La
realtà sociale del carcere
Intervista
a Michele Zizzari, teatrante
di Lerec Liverani*
Esiste una stretta relazione tra
sistema sociale e “delinquenza”, basta osservare le statistiche fornite dal
Ministero della Giustizia, per capire di quale “giustizia” si stia parlando.
Nei dati riferiti al 31-12-2004, pare evidente il carattere di classe dello
strumento detentivo. Sui 56000 carcerati (82300 ingressi), di questi solo lo
0,9% è laureato, solo il 4,2% è diplomato, ai quali va aggiunto il 3,4% che ha
conseguito un diploma di scuola professionale, a fronte di un 38,6% che possiede
il titolo di Licenza media inferiore e di un 26, 5% in possesso della sola
licenza elementare. Inoltre il 5,5 non possiede alcun titolo e addirittura
l’1,4% è analfabeta.
Se si tiene conto
dell’occupazione svolta prima della reclusione, si nota come oltre 14000 sono
disoccupati e risulta a dir poco interessante il dato non rilevato, pari a circa
25000. Il 39% dei carcerati è di cittadinanza estera.
Questi dati non possono
certamente lasciare indifferenti.
La “discarica sociale” del
carcere, seleziona le sue vittime tra disoccupati, operai, immigrati, persone
non scolarizzate, e le costringe a sopravvivere in condizioni inumane, perché
colpevoli di avere commesso in maggioranza reati contro il patrimonio o in
violazione della legge sulla droga. Ma vediamo dall’interno questo mostro
istituzionale che il sistema capitalista ha reso indispensabile, per la sua
sopravvivenza.
Michele Zizzari artista,
teatrante, da tempo lavora a stretto contatto con questa realtà e per
analizzare il carcere, non si poteva fare a meno di intervistare chi, come lui,
conosce la realtà al di là delle statistiche.
R. Sono entrato 4 anni fa con un
laboratorio di scrittura, la cosa si è poi trasformata in un laboratorio
teatrale e siamo dal 2001 già al quarto spettacolo.
Abbiamo esordito con Natale
in casa Cupiello, di De Filippo, visto la folta comunità napoletana, al
quale è seguita una mia opera in omaggio a De Andrè Quando
dal letame nascono i fiori; e negli ultimi due anni siamo impegnati in una
rivisitazione di un’opera di Samuel Beckett, Aspettando
Godot.
R. In campo sociale si
utilizzano diversi strumenti per il recupero sociale, il teatro è un di questi
strumenti. E’ uno strumento totale, che agisce sulla persona a tutti i livelli
da quello emotivo a quello relazionale, ricostruisce relazioni, amplifica le
percezioni e aiuta ad ascoltare. E’ una dimensione esterna che rende più
“flessibili” le mura e accende una luce oltre a questa limitazione. Il
personaggio, inoltre, rappresenta l’altro che ogni individuo accoglie
indipendentemente dal fatto che sia “buono” o “cattivo”, insegnando a
comprendere anche e soprattutto allo spettatore che chi ha commesso un reato non
perde in dignità umana. Devo dire che purtroppo ancora oggi a prevalere è la
valenza punitiva e repressiva in nome della sicurezza.
D. Di cosa
tratta lo spettacolo Aspettando Godot?
Esiste un’analogia con il concetto di precarietà al quale sono costretti i
detenuti?
R. Lo spettacolo altro non è
che una metafora del carcere, disagiati, clochard, che devono riempire una vita
fatta di attesa... E per il carcerato chiaramente si tratta dell’attesa di
tornare fuori, di riempire quel terribile vuoto fatto di mancanza di
comunicazione e affetto. La stessa struttura del palco rimanda ad una relazione
con il carcere: così come sono limitati o segregati nel carcere, gli
attori-detenuti sono limitati dal palco. Al tempo stesso, seppur limitati, si
arrogano il diritto di descrivere non solo l’umanità detenuta, ma l’intera
umanità, anche quella “libera”. Esiste una stretta analogia con la
popolazione fuori dalle sbarre, visto che la maggioranza di noi si trova
schiacciata dall’oppressione delle sbarre del profitto, del potere, della
competizione, della mancanza di possibilità.
D. Lo spettacolo teatrale
ricostruisce un ponte tra il carcere e l’esterno e richiama a un vissuto
sociale che ci coinvolge tutti, perché tutti siamo potenziali emarginati: un
motivo ricorrente è il proposito di andarsene, si esprime il desiderio di
fuggire da una condizione penosa…
R. E’ perché si ha paura
della libertà... da millenni l’umanità cammina con le stesse scarpe, e c’é
sempre chi ci impedisce di toglierle. Questa è la metafora che la libertà non
solo dipende dall’individuo, ma spesso è l’esterno ad impedire la
condizione di libertà, comunque la libertà non può essere che collettiva.
D. Esiste un problema di
sovraffollamento? (Secondo i dati del ministero la capienza regolare è di 135,
attualmente sono presenti 156 detenuti, ndr)
R. Non è un carcere grande, può
arrivare a circa 200-250 unità in estate perché il carcere di Rimini non
riesce a contenere l’aumento degli ingressi che si registrano in questo
periodo. Si parla della costruzione di un nuovo carcere, ma chiaramente non è
di questo che mi occupo.
D. Nella tua esperienza in
carcere quali sono le attenzioni sanitarie? Recentemente una detenuta malata di
Hiv è morta nel penitenziario di Rebibbia, ma anche in una piccola realtà come
la nostra ci sono due precedenti nel settembre del 2002 e nel luglio del 2003,
che hanno visto la morte di U.T. e F.B. (Il 27,7% dei detenuti, olte 15000, sono
tossicodipendenti, il 3%, oltre 1600, malati di Hiv, ndr).
R. Due anni fa inoltre è morto
un nigeriano in apparenti ottime condizioni fisiche, partecipava al laboratorio,
purtroppo le cause non sono conosciute e se si aggiungono altre situazioni
nazionali, i casi più discussi come quello di Sulmona... questi episodi non
possono che fare riflettere. Sono
necessarie più attenzioni, un detenuto deve godere degli stessi diritti alla
salute di qualunque altra persona, di qualunque altro cittadino, non è
accettabile che ci si disinteressi di questo aspetto.
R. L’intera comunità deve
affrontare il problema, non si può delegare il compito di affrontare problemi
gravosi a uno solo, come può essere un direttore, o chi per lui. Non è giusto
colpevolizzare solo alcuni. Ad esempio, come si fa ad affrontare la problematica
degli immigrati se il personale carcerario non è adeguatamente preparato ad
accogliere culture differenti? Si sconta una forte inadeguatezza e una cronica
mancanza di formazione.
D. Il problema più grosso è la
legge, è il governo, il Ministero della Giustizia è il vero colpevole.Il
paradosso è che si investe nei Gom e non nei bisogni elementari come possono
essere un supporto medico sanitario adeguato, carta igienica, lenzuola...
Leggevo inoltre, in un’intervista, sul sito dell’Associazione Pappilon, ad
un detenuto nella casa circondariale di Forlì, che i detenuti sono costretti a
pagarsi “il vitto e l'alloggio” per il periodo passato in carcere: qui torna
il problema del “reinserimento”.
L’esercito salariale di riserva si sta ingrossando e il
carcere svolge la funzione di discarica sociale, è difficile credere che il
reale interesse sia quello di reintegrare, poiché nessun recupero e
integrazione è attualmente utile al capitale. La classe dominante punta più a
nascondere, per quanto possibile, i disastri di un attacco brutale rivolto ai
lavoratori e alle classi disagiate. Come ha scritto il sociologo G. Salierno, è
tempo che si getti l’intero sistema penitenziario nella pattumiera della
storia.
*Coordinatore Giovani Comunisti Forlì