Ripartire
da Melfi
La vicenda Fiat e i nuovi equilibri italiani
di
MarcoVeruggio
La
vicenda degli scioperi di Melfi mette nuovamente al centro dell’attenzione due
protagonisti storici della lotta di classe in Italia: i metalmeccanici, da una
parte, la Fiat, cuore pulsante del capitale finanziario e ganglio di potere in
grado di influenzare gli assetti politici del
paese, dall’altra. I motivi d’interesse sono molti e meno ovvii di quanto si
pensi. Non si tratta soltanto dell’esito, per nulla scontato, di un episodio
di lotta a oltranza come non se ne vedevano da decenni. Qui ci sono in ballo
anche i futuri assetti del potere politico ed economico in preparazione nel
cantiere Italia 2006, nonché – è ovvio – i loro riflessi sullo scenario
internazionale. Perché è del tutto evidente che non si dà interpretazione dei
fatti di Melfi al di fuori di una riflessione che ricomprenda in sé le vicende
interne alla Fiom e il loro
ripercuotersi sugli equilibri interni alla Cgil, l’ascesa di Luca di
Montezemolo, un manager per così dire
“di famiglia”, ai vertici di Confindustria, il declino del governo
Berlusconi, l’appressarsi di una soluzione finale nella vertenza con General
Motors, con tutto ciò che ne segue: nuovi equilibri nel mercato mondiale
dell’auto, ma anche scelte che vanno a definire orientamenti strategici nella
competizione tra potenze politico-militari (non dimentichiamo che fino ad oggi,
se si eccettua il caso della Gran Bretagna, il possesso di una casa
automobilistica indipendente è stato uno dei contrassegni del potere
politico-economico delle grandi potenze mondiali).
Il
mercato mondiale dell’auto e le scelte della famiglia Agnelli
A
partire dagli anni ’90 il ruolo dell’auto come oggetto simbolo
dell’immaginario consumistico e traino della produzione di massa
è venuto meno: il boom dell’hi
tech ha imposto al consumatore computer e telefonini come nuovi oggetti del
desiderio. Le ragioni sono facili da intuirsi. L’automobile è il bene di
consumo che ha segnato la stagione del boom economico, di un’epoca segnata da
salari relativamente alti e stabili, che permettevano a larghe fasce di
lavoratori di programmare l’accantonamento mensile di una quota del proprio
reddito per arrivare a possedere appunto quell’oggetto-simbolo. La stagnazione
economica ha cambiato radicalmente la situazione. Il mercato è saturo e il rinnovo del parco auto è un rischio su cui
pochi investitori sono pronti a scommettere: negli ultimi anni ci sono voluti
massicci finanziamenti statali per convincere le famiglie a “rottamare” la
propria automobile e acquistarne una nuova. Perciò si scommette su beni meno
costosi ma vendibili in quantità maggiore e soprattutto meno a rischio di
saturazione. E’ più facile convincere un consumatore a cambiare computer o
telefonino ogni due o tre anni, utilizzando l’attrattiva di nuovi servizi e più
elevate prestazioni, un trucco che con l’auto non funzionare. Diminuendo i
consumi del bene auto la concorrenza si fa sempre più agguerrita e la
concentrazione produttiva lascia a pochi gruppi di dimensioni internazionali il
controllo del mercato.
L’impero
degli Agnelli è stato costruito e legato al nome della Fiat ma, negli anni, la
famiglia ha saputo diversificare intelligentemente i propri investimenti, dando
vita a un agglomerato di attività (finanza, commercio, turismo, energia, mass
media, sport) di cui l’automobile rappresenta soltanto una parte seppur
cospicua. Il problema oggi è se e quando spostare il capitale investito
nell’auto su un settore a più alta redditività: un classico dell’economia
politica. A dir la verità sembra che il primo corno del dilemma – il se – sia già stato risolto, se vogliamo tener fede a quanto
dichiarato un anno e mezzo fa dall’allora presidente Paolo Fresco in
un’intervista rilasciata al Wall Street
Journal: “Il problema non è se
vendere l’auto, ma quando e a
che prezzo”. Rimane appunto il secondo aspetto. Tutti i passi percorsi
dall’azienda negli ultimi anni, le cessioni, i tagli al personale, la chiusure
di stabilimenti, l’accordo con Gm, nonché i prossimi atti, affidati al nuovo
amministratore delegato Marchionne, vanno letti in questo senso.
I
diversi interessi in
Da
questo punto di vista gli strombazzamenti trionfalistici sul rilancio
dell’auto, i nuovi investimenti, la ricerca, la ripresa del titolo vanno
ridimensionati e letti per quello che rappresentano, ossia un’operazione di marketing.
Qualsiasi commerciante sa che per vendere la propria merce occorre magnificarne
le qualità, anche quelle che non ha. In questo caso l’acquirente c’è già
(Gm, che ha acquistato il 20% delle azioni Fiat auto con un’opzione di
acquisto obbligatoria del restante 80% su richiesta Fiat a partire da
quest’anno). Il problema è appunto determinare quando e a che prezzo e su
questo si gioca il tira e molla tra Torino e Detroit. Gm, visto il perdurare
della crisi frena, forse perché ha i propri problemi, forse – più
probabilmente – perché ha interesse a una precipitazione degli eventi che le
permetterebbe di acquistare il tutto a prezzi da saldi di fine stagione. Gli
Agnelli, che avrebbero volentieri “regalato” l’auto allo Stato due anni fa
in cambio di un’autorizzazione a costruire 10 centrali elettriche, operazione
poi andata a male anche per l’opposizione americana, oggi hanno interesse a
prendersi il tempo necessario per inscenare un rilancio e chiudere
l’operazione con Gm in tempi abbastanza brevi. Ma il presunto rilancio è
appunto una vera e propria messa in scena. Il documento prodotto dalla Fiom (Alcune note sul piano Fiat, vedi il sito della Fiom Piemonte) in
occasione della presentazione del piano Fiat del giugno scorso dimostra nel
dettaglio come in realtà ricapitalizzazione, investimenti e progetti di ricerca
annunciati siano largamente al di sotto della bisogna. E del resto anche
l’ascesa del titolo avvenuta ai primi di giugno è stata interpretata da
alcuni come il frutto di un’operazione di rastrellamento, manovra speculativa
quindi. L’incontro tra Marchionne e Richard Wagoner, programmato per la fine
di giugno potrà forse chiarire tempi e modi di un futuro passaggio.
D’altro
canto pesano anche gli interessi delle banche, che hanno sottoscritto un anno e
mezzo fa una ricapitalizzazione, accordando finanziamenti ingenti agli Agnelli e
che sono ansiose di “rientrare”. L’accordo prevede che i quattrini siano
restituiti entro il 24 settembre 2005, pena la conversione automatica del
credito in azioni, ipotesi controversa (Espresso
20/05/04, Profumo (Unicredito): Pronti a convertire i crediti; Abete (Bnl):
Azionista? No grazie), ma che sembrerebbe da scartare, visto che si prevede un
incontro delle banche creditrici (Intesa, Unicredito, Capitalia, San Paolo, Mps,
Bnl, Abn Amro, Bnp) per prorogare i termini del prestito, magari premendo su
Marchionne perché venda altri pezzi del gruppo per fare cassa.
Gli
interessi dei lavoratori, il sindacato, la politica
Se
la prospettiva che cercavo di delineare è plausibile i lavoratori hanno un
unico interesse: quello di espropriare una dirigenza che ha deciso di liquidare
Fiat Auto senza tema di provocare una vera e propria catastrofe occupazionale
(decine di migliaia di posti di lavoro, tra gestione diretta e indotto). Il
segnale lanciato a Melfi è interessante, perché segna un’inversione di
tendenza, apre una prospettiva per il futuro e apre contraddizioni all’interno
del sindacato e in particolare dentro la Cgil. Soprattutto perché rimette in
moto un processo di lotta di classe proprio in quel sud in cui il management
Fiat sembrava intenzionato a trasferire la produzione per approfittare di
condizioni più vantaggiose (condizioni che ovviamente i risultati degli
scioperi di aprile-maggio rimettono fortemente in discussione). Ciò che è
mancato in primavera, e cioè la generalizzazione della lotta a tutti gli
stabilimenti del gruppo, potrebbe arrivare nel caso in cui si mettesse in
discussione la sopravvivenza di tutto il settore auto. Montezemolo lo sa bene ed
è anche per questo che sta aumentando il pressing
sulla Cgil per un ritorno alla concertazione, il metodo grazie a cui la Fiat ha
potuto lanciare proprio lo stabilimento modello in quel di Potenza. Ma è
evidente che gli esiti del congresso Fiom vanno in un’altra direzione e
proiettano il loro influsso su tutte le altre vertenze aperte nel paese, a
partire, in ordine di grandezza, da quella Alitalia. Il neo presidente di
Confindustria sta giocando con accortezza le proprie carte cambiando rotta
rispetto alla gestione D’Amato e al governo, ma evitando di stringersi un un
abbraccio troppo stretto con un centrosinistra in cui la componente
“riformista” galleggia in evidente difficoltà e mantiene “ambiguità”
pericolose dal punto di vista padronale. Epifani intanto cerca di destreggiarsi
tra spinte verso l’unità sindacale, a cui cerca di dare spazio nella
probabile imminenza di una legislatura gestita da un governo “amico” e
spinte dal basso per una radicalizzazione delle lotte.
Proprio
su queste contraddizioni è necessario intervenire rilanciando la battaglia per
una nazionalizzazione senza indennizzo e sotto il controllo dei lavoratori,
senza farsi terrorizzare dalle accuse di estremismo utopistico. Già la
rivendicazione dello sciopero prolungato ha dimostrato di essere in sintonia con
significative avanguardie all’interno del movimento operaio (e il caso Melfi
ne è la più lampante riprova): un monito a proseguire rilanciando anche
un’altra richiesta che ha già oggi uno spazio di praticabilità concreto.
Cito
un solo esempio. La crisi della Ferrania, di Cairo Montenotte, un’azienda
piccola ma di rilievo nazionale ha visto avanzare da parte di nostri compagni la
proposta della nazionalizzazione. Lo stesso segretario della Camera del Lavoro
di Savona ha più volte avanzato la richiesta del passaggio di Ferrania in mano
pubblica senza indennizzo, visti anche i considerevoli investimenti pubblici
assorbiti dall’impresa negli anni passati. E’ talmente chiaro il passaggio
logico consequenziale a tale richiesta che lo stesso si è sentito in dovere di
precisare che ciò non significava mettere in discussione la proprietà privata!
Non significa che allora i tempi sono maturi per dire che invece c’è, tra i
lavoratori, chi la proprietà privata la vuole mettere in discussione eccome?