Rifondazione e governi locali: la deriva municipalista
DEMOCRAZIA PARTECIPATIVA O DEMOCRAZIA CONSILIARE?
Anche presidenzialismo e maggioritario nel tavolo di trattativa Ulivo-Rifondazione Comunista
Chi non ricorda il gran parlare che il
gruppo dirigente di maggioranza del Prc fece, soprattutto a cavallo del V
Congresso del partito, della democrazia partecipativa e, principalmente, della
sua più evidente pratica applicazione, il bilancio partecipativo? Chi non
ricorda l’epica che fu fatta dell’esperienza di Porto Alegre, con la
“santificazione” del sindaco di quella città, Tarso Genro?
Nello stesso periodo, Progetto
comunista indicava, invece, negli eventi rivoluzionari del dicembre 2001 in
Argentina -e nei nuclei di vero e proprio “contropotere” consiliare (le
assemblee di barrio, le assemblee dei piqueteros, dei trabajadores)
che si erano formati in un processo di autorganizzazione di massa innervando di
sé le giornate rivoluzionarie- la dimostrazione che le dinamiche di massa che
si affacciarono sulla scena mondiale agli inizi del Novecento facendo prorompere
quella domanda di “un altro potere” erano tutt’altro che estinte.
Eppure, in quei giorni,
all’evidenza dei fatti -che Lenin soleva dire avessero la testa dura- la
maggioranza dirigente di Rifondazione contrapponeva ottusamente il bilancio
partecipativo dello Stato del Rio Grande do Sul, che era perfettamente
funzionale al perseguito disegno strategico della costruzione di un sistema
compiuto in cui ai movimenti è lasciato il contentino (e l’illusione) di
svolgere un ruolo di pressione istituzionale finalizzato alla contaminazione
della politica dominante e non alla costruzione di un’altra politica:
era questo che si nascondeva dietro lo slogan suggestivo “un altro mondo è
possibile”, come gli eventi di questi giorni dimostrano!
Poi la retorica sulla
democrazia di Porto Alegre lasciò spazio al lungo lavoro di tessitura dei
rapporti con i partiti del centrosinistra in vista dell’accordo di governo del
2006, e di bilancio partecipativo non si è parlato più per un pezzo, salvo che
in qualche piccolo comune o in qualche circoscrizione, dove è stata addirittura
creata una delega ad hoc (in genere, graziosamente elargita ad un
assessore del Prc).
La costituzionalizzazione
della democrazia partecipativa.
All’improvviso, però, ecco
di nuovo fare capolino la democrazia partecipativa con tutto l’armamentario
cui il bertinottismo ci ha abituati. Come mai questo ritorno sulla scena della
mistica importata direttamente dal Foro Sociale Mondiale dopo due anni di
silenzio teorico e qualche limitata applicazione pratica?
La ragione è molto semplice e
va ricercata nell’accordo Rifondazione-Ulivo. Il lavorio più o meno
sotterraneo che sta portando i comunisti dritti dritti nella braccia di Prodi ha
infatti partorito un documento (la c.d. “bozza Amato”) comune a tutte le
opposizioni, che costituirà la base delle riforme costituzionali che la futura
maggioranza di governo di centrosinistra allargata al Prc dovrebbe approvare una
volta al potere nel 2006. In esso vengono, con un semplice tratto di penna,
cancellate le ragioni stesse della nascita del nostro partito, il quale, a
fronte di un modesto riconoscimento di una quota di proporzionale per
l’elezione del Senato, ha capitolato rispetto al sistema maggioritario,
accettando addirittura un evidentissimo rafforzamento dei poteri del premier,
cui sarà in futuro concesso di “licenziare” un ministro non gradito.
Insomma, si tratta di un vero
e proprio baratto: per vedersi garantita la sopravvivenza istituzionale e
riconosciuta l’affidabilità necessaria per accedere agli scranni del governo
della borghesia, Rifondazione ha dovuto cedere -di buon grado peraltro, senza
particolari resistenze- sul maggioritario e su una ancor maggiore “premierizzazione”
del sistema rispetto ad oggi.
Naturalmente, bisognava
ottenere dal centrosinistra una contropartita spendibile agli occhi di militanti
sempre più scettici rispetto alla linea della maggioranza del partito. Ed ecco
il classico coniglio dal cilindro: la costituzionalizzazione della democrazia
partecipativa, cioè “l’introduzione in Costituzione di un articolo
specificatamente dedicato alla democrazia partecipativa, che ne definisca le
articolazioni tanto sul versante dell'economia e della società, compresi i
luoghi di lavoro, quanto su quello delle istituzioni pubbliche, prefigurando
strumenti e procedure di partecipazione” (Documento delle opposizioni,
reperibile sul sito www.rifondazione.it/ev/riformastato/bollettino/06dicembre2003.pdf).
È questo -nel commento di
Marco Nesci (Liberazione, 25 marzo 2004), che per Rifondazione ha
partecipato alla stesura del documento- uno dei “punti politicamente più
significativi”: cosa importa, poi, se alla figura del capo di governo vengono
attribuiti poteri sempre più soverchianti nei confronti delle Camere e della
stessa maggioranza che lo sostiene? Cosa importa se in tal modo si legittima
oggettivamente il sistema maggioritario uninominale contro cui da sempre il Prc
si era battuto? Perché darsi questa inutile preoccupazione: forse che “non è
quello che già accade nelle giunte comunali, provinciali, regionali alle quali
Rifondazione partecipa?” (Giovanni Russo Spena, da Il Giornale, 12
dicembre 2003).
Ed allora, se quella posta nel
documento approvato dalle opposizioni ne rappresenta la cornice, vediamo nel
dettaglio cos’è la cosiddetta “democrazia municipale”.
Il neomunicipalismo.
È evidente che, appunto, nel
comune -inteso come unità minima di base- ma pure nelle circoscrizioni di
grandi città, nelle reti o unioni di comuni, comunità montane, province, i
suoi cantori vedono le fondamenta di questa chimera denominata “Nuovo
municipio” ed autoproclamatasi (Carta d’intenti della Rete del Nuovo
municipio, reperibile sul sito www.carta.org) “una diversa e più avanzata
forma della democrazia”. E la ragione per cui al governo locale viene
attribuita nientemeno che la capacità di sviluppare nuove esperienze politiche
e di creare nuove istituzioni (Massimiliano Smeriglio, da Liberazione, 25
marzo 2004) è addirittura individuata nel processo di globalizzazione
economica, che “riduce la forza degli Stati nazione, fenomeno che sposta
l’attenzione sull’ambito locale” (ibidem).
Ora, quella di sostenere
l’esaurimento della funzione degli Stati è sicuramente una favoletta a cui
non crede più nessuno e che viene smentita dalla realtà che tutti abbiamo
sotto gli occhi, in cui v’è un prepotente riemergere proprio del ruolo degli
Stati ed un nuovo innalzarsi del livello dei conflitti interimperialistici fra
essi. Ma è questa falsa rappresentazione della realtà che poi consente di
assegnare ai governi locali -intesi come “nuovo spazio pubblico non
tradizionale, che può potenziare l’esercizio dei diritti di cittadinanza e
edificare cittadinanza attiva”- il compito “storico” di ricostruire lo
Stato nazionale “dal basso” (ibidem).
Nella pratica, invece, si
tratta di un sistema che vuole mettere in relazione fra loro il governo locale
(il cui potere non viene affatto messo in discussione), il territorio e la
società civile, sulla base di “istituti di partecipazione alle decisioni
strategiche, alle politiche ed alle azioni concrete degli stessi governi
locali”; il principale dei quali viene individuato nel cosiddetto “bilancio
partecipativo” mutuato sul modello -seppure i fautori del neomunicipalismo ne
escludano la pura e semplice emulazione- di quello in auge a Porto Alegre, nello
stato brasiliano di Rio Grande do Sul.
In più occasioni, questo
giornale si è occupato di tale esperienza per disvelarne la vocazione tutto
sommato conservativa e compatibilista. In questa sede giova solo ricordare che
essa rappresenta un coinvolgimento popolare unicamente di tipo consultivo (col
potere di veto del rappresentante del governo che partecipa all’assemblea di
base) su una limitatissima quota del bilancio statale.
Ed è con le medesime
caratteristiche che il bilancio partecipativo viene applicato in qualche comune
italiano.
Pieve… Alegre?
Prendiamo ad esempio il comune
di Pieve Emanuele (Milano), uno di quelli in cui da più tempo (1995) è stato
intrapreso il percorso che ha portato ad istituzionalizzare il bilancio
partecipativo: il sito internet del municipio (www.comune.pieveemanuele.mi.it)
fornisce un’enorme messe di dati, da cui emerge, nonostante l’enfasi con cui
l’esperienza viene presentata (la stessa istituzione si autodefinisce… Pieve
Alegre!), una bassissima partecipazione alle assemblee (151 partecipanti su un
totale di 16.543 abitanti, con una percentuale dello 0,92%), con una scarsa
possibilità di incidere per davvero sulle scelte del Comune (è lo stesso sito
web che ci illustra che lo “stato di fattibilità della priorità indicata
costituisce la condizione imprescindibile senza la quale il Comune non potrà
accogliere le istanze dei cittadini, nella forma dei progetti presentati alla
fine del ciclo della partecipazione”).
Naturalmente, è lo stesso
Ufficio Partecipazione a dirci che “l’intervento delle assemblee di
cittadini sulla politica delle entrate e delle uscite del Comune non rappresenta
un intervento diretto, nel senso che non viene chiesto di votare
l’approvazione del bilancio di previsione (…). Nella stragrande maggioranza
dei casi, le risorse necessarie ad attuare i progetti proposti si cercheranno
tra le voci del bilancio comunale: ciò significa che in alcuni casi
l’approvazione di un progetto imporrà nei fatti un consistente spostamento di
risorse da una voce a un’altra, l’aumento o la diminuzione del costo di un
servizio o delle imposte comunali”.
Per di più, dalla lettura dei
resoconti delle assemblee cittadine, si nota che molte delle indicazioni emerse
-le più significative- sono state escluse in sede di approvazione del bilancio,
mentre vi sono state comprese quelle che non collidono oltremodo con le scelte
di gestione politico-economica dell’ente. Insomma, una molto modesta -e, per
di più, solo apparente- cessione di potere da parte dell’istituzione comunale
per conseguire la pace sociale necessaria alla perpetuazione di politiche di
compatibilità di bilancio e che certamente non sono di favore per le classi
subalterne.
Partecipazione concertativa.
Qualcuno potrebbe obiettare
che, in fondo, Pieve Emanuele non è il centro dell’universo politico e che
quindi pensare a quell’esperienza come ad un modello da imitare sarebbe
erroneo. L’obiezione è però smentita dallo stesso Ufficio Partecipazione nel
documento in rete: “quella del Bilancio Partecipativo a Pieve Emanuele è una
sperimentazione molto avanzata rispetto alla situazione italiana ed europea. Ciò
fa sì che molti occhi siano puntati su questo progetto… Il contributo che
Pieve può dare non è quello della costruzione di un modello di BP da esportare
in giro per il continente, ma la dimostrazione che questa strada è
percorribile”.
E infatti, tale percorso è
stato subito individuato dal gruppo dirigente di maggioranza del Prc come quello
più utile, lastricato com’è di concertazione, attraverso il quale si può
arrivare senza troppi scossoni al governo con i banchieri nel 2006.
In fin dei conti è questo il
pedaggio che Rifondazione deve pagare per la ribalta governativa: sterilizzare e
rendere innocuo il conflitto sociale attraverso questo neomunicipalismo
concertativo che non ha nulla in comune con quella democrazia consiliare che nel
1917 costituì la base su cui le masse, guidate da un partito che rifiutava
sprezzantemente di andare al governo con i borghesi (sia pure progressisti),
fondarono la loro pretesa di un altro potere e respinsero l’ipotesi di
condividere il potere del capitale.