congresso già un anno fa. Così
non è stato. E il gruppo dirigente ha potuto così portare avanti il percorso
della svolta al riparo da ogni verifica democratica. Disponendo anzi a lungo del
sostegno unitario della vecchia maggioranza dirigente (o di qualche benevola
astensione) e con l’opposizione della sola vecchia minoranza.
Anche
a partire da questo bilancio, alla vigilia del VI Congresso, riteniamo
essenziale che il vasto sentimento comune del partito contro la svolta
intrapresa, possa tradursi in una proposta congressuale chiara e inequivoca.
Capace di raccogliere dal basso la domanda interna di unità contro la svolta ma
al tempo stesso di evitare ricorrenti ambiguità, oscillazioni, pendolarismi.
In
questo senso avanziamo all’attenzione di tutti i compagni del nostro partito
tre proposte di linea di valore strategico e tra loro intrecciate come base di
un comune testo congressuale alternativo.
PER
LA ROTTURA DEL PRC CON PRODI. PER UN POLO AUTONOMO DI CLASSE
1)
La rottura immediata del Prc con la prospettiva di ingresso in un secondo
governo Prodi, combinata con la proposta più generale di un polo autonomo
anticapitalistico e di classe.
L’immediata
rottura del Prc col centro liberale dell’Ulivo è imposta dall’evidenza dei
fatti. Ma tale rottura non ha affatto il senso di un ripiegamento settario. Al
contrario deve star dentro una proposta più generale di autonomia del movimento
operaio e di tutti i movimenti di lotta dalla borghesia italiana. La proposta di
un polo autonomo di classe e anticapitalistico è rivolta dunque a tutte le
forze protagoniste di tre anni di mobilitazioni contro Berlusconi, a partire dai
lavoratori e dai giovani; a tutte le loro organizzazioni e rappresentanze di
massa (Cgil, sindacalismo di classe, rappresentanze del movimento
alterglobalizzazione, organizzazioni del movimento contro la guerra); a tutte le
forze e tendenze politiche che sono state in questi anni dalla parte dei
movimenti contro Berlusconi e che hanno sostenuto il referendum del Prc
sull’articolo 18 (Sinistra Ds, Pdci Verdi). Il Prc deve sfidare l’insieme di
questa sinistra sociale e politica a rompere con il centro e a unire
nell’azione le proprie forze per candidarsi a dirigere la lotta contro
Berlusconi e preparare un’alternativa vera.
La
rottura col centro è una necessità di tutti i movimenti. Non solo per
sottrarsi all’alternanza liberale ma per la stessa esigenza di una
mobilitazione vera contro Berlusconi.
In
questi anni la subordinazione della sinistra a una prospettiva di accordo col
centro, ha rappresentato una palla di piombo al piede della mobilitazione contro
il governo. La gestione centellinata di scioperi simbolici; il rifiuto di una
piattaforma unificante di mobilitazione non hanno rappresentato semplicemente
errori sindacali: hanno rappresentato la volontà politica di subordinare
l’azione del movimento operaio all’egemonia liberale dell’alternanza. Il
risultato è stato disastroso. Berlusconi non solo rimane al suo posto, ma forte
dell’assenza di un’opposizione radicale, rilancia la propria offensiva
antipopolare.
Così
non può continuare. Solo una rottura col centro dell’Ulivo può liberare sino
in fondo il potenziale di lotta che si manifesta nel paese. Le lotte a oltranza
e vincenti a Scanzano in Fincantieri e soprattutto a Melfi hanno dimostrato non
solo l’inconsistenza delle obiezioni (nello stesso Prc) alle forme di lotta
radicali ma la possibilità e l’attualità di una prospettiva di unificazione
di quelle lotte in un vero sciopero generale prolungato attorno a una comune
piattaforma di lotta che punti apertamente alla caduta del governo. Una caduta
di Berlusconi sull’onda di una radicale lotta di massa segnerebbe l’intera
situazione sociale e politica, muterebbe i rapporti di forza tra le classi,
costruirebbe condizioni più avanzate nella lotta per un’alternativa vera. Per
questo il centro dell’Ulivo guarda con terrore alla sola idea di una spallata
di massa a Berlusconi. Per questo una sinistra sociale e politica italiana che
voglia assumersi le proprie responsabilità può e deve candidarsi a direzione
di una mobilitazione radicale contro il governo.
PER
UN’ALTERNATIVA DI SOCIETA’ E DI POTERE. L’ALTERNATIVA E’
ANTICAPITALISTICA O NON E’
2)
La seconda proposta di linea riguarda il contenuto dell’alternativa a
Berlusconi come alternativa di classe e anticapitalistica.
Sul
termine alternativa regna a sinistra la confusione più totale dentro uno
slittamento semantico cui il gruppo dirigente del PRC ha largamente contribuito.
Quello per cui il liberalismo di Prodi e D’Alema è diventato
“riformismo”. E il riformismo (illusorio) è diventato “l’alternativa
radicale”.
E’
bene restituire le parole alle cose.
Non
c’è alternativa possibile a braccetto delle classi dirigenti e delle loro
rappresentanze politiche. L’alternativa è tale solo in rottura con la
borghesia italiana, i suoi interessi, i suoi partiti. E’ tale se è, per
l’appunto, alternativa alle classi dirigenti. E questo tanto più entro la
crisi capitalistica internazionale ed italiana che mina le basi materiali di
ogni “compromesso riformatore e antiliberista”.
Innanzitutto
un programma di alternativa vera è chiamato a cancellare l’intera stagione di
controriforme che le classi dominanti hanno imposto all’Italia negli ultimi
quindici anni.
La
cancellazione della controriforma pensionistica di Berlusconi è doverosa: ma va
combinata con la cancellazione della riforma Dini voluta dall’Ulivo che ha
abbattuto le pensioni future dei giovani per fare largo al capitale finanziario.
La
cancellazione della legge 30 è una necessità inderogabile: ma va congiunta
all’abolizione del pacchetto Treu, imposto dal governo Prodi (col voto del Prc),
che ha introdotto la piaga dilagante del lavoro interinale.
La
cancellazione della “Bossi-Fini” è drammaticamente urgente: ma non può
risparmiare i campi di detenzione (Cpt) imposti da Prodi agli immigrati (col
voto favorevole del Prc) e tutte le loro brutture inumane.
E
lo stesso vale per la scuola, per l’università, per ogni campo di vita
sociale.
Un’alternativa
che risparmiasse le controriforme dell’Ulivo sarebbe una contraddizione in
termini: sarebbe nei fatti un’alternanza liberale.
In
secondo luogo una vera alternativa non potrebbe essere meno radicale verso la
borghesia di quanto la borghesia italiana lo sia stata contro i lavoratori.
La
borghesia italiana ha operato in vent’anni una radicale redistribuzione della
ricchezza verso l’alto, da un lato comprimendo salari e spese sociali,
dall’altro detassando verticalmente il capitale, moltiplicando le agevolazioni
per le imprese, espandendo i trasferimenti pubblici al padronato. Un governo di
alternativa dovrebbe realizzare un programma di segno opposto: da un lato un
forte aumento di salari e pensioni, un vero salario garantito ai disoccupati
senza contropartite di flessibilità, una forte espansione della spesa sociale
nell’istruzione, nella sanità, in opere pubbliche ecologicamente compatibili;
e dall’altro il finanziamento di queste misure con la tassazione progressiva
dei grandi patrimoni, profitti e rendite, con l’abolizione dei trasferimenti
pubblici alle imprese private, con l’abbattimento delle spese militari, con
l’abolizione dei finanziamenti pubblici a scuole e sanità private…
Qualsiasi
soluzione che non realizzasse questo rovesciamento speculare nella
redistribuzione della ricchezza, si limiterebbe ad amministrare la regressione
sociale avvenuta in vent’anni. Potremmo chiamarla alternativa?
In
terzo luogo un’alternativa vera non potrebbe limitarsi ad un puro orizzonte
redistributivo, ma dovrebbe affrontare il nodo della proprietà.
In
vent’anni la borghesia italiana e i suoi governi sono intervenuti in modo
radicale sul tema della proprietà: hanno promosso privatizzazioni gigantesche,
enormi concentrazioni, riassetti proprietari di grande rilevanza nei settori
strategici della produzione, del credito, dei servizi. Un’alternativa vera
dovrebbe innanzitutto procedere, con eguale radicalità, nella direzione
opposta: rinazionalizzare, senza indennizzo, e sotto il controllo dei lavoratori
le imprese e i servizi privatizzati; nazionalizzare senza indennizzo e sotto
controllo operaio e sociale le aziende in crisi, che licenziano, che inquinano;
nazionalizzare senza indennizzo e sotto controllo operaio e popolare le
industrie responsabili di truffe e speculazioni -spesso di enorme portata- a
danno di lavoratori, consumatori, piccoli risparmiatori.
I
casi Parmalat e Cirio, i casi Eni ed Enel, sono esemplari. Dimostrano che non può
esservi alleanza con il profitto “buono” contro la rendita parassitaria. Che
l’intreccio tra profitto e rendita, proprietà industriale e banche, è, tanto
più oggi, inestricabile nel capitalismo e che senza incunearsi con forza nel
diritto di proprietà, ogni predicazione contro “corruzione e malaffare”
resta illusione e ipocrisia.
E’
vero: questo programma di alternativa non è compatibile con il capitalismo
italiano e la Ue. Ma questo dimostra una volta di più la necessità di superare
l’illusione neoriformista di un’Europa sociale in ambito capitalistico, di
un antiliberismo svincolato dall’anticapitalismo. L’alternativa è
anticapitalistica o non è, su scala sia italiana che europea. E chiama
necessariamente la prospettiva di un’alternativa di potere. Se le classi
dirigenti d’Italia e d’Europa hanno fallito, incapaci di prospettare
qualsiasi prospettiva di progresso, spetta ai lavoratori, ai giovani, al blocco
sociale alternativo emerso nelle mobilitazioni di questi anni rifondare su basi
socialiste la società italiana ed europea.
Peraltro
la lotta per un governo dei lavoratori e delle lavoratrici in Italia, avrebbe
un’enorme ricaduta su scala europea ed internazionale.
3)
Infine la lotta per un’alternativa vera, di società e di potere implica la
salvaguardia di un’opposizione comunista e di classe, a tutti i governi della
borghesia italiana. L’opposizione comunista è irrinunciabile. E’ questa una
considerazione di principio, inaggirabile, e di grande rilevanza strategica. Non
riguarda solo i comunisti, ma l’insieme del movimento operaio e le sue
prospettive.
Innanzitutto
si tratta di un principio elementare della tradizione storica comunista, prima
della degenerazione staliniana. Quella che faceva dire a Rosa Luxemburg: i
comunisti stanno all’opposizione sino alla conquista del potere. Non c’è
rifondazione comunista rivoluzionaria, quindi antistaliniana, senza recuperare
il principio marxista dell’opposizione comunista ai governi del capitale.
Ma
soprattutto l’attualità del recupero di questo principio elementare del
marxismo è testimoniata dall’esperienza pratica delle collaborazioni di
governo dei “partiti comunisti” nell’attuale fase di crisi capitalistica
internazionale. In un contesto storico segnato dall’esaurimento dello spazio
riformistico l’ingresso dei partiti comunisti nei governi borghesi significa
semplicemente il loro coinvolgimento nelle politiche di attacco ai lavoratori.
Così è stato per il Pcf prima nel governo Mitterand-Marchais dell’81-'83 poi
nel governo Jospin del '97-2001. Così è stato per il nostro partito nel primo
governo Prodi del '96-'98. Così è oggi per il Partito Comunista del Sudafrica
nell’attuale governo Mbeki…
Queste
considerazioni si attagliano pienamente al caso italiano.
Cacciare
Berlusconi per un’alternativa di classe deve essere come abbiamo detto, una
parola d’ordine centrale dei comunisti. Ma proprio quella parola d’ordine
implica l’opposizione comunista a un eventuale governo d’alternanza.
Certo.
Come Prc dovremmo batterci per una cacciata di Berlusconi per via di una
spallata di massa, ciò che in ogni caso creerebbe condizioni migliori di lotta
per l’alternativa. Ma se le direzioni maggioritarie del movimento operaio
bloccheranno questa soluzione di lotta radicale, la prospettiva d’alternanza
potrebbe rafforzarsi. In quel caso i comunisti se da un lato avrebbero tutto
l’interesse a concorrere alla sconfitta di Berlusconi sullo stesso terreno
elettorale al fine di legarsi ai sentimenti delle masse -con accordi puramente
tecnici con altre forze della sinistra politica e sociale- avrebbero al tempo
stesso la necessità assoluta di preservare la totale autonomia politica della
propria opposizione da un governo borghese dell’Ulivo. Di più: dovrebbero
sviluppare un’opposizione radicale alla politica di quel governo, entrare
nelle contraddizioni del suo blocco sociale, rivendicare la rottura della Cgil
con il governo, raccogliere l’avanguardia di tutti i movimenti contro la
politica di concertazione e le prevedibili misure antipopolari del governo. Ed
anzi proprio l’inevitabile delusione di massa a seguito della prevedibile
politica di Prodi darebbe all’opposizione comunista uno spazio reale di
costruzione e di radicamento nelle lotte. Viceversa ogni altra soluzione
significherebbe un’inaccettabile compromissione del Prc: sia nel caso di un
ingresso diretto del Prc nel governo Prodi, come vorrebbe l’attuale
maggioranza della segreteria nazionale del partito. Sia nel caso di un appoggio
esterno del Prc al governo come vorrebbe la componente dell’Ernesto e di Erre:
una soluzione che coinvolgerebbe in egual misura le responsabilità del partito
come ha dimostrato l’esperienza del sostegno esterno del Prc a Prodi nel '96,
e come dimostrano oggi il sostegno esterno dei Pc indiani al governo del loro
paese.
No.
Su questo terreno decisivo non possono esservi equivoci e compromissioni.
L’opposizione
comunista a un governo liberale non può essere messa in discussione. In nessuna
forma. Dev’essere comunque preservata. Nessun governo della borghesia, di
centrodestra o di centrosinistra può essere privato di un’opposizione di
classe e comunista.
UNA
PROPOSTA APERTA A TUTTI I COMPAGNI E LE COMPAGNE. AL DI LA’ DI OGNI VECCHIA
DIVISIONE DI MOZIONE
Questi
tre assi non esauriscono naturalmente la complessità e le articolazioni di una
proposta congressuale alternativa. Ma ne rappresentano, a nostro giudizio, il
fondamento ineliminabile.
Fuori
dalla chiarezza di questi tre assi di fondo ogni unità congressuale sarebbe un
pasticcio opportunistico, senza respiro e senza futuro. Ma su questi assi di
fondo la più larga unità dal basso dell’opposizione interna alla svolta
governista di Bertinotti, oltre ogni vecchia barriera di “mozione”,
rappresenterebbe un fatto politico rilevante e carico di prospettive. Non solo
per il Prc ma per l’avanguardia operaia e giovanile di questi anni di lotte.
Con
questo spirito aperto ci disponiamo -da subito- all’interlocuzione più ampia
con tutti i compagni e le compagne del nostro partito.